Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dell’Ottocento l’antropologia riceve le fondamenta teoriche e un profilo disciplinare-istituzionale, conservando come eredità dal Settecento il duplice volto di scienza della corporeità umana e di scienza della cultura. L’età in cui Darwin formula la sua teoria esprime un’antropologia obbligatoriamente evoluzionistica, i cui postulati tuttavia non tarderanno molto a logorarsi.
Sino ai primi del XIX secolo, l’opinione maggiormente diffusa è ancora quella monogenista. Per quanto forte appaia la tendenza a classificare tipologicamente le forme della diversità umana, permane infatti la convinzione che gli uomini discendano da una singola specie e questo non solo in osservanza del dettato biblico – per cui tutti discendiamo da un’unica coppia – ma data anche l’esistenza di ibridi interrazziali.
Certo all’interno della diffusa opinione monogenista esistono molte tesi discordanti, basti pensare al rovesciamento operato dal medico britannico James Cowles Prichard (1786-1848). Nelle sue Ricerche sulla storia fisica del genere umano (1813), che s’affermeranno per qualche decennio come caposaldo dell’antropologia britannica, egli sostiene che Adamo avesse la pelle scura e incivilendosi i suoi discendenti si siano poi differenziati per linee razziali, come dall’unico tronco i vari rami di un albero. Questo monogenismo, supporto teorico delle imprese missionarie, è tutto salvo che egualitario: “degenerativo” o “evolutivo”, esso mantiene comunque l’a priori della superiorità bianca, irraggiungibile dalle altre razze, cui resta il diritto alla conversione e alla consolazione religiosa in virtù di una comune appartenenza di specie.
Sull’altra sponda dell’Atlantico, intanto, l’espansione bianca procede; l’uomo bianco si trova così a contatto con uomini “diversi” e li induce a una strenua resistenza. In questo clima, profondamente segnato dalla scoperta di nuovi popoli e dal contatto con una “diversità” razziale si inseriscono studi e nuove teorie relativi alla questione delle razze.
Un giovane medico di Filadelfia, Samuel George Morton (1799-1854), già studente a Edimburgo nel periodo di maggior attivismo dei circoli frenologici, torna in Pennsylvania e nel 1824 inizia la pratica professionale. Inizia allora a collezionare crani e, rivolgendosi a ufficiali della marina, dell’esercito, a medici, missionari e naturalisti itineranti, in poco tempo raccoglie la più grande collezione craniologica allora esistente, comprendente più di 1.600 esemplari. Il giovane medico mette a punto una particolare procedura di misurazione, con l’intento di fare della capacità cranica un indice distintivo del carattere razziale.
Quegli indiani che fino allora i pastori puritani del Nuovo Mondo avevano dannato alla pena eterna perché incapaci di redenzione – chiamandoli “schiavi del demonio” – vengono ora deprecati dalla scienza come irrimediabilmente selvaggi. Inoltre, dal Canada alla Terra del Fuoco, una sostanziale somiglianza di caratteri fisici, di tratti morali, di facoltà intellettuali e di culture sembra deporre a favore di un unico ceppo etnico, autoctono e distinto da ogni altro. Conclusione nient’affatto pacifica, dal momento che i più pensavano a una provenienza asiatica degli indiani d’America. Ma ancor meno pacifica è l’impresa in cui s’avventura Morton, quando decide di dare patente scientifica al poligenismo e di mettere in dubbio che la fertilità sia criterio sufficiente per disegnare il perimetro della specie. Tradizionalmente, infatti, gli ibridi umani avevano fornito una prova inconfutabile dell’esistenza di un ceppo unitario e primordiale; ora Morton, con esempi tratti dalla botanica e dalla zoologia, mostra che esistono talvolta ibridi fecondi, sottolineando però che la discendenza di un innesto interrazziale umano tende all’estinzione.
È poi Darwin che presagisce una “morte silenziosa e inosservata” per quella disputa su monogenismo e poligenismo che caratterizza i primi decenni dell’Ottocento. Il naturalista inglese è convinto che le razze esistano, ma non gli sembra sostenibile che si tratti di specie diverse; a ben vedere, infatti, il principio dell’evoluzione formulato da Darwin sposta il problema su un altro piano.
L’antitesi tra monogenismo e poligenismo, tuttavia, prosegue a lungo e a metà secolo l’anatomista scozzese Robert Knox (1793-1862) esegue una tendenziosa rilettura del pensiero poligenista, innalzando la razza a nozione esplicativa fondamentale, cui ricondurre la costituzione fisica e il carattere dell’uomo, il suo intelletto e il grado di civiltà.
Di lì a poco il diplomatico francese Arthur de Gobineau (1816-1882) individuerà in una fatale disuguaglianza razziale la chiave per una lettura della storia stessa del mondo.
Devono molto al determinismo e al materialismo di Knox coloro che nel 1863 a Londra si distaccano dall’Ethnological Society, colpevole di fedeltà al classico monogenismo e di soggezione alla filantropia quacchera ed evangelica, per fondare l’Anthropological Society. Per quasi un decennio la nuova società londinese tenterà di persuadere gli studiosi che il formarsi di un’aristocrazia ereditaria è, assai più delle “banalità” sui diritti umani, un obiettivo conforme alle leggi di natura; ed è curioso osservare come all’interno del conflitto fra le due associazioni, che difendono un’antropologia ancora legata a scrupoli umanitari, appaiano i seguaci di Darwin. A conferma delle tesi poligeniste, inoltre, il medico francese Paul Broca desume ancora da Knox esempi di sterilità degli ibridi razziali, in una memoria letta alla Société de Biologie di Parigi e accolta freddamente dai colleghi. Rischiando l’anatema, Broca decide di dar vita a una nuova Société d’Anthropologie perché agisca da incentivo e da modello per altre società: tra il 1863 e il1879 nasceranno nuove società a Londra, Madrid, Mosca, Firenze, Berlino, Vienna e Washington.
Ovunque in Europa sono ormai mature le condizioni per la nascita di una disciplina istituzionalizzata: nel 1866 Broca definisce l’antropologia come scienza che ha per oggetto “lo studio del gruppo umano considerato nel suo insieme, nei suoi dettagli e nel suo rapporto con il resto della natura”. Nella serie degli esseri animali, secondo Broca esiste una prima parte dell’antropologia cui spetta l’attributo di “zoologica”; una seconda parte “descrittiva”, s’incaricherebbe di stabilire suddivisioni interne alla specie, data l’estrema varietà di forme somatiche; su un terzo e ultimo livello Broca colloca poi lo studio dell’uomo “nel suo insieme”, con notevole ambiguità, del resto, non essendo netta la linea di demarcazione rispetto alle discipline limitrofe. Ripetutamente egli richiama l’esigenza di metodi precisi e di notazioni uniformi, affermando la necessità di esprimere con segni numerici i caratteri osservati su ogni individuo, anche quelli apparentemente meno suscettibili di misurazione, come il colore della pelle, dei capelli e degli occhi. Tutte le cifre così raccolte si prestano infatti al calcolo delle medie, unico dispositivo capace di far conoscere esattamente un gruppo umano.
Da poco fondata la Société d’Anthropologie, nel 1861 Broca comunica ai suoi membri di voler mettere ordine nelle procedure con l’invenzione di speciali strumenti, da adoperarsi là dove si studino crani e teste.
Quattro anni dopo Broca fornisce istruzioni dettagliate per le ricerche antropometriche, una sorta di prontuario da consultare nella collezione di pièces anatomiche, nell’osservazione morfologica e fisiologica, nella misurazione corporea, e altre Instructions, compilate dallo stesso Broca nel 1875, riguardano esclusivamente lo studio del cranio.
Buona parte dell’antropologia di metà Ottocento è dunque impegnata ad esplorare cause naturali e a ritrovare leggi costanti dietro l’inesauribile varietà delle forme, servendosi di metodologie misuratrici. Del resto il percorso di studi del medico Broca verso la delimitazione di una scienza naturale dell’uomo prende le mosse da esordi craniologici. La complicatezza degli emisferi cerebrali non può essere semplice gioco nella ferrea economia della natura, mentre diventa nozione diffusa che le circonvoluzioni anteriori abbiano a che fare con lo sviluppo delle facoltà superiori. In Broca il legame con Gall e con l’attitudine localizzatrice della frenologia è mediato da Jean-Baptiste Bouillaud (1796-1881), professore a La Charité, che già nel 1825 trae dall’esperienza anatomo-clinica la certezza di un rapporto fra perdita della parola e lesione dei lobi anteriori del cervello. È poi Broca che nel 1861 comprova quest’ultima scoperta, trasformandone e precisandone i contenuti.
L’Ottocento conferma altresì il coesistere nell’antropologia di due anime: da un lato lo studio differenziale dei caratteri fisici dell’uomo, d’altro lato l’indagine relativa ai suoi usi e costumi. Su questo secondo versante i protagonisti non sono i medici, bensì un insieme composito di eruditi, archeologi e giuristi che operano per lo più nell’Inghilterra vittoriana, sorretti dalla fede nel naturalismo evoluzionistico e confortati dalla visione del trionfante Impero britannico.
È un grande amico di Darwin, John Lubbock a codificare, nel 1865, l’ipotesi di una stretta parentela fra i preistorici abitanti d’Europa e i selvaggi contemporanei. Donde quel metodo comparativo che per alcuni decenni sarà principale strumento dell’antropologo: grazie alla fondamentale invarianza delle sue facoltà, l’uomo riprodurrebbe, a uno stesso livello di maturità intellettuale, forme di adattamento materiale sostanzialmente simili. In altri termini, una strada maestra condurrebbe dallo stato primitivo alla civiltà e lungo tale strada sarebbero più avanzate le nazioni (o le razze) che mostrano un più alto livello d’organizzazione materiale e sociale.
Nella seconda metà dell’Ottocento è proprio la socialità a costituire un oggetto privilegiato d’osservazione. Ancora nel 1865 John McLennan (1827-1881) traccia lo sviluppo dei sistemi di parentela fissando una sequenza evolutiva dalle prime forme matrilineari al lento affermarsi della paternità individuale. Poco dopo l’americano Lewis Henry Morgan ripropone questo tema che, da allora in poi, resterà al centro dell’interesse antropologico.
Il maggior contributo al diffondersi di teorie evoluzionistiche in antropologia viene però da Edward Burnett Tylor che in Cultura primitiva (1871) tematizza il concetto di “cultura”, a designare tutte le pratiche acquisite ed esercitate dall’uomo come membro di una società (sapere, tecnologia, moralità, religione, organizzazione politica), senza ovviamente giungere a farne una sfera svincolata dal retroterra naturale.
Comparando fra loro i differenti sviluppi culturali, secondo Tylor risulterebbe dunque facile stabilire una scala della civiltà.
Ma nel 1896, un quarto di secolo più tardi, qualcuno già dichiara vano lo sforzo di costruire una storia sistematica e uniforme dell’evoluzione della cultura. In una relazione presentata quell’anno all’American Association for the Advancement of Science, Franz Boas demolisce il metodo comparativo e propone di sostituirlo con un metodo storico che esamini le molteplici culture nella loro singolarità, rinunciando a collocarle lungo un percorso ascendente. La critica precocemente formulata da Boas, tuttavia, non segna una cesura netta nella parabola dell’antropologia evoluzionistica, il cui declino sarà lento e quasi insensibile.