L'apparato militare
Le potenze marittime italiane, contemporanee e concorrenti di Venezia, ebbero, insieme con una forza navale, anche un esercito impegnato in uno sforzo di espansione verso l'entroterra; a parte forse un breve momento del secolo X i Veneziani limitarono invece i loro interventi verso tale fronte a pure azioni difensive. Non stupisce, quindi, che le attitudini belliche terrestri da essi mostrate siano di fatto semplice riflesso di abilità conseguite nella guerra navale: assedio di città costiere e uso delle armi da lancio; limitata la capacità di operare in altri campi nei quali si fa tuttavia sentire l'influenza delle parallele organizzazioni comunali dell'entroterra italiano, con le quali Venezia intrattiene rapporti ora amichevoli ora conflittuali.
"Mi sarà caro, benché non nato fra le lagune [scriveva nel 1856 Giovanni Battista di Sardagna> di narrare le imprese gloriose dai Veneziani compiute e nelle crociate e nelle colossali lotte coi Turchi. Mi limiterò a scrivere delle sole milizie di terra, essendo io affatto ignorante di scienze navali, né parlerò di navi e di flotte se non in quanto si collegano al trasporto delle truppe di sbarco, imperoché allora la flotta resta subordinata all'esercito, precipuo argomento dei miei studi" (1). Il programma di ricerca tracciato dallo studioso trentino, e rimasto poi in gran parte senza seguito (2), potrebbe essere qui ripreso nei suoi intendimenti, pur rendendosi necessarie ulteriori limitazioni e precisazioni: l'apparato militare veneziano conserva nei secoli XII e XIII (i soli che si intendono qui esaminare) un carattere anfibio nel quale la componente terrestre non è mai scindibile in modo netto da quella navale, con una parziale eccezione per l'organizzazione realizzata nell'isola di Creta. Non risulta facile nemmeno distinguere dall'aspetto propriamente militare gli organi preposti alla conservazione dell'ordine pubblico e al servizio di vigilanza armata costiera e fluviale, i quali avevano, oltre che finalità proprie, anche compiti difensivi. Per nessuna di tali componenti, nell'epoca contemplata, esiste d'altronde una documentazione tale da consentire i desiderati approfondimenti e manca, di conseguenza, una tradizione di studi sulla quale basarsi. Quanto sarà possibile dire ha dunque il valore di una prima sommaria messa a punto, indispensabile tuttavia per comprendere le basi sulle quali si inserirà poi l'organizzazione militare più "matura" dei secoli successivi.
Nel 1094 il doge Vitale Falier fa ricostruire il castello di Loreo per "frenare l'altrui nequizia", rendere sicure le strade e far cessare le frequenti violenze: gli uomini cui è concesso di abitare in perpetuo all'interno della fortificazione, dietro pagamento di modesti censi in natura, dovranno "difendere e rendere sicura dai ladri la strada sino a metà del Po di Goro", in compenso - promette il doge- "essi non saranno in alcun modo chiamati nell'esercito né impiegati in qualunque altro servizio" (3).
L'esenzione di cui vengono a godere gli abitanti di Loreo indica chiaramente, seppure in negativo, che gli uomini soggetti alla giurisdizione del doge potevano di norma essere chiamati a militare nella "milizia cittadina", esistente sin dall'alto medioevo e strettamente connessa con l'allestimento della flotta di guerra (4): nel 1203, ad esempio, gli Zaratini, appena risottomessi, promettono che ogni volta in cui "fecerit Venetia exercitum" anch'essi lo faranno, e se sarà di più di trenta galee vi parteciperanno per la trentesima parte (5). Non è quindi possibile distinguere - e lo diciamo qui una volta per tutte - un reclutamento terrestre da quello navale.
Soltanto in concomitanza con le prime crociate (immediatamente successive alle concessioni di Loreo) le fonti contengono dati utili per conoscere le modalità con le quali l'"esercito" veniva radunato. Nel 1121, quando il patriarca di Gerusalemme e re Baldovino richiesero espressamente aiuto al doge Domenico Michiel, questi convocò in Venezia tutti i cittadini residenti nell'Impero d'Oriente, e altrove fuori del territorio, minacciando gravi sanzioni per i renitenti: chi possedeva beni se li sarebbe visti integralmente confiscare, e i nullatenenti sarebbero stati iscritti nell'elenco degli excusati (6). La stessa estensione della chiamata ai Veneti "in Romania degentibus" è documentata in numerose altre occasioni (7); nel novembre 1188 essa viene rivolta a "tutti gli uomini di Venezia, tanto signori quanto servi" e a "tutti coloro che si proclamano Veneziani": entro la Pasqua dell'anno successivo essi dovranno trovarsi in città pena, come al solito, la requisizione dei beni, mentre l'eventuale renitenza dei servi verrà addebitata ai rispettivi padroni (8).
Accanto ai Veneziani venivano naturalmente sottoposti all'obbligo militare gli abitanti delle città alleate o sottomesse. Sin dal 1130 i cittadini di Fano avrebbero giurato perpetua fedeltà e promesso di "inviare l'esercito contro i nemici di Venezia"; un impegno più preciso è però assunto nel 1141: quando i Veneziani organizzeranno una spedizione tra Ragusa e Ravenna, il comune di Fano dovrà armare una galea in loro servizio (9); obbligo del tutto simile, per il tratto di mare da Ragusa ad Ancona, contraggono nel 1145 gli uomini di Capodistria (10). Certo in base a precedenti, analoghi patti, nel 1171 un ordine ducale avvertiva Dalmati ed Istriani di tenere pronto un contingente formato in base alle possibilità di ciascuna comunità, da imbarcare nel momento in cui la flotta veneta si sarebbe presentata nei loro porti (11). Non diversi erano gli obblighi cui dovettero sottoporsi gli Zaratini nel 1203, e poi nel 1247, in proporzione sia al numero degli abitanti della città sia delle galee allestite dai Veneziani; e doveri analoghi si assunse ripetutamente Ragusa dal 1232 in poi per ogni "esercito" che Venezia avrebbe mobilitato da Durazzo a Brindisi in giù (12).
Un episodio collocato da Martin da Canal sotto l'anno 1177 potrebbe far pensare che talvolta gli uomini venissero mobilitati al completo: mentre tutti gli abitanti maschi di Caorle erano impegnati a proteggere Grado contro la minaccia del patriarca di Aquileia, un improvviso attacco dei Trevigiani dovette essere respinto dalle sole donne; ma altre versioni, più verosimilmente, attribuiscono l'impresa ai maschi (13), una parte dei quali sarebbe dunque rimasta a casa. Se, infatti, tutti gli uomini validi erano tenuti a rispondere alla chiamata, soltanto una parte veniva poi effettivamente arruolata in base ad estrazione a sorte. Nella fase preparatoria della quarta crociata il doge promise agli inviati franchi di partecipare alla spedizione "insieme con la metà di tutti i cittadini di Venezia atti a portare le armi", fece quindi "gridare il bando per tutta Venezia che nessun Veneziano osasse partire per qualche viaggio d'affari, ma che tutti collaborassero a preparare la flotta". L'assemblea cittadina raccolta in S. Marco ebbe difficoltà nello stabilire chi doveva partire e chi poteva rimanere sicché la questione venne decisa mediante una complessa estrazione a sorte: "a due a due facevano due groppi di cera, in uno di questi mettevano un brevetto, poi andavano da un prete e glieli consegnavano: e il prete gli faceva sopra un segno di croce e dava a ciascuno dei due Veneziani uno di questi groppi, e colui che ritirava quello con la striscia [di carta> era il prescelto per seguire la flotta" (14). Il numero degli effettivamente mobilitati in quell'occasione non dovette essere lontano dai 17.000 uomini (15).
Insieme con l'estrazione a sorte, per designare i destinati a partire, da lunga data doveva essere in uso anche la possibilità di farsi sostituire, che è esplicitamente attestata in occasione della campagna contro i Bolognesi al Po di Primaro: il doge Lorenzo Tiepolo, infatti, "aveva fatto preparare in armi gli uomini di due sestieri di Venezia per recarsi sul Po, e mandò la gente minuta e diede loro il soldo, secondo l'uso dei Veneziani; e quelli che non vollero andare mandarono altri in loro luogo: e vi furono alcuni che diedero loro monete agli altri e li mandarono sul Po in loro luogo" (16).
Contro coloro che non adempirono all'obbligo di rientrare in patria per la mobilitazione generale del 1121 la legge venne applicata inesorabilmente: gli abbienti si videro confiscati i beni posseduti entro e fuori Venezia mentre i nullatenenti vennero iscritti nel ruolo degli excusati (17). L'appartenenza a questa categoria di cittadini comportava prestazioni sostitutive del servizio non effettuato; esse erano ereditarie e vennero in seguito mutate in un tributo in denaro. Appartenevano al ruolo degli excusati molti abitanti delle isole periferiche della laguna e della parrocchia urbana di S. Nicolò, tradizionalmente tenuti al servizio militare solo quando l'esercito e la flotta erano comandati dal doge in persona.
Quella che era stata in origine una grave sanzione che implicava una diminuzione dei diritti rispetto agli altri cittadini, venne col tempo scambiata per un privilegio la cui origine si proiettava in un lontano e nebuloso passato (18): all'inizio del '300 gli uomini di Malamocco, richiesti di partecipare alla spedizione contro Zara, "si scusarono dicendo che non dovevano andare nell'esercito se non quando ci va personalmente il doge", e una speciale inchiesta avrebbe accertato che le loro ragioni risalivano addirittura al IX secolo, al tempo cioè della spedizione condotta contro gli uomini della laguna da re Pipino (19). Si sono conservati elenchi di excusati di Murano, Burano, Mazzorbo, Torcello e Costanziaca riguardanti persone vissute nel secolo XI: si tratta di artigiani, mugnai, pescatori tenuti a lavori per il palazzo Ducale od obbligati a servizi estranei al loro mestiere (20). Sembra quindi evidente che, in ogni epoca e in ogni ceto sociale, i Veneziani non ebbero mai troppo attaccamento per il servizio militare loro richiesto.
Le antiche modalità di reclutamento ricevettero ulteriore sistemazione nel clima di necessità provocato dai continui impegni bellici degli ultimi decenni del secolo XIII, con provvedimenti di cui è rimasta tuttavia soltanto documentazione indiretta e incompleta. Nell'aprile del 1283 veniva decretato che "tutti dovevano essere muniti delle armi prescritte" e nei sestieri si doveva procedere alle estrazioni a sorte "in modo che fosse stabilito chi doveva partire per primo, chi per secondo e chi per terzo e così via nell'ordine". È del giugno 1287 - momento di acuta crisi economica e sociale - una delibera del maggior consiglio in base alla quale l'intera popolazione maschile di ciascuna contrada dai 14 ai 70 anni doveva giurare obbedienza ai rispettivi capi contrada (21). Dall'estate del 1294, infine, si vede applicato un reclutamento per contrade basato sulla duodena, poi più volte riveduto nei primi decenni del secolo XIV (22), allorché è possibile vederne il funzionamento nei particolari.
Uno degli scopi della nuova organizzazione era la tutela dell'ordine pubblico in situazioni di particolare turbamento: nelle "dozzine" venivano inquadrati tutti gli uomini dai 16 ai 70 anni, abitanti in una determinata "contrada"; i capi di tali ripartizioni, eletti e controllati dai capi di sestiere, devono tenere aggiornati i registri con i nomi dei componenti le singole "dozzine"; non appena risuona un segnale d'allarme radunano i loro uomini in appositi "campi" tenendoli a disposizione dei capi sestiere e in condizioni di intervenire "ad ogni rumore" per mantenere "la sicurezza della terra" (23). Se la mobilitazione avviene per ragioni più propriamente militari, che comportano azioni da condurre fuori del territorio metropolitano, ciascuna "dozzina" estrae a sorte i nomi di coloro che dovranno partire per primi e via via degli altri che seguiranno: gli estratti a sorte possono evitare il servizio pagando un sostituto. Il comune a sua volta destina ad ogni uomo mobilitato una certa somma mensile integrata dai versamenti cui sono tenuti i componenti della "dozzina" rimasti a casa (24).
Non diversamente da quanto praticato nello stesso tempo per le milizie comunali nell'Italia del Nord, il servizio militare viene espletato a turno per ripartizioni urbane: tra 1269 e 1273, nella campagna contro i Bolognesi sul Po di Primaro, ai sestieri di S. Croce e di Dorsoduro succedono via via i contingenti di altri due sestieri per un tempo di permanenza nella zona di operazioni non superiore ad un paio di mesi (25). Un procedimento simile era stato probabilmente seguito dal 1243 al 1249 allorché - sottomessa per l'ennesima volta la riluttante Zara - la città per almeno sei anni venne presidiata da "molti nobili e popolari veneti" (26). Nel 1280, all'assedio di Trieste, vediamo darsi il cambio gli uomini di diversi sestieri (27).
Nonostante la rotazione stabilita, se l'impegno bellico esigeva la mobilitazione di un numero di cittadini superiore al consueto e per periodi prolungati, poteva essere messo in difficoltà lo stesso funzionamento del governo e della vita amministrativa. Numerose delibere del maggior consiglio riflettono la situazione stabilitasi in città in conseguenza dello sforzo di reclutamento che Venezia dovette affrontare per la guerra istriana negli anni 1289 e 1290: il doge e il consiglio furono costretti ad impegnare la maggior parte del loro tempo "per i fatti del comune e dell'esercito" sino al previsto rientro di quest'ultimo; consiglieri e ufficiali richiamati dovettero lasciare i loro incarichi e partire entro tre giorni; l'assenza di ben 17 consiglieri della quarantia obbligò alla nomina di supplenti; a causa dell'assenza degli interessati la discussione delle cause giudiziarie in corso venne rinviata sino "ad reversionem exercitus".
Difettavano i custodi al servizio dei "signori di notte", tanto che si dovette a più riprese aumentare la paga d'ingaggio; le renitenze e le diserzioni si fecero frequenti (28).
Fu forse per ovviare a tali inconvenienti che nel 1319, durante la nuova impegnativa guerra contro Ferrara, le modalità del servizio vennero in parte riviste: il comune "continuò a descrivere li uomini di Venetia e a partirli ogni sestiero per metà, et erano mandati a Ferraria per sorte, dove stavano alla guerra per 15 giorni, et poi se li mandavano i successori e li primi ritornavano a casa", così che vi fu al massimo un impegno di 6.000 uomini per volta (29). In talune occasioni è possibile che tutti i sestieri fossero impegnati contemporaneamente: a Ferrara nel 1240 Stefano Badoer, prima dell'attacco, divide i suoi uomini in sei gruppi, e contro Zara nel 1243 i Veneziani vennero egualmente ripartiti "in sei schiere" (30): in entrambi i casi (anche se non viene espressamente detto) potrebbe trattarsi di una massa costituita dai contingenti mobilitati di ciascuno dei sei sestieri.
Vi è ragione di pensare che, a seconda dei luoghi in cui si manifestava la necessità di intervento armato, venissero reclutate innanzitutto le popolazioni del territorio veneziano topograficamente più vicine, cui seguivano, solo in un secondo tempo, i contingenti cittadini. Nel 1215, ad esempio, allorché l'esercito del comune di Padova attaccò la torre di Bebbe, il doge "mandò messaggeri a una città veneziana [cioè Chioggia> che si trova molto vicino a quella torre per difenderla dai Padovani"; solo in seguito giunsero sul posto "molti esperti marinai veneziani agli ordini di Marco Zorzan". Nel 1240 a Ferrara i primi ad intervenire sembra siano stati ancora gli uomini di Chioggia seguiti poi dal grosso dei cittadini al comando del doge (31).
Come si è visto, lo zelo dei Veneziani nel combattere per gli interessi della loro patria non si mostra mai troppo alto; essi, al contrario, sembra impugnassero volentieri le armi a scopo di lucro militando privatamente nei conflitti che spesso, nel corso del '200, agitavano il mondo comunale prossimo alle terre del Ducato. L'intervento poteva essere indirizzato verso una città precisa: nel 1226 si vietava a tutti gli uomini di Venezia, da Grado a Cavarzere, di fornire senza ordine del doge e del consiglio mezzi di sussistenza, o comunque aiuto con e senza armi, alle fazioni extrinseca ed intrinseca di Verona (32). Il divieto di andare per il futuro "ad soldum in aliquam terram, nec in aliquam partem" colpì nel 1259, insieme con i Veneziani, anche gli stranieri che per ciò fare attraversavano il loro territorio: chi era sorpreso nell'atto di partire perdeva le armi e doveva essere trattenuto a disposizione del doge; coloro poi che offrivano ingaggi venivano pesantemente multati (33). Un divieto analogo fu ribadito più volte con ritmo all'incirca decennale; nel 1284 la multa venne anzi portata a cento lire e i colpevoli privati di ogni ufficio e salario in Venezia e fuori. Ancora nel 1294 tutti i funzionari veneti da Grado a Cavarzere furono esortati a non permettere il passaggio di genti, navigli o cavalli che si recassero armati a danno o in aiuto di qualunque signore o comune di terraferma (34).
Il periodico ripetersi dei divieti indica senza dubbio che la pratica di militare occasionalmente in armi fuori del loro territorio costituiva per certi Veneziani un'attrattiva continua; si trattava forse di persone che, esentate dalle prestazioni militari interne in virtù del sorteggio o del pagamento sostitutivo, ritenevano utile e redditizio mettere le proprie attitudini militari al servizio di estranei integrando così un'altra attività economica. A tale flusso di uomini - non sappiamo quanto numerosi e di quale ceto sociale - diretto da Venezia verso la terraferma, faceva riscontro, fin da tempi alquanto antichi, un flusso contrario di mercenari che il comune era costretto ad ingaggiare in "Lombardia" e in Romagna.
Nel 1141, nella necessità di affrontare l'esercito comunale padovano, i Veneziani avrebbero assoldato "cavalli di grossa armatura e fanti" con i relativi condottieri, mediante i quali riuscirono facilmente a prevalere sul nemico. Sarebbe stata questa la prima volta in cui Venezia ricorse all'assoldamento di "milizie e generali forastieri, avendo fatto uso nelle precedenti delle lor proprie". Data la molteplicità degli impegni che allora gravavano sulla città "fu questa una molto saggia politica di que' dì per la Repubblica", al contrario di quanto si potrà dire per i secoli seguenti (35). Ciò che era parso saggio ad un autore del primo Ottocento risulterà invece altamente disdicevole nel clima risorgimentale di qualche decennio dopo: i cittadini veneziani - si scrisse -"già fatti ricchi da' traffichi di levante e dalle imprese di Terrasanta, doveano con infausto consiglio amar piuttosto di far guerra coll'oro di cui abbondavano che colle persone, di cui parea loro trarre in altra guisa maggior profitto" (36).
Ogni giudizio basato sull'episodio è in realtà fuori luogo poiché quell'assoldamento di truppe straniere è soltanto frutto di un'indebita integrazione fatta in margine alla cronaca del Dandolo, mentre il testo originale non parla affatto di mercenari, e coloro che ivi figurano come loro capi sono invece i comandanti delle forze padovane vittoriosamente affrontate dai Veneziani (37). Né in realtà si sarebbe trattato del primo ricorso al mercenariato praticato dai Veneziani poiché di esso si può trovare un precedente assai più antico nel quadro della politica perseguita dal duca Pietro IV Candiano. Costui, dapprima esule, dopo che nel 959 venne riammesso alla dignità ducale, rivolse il suo interesse alla terraferma ricorrendo ad "exteros milites de Italico regno"; con l'ausilio di tali forze egli condusse imprese vittoriose contro Ferrara e contro Oderzo, e ad esse affidò la sorveglianza del palazzo Ducale. La presenza dei bellicosi ma scarsi milites italici non fu tuttavia sufficiente a salvare il doge nel corso della drammatica sommossa che nel 997 pose contemporaneamente fine al suo regno alla sua vita (38).
Pur nella scarsità dei dati disponibili, sembrerebbe che Pietro IV abbia avuto a; sua disposizione una vera e propria forza militare permanente, destinata ad operare accanto alla milizia locale (39), costituendo quindi un precedente davvero significativo nell'uso di mercenari stranieri su territorio veneziano. Un cronista, probabilmente, nfluenzato da esperienze più tarde, precisa anzi che si trattava di uomini assoldati n Lombardia e in Tuscia (40), anticipando così una tendenza sicuramente attestata dal '200 in poi, allorché il reclutamento di mercenari diventa pratica consueta a Venezia non meno che nelle altre città italiane.
Per sottomettere al loro effettivo dominio l'isola di Creta nei primi anni del; secolo XIII, subito dopo la quarta crociata, i Veneziani dovettero infatti ricorrere ad un "exercitus Lombardorum" (41) che permise loro di operare uno sforzo militare altrimenti non realizzabile, impegnati com'erano in quel momento in altre parti dell'Impero appena conquistato. Nulla tuttavia è dato sapere sulla consistenza, sulla precisa provenienza, né sulle modalità di impiego di quel corpo di spedizione mercenario, peraltro integrato, a quanto sembra, da un certo numero di crociati (42). La presenza di truppe assoldate, accanto a contingenti "nazionali", diventa costante lungo tutto il '200 con un'intensificazione nella seconda metà del secolo. Per quanto non sia espressamente dichiarato, è assai probabile che fossero mercenari quei trecento cavalieri che nel 1239 1 Veneziani promettevano di trasportare in Sicilia per conto del papa, insieme con duemila fanti e cinquecento balestrieri forniti dalla Chiesa romana stessa (43).
Anche per la campagna condotta nel 1242 contro Zara ci si servì di "gente armigera conducta [...> de partibus Lombardiae" (44); con truppe raccogliticce ingaggiate ad Acri nel 1258 i Veneziani completarono gli equipaggi della loro flotta poco prima della battaglia vittoriosa contro i Genovesi (45), e ancora nel 1301 si spesero in Sicilia quaranta lire in vesti e doni per reclutare "stipendiarios et balistarios" destinati a servire nell'armata di Carlo Quirino (46). Si ricorreva dunque a mercenari anche per la flotta, benché si abbia notizia di assoldamenti soprattutto per operazioni terrestri condotte in condizioni di particolare necessità.
Soltanto dopo che i Veneziani, impegnati contro i Bolognesi sul Po di Primaro, si mostrano inferiori ai loro avversari, si ricorre all'arruolamento di truppe mercenarie: il capitano Ermolao Zusto, succeduto al collega Iacopo Dandolo, si reca a Primaro conducendo con sé "una compagnia molto bella di gente minuta al soldo di Venezia"; la campagna si trascina però senza approdare a risultati soddisfacenti, e anzi, approfittando dello scarso numero complessivo dei Veneziani e dei "forestieri", i Bolognesi prendono il sopravvento. Per ovviare allo scacco giunge allora sul posto una commissione di sei nobili inviati dal doge per ispezionare il teatro delle operazioni e "vedere in che luogo della terraferma quei mercenari di Venezia si potevano piazzare", col compito di riportare in linea anche coloro che si erano sbandati. In seguito risulteranno caduti in combattimento "Bartolomeo di Pavia e un macellaio di Venezia" (47), nei quali saranno probabilmente da riconoscere rappresentanti delle due categorie di combattenti che operavano fianco a fianco: un mercenario "lombardo" e un veneziano reclutato con gli uomini del suo sestiere. È con "cavalieri e fanti nuovamente assoldati" che Marco e Giacomo Gradenigo andranno alla riscossa giungendo ad incendiare gli alloggiamenti del presidio bolognese; nel 1273, al momento in cui si giunge alla pace, teneva le posizioni sul Po di Primaro il capitano Marco Contarini "con bella compagnia di mercenari di Venezia" (48).
Anche il duca di Creta, nelle operazioni che si svolgono contro i ribelli dell'isola, si serve di "una bella compagnia di cavalieri e di armati e di mercenari" peraltro destinata ad andare incontro alla sconfitta e ad una sanguinosa decimazione. Attivi nell'isola sono poi i soldaterii che ivi "serviunt in varnitionibus": gente di mano pronta al delitto, e causa, nel 1271, di una "seditio civilis". Uomini che combattono a pagamento paiono anche quei cavalieri, balestrieri e fanti, tutti "bene armati", cui il doge "fece dare a Venezia il soldo", al fine di riprendere, senza troppo successo, la lotta contro i ribelli condotti da Giorgio Curtazio (49).
Mercenari erano certo quegli equitatores impegnati prima del 1285 contro Trieste, di cui i Triestini stessi dovettero poi rifondere le spese d'indennizzo per i cavalli e per i compensi loro attribuiti; forse essi corrispondono ai "cavalcatores Istrie" il cui capitano veniva scelto fra tre persone proposte al consiglio (50). La necessità della guerra istriana nel penultimo decennio del ' 200 condusse ad assoldamenti massicci, e proprio di quegli anni ci sono rimasti due contratti di "condotta" che permettono di avere almeno un'idea di dove e a quali condizioni il comune reclutava i suoi mercenari. Entrambi i contratti vennero stipulati da una stessa persona nell'inverno e nella primavera del 1289, sulla base di una procura ducale che l'autorizzava ad ingaggiare "soldaterios sive stipendiarios equites et pedites" da inviare in Istria (51).
Il primo contratto venne concluso a Cesena il 31 gennaio 1289 con il conestabile Bindo Fornari di Lucca, il quale si impegnava a servire con 25 soldaterii dotati delle cavalcature e delle armi convenute, compreso un trombettiere o suonatore di cornamusa; il conestabile poteva percepire il proprio soldo e quello di altri quattro uomini, i rimanenti venivano invece pagati ciascuno per sé oppure a coppie; tutti dovevano essere pronti entro venti giorni. La paga sarebbe stata di 11 lire venete il mese; il conestabile, i suoi quattro diretti dipendenti e il trombettiere avrebbero percepito 66 lire al mese, più altre 11 per una bandiera. A chi disponeva, oltre che del suo cavallo, anche di un ronzino sarebbero toccate 5 lire al mese in più. Bindo Fornari avrebbe osservato le condizioni pattuite anche se in seguito uno stipendio più alto fosse stato concesso ad altri, con esclusione di un non meglio precisato conestabile Zurelletto.
Appena giunti a Venezia i cavalli - di età non inferiore ai quattro anni - verranno sottoposti al vaglio di una commissione mista di quattro membri (due per ciascuna delle parti interessate), la quale ne stabilirà l'idoneità e il valore commerciale. Il soldo decorrerà dal giorno in cui il conestabile farà la "mostra" di uomini e di animali in Venezia. Se le cavalcature rimarranno invalidate o uccise nel corso di un'azione saranno indennizzate solo se questa sarà stata intrapresa per ordine del capitano veneziano, e non per iniziativa degli assoldati a solo scopo di lucro personale, o se il danno sarà avvenuto per colpa del cavaliere. L'eventuale bottino rimarrà tutto agli uomini che l'avranno fatto, salva la possibilità del comune di avere nelle sue mani, a prezzo adeguato, i prigionieri catturati; questi dovranno però, innanzitutto, essere scambiati con componenti della compagnia a loro volta caduti nelle mani del nemico (52).
Ad ogni richiesta i soldati saranno tenuti a fare la "mostra" di armi e cavalli e a provvedere alla sostituzione di quanto risulterà mancante o inadeguato al compito. Nel caso in cui uno dei mercenari venga a morte, o desideri rescindere il contratto, il conestabile potrà sostituirlo con altro uomo idoneo. Il soldo verrà pagato per tre mesi prima di partire da Venezia e il trasporto per mare di qui all'Istria e ritorno sarà a carico del comune. I mercenari rimarranno in servizio per tre mesi rinnovabili una o più volte alle condizioni stabilite. La parte inadempiente pagherà una penale di mille lire per le quali è richiesta la garanzia di una terza persona (53).
Ricalcava lo stesso schema il secondo contratto, concluso a Bologna il 16 marzo con i conestabili Tibolo e Filiberto de Carbonibus - padre e figlio - cittadini di Parma, i quali si impegnavano anch'essi a servire il comune di Venezia con venti-cinque "soldaterii equites", ciascuno con equipaggiamento, compenso e patti simili in tutto a quelli già stabiliti con Bindo di Lucca; i tempi erano però più stretti poiché i cinquanta uomini complessivi dovevano essere pronti entro soli undici giorni.
Un fideiussore bolognese si faceva garante per i due conestabili fino al loro arrivo in Venezia e veniva loro versato un anticipo sulla paga di 200 fiorini d'oro perché potessero mettere a punto armi e cavalli, e valersene per altre necessità del servizio (54).
Va innanzitutto osservato che nella procura ducale, riportata a premessa di ognuno dei due contratti, il procuratore Zanino era incaricato di reclutare per il comune di Venezia anche un'adeguata quantità di fanti, e così dovette accadere benché nessun contratto di questo genere ci sia pervenuto. Le formazioni di cavalieri allora assoldate furono certo più di due, come lascia intendere l'accidentale menzione del conestabile Zurelletto; ha il suo interesse, poi, notare che la stipulazione dei contratti avvenne in Cesena e in Bologna, al centro, cioè, di una zona nella quale confluivano offerte di "mano d'opera" militare sia da nord sia da sud dell'Appennino, come indica anche la presenza al contratto cesenate di persone di Verona, di Mantova e di Firenze (55).
Le clausole cui si sottoponevano i conestabili reclutati dai Veneziani nel 1289 sono del tutto analoghe a quelle di altri contratti di condotta stipulati nell'Italia centrosettentrionale nella seconda metà del '200, ma sin dall'inizio del secolo era corrente da parte dei comuni cittadini l'assoldamento per singoli mercenari o per piccoli gruppi di 25, 50 o 100 combattenti raccolti attorno ad un condottiero (56); è quindi possibile che i Veneziani avessero ingaggiato allo stesso modo l'esercito di "Lombardi" con il quale venne conquistata Creta. Tibolo de Carbonibus di Parma, uno dei conestabili assoldati nel 1289, ricompare come tale nel 1294 al servizio del comune di Bologna a patti non molto diversi da quelli sottoscritti cinque anni prima: ha sempre ai suoi ordini una squadra di 25 uomini, ma, anziché con il figlio, è ora associato con tre altri conestabili di Mantova, Verona e Busseto formando con loro una compagnia di cento cavalieri (57).
Le testimonianze pervenute provano dunque che nel '200 anche a Venezia - non diversamente da quanto avveniva nei comuni cittadini dell'Italia centrosettentrionale - ci si serve, nei periodi di emergenza, di piccoli nuclei di 25 o 30 mercenari "lombardi" o toscani assoldati per periodi limitati (tre mesi eventualmente rinnovabili). Tali reparti vengono affiancati ai contingenti cittadini reclutati nei singoli sestieri sotto il comando di un "capitano" veneziano. Simile, anche se tecnicamente più specifico, fu l'assoldamento a Creta nel 1286 di 100 balestrieri "de ultra mare" da impiegare per sette mesi l'anno contro i ribelli insieme con gli uomini dell'isola (58).
L'espressione "mercenari di Venezia" è tuttavia equivoca poiché soldaterii vengono chiamati nelle fonti tutti coloro che ricevono una paga dal comune pur essendo obbligatoriamente reclutati all'interno del territorio veneziano. Essi, con prevalenti mansioni di ordine pubblico, concorrono innanzitutto a formare il seguito dei podestà nei luoghi del loro incarico, presidiano fortificazioni costiere o posti di frontiera terrestri, oppure sono destinati ad essere imbarcati su natanti addetti alla vigilanza dei corsi d'acqua. I podestà di Emona, di Capodistria e di Negroponte dispongono, ad esempio, di uomini a piedi e a cavallo (59); essi sono assoldati per un anno mediante il pagamento di sei mesi anticipati, con facoltà di portarsi al seguito il vettovagliamento per sé e per i cavalli; il loro numero può essere aumentato in caso di necessità "per una maggiore sicurezza del luogo e dei fedeli" (60).
Di simili soldaterii erano costituiti i presidi del castello costiero di S. Alberto, sul Po di Primaro, gli equipaggi delle imbarcazioni che incrociavano sul medesimo fiume (61), e i custodi delle "poste" di Caorle e di Grado. Questi ultimi venivano dapprima pagati in Venezia così che, per l'occasione, i posti loro affidati rischiavano di rimanere sguarniti anche dieci o dodici giorni; nel 1284 si dispose perciò che il soldo fosse distribuito nelle singole sedi (62). Era espressamente proibito impiegare personale romagnolo nel presidio di S. Alberto, Istriani in Istria e Greci a Creta (63): una discriminazione che aveva evidenti fini di sicurezza.
Le navi veneziane in partenza per la quarta crociata imbarcarono "più di trecento petriere e mangani, e tutte le macchine che servono a prendere una città, in gran quantità" (64): il materiale d'assedio in quell'occasione dovette anzi essere integralmente fornito dai Veneziani non essendo pensabile che i crociati, convenuti a Venezia da ogni parte d'Europa, avessero al seguito mezzi tanto ingombranti. Si vedranno di lì a poco quelle macchine in funzione davanti a Zara e l'anno dopo sotto le mura di Costantinopoli (65).
Gli ingegneri e i carpentieri militari di Venezia non avevano avuto modo di mostrare la loro abilità nel 1099 alla presa di Gerusalemme, né la loro opera - che si sappia - venne richiesta in Italia dopo la prima crociata come accadde invece per gli specialisti genovesi e pisani (66). Si deve nondimeno ritenere che anche i Veneziani, come gli uomini delle altre potenze operanti abitualmente nel Mediterraneo, eccellessero nella costruzione e nell'impiego delle armi da lancio grandi e piccole, che furono precocemente e assiduamente utilizzate nella guerra navale.
E noto che, nel periodo qui esaminato, in fatto di armamento non esistevano sostanziali differenze tra forze marittime e terrestri: nella fase iniziale di una battaglia navale si utilizzavano quelle medesime grandi macchine da lancio che servivano nell'attacco e nella difesa di un centro fortificato; a distanza ravvicinata entravano in funzione le armi da getto individuali e quindi, al momento dell'abbordaggio, si impiegavano le stesse armi ammanicate usate sulle mura di una città sia dagli attaccanti sia dai difensori; come in ogni scontro terrestre, si metteva infine mano alle armi bianche corte adatte al combattimento corpo a corpo (67). Non diversamente avveniva per l'armamento protettivo: già gli antichi trattatisti raccomandavano che gli uomini imbarcati fossero "muniti dalla testa ai piedi di corazze, elmi e schinieri, nessuno potendo lamentarsi del peso delle armi" poiché sulle navi si combatte stando fermi e si possono perciò adottare scudi più larghi e pesanti per meglio sostenere i colpi dei proiettili avversari (68).
Macchine da lancio simili a quelle utilizzate nella quarta crociata venivano noleggiate nel 1225 dal comune di Venezia alle città soggette rispecchiando nel prezzo richiesto l'importanza attribuita a ciascun mezzo: per una prederia si pagavano dieci lire, mentre cinque sole bastavano per una manganella (69). Nei successivi decenni del '200, con la comparsa delle artiglierie a contrappeso, tali ordigni risultano in continuo perfezionamento (70), tuttavia se badiamo ad una nota cronaca, i Veneziani avrebbero continuato a servirsi dei vecchi mezzi: nei combattimenti sostenuti nel 1258 ad Acri contro i Genovesi essi disponevano infatti, secondo Martin da Canal, di "molti mangani e numerose petriere, che ogni giorno scagliavano contro la torre delle pietre grandi a meraviglia " (71); ma è evidente che questo testo, scritto in una lingua letteraria e arcaizzante, continua semplicemente ad indicare le macchine da getto con i medesimi termini in uso nei secoli precedenti, mentre sappiamo dagli Annali genovesi che i contendenti si servirono allora di "briccole, trabucchi e mangani in numero di oltre cinquanta" (72): anche i Veneziani dunque, se furono in grado di prevalere sui loro avversari, dovevano certo contare su un parco di artiglieria a leva al passo con i tempi. Lo stesso avviene, del resto, nel racconto dei combattimenti sostenuti contro i Bolognesi al Po di Primaro: "lo scontro cominciò con pietre di mangani e di petriere e con saette d'archi e d'arcobalestri", dice ancora il da Canal, mentre Salimbene da Parma parla, più giustamente, di "balestre e mangani e trabucchi".
La maestria con la quale i Veneziani al Primaro seppero manovrare le macchine da lancio montate sulle navi diede loro un'evidente superiorità tattica nei confronti degli avversari, i quali si erano mostrati invece assai temibili negli scontri diretti: i Bolognesi furono infatti costretti a costruire il loro castello di Marcamò tanto lontano dalle acque quanto bastava per porsi fuori del tiro delle macchine veneziane, e sinché la lotta rimane limitata ad uno scambio di colpi fra le opposte artiglierie, Iacopo Dandolo riesce facilmente a mettere fuori uso quelle avversarie (73). Anche i Veneziani seguono il diffuso costume di lanciare nel campo nemico, a scopo intimidatorio, il corpo dei traditori giustiziati; mangani vengono usati negli scontri intestini a Candia (74), e all'inizio del '300 Marin Sanudo Torsello fornirà una vera trattazione tecnica e tattica sulla costruzione e sull'impiego della "communis machina", della "machina lontanaria" e dei relativi proiettili (75).
È ragionevole credere che anche l'uso della balestra si sia sviluppato a Venezia, come nel resto d'Europa, almeno dal secolo XII (76), per poi generalizzarsi lentamente nel corso del successivo, al quale soltanto risalgono le prime attestazioni esplicite di quest'arma nei documenti veneziani. Andrà quindi senz'altro respinta la supposizione che già nell'VIII secolo, al tempo del duca Orso, a Venezia esistessero scuole nelle quali si insegnava a "scoccar la balestra" (77): potrebbe invece essere cronologicamente accettabile la notizia che nel 1143 i Veneziani misero in campo contro Padova "molti balestrieri" (78), se anche qui non si trattasse di un completamento arbitrario e quindi del tutto inattendibile.
La crescente importanza attribuita alla balestra è ben rilevabile nei documenti veneziani relativi alle concessioni cretesi: mentre nel 1211 si nominano solo milites e pedites, già nel 1222, accanto a questi ultimi, figurano i balestrieri in ragione di uno o due per ogni "sergenteria"; nel 1252, infine, è espressamente previsto che ciascun miles sia accompagnato da due scudieri ognuno dei quali deve possedere e saper usare "balestras duas bene redatas"; è significativo, poi, che proprio da quell'anno anche i cavalli debbano disporre di adeguata protezione (79), a riprova che la micidiale arma, così come pesò nella "rivoluzione nautica", avviata appunto nella seconda metà del '200, ebbe nello stesso tempo importanti riflessi sull'armamento, l'equipaggiamento e la tattica delle forze terrestri (80).
Nessuna azione condotta a piedi o a cavallo poteva ormai fare a meno dell'appoggio dei balestrieri: tra i mercenari reclutati nel 1289 figurano infatti "pedites cum balistis", mentre ogni cinquanta cavalieri almeno sei dovevano essere equipaggiati con balestre costruite, si precisa, da artigiani locali. Una fiorente Arte dei balestrai appare ben organizzata a Venezia nel 1278 (81), ma si può ragionevolmente pensare che tali armi si producessero nella città da epoca alquanto più antica. Già nel 1223, infatti, il comune concedeva balestre a mutuo ai suoi dipendenti destinati ad essere imbarcati su nave o ad espletare servizi di guardia a terra. Le armi venivano fornite "cum toto conredo" e già se ne distinguono tipi diversi a seconda delle dimensioni, del materiale e del funzionamento: grandi e piccole, di corno e di legno, "a torno", "a pesarola", a staffa; insieme si fa menzione del crocco o uncino di caricamento e del turcasso per il munizionamento consistente in "quadrelli" o "pilotti ", che saranno detti in seguito falsatores, falsaroli, muschette (82).
Il fatto stesso che le balestre fossero concesse a mutuo indica che nei primi decenni del '200 l'arma era ancora rara e costosa tanto da non poter pretendere che chi la utilizzava potesse possederla in proprio : fra le numerose imbarcazioni private veneziane derubate in quegli stessi anni dai Ferraresi, solo una risulta infatti armata di "balestra I cum toto apparatu" (83). Nella seconda metà del secolo l'impiego della balestra si viene diffondendo, probabilmente in concomitanza con un abbassamento del suo costo, così che nel 1255 troviamo l'arma obbligatoria come dotazione individuale del personale di un certo rango a bordo delle navi, proprio nello stesso periodo in cui diventava d'obbligo anche per gli scudieri inviati a Creta (84). Ancora nel 1280, tuttavia, ne doveva essere dotato solo chi raggiungeva un reddito superiore alle 90 lire, minimo spostato in seguito a 350 lire (85).
Nel 1256, durante la spedizione antiezzeliniana, il doge fornì ai crociati almeno mille balestre e il ruolo dei tiratori apparve determinante nella presa di Padova: "gli arcoballisti veneziani tiravano molto spesso le quadrella e così fitte che quelli di dentro non osavano affacciarsi alle mura per difendere la città"; altrettanto importante fu la loro presenza nel 1259 nella difesa del ponte sull'Adda che diede luogo alla sconfitta finale di Ezzelino (86). La sempre più ampia diffusione dell'arma nella seconda metà del secolo è dimostrata anche dall'ingente preda fatta dai Bolognesi nel 1271 al Po di Primaro dove misero le mani su ben 17 carri "oneratis balistis"; ciò non impedì che l'anno dopo, proprio grazie all'abilità dei loro balestrieri, i Veneziani potessero riprendere l'iniziativa sul difficile fronte padano (87).
L'acquisto di balestre in Catalogna, documentato nel 1297, fu probabilmente dovuto alla necessità di potenziare il corpo di tiratori per metterlo alla pari di quello genovese dopo la recente sconfitta di Curzola (88). L'importanza di poter disporre di un gran numero di esperti balestrieri venne ancora una volta mostrato dalla guerra di Ferrara, tanto che nel 1308 tutto il territorio dipendente da Venezia fu impegnato a raccogliere "pennas pro impennare quadrellos" di cui c'era urgente bisogno (89). I buoni tiratori - ricordava subito dopo il Torsello - tendono balestre forti e lanciano i proiettili lontano provocando quindi gravi danni e paura nel nemico; esattamente contrario è l'effetto dei balestrieri inetti poiché l'inefficacia dei loro colpi rende il nemico più audace (90).
A quest'ultima categoria sarebbe stato certamente ascritto anche il giovane principe di Morea Filippo, il quale nel 1277, tentando di tendere una balestra, "tanto si sforzò che creppò e finalmente morse di questo sinistro" (91). L'episodio mostra innanzitutto che maneggiare una di tali armi non era affare da poco e conferma indirettamente l'importanza operativa, e quindi il prestigio, che la balestra aveva assunto dal momento che anche i membri dell'alta aristocrazia non disdegnavano di cimentarsi con essa: evidentemente le antiche interdizioni religiose erano state dimenticate e ancora non pesava alcun pregiudizio di carattere cavalleresco contro le armi che colpivano da lontano (92).
Appartengono ancora alle armi da getto i lanceoni, o lanzoni, da intendersi come giavellotti, detti infatti anche gitarole, gavaloti o breves lancee (93), certamente utilizzabili a terra non meno che a bordo delle navi, dove nei primi decenni del secolo XIII si trovano uomini muniti di spade, di semplici "coltelli da ferire" e mazze ferrate, cioè delle armi bianche corte più comuni, insieme con l'azza, il falcione, il roncone e le diverse specie di coltelli, enumerati fra le armi proibite (94). Comune ad ogni categoria di combattenti è la lancia, di forma naturalmente differenziata a seconda del modo d'impiego; dall'ultimo quarto del '200 compare la "lancia lunga" di cui le fonti indicano anche misure e materiale da costruzione: nel 1280 chi supera il reddito di 75 lire dovrà essere in possesso di una o due lance lunghe non meno di 15 piedi (circa m 5,25) di frassino o di faggio; a bordo di ogni nave vi deve essere almeno una lancia per ogni membro dell'equipaggio, la metà delle quali con lame lunghe e l'altra metà dotata di uncini; tutte saranno rivestite di ferro per un passo e mezzo, certo per impedire che le aste vengano recise dalle armi da taglio nemiche; nel 1295 era obbligato ad avere un "buon lancione lungo" per ogni migliaio di lire colui che superava il reddito di 3.000 lire (95). Di "longe lancee" il Torsello raccomanda siano munite le genti a piedi non armate di balestra rendendole così utilizzabili "tam per aquam quam per terram", e anche fra i mercenari assoldati dai Veneziani nel 1289 non mancarono i fanti "cum balistis et cum lanceis longis" (96), in forza, nello stesso periodo, tanto agli eserciti dell'entroterra veneto quanto nel resto dell'Italia settentrionale (97). Insieme con la lancia lunga veniva utilizzato il roncone; costituito da una lama di roncola ammanicata e munita di uncino laterale (98), esso metteva l'uomo a piedi in condizione di attaccare con successo un cavaliere corazzato: nel 1258 a Negroponte fanti veneziani riuscirono difatti a prevalere contro i cavalieri del principe d'Acaia mediante l'ardimentoso impiego di "alcuni rampigoni astati con li quali tiravano giuso dalli cavalli li cavallieri et atterrati li vincevano facilmente" (99). Anche quest'arma, nota almeno dal secolo XI, era ben diffusa tra gli eserciti comunali dell'entroterra veneto (100).
In ovvio rapporto con le armi d'offesa si presenta lo sviluppo delle armi difensive cui era demandata la funzione di proteggere il corpo del combattente; esse appaiono di solito ben differenziate - per ragioni tanto economiche quanto tecniche - tra il fante e il cavaliere, ma tale distinzione è difficilmente afferrabile nei testi veneziani, i quali omettono più d'una volta di precisare i singoli elementi che compongono l'armamento difensivo limitandosi a formulazioni generiche (101). È nondimeno possibile farsi un'idea della consistenza che esso aveva nel corso del secolo XIII e cogliere alcuni suoi significativi mutamenti, in generale non dissimili, ancora una volta, da quelli che si constatano nel resto dell'Italia centrosettentrionale (102).
Nei primi decenni del secolo il capo è protetto dalla caceta, o da una oveta (cuffia) di ferro, comuni, si direbbe, sia al fante sia al cavaliere; quest'ultimo porta però, di preferenza, il capironum (cappuccio) di maglia d'acciaio, a sua volta sovrastato - anche se non necessariamente - da un "elmo" di ferro o di cuoio (103); esso - non previsto per i cavalieri inviati a Creta nel 1211 e nel 1222- è invece obbligatorio per chi milita a bordo, in alternativa con la capellina o con il bacinellum, che sembrerebbero entrambi più propri del combattente a piedi. La capellina, munita o no di mascara (visiera), è prima di cuoio cotto e poi di ferro, "cum circulis et nasalis"; anche il bacinetto alla fine del secolo dovrà essere "cum cercletto" e viene usato da combattenti di ogni rango insieme o in alternativa con altre protezioni del capo quali la capella o capellum e la cervelleria (104). Il bacinetto corrisponde forse al generico, leggero "galerium ferreum" raccomandato a tutti dal Torsello. Nel 1291 una speciale commissione viene incaricata di accertare se le capelle siano più utili dei capirones (105), ma già il fatto che questi compaiano nelle fonti sempre più raramente fa pensare che si trattasse di elementi ormai tecnicamente superati.
La protezione del corpo del cavaliere dal collo alle caviglie, almeno sino ai primi decenni del secolo XIII, era assicurata dall'osbergum, cioè dalla cotta di maglia metallica, indicata talora con il nome classicheggiante di lorica. Sin dall'inizio del secolo all'usbergo venivano però sovrapposti altri elementi metallici come la panceria e il coretum, che potevano anche sostituirlo del tutto. I milites inviati a Creta nel 1211 e nel 1222 dovevano infatti avere "osbergum seu panceriam" (106). Il corpo dei combattenti di rango inferiore, per tutto il secolo XIII, fu invece protetto soltanto da un giubbone imbottito (zuppa, zupponum, çuponum ab armare, çupetum), mentre gli armati di livello intermedio erano dotati di una panceria de ferro oppure di una lameria (107), la quale probabilmente differiva dalla precedente perché costituita da lamelle anziché di maglia d'acciaio; aumentando il reddito tali protezioni erano richieste entrambe per essere evidentemente sovrapposte tra loro: l'arsenale pubblico doveva sempre averne a disposizione un migliaio (108).
Semplici varianti dello zupponum erano i "vernachiones de pignolato" e le superensegne, imbottiti, gli uni e le altre, di bambagia; queste ultime, ancora alla fine del '200, potevano essere sovrapposte alle protezioni metalliche o costituivano alternativa alla curaça, forse di cuoio, come il nome stesso dice. Ad un rango più elevato la "corazza" veniva accoppiata alla lameria, mentre solo per i massimi livelli di reddito era prevista anche una "armatura de ferro a dorso" lasciando per il resto libertà di scelta tra curacia, panceria e lameria: esse erano dunque elementi fra loro ben differenziati ma equivalenti (109). I mercenari a cavallo assoldati nel 1289 dovevano disporre di tutti questi elementi insieme, per quanto il Torsello consigli di rivestire di volta in volta solo la protezione adatta alle singole necessità operative: ciascuno deve avere "zuppam unam aptam et dextram protinus ad ferendum" oppure una corazza; dovendo però agire a terra rapidamente, meglio non portarsi dietro alcuna armatura pesante per non perdere tempo a toglierla e ad indossarla (110).
Insieme con le difese del capo e del corpo compaiono, almeno a partire dagli ultimi decenni del secolo XIII, anche altri elementi accessori: la gorgiera (colarium de ferro), di maglia o de lama; il guanto (anch'esso di maglia o di lama) per la sola mano destra, cioè la più esposta; le gambiere e i parastinchi, con o senza ginocchiere, sono previsti solo per i livelli di reddito più elevati. Anche per il Torsello ogni corazza va completata "cum collariis et ferreis cyrothecis" (111), mentre la mano sinistra risultava già protetta impugnando lo scudo, usato da tutti anche se di forma e di nome variabile attraverso il tempo. Già nel 1225 esso viene indicato con i termini di taravacium ("tavolaccio") e braçarola; speciali dovevano nondimeno essere quei 500 "clipei sclavaneschi", rivestiti con lame di ferro, menzionati nel 1282. Nel 1295 ognuno deve essere dotato di "bonum scutum ", e fra i migliori il Torsello raccomanda quelli leggeri "secundum Cateloniae usum facti" (112). Non vi è traccia, per ora, né a Venezia né nell'entroterra veneto, di palvesarii, cioè di uomini specializzati nel portare grandi scudi, che altrove già operavano in coppia con gli uomini armati di sole "balestre grosse" (113).
Se un'organizzazione militare veneziana esisteva indubitabilmente sin da tempi molto remoti e aveva la capacità di condurre con successo azioni offensive e difensive per mare e per terra, doveva di necessità esistere anche un modo per tenere addestrate le forze periodicamente chiamate al combattimento. Dal momento però che le fonti tacciono sulle modalità in cui un tale addestramento poteva avvenire, vi è chi ha provveduto a retrodatare ad età remota le pratiche addestrative, attestate soltanto nel basso medioevo, attribuendone l'istituzione a personaggi famosi per le loro gesta e per l'attività legislativa.
Paulicio Anafesto, al tempo in cui Liutprando regnava sui Longobardi, avrebbe introdotto, insieme con i fondamenti della costituzione (114), anche "militari esercizi" adatti a formare la gioventù nel maneggio delle armi (115); maggiore merito nell'organizzare in modo efficiente le forze veneziane andrebbe però attribuito al suo successore Orso, acclamato duca dalle milizie bizantine ribelli (116), e a lungo impropriamente ritenuto l'eroe della liberazione di Ravenna occupata dai Longobardi. L'inclinazione di costui "per le cose militari agevolmente si sparse nel cuore della gioventù da lui stesso animata ed istruita"; egli avrebbe stabilito che si eseguissero "esercizi di lotta per rendere de' guerrieri più robuste le membra, più agili e destre" con l'istituzione di apposite scuole "dove pubblicamente s'insegnava a tirar d'arco, e a scoccar la balestra". Queste, ed altre "più che verosimili cose", scrisse un "raccoglitore de' fatti antichi", traendole, si suppone, "da accreditate cronache e da documenti", i quali sarebbero in seguito andati perduti (117), ma che è più probabile non siano mai esistiti. La vittoria di Albiola, ottenuta nell'810 contro l'aggressione di re Pipino ed esaltata come "il primo trionfo dell'esercito venetico per la salvezza della patria, conseguito con le proprie forze" (118), ha fornito altri spunti per dedurre che "frequenti erano gli esercizi per rendere destra e prode la gioventù, ed atta a respingere, o a sostenere un attacco" (119), anche se nessuna fonte esplicitamente lo dice.
A suggerire ai tardi raccoglitori di notizie l'ipotesi di una non inverisimile attività addestrativa vecchia di secoli, dovette contribuire la tradizionale pratica di giochi militari, cui pure si suole attribuire una remota, anche se per lo più indimostrabile, antichità. A somiglianza di quanto avveniva in molte altre città d'Italia, ancora in età moderna gli abitanti dei sestieri di Castello, S. Marco e Dorsoduro (noti col nome di "Castellani") solevano affrontare, schierati a capo di un ponte, quelli dei sestieri di S. Croce, S. Polo e Cannaregio (chiamati "Nicolotti") in dure lotte combattute con bastoni, e in duelli condotti con armi spuntate o anche semplicemente a pugni nudi.
Nei tempi più recenti le lotte si erano ridotte ad una "rissa giocosa" da festa patronale, con caratteri puramente spettacolari e "sportivi" (120), per quanto sempre violenta e non di rado con esiti mortali per più di un partecipante. Tutta una tradizione storiografica è d'accordo nel riconoscere che tali esercizi fisici collettivi nelle città italiane fossero appunto giustificati dalla necessità di addestrare militarmente le classi inferiori che fornivano le forze di fanteria agli eserciti comunali (121), e anche per Venezia si ritiene che le periodiche gare tra Castellani e Nicolotti fossero "esercizi di allenamento, utilissimi a tener desto lo spirito combattivo" e quindi a questo scopo favoriti e disciplinati dalle autorità (122). Vi è chi fa risalire la tradizione della battaglia combattuta con i bastoni addirittura al principio del secolo IX, al tempo cioè del doge Beato, a ricordo delle contese a quell'epoca disputate tra Eracleani e Isolani (123), mentre il "gioco dei pugni", contemporaneo e poi sostitutivo del precedente, non sarebbe attestato che dalla fine del '200 (124).
Per quanto sull'argomento manchino ricerche documentate e precise, si ha in qualche caso notizia di manifestazioni in effetti assai antiche e originariamente indipendenti da ogni intento addestrativo. Cruente battaglie rituali fra cittadini di una stessa città, condotte mediante il lancio di sassi, sono già attestate nel IV secolo; a Ravenna sarebbero state in uso nel VI secolo e continuavano ad essere praticate nel IX, al tempo, cioè, dell'autore che ha tramandato i fatti (125); giochi militari analoghi si svolgevano in altre città italiane nel corso dei secoli seguenti (126) ed appaiono chiaramente adattati a scopo di addestramento militare a Pavia all'inizio del '300 (127).
La capillare diffusione e l'antichità delle "battagliole" fra gli abitanti di una stessa città inducono a considerarle manifestazioni rituali stagionali appartenenti al folklore universale, delle quali non è quindi possibile indagare positivamente l'origine; si deve tuttavia ammettere che, almeno in alcuni luoghi, esse furono regolamentate a scopo addestrativo. Gli esercizi praticati e le armi utilizzate sembrano inoltre avere qualche rapporto con le regole per l'istruzione delle reclute contenute nell'Epitoma rei militaris di Vegezio, testo del secolo IV che, com'è noto, ebbe grande fortuna per tutta l'età medievale (128).
Se il tempo da settembre a Natale, nel quale i Veneziani si affrontavano nelle "battagliole" sui ponti, può essere una scadenza rituale che rimanda al folklore universale, le armi sia offensive (mazze di legno) sia difensive (elmi, scudi, corazze) in esse utilizzate (129) hanno riscontro negli scudi di vimini e nelle clave di legno appunto raccomandate da Vegezio per le esercitazioni dei suoi tirones (130). Quanto e fino a quando tali giochi siano poi stati effettivamente utili per preparare i cittadini al combattimento reale non è possibile dire. L'Epitoma ha forse fornito il fondamento anche ad altre manifestazioni "sportive" con fini di addestramento militare che, come le "battagliole", sconfinavano nello spettacolo ludico: fra esse va annoverato il tiro a segno che fu in grande onore sulle lagune.
Le prime sicure testimonianze della balestra a Venezia non sono, come si è visto, anteriori al secolo XIII (131); per quanto l'arma fosse nota anche prima, la sua scarsa diffusione non permette di pensare che avesse dato vita ad un'organizzazione addestrativa di massa in un periodo più antico. Sappiamo tuttavia che nel 1256, durante la campagna antiezzeliniana, "messere il doge fece addestrare a Venezia tutto il popolo veneziano collettivamente" in modo che fosse pronto per ogni evenienza; a Tommasino Giustinian vennero affidate mille balestre e i Veneziani si distinsero poi nella presa di Padova per la velocità e la precisione del tiro (132). Avvicinando fra loro queste notizie viene spontaneo dedurre che l'addestramento cui tutto il popolo partecipava, senza escludere altri possibili esercizi, consistesse innanzitutto nel tiro con la balestra.
Nel 1295 si proibiva ogni gioco salvo che "ad ballistandum in diebus festivis", ma la prima notizia esplicita (per quanto di tradizione indiretta) della costituzione di "bersagli" in Venezia è soltanto del 1299 (133) e ben si collega alla particolare situazione del momento. Nel 1297 la flotta veneziana era stata sonoramente battuta a Curzola da quella genovese, e poiché "in quel tempo a Venezia era difficile trovare balestre e balestrieri", se ne acquistano in Catalogna assoldando anche otto istruttori di tale paese (134); è quindi probabile che la sconfitta fosse stata attribuita ad una inferiorità dei tiratori veneziani rispetto ai genovesi e fosse sentita l'esigenza di rafforzare il corpo dei balestrieri mettendolo in grado di competere con i più agguerriti avversari (135). Proprio dal 1 297 è attestata l'esistenza di "capi delle decine dei balestrieri" tenuti alla riscossione delle multe imposte ai loro uomini (136), tuttavia l'intera organizzazione venne meglio regolamentata soltanto a decorrere dai primi anni del secolo XIV.
Nel 1304 una commissione di tre nobili provvide a ristabilire i bersagli "nei luoghi nei quali si trovavano, salvo che a S. Marco, in modo che gli uomini si procurino balestre e si addestrino al tiro"; norme più precise furono approvate il 17 giugno 1318, subito dopo la nuova cocente sconfitta riportata dai Veneziani nella guerra di Ferrara (137), "Siccome fra le altre cose che fanno gli uomini di Venezia abili, bravi e vigorosi, vi è l'esercizio delle balestre", si stabiliva che venissero eletti dei capi contrada in grado di registrare ogni uomo di età superiore ai 16 anni e inferiore ai 35 suddividendoli per "dozzine", ciascuna provvista, a sua volta, di un proprio capo. I nobili dovevano rimanere separati dai popolani: i primi si sarebbero addestrati in qualunque giorno della settimana, i secondi nei giorni festivi, recandosi nei luoghi a ciò destinati, in città o fuori, sinché "tutti siano addestrati alla balestra con esercizio continuo in modo che si ritrovino balestrieri e tiratori perfetti" (138).
Nello stesso tempo dovette essere messa a punto la regolamentazione per i capi contrada, i quali erano incaricati di accertare il numero degli uomini compresi nella fascia di età stabilita, registrarne i nomi, curare che ciascuno si provvedesse di una buona balestra - pena una multa cui sfuggivano soltanto i più poveri - e passare in rassegna uomini e armi. I capi dozzina dei "popolari" promettevano sotto giuramento di condurre i loro uomini ai bersagli in Venezia o a S. Nicolò di Lido nei giorni festivi, escluse le ricorrenze solenni, e farli esercitare da mezzogiorno alle quattordici; si era scusati solo previa sostituzione, giustificando sotto giuramento la propria assenza a causa di malattia, di nozze o di visita ad un defunto (139).
Le nuove disposizioni partivano dalla constatazione che "per inconsuetudine, coloro che erano buoni balestrieri sono diventati meno buoni, mentre i giovani addirittura di ciò nulla conoscono" (140); in precedenza non esistevano dunque disposizioni precise in merito oppure esse erano cadute in desuetudine. In seguito si tenne a confermare che l'esercizio di tiro era "utile, anzi necessario" e le autorità non tralasciarono più di tornarvi sopra; le prescrizioni vennero continuamente rinnovate nel corso del Trecento e i cittadini furono sollecitati ad applicarsi non solo con l'imposizione di obblighi, ma mediante l'istituzione di gare di tiro a premio (141).
Non si ha notizia che, insieme con i balestrieri, si esercitassero anche gli uomini destinati a manovrare le "lance lunghe", i quali, almeno dall'ultimo quarto del secolo XIII, costituivano l'altra principale categoria di combattenti a piedi (142): un simile addestramento è peraltro auspicato dal Torsello come utile, seppure facoltativo, completamento del tiro al bersaglio: tutti gli abitanti delle città e dei villaggi si esercitino almeno una volta la settimana "in balistando vel sagittando", e se poi qualcuno mostrasse interesse per gli esercizi con le lance lunghe sarà bene incoraggiarlo poiché "tale attività si mostra assai utile nelle guerre" (143).
Se al capitano di una nave può bastare la diligenza e al pilota l'abilità - avvertiva l'antico trattatista della guerra navale - nei vogatori si richiede invece il valore: potendosi infatti combattere soltanto in condizioni di mare tranquillo, "la nave sia per speronare il nemico, sia per schivare i suoi colpi, non si giova del soffio dei venti, ma della forza dei remi, ed in questo le braccia dei rematori e la destrezza di coloro che reggono il timone danno la vittoria" (144). Coloro che detenevano il potere a Venezia (avessero o no letto Vegezio) dovevano essere ben consci che il "valore" - nel caso specifico coincidente con la forza muscolare - si ottiene solo attraverso un diuturno allenamento; è quindi pensabile che sin dai tempi più remoti si provvedesse in qualche modo a tenere in esercizio una popolazione in maggioranza destinata ad essere reclutata per fornire la forza motrice alle flotte da guerra, e le gare a premio poterono essere un mezzo consueto per sollecitare l'addestramento dei potenziali rematori militari. Non diversamente da quanto avviene in altri ambiti, anche qui non si hanno tuttavia notizie precise anteriori al primo decennio del '300: per il 10 gennaio, giorno della conversione di s. Paolo, venne infatti ufficialmente stabilita nel 1315 la disputa di una regata (145): non l'inizio, si deve credere, bensì soltanto la conferma di una consuetudine più antica.
In epoca rinascimentale i Veneziani erano in generale riguardati dagli altri Italiani come poco abili nel cavalcare; non si tratta però di una fama semplicemente retro databile ai secoli precedenti, poiché solo le modificazioni intervenute nella struttura urbana all'inizio dell'età moderna avevano comportato anche un mutamento nelle abitudini dei suoi abitanti impedendo loro, a poco a poco, la pratica del cavalcare (146).
Nei secoli precedenti, infatti, l'uso del cavallo a Venezia era tutt'altro che inconsueto, anzi talvolta eccessivo se nel 1287 Si dovette proibire alle cavalcature il tratto di strada fra S. Bartolomeo e S. Marco sotto pena di multe pesantissime, escludendo dal provvedimento solo i forestieri (147). Nella stessa occasione veniva vietato a chiunque, per il futuro, di "bagordare senza corazzina o pettorale provvisto di sonagli, in modo tale da essere sentiti bene quando si corre". Quindi anche a Venezia - al pari di quanto nello stesso periodo avveniva nelle città di terraferma - si praticava per strade e piazze il gioco equestre detto "bagordo" consistente in corse ed esibizioni di abilità con la lancia, che potevano minacciare l'incolumità dei passanti (148). Durante il '200 è ben noto che si tennero in piazza S. Marco giostre di cavalieri con partecipazione dei figli del doge e, più tardi, anche di "borghesi" (149). Nei primi decenni del '300 a carnevale si costruiva in piazza S. Marco un apposito steccato entro il quale i cavalieri potessero svolgere i loro giochi senza nuocere alla sicurezza del pubblico; nel '400 bagordi, giostre e tornei non si potevano fare senza specifico permesso del consiglio (150). Ancorché Venezia non si possa definire città di provetti cavalieri (151) essa conobbe dunque quei giochi equestri che per tutta l'età medievale costituirono uno dei modi più diffusi per mantenere in esercizio chi era destinato a combattere a cavallo, così come le "battagliole" potevano servire di addestramento per chi affrontava il nemico a piedi.
Per chi sappia ascoltarla un'"eco di vecchie voci" si alza dall'"immensa distesa di fanghi bluastri, di acque e di canneti", che ancora oggi circonda la cimosa costiera dell'alto Adriatico: sono le voci di una "vita che merita la sua storia" (152) e richiama alla peculiarità di un ambiente per sua natura anfibio, il quale nel periodo qui esaminato ebbe grande importanza anche dal punto di vista dell'organizzazione difensiva. Quando Eustazio di Tessalonica, per celebrare la vittoriosa resistenza opposta nel 1173 dagli Anconitani contro le truppe sveve e contro i loro alleati veneziani, appioppò a questi ultimi l'epiteto di "ranocchi delle paludi" (153), egli non intendeva certo rivolgere loro un complimento, eppure, senza volerlo, poneva l'accento sulle attitudini umane che il particolare ambiente di vita aveva sollecitato: una "lagunarità" nella quale si riassumevano le virtù, anche militari, della più antica tradizione veneziana.
Essa non sfuggì, qualche secolo dopo, a Marin Sanudo Torsello il quale, nel redigere un progetto di crociata che si proponeva di creare innanzitutto una base operativa sulle coste egiziane, non esitò a proporre come i più adatti per assolvere a tale compito proprio i suoi concittadini veneziani: nel loro territorio, infatti, "si trovano uomini d'arme e marinai, tanto di mare quanto di fiume, più abbondantemente che altrove", e in specie nella città di Chioggia "vi sono uomini fortissimi in grande quantità, abili e sapienti a scavare tanto in terra quanto nelle paludi, a innalzare terra dove c'è acqua, e a far scorrere l'acqua dove c'è terra", i quali sarebbero senza dubbio di fondamentale utilità per la progettata spedizione in terra egiziana.
I Veneziani - precisa il Torsello - combattono contro i loro nemici del vicino entroterra in due modi: uno levior, impedendo col blocco navale l'arrivo di vettovaglie alle città di Lombardia e della Marca Trevigiana, e un altro gravior, cioè con le armi, costruendo navigli e "strumenti bellici adatti alla disposizione dei luoghi e alle necessità del momento", per attaccare nel modo più idoneo i centri abitati sui fiumi e tra le paludi. Per provare con i fatti le sue affermazioni il Torsello può allegare numerosi episodi, occorsi dalle origini della città in poi, nei quali pochi uomini, in grazia della loro abilità ad operare nell'ambiente lagunare, seppero resistere vittoriosamente contro nemici assai più numerosi (154). Basterà un esempio: nel 1215 alla torre di Bebbe, attaccata in forze dall'esercito padovano, sopraggiungono i Chioggiotti i quali "riempirono tutta la torre di terra, poi fecero fossati di qua e di là e li riempirono d'acqua". Il nemico viene tenuto a bada mantenendo un atteggiamento puramente difensivo, ma non appena il tempo si guasta i Padovani, accampati in quel tratto palustre della costa, si trovano immediatamente a mal partito: nel momento in cui essi cercano affannosamente di mettersi in salvo fra le acque montanti, Veneziani e Chioggiotti piombano con le loro barche sui nemici in fuga impadronendosi dell'intero loro equipaggiamento e catturando gran numero dei più cospicui cittadini nemici (155).
Altri ripetuti tentativi padovani di insediarsi sulla laguna vennero vittoriosamente respinti, ma le capacità dei Veneziani avevano modo di rifulgere anche quando la fortuna era avversa. Nel 1308, durante la perduta guerra di Ferrara, "apparve più chiaro della luce" quanto i Veneti erano in grado di fare sui fiumi : un ridotto numero di combattenti percorse a suo piacere il Po deviando le acque nei luoghi depressi e seminando così la distruzione nel territorio nemico (156).
Non si può accusare il Torsello di gratuita esaltazione delle virtù guerriere dei suoi concittadini poiché davvero nessuno meglio dei Veneziani è in grado di manovrare sui bassi fondali tra terra ed acqua, sfoggiando grande maestria nei lavori di carattere idraulico: velocità, determinazione, padronanza delle tecniche, profonda conoscenza dell'ambiente e dei mezzi a loro disposizione sono qualità che li mettono in condizioni di intervenire con efficacia quando gli avversari si trovano invece in condizioni di particolare disagio. Naturalmente concorrono a costituire la superiorità veneziana nelle operazioni in laguna e nelle acque interne anche le esperienze conseguite negli scontri navali, e soprattutto negli attacchi sferrati dal mare contro obiettivi terrestri.
Nel giugno del 1081 le navi venete affrontano e debellano davanti a Durazzo la flotta normanna inseguendola sino alla spiaggia dove l'esercito di Roberto il Guiscardo tiene assediata la città; i Veneziani racconta Anna Comnena "appena toccata la riva si slanciarono a terra e ingaggiarono contro Roberto un'altra battaglia" che giunse a coinvolgere gli stessi trinceramenti normanni: "molti di coloro che vi si trovavano furono messi in fuga, e molti divennero vittime delle spade"; "impadronitisi infine di un grande bottino, riguadagnarono le loro navi e si reimbarcarono" (157).
Ecco dunque gli equipaggi delle navi da guerra veneziane, sullo slancio di una vittoria ottenuta in mare, continuare la loro azione a terra senza tuttavia uscire dal ruolo e dall'ordinamento abituali poiché si tratta di un'operazione rapida e limitata, non molto diversa, nella realtà concreta, da un abbordaggio che ha per obiettivo gli impianti di terraferma. Di maggiore impegno organizzativo sono gli attacchi contro città costiere, spesso condotti in coordinamento con un alleato che agisce contemporaneamente da terra. Nell'anno 1100 ecco la flotta impegnata nell'assedio di Caifa: i Veneziani bloccano la città dal mare mentre dalla parte di terra operano i crociati francesi (158); del tutto analoga la partecipazione all'assedio di Ancona nel 1173 in stretta cooperazione interforze con l'esercito terrestre agli ordini di Cristiano di Magonza (159). Se l'impresa di Ancona fallisce, un rapido successo corona invece l'attacco condotto contro Zara nel 1202. Altri crociati isolano la città da terra mentre i Veneziani "dalla parte del mare drizzarono le scale sulle navi": le macchine da lancio batterono le mura, gli zappatori scalzarono il piede di una torre e allo scadere del quinto giorno la città si arrese (160).
Le stesse operazioni, in condizioni ben più difficili e rischiose, verranno compiute l'anno dopo sotto le mura di Costantinopoli; qui i Veneziani, in verità, avevano l'intenzione di "drizzare le scale sulle navi e di condurre tutto l'assalto dalla parte del mare", ma fu infine deciso che ciascuno procedesse secondo i mezzi che gli erano più congeniali. Mentre la manovra terrestre dei crociati falliva, sul mare "avreste visto i mangani tirare dalle navi e dagli uscieri, e volare i quadrelli di balestre e gli archi tirare ripetutamente", quindi "le scale delle navi avvicinarsi con tanta violenza che in vari punti si ferivano a vicenda con le spade e con le lance". Decisivo risultò l'esempio del doge: "tutto armato in testa alla sua galea, con il gonfalone di S. Marco davanti", egli volle sbarcare per primo; poco dopo si vide il gonfalone su una torre delle mura "e non seppero chi ce lo avesse portato". In breve 25 torri furono prese e l'intera città non fu in condizioni di resistere a lungo. Il successo era stato così convincente che quando, l'anno dopo, si dovette prendere una seconda volta Costantinopoli, l'assalto venne senz'altro tentato dalla sola parte del mare, e marinai veneziani e cavalieri francesi gareggiarono in destrezza in bilico sull'alto delle malferme scale navali (161).
Venezia ebbe perfetta consapevolezza della necessità di rafforzare la componente terrestre delle sue forze, oltre che con l'arruolamento di mercenari, con l'imposizione di prestazioni militari alle terre soggette e stipulando opportuni trattati di alleanza. Nel 1206 Teodoro Branas riceve la città di Adrianopoli promettendo di servire con 500 uomini a cavallo, di cui 200 corazzati; i concessionari della contea di Veglia sono tenuti nel 1260 a fornire su richiesta da cento a duecento milites, e nel 1228 i comuni di Osimo, Recanati, Castelfidardo e Umana, nella previsione di ostilità con Ancona, promettono di impegnare il comune nemico con non meno di 500 cavalieri e 8.000 fanti (162).
I travolgenti successi conseguiti dalla spedizione navale diretta, nell'ottobre del 1240, contro i centri costieri della Puglia mostrerebbero però che i Veneziani sapevano attaccare castelli e città fortificate anche da soli: a Termoli essi drizzano le scale contro le mura, nessuno resiste e la città viene incendiata; a Campomarino "i Veneziani discesero tutti completamente armati e assalirono il castello in maniera tale che la difesa non valse a nulla". Anche a Rodi Garganico allo sbarco segue l'assalto con scale e la presa della città che finisce saccheggiata e bruciata; la medesima sorte tocca a Peschici e poi a Vieste, pur arroccata in cima alla sua montagna (163). Si tratta sempre, in verità, di rapide azioni anfibie che colgono di sorpresa località in vicinanza del mare, superando di slancio le fortificazioni con procedimento non molto dissimile dal semplice arrembaggio.
L'abilità mostrata dai Veneziani nella poliorcetica - anche quando essi dovevano agire lontano dal mare - derivava a sua volta dalla stretta affinità che le tecniche della guerra navale avevano in tale campo con quelle di terraferma: già Vegezio (ripreso, non a torto, come ancora attuale nella trattatistica del secolo XIII) consigliava di erigere sulle navi più grandi "ripari e torri" dai quali "più agevolmente ferire ed uccidere gli avversari come da un muro"; contro tali apprestamenti entravano in gioco, come si è visto, le medesime grandi macchine da getto utilizzate anche per l'attacco e la difesa delle fortezze terrestri (164).
Specifiche abilità marinaresche potevano essere occasionalmente applicate negli scontri a terra provocando la sorpresa e lo sconcerto degli avversari. Singolare fu, ad esempio, il modo in cui nel 1243 venne evitato lo scontro con i cavalieri ungheresi attestati fuori le mura di Zara: drizzate le scale, mentre alcuni Veneziani attaccavano la città, altri portarono ancore e corde e le tesero "attraverso il cammino fino alle galee, perché i cavalieri non venissero loro addosso"; solo tre di costoro riuscirono a superare la barriera e vennero sopraffatti "proprio davanti alle navi". Una porta fu presto sfondata a colpi di mangano, Zara si arrese e ai cavalieri suoi alleati non rimase che ritirarsi. Nel 1215, quando la torre di Bebbe fu attaccata dalle macchine da lancio padovane, tosto giunsero sul posto "molti esperti marinai veneziani" al comando di Marco Zorzan, i quali "avvolsero così bene la torre di corde che non temeva i colpi né di mangani né delle petriere", e gli stessi nemici dovettero ammettere che i Veneziani erano uomini "così valenti e pieni d'ingegno che la loro torre non sarebbe stata presa né demolita da tutti i Lombardi messi insieme" (165).
Ma al di là di tali performances si può parlare di un vero e proprio esercito veneziano che non si presenti come semplice appendice della flotta, capace cioè di misurarsi in campo aperto con omologhe forze terrestri?
I Venetici all'inizio del secolo XII si compiacciono di presentare se stessi come abituati "da tempo antico, quasi naturalmente, a conseguire la vittoria nelle battaglie navali su tutti i popoli" usando "le navi come cavalli" (166). In tale affermazione si potrebbe scorgere l'intenzione di esaltare l'indiscutibile abilità bellica marittima separandola da quella terrestre, quasi a dire: "i nostri veri cavalli sono le navi", implicito invito a non pretendere che i Veneziani siano egualmente imbattibili anche su cavalcature non metaforiche. Eppure, come si è visto (167), l'esercizio del cavalcare non era affatto ignoto a Venezia, che doveva certo disporre di un suo corpo di uomini montati.
A Costantinopoli nel 1202, mentre i Veneziani conseguivano il successo con il loro assalto dal mare, l'esercito dei crociati venne impegnato da forze bizantine soverchianti; non appena Enrico Dandolo ne ebbe notizia "fece ritirare i suoi e abbandonare le torri che aveva conquistato e disse che voleva vivere o morire con i pellegrini. Così si diresse al campo e scese a terra egli stesso per primo e con quelli dei suoi che riuscì a far uscire" (168). L'intervento veneziano non fu necessario poiché i Greci si ritirarono poi senza combattere, ma il doge non aveva avuto dubbi sulla possibilità di schierare i suoi in campo aperto accanto all'esercito terrestre. Essi dovettero fare la loro parte dopo la presa di Costantinopoli allorché fu necessario conquistare e difendere il rimanente territorio dell'Impero d'Oriente in operazioni di svolgimento esclusivamente terrestre.
Nel 1205 all'assedio di Adrianopoli lo stesso Enrico Dandolo "partecipò con le genti di cui disponeva, cioè circa altrettanti uomini quanti ne avevano condotti l'imperatore Baldovino e il conte Luigi". In seguito alla sconfitta toccata dall'imperatore, Goffredo di Villehardouin e il doge, costretti ad abbandonare Adrianopoli, "partirono al passo e condussero tutti i loro uomini a piedi e a cavallo, e feriti e altri" verso Rodestoc; qui venne lasciata una guarnigione veneziana ed altre furono stabilite ad Adrianopoli e ad Eraclea. Ad una spedizione inviata in soccorso di Estanemac partecipa, infine, insieme con i Francesi, "un corpo di Veneziani di cui era capitano Andrea Valier" (169). Non si ha alcun elemento per ritenere che i contingenti di cui qui si parla fossero costituiti da mercenari e non da cittadini veneziani provenienti, s'intende, sia dalla metropoli sia dalle terre ad essa soggette.
Le fonti documentarie, del resto, menzionano chiaramente l'obbligo di partecipare alle spedizioni ordinate dal nuovo imperatore d'Oriente per tutti i "milites imperii, tam Francigenae quam Veneti", e nel 1219 vengono regolamentati i rapporti tra il podestà di Costantinopoli e milites veneti di Rodosto. Nello stesso periodo il castello di Corfù viene concesso a dieci Veneziani che si impegnano a recarvisi accompagnati da venti milites "ad usum millitie decenter armatis": alcuni di costoro, è vero, potevano essere di nazionalità diversa, ma facevano parte del numero anche i concessionari stessi la cui provenienza non è dubbia; certamente da Venezia provenivano buona parte dei 132 milites e dei 408 pedites stanziati nel 1211 a Creta e degli altri che giunsero a rinforzarli nei decenni successivi (170); nel 1270, poi, "i Veneziani che erano esperti di portare armi a cavallo" vennero mobilitati per combattere contro i Bolognesi al Po di Primaro (171). Costoro costituivano certamente un'élite, di censo più che di sangue, poiché per tutto il periodo qui considerato non si deve scorgere un rapporto diretto fra condizione aristocratica e capacità guerriere (172): il miles Tommaso Viadro, per esempio, divenuto nel 1211 titolare di una "cavalleria" in Creta, aveva sino allora condotto un'intensa attività mercantile (173).
Che la città lagunare fornisse uomini capaci di combattere a terra non era del resto una novità del secolo XIII. Nell'anno 1100 un corpo di spedizione avviato in Terrasanta sbarca nell'isola di Mira con l'intento di impadronirsi delle reliquie di s. Nicola: esso è capeggiato dal doge e dal vescovo Enrico "attorniati da schiere di guerrieri"; precedeva il doge accompagnato da cavalieri corazzati e seguiva il vescovo a piedi nudi fra i suoi chierici: mentre il primo "disponeva i suoi cavalieri al combattimento", il vescovo "esortava il clero a salmodiare" (174). I "milites loricati" che circondano il doge rappresentano evidentemente l'élite guerriera veneziana, e sembra indubitabile che con l'esplicita qualifica di milites si intenda indicare la loro condizione di uomini addestrati a combattere a cavallo.
Solo due anni dopo l'impresa di Mira Ordelaffo Falier "fece l'esercito con navi da guerra e con forti uomini e cavalieri" sconfiggendo gli Ungari in Dalmazia; circa un decennio più tardi lo stesso doge "exivit cum exercitu" impadronendosi per intero di quella regione, escluse le sole città di Zara e di "Belgrado"; esse vennero conquistate nel maggio successivo quando la spedizione fu reiterata "cum equitibus et navibus" e il Falier "con pochi cavalieri" riuscì a mettere in rotta il bano. A sua volta nel 1122 il doge Domenico Michiel parte per la crociata "cum magno exercitu navali et equestri" conquistando Tiro e altre dieci città: la sua spedizione viene chiamata "navalis et militaris exercitus" anche nelle fonti documentarie coeve. Nel 1156, infine, Vitale Michiel è ancora in azione contro l'irriducibile Zara con un numeroso esercito di galee e di milites (175). Duplice appare la funzione del comandante in capo: se all'azione puramente navale fa seguito uno sbarco con lo svolgimento di operazioni a terra, anche a questa fase sovrintende colui che comanda la flotta, eletto infatti a "classem regere" e a "preesse exercitui" (176).
Un esercito equestris o militaris (aggettivi che si equivalgono) è presente, come si è visto, in tutte le imprese ricordate: equites o milites sono sia coloro che affrontano e mettono in fuga gli Ungari in Dalmazia, sia i protagonisti della conquista di Tiro e delle altre città greche. L'impegno sulle navi e contro centri fortificati costringeva evidentemente spesso i milites ad operare smontati: non a caso nel 1156, all'assedio di Zara, la rottura di una scala d'assalto provoca la morte di molti "nobiles loricati". Distinti da costoro nel 1102 appaiono certi "fortes viri", forse da identificare con rappresentanti di spicco del popolo in armi, cui corrispondono altrove i fanti cittadini (177).
Ogni precisa distinzione appare tuttavia difficile; nei combattimenti impegnati ad Acri nel 1258 contro i Genovesi, i Veneziani "si comportarono molto bene, sia in mare che in terra, sia da fanti che da cavalieri" (178): un'affermazione che sembrerebbe sottintendere una perfetta intercambiabilità dei ruoli tanto da far pensare che non esistesse una componente terrestre nettamente separata da quella navale; tutti dovevano certo, all'occorrenza, essere in grado di agire anche a terra, ma si dovrà ritenere che nella massa spicchi una minoranza di uomini specificamente addestrati al combattimento a cavallo, o comunque alla guerra terrestre: essi corrisponderebbero a quei "pochi cavalieri" di cui si parla nel 1115 e ai 200 che furono impegnati a Primaro nel secolo successivo (179).
Durante la quarta crociata, nelle distrette del contrattacco bizantino davanti a Costantinopoli, secondo una versione veneziana di quei fatti, sarebbe stato il "valentissimo cavaliere Andrea Marenzan" a suggerire ai crociati il comportamento tattico più opportuno: visto che molti cavalieri erano rimasti appiedati per aver perduto le loro cavalcature in mare, egli osservò che "l'iera meio star et romagnir ale sbare" in modo da poter utilizzare anche gli uomini a piedi ed usufruire della copertura offerta dal tiro dei propri balestrieri; "fazando altrimenti [egli concluse> el se core manifesto pericolo". Il consiglio fu giudicato buono da tutti e messo in pratica con profitto, così che, quando il doge venne ad offrire il suo aiuto, i crociati, ringraziando, rifiutarono "e dixeli che nui non podemo far se non ben, quando nui avemo apreso de nui miser Mandeman Maranzian per nostro conseio et secorso" (180).
Un veneziano, dunque, sarebbe stato in grado di suggerire il piano operativo ad un esercito terrestre nel quale militavano alcuni dei più esperti guerrieri europei dell'epoca. L'episodio, da ritenersi senz'altro improbabile, sembrerebbe rivelare il tardivo intento di crearsi artificiose credenziali di competenza bellica terrestre tradendo, per ciò stesso, un evidente complesso di inferiorità. Quale poteva infatti essere la preparazione tecnica di un popolo marinaro nella guerra in campo aperto, in paragone ad avversari o ad alleati abituati al solo combattimento di terra?
Debolezze organizzative sembrano affiorare sin dall'inizio del secolo XII nel racconto dello sbarco di Mira: non appena informata che una città abbandonata si trova a sei miglia dalla costa, la "populi multitudo", senza dare ascolto né alla voce del banditore né al suono delle trombe, vi irrompe per darsi affannosamente alla ricerca delle reliquie di s. Nicola (181). Per quanto non si tratti di una vera e propria operazione di guerra, essa è pur sempre condotta da un corpo di spedizione militarmente organizzato, nel quale la compostezza dei milites, che abbiamo visto stretti attorno al doge (182), contrasta fortemente con l'irrequietezza mostrata dal popolo in armi: questo, sfuggendo ad ogni controllo dei suoi capi, si precipita infatti disordinatamente sull'obiettivo senza attendere ordini né rispettare regole; la truppa, per quanto desiderosa di agire, dà così l'impressione di essere male addestrata, indisciplinata e di difficile comando.
Neppure il contingente terrestre veneziano che partecipa alla conquista dell'Impero d'Oriente desta l'entusiasmo del Villehardouin, che pure mostra costante ammirazione per gli uomini della laguna e, in particolare, per Enrico Dandolo.
Nel 1205, come si è visto, il doge nella spedizione di Adrianopoli è alla testa di "tel gent cum il oit": l'espressione non intende certo riferirsi ad una scarsità degli effettivi poiché, si precisa, il loro numero non era inferiore a quello condotto dall'imperatore; il cronista vuole invece alludere alla scadente qualità delle truppe agli ordini del doge: tutto lascia credere che esse corrispondano alle "schiere composte di genti che non erano cavalieri e non molto esperte nelle armi" le quali, al momento dello scontro con i Cumani, cominciarono a spaventarsi, a cedere e quindi a fuggire. Il testo conterrebbe dunque un indiretto ma chiaro giudizio negativo sulle capacità militari del contingente terrestre veneziano. Esso è del resto rafforzato dal contegno tenuto poco dopo dalla guarnigione di Rodestoc; non appena essa venne a sapere che il nemico aveva preso a forza la città di Naples e ne aveva trucidato i difensori, si diede a fuga precipitosa: gli uomini "si gettarono nei vascelli, chi prima arriva, a gara, sicché poco mancò che non si annegassero l'un l'altro". Conforta che l'esempio sia stato subito imitato dai contingenti francese e fiammingo, i quali fuggirono invece per via di terra (183). Si conoscono del resto altri episodi che non depongono certo a favore delle capacità tecniche e della combattività dei Veneziani nelle azioni terrestri e talora, anzi, persino in quelle anfibie che erano la loro specialità.
Inconcludenti e inadeguate furono le operazioni condotte dal 1270 al 1273 contro i Bolognesi sul Po di Primaro, prima sotto il comando di Marco Badoer, poi sostituito da una vera girandola di altri comandanti, tutti non meno sfortunati di lui; l'esercito veneziano finisce per sottostare all'iniziativa bolognese subendo una vera disfatta che lo costringe ad imbarcarsi frettolosamente sulle navi abbandonando nelle mani del nemico un abbondante e costoso materiale. I Bolognesi irrisero allora i Veneziani chiamandoli femmine, ed essi stessi, pur adducendo giustificazioni, ammettono che il loro comandante, Giovanni Tiepolo, non era abbastanza "pratico d'armi".
La ripresa delle ostilità con forze fresche al comando di Marco Gradenigo poté soltanto contenere l'attacco nemico: affrontati in campo aperto dai cavalieri bolognesi i Veneziani tengono testa faticosamente grazie alla loro abilità di tiratori; il podestà di Bologna allora, visto che a colpi di balestra e giavellotto "i Veneziani uccidevano i cavalli, e che non erano neanche duecento, scese dal cavallo e fece scendere tutti i cavalieri e misero gli scudi davanti al viso e si schierarono sotto il loro gonfalone e si diressero contro messer Marco Gradenigo ", il quale si difese bene: ferisce il podestà e uccide molti cavalieri nemici, ma intanto fa indietreggiare i suoi verso le navi predisponendoli alla ritirata (184).
Tutta la campagna di Primaro sembra innanzitutto rivelare una sorprendente incapacità di comando e di coordinamento delle forze in campo, che pur si muovono nell'ambiente "anfibio" preferito dai Veneziani; gli scontri a terra mettono poi, ancora una volta, in risalto una palese inadeguatezza tecnica dei cavalieri veneti a sostenere l'urto della cavalleria che si trovano di fronte. Una disavventura simile toccò ai Veneziani nel 1299 nell'isola di Cos allorché vennero poco decorosamente messi in fuga dalle truppe turche e imperiali. Il capitano Malipiero con 500 uomini tentò bensì di fermare il nemico "e essortava quanto poteva li suoi star fermi e gridava al bandieraro, che ficcasse la bandiera in terra, ma tanta era la gente in fuga che non la poté fermare". Tornato a Venezia il popolo non perdonò la sconfitta e dileggiò pubblicamente il Malipiero, ritenuto inetto, cantando per la città: "Ficca bandiera, spoglia spalliera!". Gli "uomini da conto" lo ebbero nondimeno per scusato "perché sappevan, ch'era valoroso" (185).
Il comportamento dei comandi e delle truppe veneziane non fu lusinghiero nemmeno nella campagna combattuta in Istria dal 1283 al 1289. Nel marzo di quest'ultimo anno, fallito un tentativo di sbloccare Trieste assediata, il patriarca di Aquileia decide di rifornire la città. All'inconsueto "strepito e rumore" fatto dai conducenti dei carri e alla vista dei fuochi da essi accesi nella notte per scaldarsi, i Veneziani "timuerunt timore magno" e ritennero bene rifugiarsi senz'altro sulle navi abbandonando tutti i materiali nelle mani dei Triestini (186). Gli stessi commentatori veneziani non esitano ad ammettere che il grave inconveniente fu dovuto alla negligenza degli assedianti, i quali "non osservavano alcuna disciplina militare". Sappiamo che si trattava di cittadini di Venezia che da poco avevano dato il cambio ai loro commilitoni di un altro sestiere, operazione che venne in seguito chiamata "mal in cambio" (187).
In generale, dunque, i Veneziani a terra, almeno nel corso del '200, non solo non conseguono alcun brillante successo paragonabile a quelli ottenuti in mare, ma si mantengono sulla difensiva e non di rado vanno incontro a veri disastri. Non si conosce tuttavia nessuna disposizione disciplinare contro comandanti terrestri paragonabile ai durissimi provvedimenti presi nel 1294 contro gli equipaggi che rifiutavano il combattimento: il comandante della nave e gli ufficiali in sottordine dovevano senz'altro "perdere capita" e, nel caso che risultassero irreperibili, i loro beni venivano confiscati (188). La stessa classe dirigente era probabilmente convinta che le sorti della Repubblica, per il momento, si giocavano in mare e a questo dedicarono soprattutto le loro cure.
I diritti su Creta furono acquisiti dai Veneziani con denaro, ma l'isola dovette poi essere conquistata, presidiata e difesa contro i nemici esterni e interni allestendo un apparato che fu di fatto l'unica, importante e durevole organizzazione militare terrestre messa in piedi dai Veneziani prima della loro espansione nella terraferma italiana. Dopo la conquista iniziale, realizzata ricorrendo all'arruolamento di mercenari (189), l'intera isola fu suddivisa in sestieri a somiglianza della madrepatria; ognuno di essi risultò composto da 33 "cavallerie" e un terzo, e ogni "cavalleria" (o militia) fu a sua volta articolata in sei "sergenterie", le une e le altre affidate a uomini di Venezia trapiantati nell'isola in più riprese, cui si aggiunse un congruo numero di Italiani di diversa provenienza e, almeno dal 1219, anche di indigeni isolani che si erano in un primo tempo ribellati con le armi al regime imposto dagli occupanti (190). Parallelamente il territorio venne anche suddiviso in castellanie che risultarono in parte sovrapposte all'ordinamento per "cavallerie".
Il primo contingente di 94 milites e di 26 pedites, sbarcato nel 1211, fu completato, a discrezione del duca di Creta stesso, con altro personale sino a raggiungere i previsti effettivi di 132 cavalieri e 408 fanti; altri 60 milites e servientes seguirono nel 1222; un terzo gruppo sbarcò nel 1233 e un altro di 46 cavalieri e sei "sergenti" nel 1252 (191).
In proporzione diversa, a seconda della categoria cui apparteneva, ciascun combattente venne dotato di case, terre coltivabili e prati per il pascolo dei cavalli e di altri animali; in compenso egli prometteva di "salvare e custodire e mantenere contro chiunque" l'isola ad onore del doge e di presentarsi alla chiamata ogni volta in cui veniva mobilitato l'esercito "da Modone in su" (192).
Nella concessione del 1211 ogni miles doveva provvedersi di un cavallo da guerra e di armamento pesante facendosi seguire da due scudieri con le rispettive cavalcature; gli stessi obblighi rimangono validi nel 1222 allorché viene stabilito anche il valore minimo di ogni cavallo: 75 lire venete per i milites, 50 per gli scudieri, i quali ultimi non potevano comunque essere di nazionalità greca; fanno inoltre la loro comparsa, accanto ai pedites, anche i balestrieri (193). Nel 1252 si precisa che il cavallo, di età non inferiore ai tre anni, deve essere munito di corazza; il titolare di ogni militia è tenuto a farsi accompagnare da un socius "buono e conveniente" e da un "sergente" il quale, come già gli scutferi, sarà "ben armato di ferro"; tutti costoro, compresi fra i venti e i cinquant'anni, devono possedere e saper manovrare la balestra. Figura intermedia tra il fante e il cavaliere, il serviens risultava titolare di una sergenteria (cioè di mezza militia): egli, oltre ad un cavallo di prezzo non inferiore a 50 lire, ha l'obbligo di possederne un secondo da 25 lire e di essere seguito da due scudieri (194).
I termini con i quali sono indicati i singoli combattenti (miles, pedes, serviens, scutifer) appaiono del tutto analoghi al lessico militare corrente nell'Italia comunale e, più ampiamente, in Europa negli stessi decenni del secolo XIII (195); anche il progressivo accrescersi degli uomini montati che accompagnano i milites, la comparsa fra essi dei balestrieri e la conseguente necessità di accrescere la protezione dei combattenti e delle loro cavalcature, sono fenomeni contemporaneamente riscontrabili nell'Italia settentrionale (196): Venezia, spesso direttamente coinvolta nelle vicende militari del retroterra italiano, era dunque ben attenta alle innovazioni tecnico-tattiche e non mancava di tenerne adeguato conto nell'organizzazione impiantata a Creta. Per quanto l'equipaggiamento delle milizie fosse simile in tutta l'Europa occidentale, sappiamo che esistevano milites armati e ordinati "ad modum Lombardie" (197), i quali dovettero quindi costituire il modello più vicino.
Nei documenti veneziani del secolo XIII relativi a Creta il complesso degli obblighi militari viene indicato col termine di varnitio, che riconduce anch'esso al contemporaneo ambito veneto di terraferma (198). Oltre all'armamento e alle dotazioni già viste la varnitio comportava il servizio "per tertiam partem anni", cioè per quattro mesi (199), di cui però non si conoscono i particolari. Una commissione inviata da Venezia era incaricata di ispezionare appunto ogni quattro mesi in Candia lo stato di efficienza delle "cavallerie": si tratta della "ostensio varnitionum", una rassegna, cioè, nella quale gli obbligati dovevano dimostrare di essere in possesso di tutti i requisiti richiesti per l'espletamento del loro servizio; se trovati in fallo "occasione disguarnitionum" essi venivano colpiti da pene pecuniarie proporzionate alla mancanza. Una nota di colore: all'ostensio era proibito partecipare con la barba lunga, a meno che essa fosse lasciata crescere "causa mesticie" (200).
Le prestazioni militari degli uomini tenuti alla varnitio potevano essere integrate dalla temporanea assunzione di mercenari; esisteva inoltre un certo numero di stipendiarii stabilmente dipendenti dall'amministrazione veneziana che erano istituzionalmente destinati alla tutela della sicurezza interna, ma con compiti talvolta connessi con l'organizzazione militare vera e propria (201); per converso, i servientes dislocati nei castelli venivano anche impiegati in servizi di ordine pubblico (202). I titolari di un "feudo" potevano inoltre assumere persone a contratto con l'obbligo di servire "per agricolas et per sergentes et per servitores", partecipando, cioè, tanto ai lavori agricoli quanto ai compiti difensivi: è possibile che costoro corrispondano ai socii cui accennano i documenti del 1252 (203).
I componenti dell'exercitus così strutturato, normalmente stanziati nelle terre a ciascuno assegnate, potevano essere mobilitati agli ordini del duca di Creta, mediante un preallarme, in qualunque punto dell'isola nel quale si manifestasse un'emergenza militare: nel 1269, ad esempio, il duca Andrea Zeno, alle prese con la ribellione di un gruppo di cittadini, ordinò a certi uomini "che erano nei loro confini" di tenersi pronti con cavalli ed armi in modo che, se fossero stati chiamati, si movessero al più presto dietro suo ordine. Insieme a costoro il duca aveva a disposizione la "gente che stava dalla sua parte" ("que vardabant ad nos") (204) cioè, probabilmente, semplici cittadini fedeli al regime, mobilitati anch'essi per l'occasione.
Nel corso di un tumulto popolare scatenatosi a Candia nel 1271 (non dissimile da quelli che nello stesso periodo erano ricorrenti nelle città italiane) vediamo impegnati cittadini seguiti da "famuli armati" mentre altri "turbulenti cives" non esitano ad erigere macchine da lancio sui tetti delle loro case; contro di essi, a sostegno del duca, interviene una "societas burgensium [...> bene munita": esistevano dunque a Creta società armate, simili alle compagnie d'armi diffuse nei comuni dell'Italia centrosettentrionale, che potevano essere reclutate per la difesa degli interessi della Repubblica contro pericoli interni ed esterni (205); nel 1294 200 balestre inviate da Venezia vennero suddivise "inter milites et burgenses Crete", i quali ultimi, nelle principali città dell'isola, erano tenuti al servizio di guardia sulle mura (206).
Nei momenti di emergenza si eleggevano due o più capitani i quali raccoglievano e comandavano reparti mobili costituiti da cavalieri scelti (207). Durante il periodo di ininterrotta ribellione che caratterizzò l'ultimo decennio del '200 esistevano però capitani stabilmente preposti ad un loro territorio, entro il quale avevano il compito di creare una rete di informatori fra i ribelli e di condurre contro di essi spedizioni di razzia (gualdane) con gruppi di venti o più gualdanatores, suddividendo poi scrupolosamente le prede fra tutti i partecipanti. Ai capitani, per contro, non era permesso inviare uomini a piedi o a cavallo "ultra scalas" senza specifico permesso della signoria (208), probabilmente per evitare la perdita di effettivi preziosi, come di fatto più volte avvenne. Solo una volta raggiunta la pacificazione dell'isola, gli uomini di stanza a Creta poterono essere mobilitati - secondo quanto previsto anche per azioni esterne, come mostrano, ad esempio, certi ordini di imbarco del 1318 per rematori, arcieri e balestrieri destinati a Negroponte (209).
Le forze di terra veneziane, per tutto il secolo XIII, incontrarono in effetti serie difficoltà ad affermarsi sulle endemiche ribellioni indigene. Nel 1219 l'esercito viene sorpreso in una zona montana e sconfitto lasciando sul terreno uno dei comandanti; si dovette allora prendere atto che era impossibile venire a capo della resistenza degli isolani con l'uso della sola forza e si accedette a patteggiamenti che divennero d'allora in poi la regola. Per ben due volte, nel 1212 e nel 1238, si rese necessario ricorrere all'aiuto dei Sanudo duchi dell'Arcipelago i quali, in entrambi i casi, si trasformarono a loro volta in nemici da combattere: l'isola vide così la contrapposizione di Veneziani ad altri Veneziani conclusa con non brillanti compromessi (210).
Né ebbe migliore fortuna, nel 1272, il duca Marino Zeno nel combattere il ribelle Giorgio Curtazio: affrontato dai Greci lo stesso duca cadde sul campo insieme con "molti valentuomini, sia cavalieri che armati, che mercenari". Marino Morosini, sopravvenuto con cospicui rinforzi, poté ristabilire con fatica la situazione gravemente compromessa sottostando ad altre dolorose perdite. I ribelli giunsero anzi sino ad assediare Candia e furono battuti solo nel 1279, verisimilmente più per effetto delle loro discordie interne che per l'efficacia degli interventi militari veneziani. La successiva rivolta dei Calergi darà altro filo da torcere sino al 1299 per concludersi, ancora una volta, con un compromesso politico-militare (211). In una forma di guerra particolarmente insidiosa, condotta contro avversari che godevano della conoscenza dei luoghi e di forti solidarietà interne, sarebbe stato probabilmente difficile per chiunque fare di più e di meglio.
L'isola scarseggiava di cavalli i quali furono quindi oggetto di particolari cure. Si fa innanzitutto espresso obbligo a milites, "sergenti" e scudieri in partenza per Creta di procurarsi le cavalcature nella madrepatria; per convincere nel 1213 il ribelle Marco Sanudo ad uscire da Creta gli si concesse, insieme ad altro, di avere a disposizione cavalli del comune con sella e freno a sua scelta; nel 1299 anche il ribelle Alessio Calergi ottenne di poter acquistare 15 cavalli l'anno e, nel caso che ciò gli fosse impossibile, la signoria stessa si impegnava a fornirgli dieci animali da combattimento al giusto prezzo, forse sin d'allora acquistati di preferenza in Anatolia (212). Preoccupava la necessità di sostituzione dei cavalli morti e danneggiati, tanto che nel 1253 vennero devoluti a tale scopo gli introiti delle multe inflitte a coloro che si erano resi colpevoli "occasione disguarnitionum". Ogni cavallo posseduto da privati "extra varniciones" doveva essere censito e all'occorrenza precettato per partecipare ad azioni di guerra (213).
L'organizzazione militare di Creta era saldamente ancorata ad una rete di fortificazioni: 14 castelli sarebbero stati fondati nell'isola fra 1206 e 1207 al tempo dell'occupazione di Enrico Pescatore; essi furono certo ereditati e rafforzati dai Veneziani dopo la conquista e il loro possesso ebbe un ruolo di primo piano nelle ribellioni, nelle repressioni e nei patteggiamenti che si susseguirono per tutto il secolo XIII (214); nel frattempo si provvide a costruire e a tenere in efficienza nuovi castelli mediante lo stanziamento di ingenti somme e la devoluzione degli introiti della gabella del sale e del pane (215).
Gli "ordinamenta castellorum" del 1232 appaiono strettamente connessi con i compiti delle "cavallerie" e delle "sergenterie". Le fortificazioni sono considerate "maximum statum et lumen eiusdem insule" poiché proprio per difetto nella loro custodia essa aveva subìto in passato gravissimi danni. La guarnigione di una fortezza era direttamente affidata ad una militia, ma anche le altre, disposte nel raggio di cinque miglia all'intorno, dovevano inviare in essa almeno un "sergente" su indicazione del duca; questi poteva inoltre disporre che una parte degli stessi cavalieri partecipasse al presidio per quattro mesi l'anno. Si insiste sulla necessità che i sergenti tenuti al servizio nei castelli non siano di nazionalità greca e provvedano ad equipaggiarsi proprio con le armi loro spettanti, e non con l'armamento più leggero degli scutiferi. Nel 1321 la "cavalleria" di Sitia aveva il compito di rifornire di grano il castello di Monforte (216).
I castellani, funzionari amovibili con compiti anche giudiziari e amministrativi, si impegnavano a mantenere la dotazione di armi redigendone inventario scritto; dovevano inoltre esercitare un controllo sulla presenza, sulla paga e sull'armamento dei componenti la guarnigione in tempo di pace provvedendo, su ordine del duca, ad aumentarla in tempo di guerra. Ai castellani era proibito gestire taverna e assentarsi dal castello per più di cinque giorni, pena la perdita dello stipendio. Durante la rivolta dei Calergi, nel 1283, ai castellani di Milospotamo tocca il compito di censire i maschi da 18 a 40 anni e di disporre che tutti gli abitanti conducano i loro animali nei luoghi fortificati (217).
I modelli presenti ai Veneziani nell'attuazione dell'organizzazione militare a Creta sono stati indicati ora nell'esercito limitaneo tardo romano, ora nel "sistema feudale" e nella signoria rurale europea, oppure nella "pronoia" bizantina (218): nessuna di tali ipotesi soddisfa però pienamente. Certo non si potrà in nessun caso pensare ad un "modello" meccanicamente assunto ed applicato ad una realtà ad esso estranea; i Veneziani, semmai, si ispirarono ad esperienze già fatte altrove adattandole alle necessità e alle possibilità tecniche, politiche ed economiche dell'ambiente nel quale si trovarono ad operare.
Si è già osservato come in molti particolari l'organizzazione militare veneziana fosse vicina a quella dei comuni cittadini dell'entroterra italiano con i quali Venezia da lungo tempo intratteneva contatti di diversa natura; prima quindi di cercare modelli lontani nel tempo e nello spazio è forse opportuno rivolgere lo sguardo proprio in tale direzione e, in particolare, a certi borghi franchi con spiccata fisionomia militare fondati da comuni veneti e lombardi nell'ultimo decennio del secolo XII. Sappiamo, ad esempio, che intorno al 1191 il comune di Brescia distribuì terre e case ad un certo numero di uomini sottoponendoli all'obbligo di tenere un cavallo da guerra in difesa del castello e del borgo di Rudiano posti sull'Oglio in prossimità del confine con Cremona (219). Pochi anni dopo il comune di Treviso, promovendo la fondazione di Castelfranco Veneto, assegnava abitazioni all'interno del borgo e lotti di terra coltiva nella campagna circostante, proporzionati, gli uni e gli altri, ai compiti militari cui gli assegnatari erano tenuti: vi erano feudi da cavaliere e da fante, ciascuno col preciso obbligo di dotarsi di un armamento corrispondente al suo ruolo; compiti e dotazioni che rimasero in vigore, senza alterazioni significative, per oltre un secolo (220). Un rapporto simile tra assegnazione di terre e prestazioni militari vediamo proposto nel 1219 a Massafiscaglia, nel Ferrarese (221).
Venezia ebbe rapporti particolarmente stretti tanto con Treviso quanto con Ferrara, e più di un'occasione, quindi, per mutuare un tipo di organizzazione allora corrente del quale, d'altronde, nell'Italia settentrionale si trovano esempi sin dai primi decenni del secolo XII, a loro volta forse ricalcati su più remote situazioni di età carolingia (222). Il "modello" cretese potrebbe quindi essere individuato in quei borghi franchi dell'area padano-veneta di cui la "concessio Canee" del 1252 (223) appare come una riproduzione assai vicina al presumibile "originale": un altro elemento, in conclusione - e non il meno importante - per avvicinare ulteriormente le istituzioni veneziane al mondo comunale italiano (224).
1. Giovanni Battista di Sardagna, Cenni sulla importanza degli studi intorno alla milizia veneziana nel medio evo, Trento 1856.
2. Non si ha notizia di un lavoro complessivo di questo autore sullo specifico argomento; v. comunque avanti l'articolo citato alla n. 51.
3. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I, Venezia 1853, doc. 19 (ottobre), pp. 392-396, e commento nel testo, pp. 332-333; cf. anche Roberto Cessi, Venezia ducale, II/1, Commune Venetiarum, Venezia 1965, p. 168.
4. Cf. ad esempio Roberto Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, pp. 153 e 328.
5. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante, I-III, Wien 1856-1857: I, doc. 106 (a. 1203), p. 423.
6. Luigi Lanfranchi, Famiglia Zusto, Venezia 1955, doc. 8 (nov. 1121 ), pp. 26-27.
7. V. rispettivamente: Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.LS.2, XII, 1, 1938-1958, pp. 243 (a. 1147) e 251 (a. 1171); L. Lanfranchi, Famiglia Zusto, pp. 26-27 e documenti ivi citati (a. 1158).
8. G.L.Fr. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, I, doc. 73 (nov. 1188), pp. 204-205; in quello stesso anno il mantovano Rodolfo de Zoto, giurando la cittadinanza veneziana, prometteva anch'egli di fare "expeditionem et exercitum": cf. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, II, Venezia 1854, doc. 4 (gen. 1188), pp. 412-413.
9. Rispettivamente Lorenzo de Monacis, Chronicon de rebus Venetis ab urbe condita ad annum MCCCLIV, a cura di Flaminio Corner, Venetiis 1758, p. 119, e Gino Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane (1141-1345), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 11, 1906, doc. 3 (1 mar. 1141), p. 48 (pp. 5-91).
10. G.L.Fr. Tafel - G. M. Thomas, Urkunden, I, doc. 48 (dic. 1145), p. 106.
11. A. Dandolo, Chronica, p. 251.
12. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, rispettivamente I, doc. 106 (1203), p. 423; II, docc. 311 (1° ag. 1247), p. 435; 282 (mag. 1232), pp. 309-310; 292 (giu. 1236), p. 331; 321 (mar. 1252), p. 467.
13. Rispettivamente Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, p. 42; A. Dandolo, Chronica, p. 247 (sotto l'anno 1164).
14. Roberto di Clari, La conquista di Costantinopoli (1198-1216), a cura di Anna Maria Nada Patrone, Genova 1972, pp. 132-135 (citeremo da questa edizione avendo comunque presente anche il testo originale: Robert de Clari, La conquête de Constantinople, a cura di Philippe Lauer, Paris 1924).
15. Cf. Antonio Carile, Alle origini dell'impero latino d'oriente. Analisi quantitativa dell'esercito crociato e ripartizione dei feudi, "Nuova Rivista Storica", 56, 1972, p. 287 (pp. 285-314); Id., Per una storia dell'impero latino di Costantinopoli (1204-1261), Bologna 19782, pp. 375-376. Sull'effetto "decongestionante" della crociata v. Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, p. 63.
16. M. da Canal, Les estoires, esempi di sostituzione anche per il secolo XIV cita Marco Pozza, Due capitolari per la milizia cittadina, in Gino Bellonimarco Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma 1987, p. 78 n. 6 (pp. 77-93).
17. V. n. 6 e testo corrispondente.
18. Roberto Cessi, "Excusati palatii ", "Archivio Veneto", ser. V, 63, 1958, pp. 10-11 (pp. 1-14).
19. Vittorio Lazzarini, Frammento di registro del tempo
della guerra di Chioggia, "Archivio Veneto", ser. V,
21, 1937, pp. 128-129 (pp. 124-129).
20. Id., "Excusati" del dogado veneziano, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 105, 1946-1947, Classe di scienze morali e lettere, pp. 75-76 (pp. 75-85); v. anche M. Pozza, Due capitolari, p. 77.
21. Deliberazioni del maggior consiglio di Venezia, I, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1950; II, Bologna 1931; III, Bologna 1934; Atti delle assemblee costituzionali italiane dal medio evo al 1831: III, rispettivamente pp. 26 e 174; cf. anche G. Cracco, Società e stato, p. 321.
22. Sul succedersi delle disposizioni cf. M. Pozza, Due capitolari, pp. 78-80, cui rimandiamo per la puntuale citazione delle fonti.
23. Ferruccio Zago, Consiglio dei Dieci. Deliberazioni miste. Registri III-IV (1325-1335), Venezia 1967, nr. 312 (20 dic. 1328), pp. 108-110; nr. 320 (23 dic. 1328), pp. 112-1 13. V. anche G. Cracco, Società e stato, p. 327; Id., Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1886, pp. 127-128.
24. S. Romanin, Storia documentata, II, pp. 393-394, con riferimento a disposizioni del 1363.
25. M. da Canal, Les estoires, pp. 309-332.
26. A. Dandolo, Chronica, pp. 300-302.
27. L. de Monacis, Chronicon, pp. 261-262.
28. Deliberazioni, III, rispettivamente: pp. 228, 229, 239, 232, 283, 399, 199; sull'atmosfera del momento G. Cracco, Società e stato, pp. 314, 318, 335.
29. Citato da Giovanni Soranzo, La guerra fra Venezia e la S. Sede per il dominio di Ferrara (1308-1313), Città di Castello 1905, p. 149; v. anche L. De Monacis, Chronicon, p. 266.
30. M. da Canal, Les estoires, pp. 88 e 109.
31. Ibid., pp. 74, 88 ss.
32. Deliberazioni, I, pp. 171 - 172.
33. Ibid., II, p. 51.
34. Rispettivamente: ibid., II, p. 388 (1268); I, p. 68 (1278); III, pp. 64 (1284) e 357 (1294).
35. Carlo Antonio Marin, Storia civile e politica del commercio de' Veneziani, I-VIII, Venezia 1798-1808: III, pp. 54-55
36. Ercole Ricotti, Sull'uso delle milizie mercenarie in Italia sino alla pace di Costanza, "Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino", Scienze morali, storiche e filologiche, ser. II, 2, 1840, p. 52 (pp. 35-60).
37. Cf. Andreae Danduli Chronica, in R.LS., XII, 1728, coll. 279-280, nr. b, non riportata nella nuova edizione (A. Dandolo, Chronica, pp. 239-240); cf. anche Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, pp. 221-222 e relative note.
38. La cronaca veneziana del diacono Giovanni, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890, pp. 136-138; Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro Il Orseolo, in Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, Longobardi e Bizantini, Torino 1980, pp. 411-412, 415-416 (pp. 341-438)
39. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 328-329.
40. A. Dandolo, Chronica, p. 225.
41. L. de Monacis, Chronicon, p. 153.
42. Silvano Borsari, Il dominio veneziano a Creta nel XIII secolo, Napoli 1963, p. 29.
43. Jean Louis Alphonse Huillard Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, V/ 1, Parisiis 1857, pp. 391-392 (23 sett. 1239): ogni miles, munito di un destriero e due ronzini, doveva essere seguito da tre scudieri.
44. L. de Monacis, Chronicon, p. 106.
45. René Grousset, Histoire des croisades et du royaume franc de Jérusalem, III, Paris 1936, p. 547.
46. Cassiere della Bolla Ducale, Grazie Novus liber (1299-1305), a cura di Elena Favaro, Venezia 1962, doc. 234 (mag. 1301), p. 56. Sulle navi erano poi in servizio ufficiali di ogni grado "ad soldum": cf. Deliberazioni, II, p. 61 (1271).
47. M. da Canal, Les estoires, pp. 314-318.
48. Rispettivamente: L. de Monacis, Chronicon, p. 256 e M. Da Canal, Les estoires, p. 332.
49. Rispettivamente: M. Da Canal, Les estoires, pp. 338 e 344; L. de Monacis, Chronicon, pp. 158 e 162.
50. Rispettivamente: G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, III, doc. 376 (8 mar. 1285), p. 317 e Deliberazioni, III, p. 71 (1284).
51. Giovanni Battista di Sardagna, Memorie di soldati istriani e di altri italiani e forestieri che militarono nell'Istria allo stipendio di Venezia nei secoli XIII, XIV e XV, "Archeografo Triestino", n. ser., 7, 188o, pp. 50-56 e 238-254 (pp. 19-93; 235-289).
52. Su questo importante tema, che non è possibile qui sviluppare in tutte le sue implicazioni, v. il prezioso lavoro di Hannelore Zug Tucci, Venezia e i prigionieri di guerra nel medio evo, "Studi Veneziani", 14, 1987, pp. 15-89 e, in specie, per gli scambi, pp. 60-61.
53. G.B. di Sardagna, Memorie, doc. 7 (31 gen. 1289), pp. 248-253 e doc. 8 (stessa data), pp. 253-255.
54. Ibid., doc. 5 (16 mar. 1289), pp. 238-247 e doc. 6 (17 mar. 1289), pp. 247-248.
55. Ibid., rispettivamente pp. 239, 249, 253, 254. Cf. anche Daniel Waley, The Army of the Fiorentine Republic from the Twelfth to the Fourteenth Century, in Fiorentine Studies. Politics and Society in Renaissance Florence, a cura di Nicolai Rubinstein, London 1968, p. 92 (pp. 70-108).
56. Daniel Waley, Le origini della condotta nel Duecento e le compagnie di ventura, "Rivista Storica Italiana", 88, 1976, pp. 531-535 (pp. 531-538); Id., The Army, pp. 85-86.
57. Id., "Condotte" and "condottieri" in the Thirteenth Century, "Proceedings of the British Academy", 61, 1976, doc. 9 (13 mag. 1294), pp. 27-33.
58. Deliberazioni, III, p. 66.
59. Ibid., pp. 139 e 161 (1286), 86 (1284), 180(1287): Giustinopoli, Emona e Negroponte.
60. Rispettivamente: ibid., II, p. 333 (1280); III, pp. 50 (1284) e 19 (1282).
61. Rispettivamente: ibid., II, p. 324 (1282); III, pp. 191 (1287), 305 (1291).
62. Ibid., III, p. 66.
63. Ibid., pp. 161 e 243 (1286). Per Creta v. avanti, testo corrispondente alla n. 216.
64. Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, I, a cura di Edmond Faral, Paris 1938, p. 76.
65. Cf. Devastatio Constantinopolitana, in Annales Herbipolenses, in M.G.H., Scriptores, XVI, 1859, coll. 10-11; Hugo Comes S. Pauli, Epistola de expugnata per Latinos urbe Constantinopoli, in G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 307-308.
66. Rinviamo a Aldo A. Settia, Castelli e villaggi nell'Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Napoli 1984, pp. 352 e 362; Id., " Kremam Kremona cremabit". Esperienze d'oltremare e suggestioni classiche nell'assedio del 1159, in AA.VV., Crema 1185. Una contrastata autonomia politica e territoriale, Crema 1988, pp. 74-77 (pp. 69-87).
67. Sulla dinamica degli scontri Navali Marco Antonio Bragadin, Le navi, loro strutture e attrezzature nell'alto medioevo, in AA.VV., La navigazione mediterranea nell'alto medioevo, I, Spoleto 1978, pp. 396-401; Cesare Ciano, Le navi della Meloria, caratteristiche costruttive e di impiego, in AA.VV., Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento. Per il VII centenario della battaglia della Meloria, Genova 1984, pp. 409-412 (pp. 401-415). Cf. inoltre Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 35-36.
68. Flavi Vegeti Renati Epitoma rei militaris, a cura di Cari Lang, Stutgardiae 19672, IV, 44, p. 162; ripreso da Aegidii Columnae Romani De regimine principum libri III, Romae 1607, pp. 621-622.
69. Deliberazioni, I, p. 82.
70. Cf. A.A. Settia, Castelli e villaggi, pp. 354-361.
71. M. da Canal, Les estoires, p. 164.
72. Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, IV, a cura di Luigi T. Belgrano, Genova 1901, p. 32.
73. Rispettivamente: M. da Canal, Les estoires, p. 312 e Salimbene de Adam, Cronica, II, a cura di Giuseppe Scalia, Bari 1966, p. 697.
74. Rispettivamente: M. da Canal, Les estoires, p. 314 e L. de Monacis, Chronicon, pp. 261 e 159.
75. Marinus Sanutus dictus Torsellus, Liber secretorum fidelium crucis super Terrae sanctae recuperatione et conservatione, in Gesta Dei per Francos, sine orientalium expeditionum et regni Francorum Hierosolomitani historia, II, a cura di Jacques Bongars, Hanoviae 1611, pp. 79-82.
76. Cf. in generale Egon Harmut, Die Armbrust, Graz 1975, pp. 19-25; Philippe Contamine, La guerra nel medio evo, Bologna 1986, pp. 109-111; le più antiche attestazioni a noi note nell'Italia settentrionale sono del secolo XI: cf. Aldo A. Settia, I Milanesi in guerra. Organizzazione militare e tecniche di combattimento, in Atti dell'11° congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1989, pp. 265-266 (pp. 265-289).
77. C. A. Marin, Storia civile, I, p. 174.
78. M. Sanudo, Le vite dei Dogi, p. 221 n. 2.
79. G.L.Fr. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, II, rispettivamente docc. 229 (sett. 1211), pp. 129-136; 263 (giu. 1222), pp. 236-237; 322 (28 apr. 1252), p. 473.
80. Frederic C. Lane, La balestra nella rivoluzione nautica del medioevo, in Id., Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, pp. 240-250; Michael Mallett, Signori e mercenari. La guerra nell'Italia del Rinascimento, Bologna 1983, pp. 27-29; cf. anche Aldo A. Settia, L'esercito comunale vercellese del secolo XIII: armamento e tecniche di combattimento nell'Italia occidentale, in AA.VV., Vercelli nel secolo XIII. Atti del I Congresso Storico vercellese, Vercelli 1984, pp. 331-333 (pp. 327-355).
81. Rispettivamente: G.B. di Sardagna, Memorie, pp. 240 e 250: "sex cum balistris qui sint balisterii Venecie"; Capitulare de balestaris, in Giovanni Monticolo, I capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I, Roma 1896, pp. 171-180 e pp. 393-398
82. Rispettivamente: Deliberazioni, I, pp. 57-58, 79, 81-82, 130-131; III, pp. 354 (1294) e 406-407 (1295, in n.); M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, pp. 60 e 81.
83. Deliberazioni, I, pp. 113-117, mentre si dovrà intendere che i 14 "balestros magnos et parvos", perduti da una nave nel 1226 (ibid., p. 124), non costituissero armamento ma merce trasportata.
84. Riccardo Predelli - Adolfo Sacerdoti, Gli statuti marittimi veneziani fino al 1255, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 5, 1903, pp. 181-182 (4, 1902, pp. 113-161, 267-291; 5, 1903, pp. 161-251, 314-336) (anche in G.L.Fr. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, III, appendice, pp. 413-414); cf. F. C. Lane, La balestra, pp. 241-242; per Creta v. sopra testo corrispondente alla n. 79.
85. Deliberazioni, II, p. 70; III, pp. 406-407 (in n.).
86. M. da Canal, Les estoires, pp. 134-136; A. Dandolo, Chronica, pp. 306-307, 310.
87. Antonio Battistella, Contributo alla storia delle relazioni tra Venezia e Bologna dall'undicesimo al sedicesimo secolo, "Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 75, 1915-1916, p. 1771 (pp. 1733-1881); M. da Canal, Les estoires, p. 318; v. anche avanti testo corrispondente alla n. 185.
88. V. avanti nn. 134-135 e testo corrispondente. Sembrerebbe quindi evidente che in quest'epoca i balestrieri veneziani, per quanto superiori ai tiratori di terraferma, fossero inferiori, sul mare, ai loro competitori genovesi e catalani.
89. G. Soranzo, La guerra, pp. 106-107; ripetuto invio di balestrieri in Chioggia in Antonio S. Minotto, Documenta ad Ferrariam, Rhodigium, Policinum ac marchiones Estenses spectantia, Venetiis 1873,.pp. 130-135, 149.
90. M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 74; altri elementi d'interesse alle pp. 80-81.
91. Marino Sanudo Torsello, Istoria del regno di Romania, in Chroniques gréco-romanes inédites ou peu connues, a cura di Charles Hopff, Berlin 1873, p. 119.
92. Cf. A.A. Settia, "Kremam Kremona cremabit", p. 75; Id., I Milanesi in guerra, pp. 288-289.
93. R. Predelli - A. Sacerdoti, Gli statuti, pp. 180-182; G.L.Fr. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, III, p. 413; Deliberazioni, III, p. 406 (in n.); M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 59.
94. Rispettivamente: Deliberazioni, I, pp. 66 E 113-117; II, Pp. 70 (1280), 213 (1269) e 215 (1274); III, pp. 406-407 (in n.); cf. anche G.B. di Sardagna, Memorie, pp. 240 e 250.
95. Rispettivamente: Deliberazioni, II, pp. 70 e 218; III, pp. 17 e 407 (in n.); M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 50; cf. anche F.C. Lane, La balestra, p. 243.
96. M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, pp. 59 e 70; G.B. Di Sardagna, Memorie, p. 239.
97. Si veda ad esempio Giambattista Verci, Storia della Marca Trivigiana e Veronese, IV, Venezia 1787, doc. 455 (11 gen. 1306), p. 208; Gino Sandri, Gli statuti veronesi del 1276 colle correzioni e le aggiunte fino al 1323, I, Venezia 1940, pp. 690-691 (nelle aggiunte); e infine A.A. Settia, L'esercito comunale vercellese, pp. 335-336 e le nn. 68-69 alle pp. 351-352.
98. Deliberazioni, III, p. 17; M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 50; sulla forma: A.A. Settia, I Milanesi in guerra, pp. 278-279.
99. M. Sanudo Torsello, Istoria del regno di Romania, pp. 104-105.
100. Cf. ad esempio Sante Bortolami, Territorio e società in un comune rurale veneto (sec. XI-XIII). Pernumia e i suoi statuti, Venezia 1978, pp. 102 e 204; Fedele Lampertico, Statuti del comune di Vicenza, MCCLXIV, Venezia 1886, p. 270.
101. Cf. ad esempio Deliberazioni, I, p. 200 (1228): Milites "bene preparati" e pedites "guarniti convenienter"; G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, doc. 182 (1207): milites "decenter armati"; docc. 229 (1211) e 263 (1222): milites "sicut decet" e fanti "sicut convenit".
102. Cf. ad esempio F. Lampertico, Statuti del comune di Vicenza, pp. 263-264, 268-270; Giuseppe Liberali, Gli statuti del comune di Treviso, II, Statuti degli anni 1231-1233 e 1260-1263, Venezia 1951, pp. 49, 240, 271; Andrea Gloria, Statuti del comune di Padova dal secolo XII all'anno 1285, Padova 1873, pp. 76, 127, 252, 392; G. Sandri, Gli statuti veronesi, pp. 155, 680.
103. Rispettivamente: Deliberazioni, I, pp. 113 e 117; R. Predelli - A. Sacerdoti, Gli statuti, pp. 180-181.
104. Rispettivamente: G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, docc. 229 e 263; R. Predelli, Gli statuti, pp. 181-182; Deliberazioni, 11, pp. 21 e 70; III, p. 17; G.B. di Sardagna, Memorie, pp. 240 e 250.
105. Rispettivamente: M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, pp. 57 e 78 (i corazzai sappiano anche fare "arma capitis"): Deliberazioni, III, p. 301; cf. anche F. C. Lane, La balestra, p. 243.
106. Rispettivamente: G.L.Fr. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, II, doc. 169 (1206), p. 18; Deliberazioni, I, pp. 89, 113, 187, 230; Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, II, Torino 1940, doc. 473 (apr. 1205), pp. 12-13; G.L.Fr. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, II, docc. 229 (1211) e 263 (1222).
107. Deliberazioni, I, pp. 66, 92; II pp. 70, 350; III, p. 406 (in n.): R. Predelli - A. Sacerdoti, Gli statuti, p. 180; M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 59. Sulla lameria cf. A.A. Settia, L'esercito comunale vercellese, p. 334 e n. 51 a p. 349.
108. Rispettivamente: Deliberazioni, II, pp. 70 (1280: per il nocchiero): 243-244 (1278): cf. anche, in generale, Jacques Marie J.L. De Mas Latrie, Note des armes existant à l'arsénal de Venise en 1314, "Bibliothèque de l'Ecole des Chartes", 26, 1865, pp. 562-566.
109. Rispettivamente: Deliberazioni, III, pp. 17 (1282) e 406-407 (1295, in n.); cf. anche F. C. Lane, La balestra, p. 241.
110. Rispettivamente: G.B. di Sardagna, Memorie, pp. 240 e 250: "de panceriis [...> lamis vel sub osbergo zupato"; M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 57.
111. Rispettivamente: Deliberazioni, II, p. 70; III, pp. 34 e 406-407 (in n.); G.B. di Sardagna, Memorie, pp. 240, 250; M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 57.
112. Rispettivamente: Deliberazioni, I, p. 124; II, p. 21; III, p. 17; M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 57. Stranamente F. C. Lane, La balestra, p. 243, interpreta i "clipei sclavaneschi" come "tuniche".
113. Per esempio a Firenze: cf. Il libro di Montaperti (a. MCCLX), a cura di Cesare Paoli, Firenze 1889, pp. 94-95 e 375-376.
114. Su di lui cf. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 90 ss.; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 364-365.
115. C. A. Marin, Storia civile, III, p. 233.
116. Cf. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 100-103; G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 367.
117. C. A. Marin, Storia civile, I, pp. 173-174.
118. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 148-154; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 380-381.
119. C. A. Marin, Storia civile, I, pp. 253-254.
120. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 15; F. C. Lane, Storia di Venezia, p. 15.
121. Cf. ad esempio Ercole Ricotti, Sulla milizia dei comuni italiani nel medio evo. Cenni storici, "Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino", ser. II, 2, 1840, pp. 153-154 (pp. 147-176): Id., Storia delle compagnie di ventura, I, Torino 1845, p. 126; Antonio Pertile, Storia del diritto italiano, II, Padova 1880, p. 461; Angelo Angelucci, Il tiro a segno in Italia dalla sua origine ai nostri giorni, Torino 1865, p. 20; Piero Rasi, Gli ordinamenti militari delle milizie cittadine nel periodo comunale, "Annali della Facoltà giuridica. Università degli studi di Camerino", 25, 1959, p. 77 (pp. 75-100).
122. Bianca Tamassia Mazzarotto, Le feste veneziane. I giochi popolari, le cerimonie religiose e il governo, Firenze 1961, p. 41.
123. Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, I, Venezia 1795, p. 122; Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta di Venezia, I, Bergamo 19226, p. 176; B. Tamassia Mazzarotto, Le feste, pp. 40 ss.
124. Per le "antichissime e durissime lotte tra Malamocco e Cittanova" ricordate dalla tradizione storiografica cf. ad es. G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 367-368.
125. Rispettivamente Sancti Aurelii Augustini De doctrina Christiana, a cura di Joseph Martin, Turnholti 1962, p. 159; Agnelli qui et Andreas, Liber pontfiicalis ecclesiae Ravennatis, a cura di Oswald Holder Egger, in M.G.H, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, 1878, p. 361.
126. Per esempio a Gubbio (fra 1130 e 1140), Faenza (1167), Tortona (1155), Bergamo (1179), Modena (1187), Orvieto (1199) e così via: cf., in generale, Aldo A. Settia, "Ut melius doceantur ad bellum": i giochi di guerra e l'addestramento delle fanterie comunali, in AA.VV., La civiltà del torneo (sec. XII-XVII). Giostre e tornei tra medioevo ed età moderna (Narni, 14-16 ottobre 1988), Atti del VII convegno di studio, Narni 1990, pp. 79-105.
127. Anonymi Ticinensis [Opicino de Canistris> Liber de laudibus civitatis Ticinensis, a cura di Rodolfo Maiocchi-Ferruccio Quintavalle, in R.I.S.2, XI, I, 1903, pp. 25-26.
128. Cf. A.A. Settia, " Ut melius doceantur".
129. B. Tamassia Mazzarotto, Le feste, p. 43; cf. anche a p. 36 menzione di "moresche", cioè danze armate, fra due fazioni rivali, combattute con daghe spuntate.
130. Vegeti Epitoma, I, 11 pp. 15-16.
131. V. sopra testo in corrispondenza della n. 76.
132. M. da Canal, Les estoires, pp. 132, 134, 136. V. anche sopra testo in corrispondenza della n. 86.
133. Rispettivamente Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, II, Venezia 1909, p. 178; G.B. Gallicciolli, Delle memorie venete, I, p. 272.
134. A. Danduli Chronica, col. 408.
135. F.C. Lane, La balestra, pp. 244 (e ivi n. 16), 246.
136. M. Roberti, Le magistrature, II, p. 181.
137. Rispettivamente: M. Pozza, Due capitolari, p. 82; P. G. Molmenti, La storia di Venezia, I, p. 170; G. Soranzo, La guerra, p. 149, che tende a datare tali disposizioni al periodo stesso della guerra di Chioggia.
138. Aldo Contento, Il censimento della popolazione sotto la repubblica veneta, "Nuovo Archivio Veneto", 20, 1900, p. 188, doc. 3 (17 giu. 1318) (19, 1899, pp. 5-42, 179-240; 20, 1900, pp. 5-171); M. Pozza, Due capitolari, pp. 82-83.
139. M. Pozza, Due capitolari, pp. 83-85; cf. anche P.G. Molmenti, La storia di Venezia, I, pp. 50-56; Bartolomeo Cecchetti, Le industrie di Venezia, "Archivio Veneto", 4, pt. 2, 1872, pp. 254-255 (pp. 211-257).
140. M. Pozza, Due capitolari, p. 82.
141. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, I, pp. 170-173.
142. V. sopra testo corrispondente alle nn. 94-97.
143. M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 263.
144. Vegeti Epitoma, IV, 43, p. 162.
145. P. G. Molmenti, La storia di Venezia, I, p. 179; B. Tamassia Mazzarotto, Le feste, pp. 51-52.
146. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 82-83; cf. anche F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 23.
147. Deliberazioni, III, p. 196; nel 1292 le multe vennero lievemente ridotte (ibid., p. 324).
148. Rispettivamente: ibid., p. 196; simile proibizione ricorre a Treviso nel 1230: G. Liberali, Gli statuti di Treviso, p. 238. Sulla diffusione di questi esercizi in Italia vedi Thomas Szabo, Das Turnier in Italien, in Das Ritterliche Turnier im Mittelalter, a cura di Joseph Fleckenstein, Geittingen 1985, pp. 352-369.
149. M. da Canal, Les estoires, pp. 129-131 e 329 ss.
150. Bartolomeo Cecchetti, Giocolieri e giuochi antichi in Venezia, "Archivio Veneto", 38, 1889, p. 424 (pp. 423-428); G.B. Gallicciolli, Delle memorie venete, I, p. 231; Ex chronico Iohannis Bembi, in A. Dandolo, Chronica, p. 400.
151. V. avanti testo corrispondente alle nn. 175-184.
152. Luigi Lanfranchi-Gian Giacomo Zille, Il territorio del ducato veneziano dall' VIII al XII secolo, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV crociata, Venezia 1958, p. 47 (pp. 3-65).
153. Paolo Lamma, Venezia nel giudizio delle fonti bizantine dal X al XII secolo, in Id., Oriente e Occidente nell'alto Medioevo. Studi storici sulle due civiltà, Padova 1968, p. 463 (pp. 437-463).
154. M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, pp. 35, 51-52. Per un esempio di guerra indiretta mediante blocco cf. Jean-Claude Hocquet, Il sale e l'espansione veneziana nel Trevigiano (secoli XIII-XIV), in AA.VV., Istituzioni, società e potere nella Marca Trevigiana e Veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G. B. Verci, Roma 1988, pp. 278-285.
155. M. da Canal, Les estoires, pp. 74-78. Tutti i testi disponibili sull'avvenimento sono riuniti in Riccardo Predelli, Documenti relativi alla guerra del fatto del Castello d'Amore, "Archivio Veneto", 30, 1885, pp. 421-447; sui prigionieri H. Zug Tucci, Venezia e i prigionieri, p. 54.
156. M. Sanutus Torsellus, Liber secretorum, p. 52; cf. anche L. de Monacis, Chronicon, p. 267 e G. Soranzo, La guerra, p. 149 (che riportano le parole del Torsello senza citarlo).
157. Anne Comnène, Alexiade, I, a cura di Bernard Leib, Paris 1967, p. 148.
158. Monachus Anonymus Littorensis, Historia de translatione sanctorum magni Nicolai, in Recueil des historiens des croisades. Historiens occidentaux, V, Paris 1895, p. 276.
159. Boncompagni Liber de obsidione Ancone, a cura di Giulio C. Zimolo, in R.I.S.2, VI, 3, 1937, pp. 13-15, 18-19.
160. G. De Villehardouin, La conquéte, I, pp. 84-86; R. di Clari, La conquista, p. 139.
161. G. De Villehardouin, La conquéte, I, pp. 162-164, 170-178; II, pp. 32-46; R. di Clari, La conquista, pp. 179, 202-203, 206-208.
162. Rispettivamente: G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, doc. 169, p. 18; A.S.V., Libri commemoriali, XVI, c. 168v (g aprile 1260): concessione della contea di Veglia al conte Schinella
e ai figli del conte Guidone; G. Luzzatto, I più antichi trattati, doc. 7 (g giu. 1228), pp. 51-52.
163 M. da Canal, Les estoires, pp. 98 ss.; ma e£ il giudizio limitativo di Roberto Cessi, Venezia nel Duecento: tra oriente e occidente, Venezia 1985, pp. 133-134.
164. V. sopra la n. 68.
165. M. da Canal, Les estoires, rispettivamente pp. 113
e 74-78.
166. Anonymus Littorensis, Historia, p. 255.
167. Cf. sopra, testo corrispondente alle nn. 147-151; v. anche Gina Fasoli, "Comune Veneciarum", in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli del 1204, Firenze 1965, pp. 80-81 e 100 n. 19 (pp. 73-102).
168. G. De Villehardouin, La conquéte, I, pp. 180-182; R. di Clari, La conquista, p. 183.
169. G. de Villehardouin, La conquéte, II, rispettivamente pp. 144-146, 160, 174, 194, 214, 226-228, 230, 250.
170. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, rispettivamente docc.: 160 (ott. 1205), pp. 572-573; 257 (10 dic. 1219), pp. 218-219; 182 (lug. 1207), p. 56; 229 (sett. 1211), pp. 129-136; 263 (giu. 1222), pp. 234 ss.; 322 (29 apr. 1252), pp. 470 ss.
171. M. da Canal, Les estoires, p. 318.
172. Sulla condizione sociale dei milites cf. G. Cracco, Società e stato, pp. 60, 108-109; v. inoltre le osservazioni di R. Cessi, Venezia nel Duecento, pp. 242-243 e di Salvatore Cosentino, Aspetti e problemi del feudo veneto-cretese (sec. XIII-XIV), Bologna 1987, p. 51.
173. S. Borsari, Il dominio veneziano, pp. 85-86.
174. Anonymus Littorensis, Historia, p. 262. Su tale fonte occorre tener conto di Agostino Pertusi, Ai confini fra religione e politica. La contesa per le reliquie di s. Nicola tra Bari, Venezia e Genova, "Quaderni Medievali", 5, 1978, pp. 48-56.
175. Historia ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, pp. 73 (a. 1102), 76 (a. 1156); Annales Venetici breves, ibid., p. 71 (aa. 1115 e 1122). Su "militaris et navalis exercitus" v. L. Lanfranchi, Famiglia Zusto, doc. 8 (nov. 1121), pp. 26-27.
176. Anonymus Littorensis, Historia, p. 255; il contesto consiglia di intendere exercitus come entità differenziata rispetto alla flotta.
177. Così ad esempio Landulphus Senior, Mediolanensis historiae libri quatuor, a cura di Alessandro Cutolo, in R.I.S.2, IV, 2, 1942, p. 50: "boni milites" distinti da "strenuissimi cives"; cf. anche A.A. Settia, I Milanesi in guerra, pp. 266-267.
178. M. da Canal, Les estoires, p. 164.
179. Rispettivamente sopra testo corrispondente alle nn. 171 e 175.
180. Antonio Carile, La cronachistica veneziana (secoli XIII-XVI) di fronte alla spartizione della Romania nel 1204, Firenze 1969, pp. 334-335, 395.
181. Anonymus Littorensis, Historia, pp. 260-261.
182. Cf. sopra testo corrispondente alla n. 174.
183. G. de Villehardouin, La conquête, II, pp. 160 e 168, 226-228 con il commento del curatore alla n. 4 di p. 161.
184. M. da Canal, Les Estoires, pp. 313-318; cf. anche L. de Monacis, Chronicon, pp. 255-256, e M. Sanudo Torsello, Istoria, p. 154; v. inoltre G. Cracco, Società e stato, p. 260.
185. M. Sanudo Torsello, Istoria, pp. 133-134.
186. Iulianus Canonicus Civitatensis, Chronica (a. 1252-1364), a cura di Giovanni Tambara, in R.I.S.2, XXIV, 14, 1906, pp. 22-23.
187. L. de Monacis, Chronicon, p. 262.
188. Deliberazioni, III, p. 43; cf. anche G. Cracco, Società e stato, p. 339.
189. V. sopra testo in corrispondenza della n. 41. Per questa parte del lavoro sono debitore di importanti suggerimenti e consigli al collega Mario Gallina che vivamente ringrazio.
190. S. Borsari, Il dominio veneziano, pp. 28-29, 38; dall'organizzazione in sestieri fu esclusa la città di Candia con la zona vicina, rimaste sotto la diretta amministrazione del comune di Venezia.
191. Rispettivamente: G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, docc. 229, 233, 284, 322; S. Borsari, Il dominio veneziano, pp. 29, 40, 43, 45-46; S. Cosentino, Aspetti, pp. 15, 46-47. V. inoltre, in generale, Mario Gallina, Vicende demografiche a Creta nel corso del XIII secolo, Roma 1984.
192. G.L.Fr. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, II, doc. 229, pp. 131-133.
193. Ibid., docc. 229, 230, 263.
194. Ibid., doc. 322; cf. anche Ernst Gerland, Das Archiv des Herzogs von Kandia, Strassburg 1899, p. 78 (a. 1232), che riassume all'incirca le stesse disposizioni; E. Favaro, Cassiere della Bolla, doc. 491 (a. 1304), p. 114.
195. Come notano anche A. Carile, Alle origini, p. 286 e S. Cosentino, Aspetti, p. 51.
196. Cf. ad esempio, oltre a quanto citato sopra alla n. 80, Piero Pieri, Federico II di Svevia e la guerra del suo tempo, "Archivio Storico Pugliese", 13, 1960, pp. 118-123 (pp. 114-131); v. anche sopra la n. 43.
197. G.L.Fr. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, II, doc. 279 (3 mag. 1231), pp. 293-294.
198. Cf. Pietro Sella, Glossario latino italiano. Stato della Chiesa, Veneto, Abruzzi, Città del Vaticano 1944, p. 282, s.v. guarnamentum.
199. E. Gerland, Das Archiv, p. 79; S. Cosentino, Aspetti, pp. 21 e 51 (solo nel '300 sarà ridotta a 3 mesi).
200. Deliberazioni, II, p. 340; Paolo Ratti Vidulich, Duca di Candia. Bandi (1313-1329), Venezia 1965, docc. 18 (21 feb. 1314), p. 12; 39 (15 lug. 1314), p. 20; 95 (10 lug. 1315), p. 36; 314 (3o ag. 1321); S. Cosentino, Aspetti, p. 22 (specialmente per il sec. XIV).
201. V. sopra testo corrispondente alla n. 49, e S. Cosentino, Aspetti, pp. 23-24.
202. V. ad esempio P. Ratti Vidulich, Duca di Candia, docc. 306 (18 ag. 1321), p. 115; 433 (28 ott. 1327), pp. 175-176; 456 (14 ott. 1328), p. 187; 471 (8 mag. 1329), pp. 193-194.
203. E. Gerland, Das Archiv, pp. 115-116 (1224); per la menzione dei socii, sopra testo corrispondente alla n. 194.
204. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, III, doc. 360 (1° apr. 1269), pp. 111-112, e cf. P. Ratti Vidulich, Duca di Candia, docc. 306 (18 ag. 1321), p. 115; 471 (8 mag. 1329), pp. 193-194.
205. L. de Monacis, Chronicon, p. 159; cf. anche S. Cosentino, Aspetti, p. 24.
206. Deliberazioni, III, p. 354; altro invio di materiale militare a Candia nel 1299 (ibid., p. 447); sul servizio di guardia e la possibilità di esserne dispensati a pagamento Freddy Thiriet, Régestes des déliberations du Sénat de Venise concernant la Romanie, I, Paris-La Haye 1958, nr. 410 (8 giu. 1363).
207. L. de Monacis, Chronicon, p. 162: "eliguntur armigeris de omnibus cavalariis; Marcus Venerio et Antonius Quirino eliguntur et equitant cum exercitu ultra scalas"; cf. anche ibid., p. 160.
208. E. Gerland, Das Archiv, pp. 100-101.
209. Ibid., pp. 111-112; P. Ratti Vidulich, Duca di Candia, docc. 183 (3 feb. 1318), p. 66; 186 (20 feb. 1318), p. 67; Freddy Thiriet, Délibérations des assemblées vénitiennes concernant la Romanie, I, Paris 1966, docc. 5 (3 gen. 1301), p. 80; 53 (10 apr. 1302), p. 95.
210. S. Borsari, Il dominio veneziano, pp. 33, 37-38, 41-42.
211. A. Dandolo, Chronica, pp. 320, 326; M. da Canal, Les estoires, pp. 338, 346; L. de Monacis, Chronicon, p. 160; S. Borsari, Il dominio, pp. 52-53, 58-61; R. Cessi, Venezia nel Duecento, p. 263.
212. Rispettivamente: G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, docc. 263, p. 263; 322, p. 473; 235 (a. 1213), p. 161; III, doc. 389 (4 apr. 1299), pp. 380-381; per l'approvvigionamento di cavalli negli stati non ottomani della Turchia cf. Elisabeth A. Zachariadou, Trade and Crusade: Venetian Crete and the Emirates of Menteshe and Aydin, 1300-1415, Venezia 1983, pp. 165-166.
213. Rispettivamente: Deliberazioni, II, pp. 413 (1274), 340 (1259); III, p. 236 (1289); P. Ratti Vidulich, Duca di Candia, doc. 379 (2 sett. 1324), p. 146.
214. S. Borsari, Il dominio, pp. 22, 33, 35, 44.
215. Ad esempio Suda nel 1228, Selino nel 1286 (S.
Borsari, Il dominio, pp. 40-41, 55); Deliberazioni, II, pp. 343 (1274), 345 (1279).
216. E. Gerland, Das Archiv, pp. 78-79; P. Ratti Vidulich, Duca di Candia, doc. 314 (30 ag. 1321), p. 117.
217. Rispettivamente: E. Gerland, Das Archiv, pp. 102-107; L. de Monacis, Chronicon, p. 162; cf. anche S. Cosentino, Aspetti, pp. 21-25.
218. Cf. S. Cosentino, Aspetti, pp. 40-44.
219. Alessandro Lattes, Il "Liber potheris" del comune di Brescia, "Archivio Storico Italiano", ser. V, 29, 1902, p. 273 (pp. 228-307), con le fonti ivi citate.
220. Giampaolo Cagnin, I primi secoli di Castelfranco Veneto:evoluzione urbanistica ed organizzazione sociale, in città murate del Veneto, a cura di Sante Bortolami, Cinisello Balsamo 1988, p. 176 (pp. 155-180).
221. A.S. Minotto, Documenta, pp. 14-16 (26 mag. 1219).
222. Alcune forme di contatto tra Venezia e la terra ferma sono studiate da Gerhard Rösch, La nobiltà veneziana nel Duecento: tra Venezia e la Marca, in AA.VV., Istituzioni, società e potere nella Marca Trevigiana e Veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G. B. Verci, Roma 1988, pp. 263-270; Marco Pozza, Podestà e funzionari veneziani a Treviso e nella Marca in età comunale, ibid., pp. 291-303, e Lesley A. Ling, La presenza fondiaria veneziana nel Padovano (secoli XIII-XIV), ibid., pp. 305-320. Per i precedenti di organizzazione militare nell'Italia padana basti qui rinviare ai cenni contenuti in A.A. Settia, Castelli e villaggi, pp. 160-161.
223. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, doc.
322 (21 apr. 1252), pp. 470 ss.
224. Sull'esigenza di studiare Venezia in rapporto con i comuni dell'entroterra cf. G. Cracco, Società e stato, pp. 69 e 127.