L’Aquila
Tornare a volare
La ricostruzione dell’Aquila
di Luciano Marchetti
6 aprile
Oltre 25.000 persone prendono parte a quattro lunghi cortei con fiaccolata che attraversano le poche strade aperte del centro dell’Aquila e raggiungono piazza Duomo, dove alle 3.32, a un anno esatto dal sisma, le campane della chiesa delle Anime Sante suonano 308 rintocchi, uno per ognuna delle vittime. Nei 12 mesi trascorsi, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ha registrato 18.000 scosse nella zona dell’aquilano, che è tuttora interessata da un’attività sismica a livelli di aftershock, con alcuni eventi al giorno provocati dal sisma principale.
Il terremoto del 6 aprile 2009
La Terra è caratterizzata da una struttura fortemente disomogenea, essendo costituita da una serie di elementi concentrici (nucleo interno, nucleo esterno, mantello e crosta (molto diversi tra loro per tessitura, composizione, densità e temperatura. Essa si qualifica pertanto come un’entità fisica in continua modificazione, soprattutto per effetto dei movimenti di materiale fluido (moti convettivi) attraverso cui il calore del nucleo si propaga verso l’esterno, fino a interessare gli strati più superficiali della crosta terrestre quali l’astenosfera e la soprastante litosfera. Quest’ultima è formata da un insieme di blocchi disgiunti (zolle litosferiche), che per azione dei moti convettivi sono in reciproco movimento, allontanandosi, collidendo o scivolando l’uno sotto l’altro, fenomeni macroscopicamente responsabili della cosiddetta deriva dei continenti. Le spinte e le interazioni relative a questi spostamenti sono causa di forti tensioni in corrispondenza delle superfici di rottura (faglie), energia elastica che superati certi limiti è violentemente rilasciata sotto forma di onde sismiche, deformazioni permanenti del suolo e calore.
Il terremoto tettonico consiste appunto in una serie di treni d’onda che dalla frattura si propaga nella regione circostante, fenomeno che nella fase più violenta ha solitamente una durata di 10-20 secondi (1-2 minuti nel caso di terreni morbidi). Questo tipo di sisma è quello di gran lunga più diffuso e frequente. Un altro tipo di terremoto è quello vulcanico, essenzialmente connesso al moto e all’emissione di magma; un sisma costiero o sottomarino può spesso risolversi in un maremoto, altrimenti noto come tsunami. Le cause dei terremoti sono rimaste sconosciute all’uomo per millenni, diventando in qualche misura più chiare solo dalla seconda metà dell’Ottocento. È del 1935 l’introduzione della scala di magnitudo Richter, basata sulla misura strumentale del moto del suolo.
Nelle sue manifestazioni più violente, il terremoto è quindi causa di profonde alterazioni della morfologia territoriale e dell’ecosistema, ma anche di catastrofici effetti sul genere umano, in particolare su quello a più elevata organizzazione sociale e aggregativa. Vivendo per oltre un terzo in regioni ad apprezzabile rischio sismico, la popolazione mondiale si trova largamente esposta all’eventualità di fenomeni tellurici, capaci di minarne profondamente tutti i fattori esistenziali, da quelli materiali, economici e civili, a quelli personali, affettivi e relazionali. Non meno gravi sono gli effetti che i terremoti producono in ambito storico e culturale, arrivando spesso a compromettere la memoria fondante di ogni comunità.
Al momento della ricostruzione, l’uomo è solito fare tesoro degli esiti sismici per migliorare le tecniche edilizie. Una evoluzione secolare che tuttavia ha spesso mancato di continuità e progressione, contrariamente a quanto è invece avvenuto in altri ambiti scientifici come la medicina, la meccanica o l’elettricità. Il carattere fortemente imprevedibile e irregolare dei terremoti (i più catastrofici dei quali hanno in genere una periodicità di 100, 150 o 200 anni (ha comportato una sensibile riduzione della consapevolezza dei rischi sismici, con inevitabili riflessi sulla qualità costruttiva degli edifici. Talvolta sono bastate poche generazioni perché gli insegnamenti dei terremoti cadessero nel dimenticatoio, una realtà molto frequente nella storia della nostra penisola e che ha notevolmente accresciuto la vulnerabilità del patrimonio edilizio più antico o datato, compreso quello del primissimo Novecento.
Le considerazioni fatte sono molto importanti per definire la natura, le caratteristiche e gli effetti del sisma che il 6 aprile 2009 ha interessato L’Aquila e ampia parte del territorio circostante. Si è trattato di un sisma con magnitudo MW (magnitudo del momento sismico) pari a 6,3 (ML, magnitudo locale, di 5,9), intensità di tipo medio-alta e quindi inevitabilmente a carattere distruttivo, soprattutto in considerazione dell’elevata presenza di edificato antico, più specificamente religioso, difensivo, monumentale e civile. L’area interessata è da sempre a elevato rischio sismico, particolarmente quella della città dell’Aquila, la cui storia riporta fin dall’antichità una consistente e devastante serie di terremoti, segnatamente quelli del 1315, 1349, 1461, 1703, 1706, 1915 e 2009. Una periodicità quindi sostanzialmente in linea con la media dei sismi tettonici più violenti, non diversamente da altre zone telluriche del paese.
La forte instabilità del comprensorio aquilano è testimoniata anche dalle oltre 18.000 scosse registrate nei dodici mesi successivi al terremoto del 2009, 13 delle quali con magnitudo superiore a 4,0. Sotto l’aspetto umano, il tributo pagato al sisma è stato tra i più alti di questi ultimi anni della vita nazionale: 308 morti, 1500 feriti e oltre 68.000 senzatetto.
Il terremoto ha colpito una città capoluogo di Regione, L’Aquila, caratterizzata da un centro storico tra i più estesi d’Italia, ricco di monumenti e di storia, ma anche fulcro della vita istituzionale, economica, sociale e culturale dell’intero territorio circostante. Dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria, è la prima volta che un fenomeno tellurico ha colpito una città di dimensioni medio-grandi con effetti così drammatici e catastrofici.
Benché concentrati particolarmente sull’Aquila e il relativo circondario, gli effetti del terremoto e dei fenomeni tellurici susseguenti hanno interessato anche centri di altre zone della Provincia e della Regione abbastanza distanti dall’epicentro principale. Oltre che nel capoluogo, gli esiti più disastrosi si sono registrati nei territori della Valle dell’Aterno, nei centri storici di Castelnuovo, Paganica, Onna, Villa Sant’Angelo, Sant’ Eusanio Forconese e Fossa. I danni al patrimonio monumentale sono risultati ingenti anche a distanze maggiori dall’epicentro, in presenza di intensità relativamente basse, a conferma della particolare vulnerabilità degli edifici religiosi e storici.
A differenza di altri sismi nazionali che hanno riguardato territori più vasti e centri di dimensioni più ridotte, quello aquilano ha prodotto esiti soprattutto in aree molto ristrette e a elevato tasso abitativo, finendo per compromettere larga parte dell’edilizia civile e dei complessi ospitanti le strutture pubbliche e amministrative, molte delle quali ubicate in edifici monumentali plurisecolari: nel caso dell’Aquila, la Prefettura, il Municipio, la Soprintendenza del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC), il Museo nazionale, la Biblioteca provinciale e settori importanti della Regione, della Provincia, dell’Università e della scuola. Il patrimonio religioso ha subito danni estremamente gravi e macroscopici, benché nel complesso di portata minore rispetto ai palazzi monumentali, fatti salvi alcuni casi oltremodo distruttivi.
La messa in sicurezza degli edifici
Il sisma aquilano ha determinato l’esigenza di mettere in sicurezza un elevatissimo numero di beni storici e artistici, molti dei quali bisognosi di interventi particolarmente complessi e appropriati, con grande impiego di risorse umane, tecniche ed economiche. A tale scopo, la Protezione Civile ha immediatamente provveduto a centralizzare l’attività complessiva di salvaguardia del patrimonio culturale, istituendo una funzione specifica denominata ‘salvaguardia dei Beni Culturali’. Ai primi di maggio, la catena decisionale è stata resa ancora più rapida e operativa attraverso la nomina di un vicecommissario delegato per la tutela dei Beni Culturali nella persona di chi scrive (art. 2, ordinanza n. 3761 del 1° maggio 2009), funzionalmente affiancato da nuclei specializzati del MiBAC e da singoli esperti del settore. La struttura si è avvalsa a sua volta del supporto dei Vigili del Fuoco, di molte Università facenti capo alla rete dei Laboratori universitari di Ingegneria sismica (Consorzio ReLUIS) e di centri di ricerca quali l’Istituto per le tecnologie della costruzione del Consiglio nazionale delle ricerche dell’Aquila (ITC-CNR). Contestualmente sono state coinvolte diverse associazioni di volontari (Legambiente, Misericordie ecc.) per la salvaguardia e la messa in sicurezza dei beni mobili più a rischio di deperimento, sottrazione o vandalismo, predisponendone il ricovero in luoghi idonei e protetti, nel rispetto dei protocolli MiBAC per il trasporto e la conservazione delle opere d’arte, operazioni in cui hanno spesso avuto un essenziale ruolo di scorta i Carabinieri del Comando tutela patrimonio culturale.
L’emergenza ha visto la messa in campo di esperienze e strategie acquisite nei sismi nazionali precedenti, in particolare del Friuli (1976), dell’Irpinia (1980), dell’Abruzzo (1984), della Basilicata (1990), di Reggio Emilia (1996), dell’Umbria e Marche (1997-1998), del Pollino (1998) e del Molise (2002), fermo restando il presupposto dell’unicità di ogni evento tellurico, soprattutto nel caso di insediamenti a elevato valore monumentale.
All’indomani del sisma, come prima cosa si è proceduto alla ricognizione del patrimonio colpito, operazione particolarmente ardua dal momento che l’archivio della Soprintendenza dell’Aquila era collocato presso il Forte Spagnolo, un complesso rimasto fortemente danneggiato e pertanto di rischiosa accessibilità. La compilazione del catalogo è avvenuta inizialmente sulla scorta delle informazioni del MiBAC, della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici (BAP) dell’Aquila e delle fonti bibliografiche. Il catalogo è stato poi aggiornato secondo le indicazioni dei tecnici verificatori e degli stessi proprietari dei beni (Comuni, enti, parrocchie e privati cittadini).
Il quadro informativo sul danno subito dai beni monumentali è stato quindi approfondito attraverso la compilazione delle schede di rilevamento, strumenti di indagine caratterizzati da un’impostazione fortemente standardizzata, e per questo in grado di fornire sintetiche e tempestive indicazioni anche nei riguardi delle messe in sicurezza. Distinte per chiese e palazzi, le schede di rilievo del danno consentono l’esatta identificazione, localizzazione e descrizione del bene, l’individuazione degli eventuali beni artistici presenti e dei relativi danni, la definizione delle caratteristiche geometriche e tipologiche, la descrizione del danno relativo agli elementi strutturali e non strutturali presenti, il riconoscimento del comportamento sismico, l’individuazione di condizioni di rischio connesse al terreno e al contesto generale esterno, la valutazione di stime economiche per il ripristino e il miglioramento sismico dell’edificio, l’indicazione dell’esito di agibilità e degli eventuali provvedimenti di pronto intervento necessari.
L’individuazione del danno ha comportato il riconoscimento dei meccanismi di collasso attivabili o già attivati dall’evento sismico su porzioni dell’edificio in muratura. Un’attenzione particolare è stata riservata all’analisi degli interventi che le strutture hanno subito in tempi recenti (è il caso della frequente sostituzione delle originarie coperture in legno con pesanti strutture in cemento armato, spesso mal correlate alle restanti porzioni dell’edificio (e alle loro eventuali connessioni e interazioni con le tipologie di danno che si sono manifestate. Grande attenzione è stata riservata alle carenze strutturali della muratura, spesso conseguenti alle opere di riparazione e ricostruzione eseguite dopo i maggiori eventi sismici del 15° e del 18° secolo. Aspetti questi di cui si è adeguatamente tenuto conto nei successivi interventi provvisionali, per esempio attraverso la stabilizzazione delle tessiture murarie sbrecciate o degli elementi di cemento armato strutturalmente danneggiati.
Parallelamente alle attività di rilievo dei danni si è dato avvio alle operazioni di messa in sicurezza degli edifici monumentali. L’emergenza ha fornito l’occasione per sperimentare un nuovo metodo provvisionale per gli immobili danneggiati, un procedimento che attraverso le indicazioni delle schede di rilevamento ha consentito di stabilire in chiave territoriale gli interventi più opportuni per contrastare i meccanismi di collasso provocati dall’azione tellurica. Già delineato nella gestione dell’emergenza post-terremoto dell’Umbria e Marche del 1997-98 e del Molise del 2002, questo metodo si è avvalso del coinvolgimento sinergico di un ingegnere strutturista, di un funzionario di Soprintendenza e di una o più squadre dei Vigili del Fuoco.
Il gruppo di lavoro ha provveduto a gestire i dati raccolti in un’ottica prettamente territoriale, progettando e gestendo le messe in sicurezza sulla base di indirizzi ben precisi. In ogni intervento si sono tenuti nel massimo conto l’efficacia conservativa, il rispetto delle caratteristiche strutturali dell’edificio e la semplicità e l’economicità realizzativa, evitando altresì soluzioni provvisionali a contrasto con gli edifici vicini, o troppo debordanti verso le sedi stradali a discapito della circolazione, oppure che fossero di impedimento nel successivo restauro.
La messa in sicurezza degli edifici (anche di rilevanti dimensioni (è stata realizzata esclusivamente con piattaforme aeree, senza l’uso del macchinoso e costrittivo metodo dei ponteggi, che tra l’altro avrebbe comportato la rischiosa presenza di operatori in prossimità delle strutture danneggiate. Gli interventi più urgenti o di medio impegno (cerchiaggi, puntellamenti limitati, bonifiche ecc.) sono stati eseguiti dai Vigili del Fuoco, mentre si è ricorso per i casi più difficili e complessi a imprese esterne specializzate.
È prevalsa comunque la scelta di preservare indiscriminatamente tutte le strutture, anche quelle danneggiate ben oltre il limite di recuperabilità, dal momento che qualsiasi intervento di ricostruzione migliora la sua corrispondenza all’originale quanto più ingloba parti del manufatto d’origine: un caso emblematico è quello della cupola di Santa Maria del Suffragio, opera dell’architetto Giuseppe Valadier. A esclusione di pochi interventi dettati da finalità anche funzionali e simboliche, come la copertura della Basilica di Santa Maria di Collemaggio, le messe in sicurezza hanno sempre rispettato un criterio di assoluta priorità, rivelandosi come una vera e propria lotta contro le recrudescenze sismiche e le avversità meteorologiche.
Il rilievo dei danni
La necessità di sintetizzare razionalmente i dati raccolti si è concretizzata nell’elaborazione di un sistema territoriale georeferenziato (GIS, Geographical Information System) sulla base della Carta tecnica regionale, mediante la restituzione in mappa dei beni culturali oggetto dei sopralluoghi a partire dalla documentazione contenuta nelle schede di rilievo. È un sistema che permette l’immediata localizzazione di ciascun oggetto e la contestuale visualizzazione in mappa di tutte le informazioni a esso associate. Fondamentale per la gestione della prima fase di emergenza, tale strumento costituisce il principale riferimento per la programmazione della successiva fase di ricostruzione, rappresentando una sintesi aggiornata di tutte le conoscenze disponibili sui beni culturali del territorio. Il completamento delle operazioni di rilievo del danno ha permesso di valutare più in dettaglio le caratteristiche e le condizioni dell’edificato censito. Per quel che riguarda le condizioni di agibilità, su 1800 edifici rilevati, 925 sono risultati completamente inagibili (51% del totale), 440 parzialmente inagibili (25%) e soltanto 435 pienamente agibili (24%).
Le schede di rilievo del danno hanno fornito lo spunto per una serie di importanti approfondimenti nel campo della risposta sismica degli edifici monumentali, progetto che si è concretizzato nell’individuazione di circa 60 casi emblematici definiti ‘casi di studio’. L’iniziativa, che ha visto la partecipazione dei migliori esperti nazionali e dei principali Dipartimenti universitari di ingegneria sismica ed enti di ricerca, ha prodotto interessanti spunti di riflessione e di confronto riguardo le conoscenze del comportamento sismico degli edifici monumentali, fornendo anche interessanti indicazioni per i successivi interventi di recupero e consolidamento. Le analisi, le considerazioni e i risultati dei casi di studio hanno trovato fruibile e condivisibile esposizione in uno specifico sito Internet ospitato e gestito dall’ITC-CNR.
Gli obiettivi delle ricerche hanno riguardato principalmente l’interpretazione dei meccanismi attivati dai terremoti, l’analisi critica dell’efficacia degli interventi di consolidamento eventualmente presenti e la formulazione di proposte finalizzate al miglioramento conservativo e sismico, attività di studio che hanno visto l’impiego di metodologie di rilievo particolarmente innovative e sofisticate come la tecnologia laser scanner e il rilevamento fotografico tridimensionale ad alta definizione. I dati acquisiti hanno permesso la restituzione di elaborati sia tecnici sia multimediali di grandissima portata informativa.
Alcuni importanti monumenti, tra i quali la chiesa di Santa Maria del Suffragio, la Basilica di Santa Maria di Collemaggio e il Forte Spagnolo, sono stati e restano oggetto di un continuo monitoraggio strutturale di tipo elettronico. Svolto in collaborazione con diverse università e centri di ricerca, tale controllo è in grado di evidenziare momento per momento lo stato e le eventuali evoluzioni del danno (inneschi di incipienti meccanismi di collasso, concentrazioni di sforzo ecc.). Le informazioni raccolte andranno a integrare i dati dell’assetto statico dell’immobile, consentendo di individuare le soluzioni di restauro più idonee ed efficaci.
Gli interventi di recupero
Il terremoto ha prodotto gravissime conseguenze al patrimonio artistico mobile, imponendo fin dalla prima fase dell’emergenza un vasto e impegnativo programma di recupero, trasporto e conservazione dei beni danneggiati, o più in generale ubicati presso edifici rimasti compromessi. In mancanza di sufficienti garanzie di sicurezza dei locali, i beni artistici sono stati trasferiti in centri di raccolta appositamente individuati in funzione delle urgenze e del futuro restauro. Le opere di proprietà ecclesiastica hanno trovato valido ricovero in un capannone messo a disposizione dalla Curia aquilana, oltre che in alcuni locali della caserma della Guardia di Finanza di Coppito, mentre le collezioni del Museo nazionale d’Abruzzo, sito nel Forte Spagnolo, sono state convogliate principalmente nel Museo preistorico d’Abruzzo di Paludi-Celano, sotto le cure del personale dell’Istituto superiore di conservazione e restauro di Roma e dell’Opificio delle pietre dure di Firenze. In alcuni Comuni, l’obiettivo di assicurare nel tempo una relazione continuativa tra le comunità locali e i relativi beni ha consigliato il ricorso a soluzioni di ricovero sul posto.
Quando possibile, si è preferito lasciare i beni artistici direttamente in situ, così da scongiurare possibili traumi legati alla loro rimozione, movimentazione e delocalizzazione. È il caso dei dipinti murali e dei decori plastici non interessati da crolli, che sono stati oggetto di operazioni di salvaguardia quali la velinatura, la sigillatura di bordi e fessure, il distacco e la riadesione di piccoli frammenti, la realizzazione di controforme di sostegno ecc.
Nella rimozione delle macerie è stata applicata una metodica prettamente archeologica, con la duplice finalità di recuperare tutti gli elementi architettonici e di documentare al meglio la dinamica dell’azione distruttiva, come per esempio nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, nella chiesa di Santa Maria di Paganica e nella rettoria di Santa Maria del Suffragio. All’inizio, le condizioni particolarmente disastrose degli edifici sacri e l’indifferibilità delle opere provvisionali non hanno consentito il tempestivo recupero dei frammenti affrescati a terra. La successiva costituzione di uno speciale gruppo operativo per le emergenze sui beni culturali ha tuttavia permesso interventi anche di questo tipo, come nel caso dei frammenti dei dipinti murali della chiesa di San Silvestro.
A un anno dal sisma, le attività operative della struttura del vicecommissario delegato per la tutela dei Beni Culturali sono esemplificabili attraverso i seguenti dati: 1045 rilievi di chiese, 700 rilievi di palazzi storici, 200 opere provvisionali, 3609 schede di rilievo di beni mobili, 4997 beni artistici mobili recuperati, 400.000 libri salvati. In molti casi si è trattato di interventi tecnicamente all’avanguardia e di elevatissima valenza simbolica, come per la messa in sicurezza e copertura della Basilica di Santa Maria di Collemaggio e della cupola di Santa Maria del Suffragio.
Per meglio rispondere alle tante manifestazioni di generosità nazionale e internazionale, il MiBAC ha attivato una strategia delle adozioni finalizzata al restauro di 45 monumenti simbolo della regione colpita dal sisma, nella prospettiva di poter celermente riconsegnare alle comunità le opere di particolare significato artistico e devozionale. A essere privilegiato è stato soprattutto il centro storico dell’Aquila, con l’inserimento in elenco delle chiese ‘capoquarto’, quindi delle chiese e dei complessi monumentali di grande rilevanza, infine dei palazzi maggiormente rappresentativi. La selezione ha incluso anche diversi monumenti con elevato significato territoriale, nonché una consistente lista di beni mobili artistici e religiosi.
I primi interventi di recupero hanno riguardato gli edifici di culto: in accordo con la Commissione episcopale italiana è stato varato il progetto Una chiesa per Natale, teso a individuare (nell’ambito di ogni parrocchia (una chiesa con livelli di danneggiamento tali da consentirne il ripristino e la riapertura al culto per il Natale 2009. La selezione ha incluso 73 chiese uniformemente distribuite nell’ambito delle varie diocesi, per 63 delle quali è stato possibile condurre a termine i lavori in tempo utile.
Linee guida per la ricostruzione
L’approssimarsi della fase ricostruttiva rende necessarie alcune essenziali valutazioni sui criteri e le modalità di corretto ripristino, soprattutto alla luce del carattere fortemente ricompreso e addensato del patrimonio oggetto di danneggiamenti. Contrariamente ad altri sismi a più marcato dispiegamento territoriale, come per esempio quello umbro-marchigiano, il terremoto del bacino aquilano ha prodotto i suoi effetti soprattutto in aree molto concentrate e a elevato tasso edificatorio. Ciò non consentirà di effettuare ristrutturazioni monumentali se non in forma sincrona e coerente con il patrimonio circostante, per comprensibili ragioni esecutive oltre che per la successiva accessibilità e fruizione.
La contemporaneità degli interventi ricostruttivi dovrà naturalmente avvenire sulla scorta di metodiche di intervento opportunamente calibrate, particolarmente nel caso di monumenti andati quasi completamente distrutti, e pertanto suscettibili più di una costruzione ex novo che di un vero e proprio restauro. In questo senso appare emblematico il caso del nuovo Teatro Petruzzelli di Bari, un tipo di intervento non da tutti condiviso, avendo portato alla ricostruzione solo formale del bene originario. A tale proposito va detto che nella messa in sicurezza del patrimonio monumentale, il MiBAC si è fatto obbligo della preservazione indiscriminata di ogni sia pur minimo reperto, in modo da evitare possibili condizionamenti nelle successive metodiche di restauro.
Alla luce di quanto esposto, l’emergenza aquilana è chiaramente da ritenersi la più complessa, impegnativa e costosa operazione ricostruttiva nella storia degli eventi sismici in Italia. Un’impresa che dovrà vedere un pieno coinvolgimento di tutti i soggetti parti in causa: le istituzioni, la società civile organizzata, la cultura, l’economia, la ricerca e, soprattutto, la cittadinanza. Uno sforzo comune e condiviso da cui dovranno scaturire presupposti, linee guida e metodiche operative capaci di ricostruire L’Aquila e i centri vicini nel massimo rispetto dei loro elementi fondanti e connettivi. Riportare questa perla dell’arte e dell’architettura al suo pieno vissuto secolare è un traguardo segnato, anche se con tempi lunghi e psicologicamente estenuanti.
Molto si è detto e molto ancora si dibatterà sugli orientamenti da seguire nella ricostruzione. Il recente passato dell’Italia annovera tre importanti esempi di ricostruzione, conseguenti ai terremoti del Friuli (1976), dell’Irpinia (1980) e dell’Umbria e Marche (1997-98), caratterizzati da altrettanti modelli tecnico-operativi e funzionali.
In Friuli, la ricostruzione ha dato ampio spazio all’iniziativa dei cittadini, seppure dietro stimolo e guida delle istituzioni: in primis i Comuni, ai quali è stata indirizzata ampia parte dei contributi stanziati dalle leggi nazionali e regionali. Il ‘modello Friuli’ ha riservato particolare attenzione al sostegno delle attività economiche e produttive (famoso lo slogan «prima le fabbriche e poi le case»), ritenendole di fondamentale importanza per un’efficace ripresa sociale e materiale del territorio. Durata circa 15 anni, la ricostruzione ha permesso di riportare a nuova vita paesi rimasti quasi completamente distrutti dal terremoto, mantenendo quanto più possibile integri i luoghi, le tradizioni e i riti del territorio. Benché risalente ai primi anni 1980, questo modello ricostruttivo è utilmente esportabile nello specifico contesto del terremoto aquilano.
La ricostruzione dell’Irpinia ha seguito un percorso di altro tipo, sia per quanto riguarda le sistemazioni abitative (nell’ordine, tende, container e poi i prefabbricati) sia per le ricostruzioni, quest’ultime variamente abbinate a specifiche provvidenze per lo sviluppo delle aree terremotate.
Come nel modello Friuli, anche il ‘modello Umbria’ ha visto i cittadini rivestire un ruolo centrale nel processo ricostruttivo, in termini sia propositivi sia operativi ed esecutivi. Adeguatamente stimolate e guidate dalle istituzioni, le popolazioni terremotate hanno scelto principalmente la strada della riqualificazione migliorativa dei centri colpiti, soprattutto in termini di sicurezza e vivibilità sociale. Una ricostruzione che è stata improntata al massimo rispetto delle tecniche costruttive e dei materiali originari, in modo da preservare quanto più possibile le caratteristiche edificatorie, urbanistiche e paesaggistiche precedenti al sisma.
Nel caso della ricostruzione aquilana, sarà di fondamentale importanza cercare di evitare la sostituzione integrale del tessuto e dell’edificato storico, come è accaduto per esempio nel caso di Gibellina e Gemona. Occorrerà parimenti fare grande attenzione agli interventi di ricostruzione del tipo «com’era e dov’era», sulla base di documentazioni e rilievi precedenti il terremoto senza le dovute riflessioni architettoniche e sociali (caso di Venzone). Partendo dallo studio del tessuto urbano, sarà necessario definire una relazione tra edificato e storia dello sviluppo della città, atta a stabilire i migliori criteri di conservazione e reintegrazione degli edifici, anche tenendo conto dell’effettiva importanza dei singoli manufatti.
In questa prima fase della ricostruzione, tornerà certamente utile la decisione commissariale di conservare indiscriminatamente tutto ciò che il terremoto non ha completamente distrutto. Una scelta che permetterà di intervenire nel pieno rispetto dall’esistente, salvaguardando così l’anima della città che dimora nelle sue pietre e nei suoi spazi.
Storia dell'Aquila
L’Aquila sorge in posizione elevata (m. 720) sui fianchi di una collina digradante verso l’Aterno, al centro della grande conca aquilana, nella quale in epoca romana fiorirono i municipi di Amiternum (od. San Vittorino), Forcona (od. Civita di Bagno), Foruli (od. Civita Tomassa) e Aveia (od. Fossa). Distrutti questi centri durante le invasioni barbariche, nel Medioevo la popolazione si sparse in ville e castelli, dominati da signori feudali.
La nascita della città è legata alla rivolta seguita alla forzata annessione delle terre d’Abruzzo al Regno normanno di Sicilia. Iniziata sotto il re Ruggero II, la sollevazione culminò quando Federico II di Svevia partì per la crociata del 1228, come si può desumere dalla lettera del 7 settembre 1229 inviata da Gregorio IX agli ambasciatori dei contadi amiternino e forconese, venuti a impetrare il suo appoggio. Il consenso del pontefice («et locum Acculi ad costruendam civitatem vobis de speciali gratia concedendo») va probabilmente interpretato in chiave antimperiale come il tentativo di porre un freno alla politica aggressiva di Federico II attraverso la rivendicazione dei territori della Chiesa di antica donazione imperiale. Il sito designato si trovava in una posizione strategica tra i due poli entro i quali doveva nascere il nuovo centro urbano, cioè i centri di Forcona e Amiternum. Per la città fu scelto il nome di Aquila, che riprendeva un toponimo già esistente ma richiamava anche l’emblema dell’aquila imperiale normanna.
Un contributo al superamento della frammentazione feudale e alla trasformazione della originaria ribellione popolare in nuove forme di aggregazione socioeconomica, che avrebbero dato vita alla complessa realtà di una città, poté essere fornito anche dalla struttura dei monasteri cistercensi, largamente attestati in territorio aquilano, dall’abbazia di Santo Spirito d’Ocre (1222) fino alla più tarda grangia di Santa Maria del Monte (1289) presso Campo Imperatore. Di conseguenza non si può ritenere casuale la formazione del borgo di Acculum intorno al monastero cistercense di Santa Maria ad Fontes (1195), la nomina a secondo vescovo di L’Aquila del monaco cistercense Nicola Sinizzo (1267-1294) e infine il fatto che, in deroga alla norma secondo cui ogni insediamento cistercense doveva trovarsi fuori dei centri abitati, il monastero di Santa Maria Nova fosse costruito all’interno della città (1282).
Agli Svevi, d’altra parte, non sfuggì l’importanza della città, una sorta di ianua regni verso Nord, da dove era possibile controllare militarmente e politicamente l’alto Abruzzo. La loro fu una politica di conciliazione: preso atto dell’esistenza della città, ne sancirono ufficialmente la nascita. Un diploma del 1254, ritenuto quasi concordemente dagli studiosi di Corrado IV, fornisce una legittimazione a posteriori di un episodio di per sé rivoluzionario: la costituzione di una città contro le pretese autonomistiche dei castelli. Il villaggio acquistò ben presto la dignità di civitas, in seguito al trasferimento in esso della sede episcopale di Forcona, attestato dalla bolla di Alessandro IV del 20 febbraio 1257, nella quale si menziona la nuova cattedrale, significativamente dedicata ai Santi Massimo e Giorgio, cui erano rispettivamente intitolate le antiche cattedrali di Forcona e di Amiterno, quasi a suggellare il ruolo religioso della città.
Sembra ormai sufficientemente accertato che la città si sia sviluppata sul preesistente borgo di Acculae, sorto intorno al monastero cistercense di Santa Maria ad Fontes de Acquilis (1195), così denominato per l’abbondanza di sorgenti nella zona, successivamente trasformato nel monastero di Santa Chiara (1256) e situato nell’attuale area della Rivera. Lo sviluppo del borgo fu favorito dall’esistenza a fondovalle di un tracciato di origine romana, ricalcante un tratturo dal quale si staccava un percorso che risaliva fino all’attuale piazza Duomo, dove la probabile presenza di una recinzione o di un accampamento militare potrebbe forse spiegare la straordinaria importanza attribuita da allora in poi a tale spazio. D’altra parte la presenza di strutture risalenti all’epoca romana sembra indirettamente confermata dal riutilizzo di blocchi di opus quadratum nel tratto di mura fra porta Romana e porta Rivera.
Il primo nucleo della città sveva non crebbe, tuttavia, intorno al borgo di Acculae, insediamento troppo periferico per essere facilmente integrato, bensì si svolse lungo una serie di percorsi curvilinei ( riconoscibili a O nelle attuali vie S. Marciano e Cembalo dei Colantoni, a N nelle vie Saturnino, dei Setaioli, degli Amiternini e delle Rose, a E nelle vie Lepidi, Costa Due Stelle e Costa Campana, a S in via Costa Masciarelli ( convergenti secondo uno schema a raggiera verso piazza Duomo. Il confine settentrionale della città, che nel 1257 già vantava le emergenze architettoniche della cattedrale e di Santa Giusta, era segnato dalle attuali vie Roma, Bafile e corso Umberto, oltre le quali, in posizione esterna, si insediarono i Francescani (1256) e i Domenicani (1258), anche se questi ultimi in varie fabbriche e non in un’unica sede, come avvenne più tardi (1300).
La resistenza opposta a Manfredi causò nel 1259 la distruzione dell’Aquila, in precedenza evacuata. Per volere di Carlo I d’Angiò la città fu ricostruita «con più spazioso circuito che prima» e il suo territorio, diviso in lotti (i ‘locali’), fu assegnato ai castelli fondatori, previo pagamento di una tassa (1269), perché vi edificassero proporzionalmente al numero delle famiglie (fuochi), con la conseguenza che i castelli più popolosi divennero proprietari di un maggiore spazio cittadino. In questa fase dello sviluppo urbano il ‘locale’ divenne una cellula autonoma, dotata di una chiesa, di una piazza e, quando fu costruito l’acquedotto di Sant’Anza (1308), anche di una fontana. Nonostante l’assegnazione dei ‘locali’ dovesse rispecchiare topograficamente il territorio circostante, spesso questa norma non fu rispettata e i castelli più potenti, non i più vicini, occuparono l’area centrale della città, quella gravitante intorno a piazza Duomo. In ogni modo lo stretto legame del ‘locale’ con il territorio sembrerebbe espresso dal fatto che il campanile della chiesa veniva costruito in modo da essere visibile dal castello di origine. Così alla struttura urbana monocentrica di epoca sveva se ne sostituì una policentrica, ottenuta per giustapposizione di singole unità (i ‘locali’), impostata su un cardo (od. corso Vittorio) e un decumano (od. via Roma), che si saldò al precedente impianto a raggiera, i cui percorsi curvilinei furono parzialmente rettificati secondo l’ottica regolarizzatrice angioina.
La crescita della città procedette parallelamente alla distruzione delle roccaforti feudali, fino al loro definitivo annientamento, avvenuto sotto la guida di Niccolò dell’Isola (1290). È sintomatico che il risultato della rivolta non fu tanto l’affermazione dell’autonomia cittadina, subito osteggiata dalla corona angioina, quanto l’ordine di inurbamento che favorì lo sviluppo edilizio e l’alleggerimento del carico fiscale. In epoca angioina la preminenza della ‘via degli Abruzzi’ sulle altre strade di collegamento fra il Nord e il Sud della penisola segnò favorevolmente il destino della città abruzzese. Tale via, infatti, sul percorso dell’antica Minucia, collegava Firenze a Napoli passando per L’Aquila: la già felice posizione di quest’ultima all’ingresso del regno risultò accresciuta dal fatto di trovarsi su di una strada aperta ai traffici con l’Italia settentrionale e con l’Europa.
Con la costruzione delle mura, iniziata nel 1272 sotto Lucchesino da Firenze e terminata nel 1316 con Leone di Ciccio da Cassia, si definì il perimetro urbano, talmente vasto da lasciare all’interno ampi spazi vuoti, visibili al tempo dell’incoronazione di Celestino V (1294), come traspare dalla descrizione del cardinale Stefaneschi («Aquilam non plenam civibus urbem sed spatiis certis signatam ob spemque futuram») e destinati a non venire colmati neppure successivamente, per effetto della contrazione demografica dovuta alle numerose epidemie del Trecento. In origine la cinta muraria ebbe quattro porte, aumentate successivamente almeno fino a 12.
Godendo di uno stato di notevole autonomia, la città poté svolgere un’intensa attività, anche in opposizione ai poteri centrali, e la sua forza crebbe tanto da permetterle di armare eserciti, dichiarare guerre e stipulare trattati di propria autorità. Malgrado le proteste del vescovo di Rieti e gli inviti alla prudenza di papa Clemente IV, il movimento di affrancamento continuò sotto la condotta del tribuno Niccolò dall’Isola, proclamato cavaliere del popolo. L’uccisione di Niccolò da parte di Carlo Martello, figlio di Carlo d’Angiò, che ne temeva l’eccessivo potere, provocò tumulti e lotte tra quartieri,
Nel 1308, Carlo II, che aveva già donato ai Domenicani la reggia a lui destinata, fece erigere la vicina chiesa di San Domenico; dopo di lui, tutti i sovrani del Regno di Napoli visitarono la città e la colmarono di privilegi. Nella fase dello sviluppo urbano, iniziata da Carlo II e proseguita dai suoi successori, il frazionamento della città fu superato attraverso la fusione dei ‘locali’ nei ‘quarti’ di San Pietro di Coppito, San Giovanni di Lucoli (poi San Marciano), Santa Maria di Paganica e San Giorgio (poi Santa Giusta), esistenti già nel 1272, ma divenuti effettivi nel 1294 quando la tassazione fu appunto effettuata per ‘quarti’. La costituzione dei ‘quarti’ ebbe immediate ripercussioni sull’aspetto della città, sia perché ciascuno di essi fu caratterizzato dal palazzo nobiliare, dalla chiesa ‘capo di quarto’ con la prospiciente piazza e dalla porta, sia perché favorì il processo di accentramento e geometrizzazione dello spazio urbano.
L’attuale piazza Palazzo, menzionata in un diploma regio del 1304, nel corso del Trecento divenne il polo politico della città. Nel 1310, infatti, Francesco de Crescenzo vi fece costruire il palazzo del Capitano, che fu successivamente trasformato fino ad assumere veste ottocentesca, mentre solo i primi tre ordini dell’annessa torre sembrano risalire al 13° secolo. In quegli anni fu eretto anche il palazzo Comunale, distrutto dal terremoto del 1703. Nella medesima piazza, quasi al termine di uno dei principali percorsi viari angioini (via Roma), in una posizione chiave e ormai all’interno dell’abitato, sin dal 1291 era stata innalzata la chiesa di San Francesco, come confermano le indulgenze concesse dal papa Niccolò IV (1288-92) ai visitatori; distrutta dal terremoto del 1349, già nel 1360 doveva essere iniziata la sua ricostruzione, se in quell’anno un Giovanni Gaglioffo faceva lasciti alla cappella di San Ludovico in San Francesco. Soppressa dalle leggi napoleoniche, nulla resta della costruzione originaria, a eccezione di alcuni setti murari. Piazza Palazzo era strettamente collegata da tre assi perpendicolari a piazza Duomo, polo religioso, tanto da costituire quasi un complesso unitario; l’integrazione era sottolineata anche dalla confluenza in esse dei percorsi viari nascenti dalle porte principali di Barete e di Bazzano.
Nel 1344 L’Aquila ebbe una propria zecca, che dal 1382 al 1556 coniò ben 232 tipi di monete con lo stemma cittadino e fu la più produttiva del Regno dopo quella di Napoli. Intanto la città combatteva contro i centri vicini, specialmente Rieti e Amatrice, difesa da Spoleto. Ormai L’Aquila era diventata arbitro della politica in tutta la regione; veniva considerata come la prima città dopo Napoli e i re la temevano e la trattavano più come alleata che come suddita, ricorrendovi nelle necessità più impellenti, politiche e finanziarie.
In quest’epoca venne istituito il magistrato dei quinqueviri, composto dai cinque rappresentanti delle arti, che sostituiva l’antico magistrato dei 68, e il contado e la diocesi aquilana si ampliarono con l’annessione di molte terre valvensi e della diocesi reatina. Nello stesso periodo miglioravano anche le condizioni economiche della città. Fiorivano gli allevamenti di ovini e del baco da seta e di conseguenza assunsero grande sviluppo i lanifici e i setifici, e più tardi anche la fabbricazione di telerie. Fin dal 13° secolo era stata inoltre introdotta nel contado la coltura dello zafferano, il cui commercio, dal 14° secolo in poi, costituì una delle maggiori fonti di ricchezza per gli abitanti; notevole fama ebbero anche la manifattura dei merletti, l’industria del cuoio e la lavorazione del metallo. Per il commercio di questi prodotti L’Aquila manteneva strette relazioni con Firenze, Genova, Venezia e anche con paesi stranieri, tra cui Francia, Olanda e Germania.
Malgrado questa situazione di prosperità economica, nel contado erano frequenti le ribellioni e i partiti dei guelfi e dei ghibellini tenevano in agitazione la città, causando la rinascita delle inimicizie fra le famiglie più potenti. Nel 1378, in occasione dello scisma d’Occidente, la città si divise tra chi prendeva parte a favore della regina Giovanna, e quindi dell’antipapa Clemente VII, e chi appoggiava Urbano VI e Carlo di Durazzo. Quando Carlo fece uccidere la regina Giovanna, nel 1382, L’Aquila acclamò re Luigi d’Angiò e fece coniare monete con il suo nome; alla sua morte, proclamò re Luigi II, suo figlio.
Durante il Trecento continuò il completamento dei ‘quarti’ con tracciati a maglie rettangolari, secondo quel processo di regolarizzazione urbana iniziato alla fine del Duecento sotto gli Angioini; nel contempo si verificò uno spostamento di interessi e quindi di importanza dal ‘quarto’ di San Marciano, il più condizionato dalle preesistenze degli antichi percorsi viari, a quello di San Pietro, cui appartenevano le famiglie dei Camponeschi e dei Pretatti, protagoniste della vita cittadina nel Quattrocento. Alla fine del sec. 14° L’Aquila aveva assunto la sua forma definitiva, rimasta pressoché inalterata per altri due secoli.
Agli inizi del sec. 15° la città divenne mira dei desideri espansionistici degli Aragonesi che assoldarono Braccio da Montone, promettendogliene la signoria. Dopo un anno di assedio (1423-24) la città ne uscì vincente: Braccio, ferito in battaglia, cadde in mano degli Aquilani e morì dopo tre giorni. A questo episodio seguirono ulteriori lotte tra Angioini e Aragonesi, durante le quali la città parteggiò per i primi, con la conseguenza che Alfonso d’Aragona la taglieggiò duramente. Anche nella cosiddetta ‘guerra dei baroni’ L’Aquila tornò a ribellarsi: il 17 ottobre 1485 si sottomise al papa, coniando monete con il motto Aquilana Libertas; ma l’anno seguente Alfonso duca di Calabria la sottometteva di nuovo. Intanto in città era stato istituito uno Studio generale, sul modello di quelli di Bologna, Siena e Perugia, e Adamo da Rottweil, allievo di Johann Gutenberg, vi aveva impiantato una delle prime tipografie d’Italia, assicurando una larga diffusione di opere preziose; L’Aquila era all’apogeo della sua potenza.
Nel 1503, in coincidenza con il periodo delle grandi guerre d’Italia, la città, che nel 1495 aveva inviato ambasciatori a Carlo VIII di Francia e ne aveva accettato il dominio, riconobbe il governo spagnolo. Nel 1527 gli Aquilani si sottomisero nuovamente ai Francesi ma subito dopo, stanchi per le requisizioni, le taglie e i saccheggi, tornarono all’obbedienza di Carlo V. Poiché però i cittadini avevano opposto resistenza alle truppe imperiali, il 2 febbraio 1529 il viceré di Napoli Filiberto d’Orange entrò con l’esercito all’Aquila, devastandola e saccheggiandola. Alla città fu imposta una taglia, il cui pagamento comportò lo spoglio delle chiese e dei privati; il territorio aquilano fu diviso fra i capitani spagnoli, gli uffici vennero venduti a forestieri. L’Aquila perdette per sempre la sua autonomia e cominciò a decadere. Per quasi tre secoli era stata continuamente travagliata da lotte intestine, terremoti disastrosi l’avevano prostrata, epidemie micidiali l’avevano funestata; da tutti questi eventi la città era sempre risorta, ma questa volta non si riebbe più. Un potente castello, noto come Forte Spagnolo, fu eretto a spese del comune abbattendo un intero quartiere; sul suo portale campeggiava la scritta ad reprimendam audaciam Aquilanorum, ovvero «per la repressione dell’audacia degli Aquilani». Le atrocità e le spogliazioni continuarono, nonostante le ambascerie a Carlo V. Nel 1572 fu inviata a governare la città Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore; nel 1641 vi si stabilì l’udienza reale per l’Abruzzo ultra: ma tutto questo rese alla città uno splendore solo apparente. Continue ribellioni si alternavano a feroci repressioni e il banditismo funestava le campagne.
Il terremoto del 1646 e poi quello gravissimo del 1703 peggiorarono ulteriormente lo stato della città, che poté risollevarsi solo con l’avvento sul trono di Napoli dei Borbone di Spagna. Un periodo di benessere seguì l’avvento di Carlo III al potere; anche questa epoca positiva venne tuttavia interrotta dagli eventi del 1799. L’Aquila e l’Abruzzo insorsero contro i Francesi, ma la città fu sottoposta al saccheggio e alla strage. Il regime bonapartiano iniziò il disboscamento delle montagne, disperse gli archivi dei monasteri, depredò le opere d’arte. Restaurato il governo borbonico, L’Aquila partecipò attivamente ai moti risorgimentali, specialmente quelli del 1848. L’8 settembre 1860, dopo l’ingresso di Garibaldi a Napoli, fu proclamata l’annessione della città al Regno d’Italia; in questo periodo il territorio aquilano soffrì molto a causa del fenomeno del brigantaggio.
I monumenti
Il monumento principale dell’Aquila è la Basilica di Santa Maria di Collemaggio, tipica costruzione dell’arte romanica in Abruzzo e prototipo di gran parte dell’architettura successiva nella città e nella regione. Iniziata nel 1287, Santa Maria di Collemaggio era già consacrata nel 1289, ma la sua costruzione si protrasse fino alla fine del secolo, come provano i privilegi dei vescovi marsicano e teatino relativi alla concessione di indulgenze a quanti elargivano contributi in denaro. Le successive vicende della chiesa furono segnate da un evento straordinario, la solenne incoronazione di Pietro da Morrone eletto papa con il nome di Celestino V, ivi avvenuta il 29 agosto 1294 alla presenza del re Carlo II e di suo figlio Carlo Martello.
A partire dalla seconda metà del Trecento la basilica acquistò l’odierna veste architettonica. La facciata, a coronamento orizzontale, suddivisa da una cornice a mensole in due zone, di cui la superiore tripartita da paraste, fu rivestita da un paramento di pietre cruciformi bianche e rosa; nella parte inferiore furono aperti i tre portali ancora in opera. Il mediano, assimilabile a un trittico per via dei due ordini di nicchie cuspidate atte a contenere statuine di santi secondo una imprevista soluzione che scavalca d’un tratto la consolidata iconografia dei portali aquilani, è concluso da una fitta sequenza di archivolti. Alla fine del Trecento e nei primi decenni del secolo seguente la basilica celestiniana fece da modello per un ‘aggiornamento’ dell’architettura religiosa, per lo più motivato dalla necessità di riparare ai danni dell’ultimo terremoto (1349). All’interno, importanti il mausoleo di Celestino V (1527), opera di Girolamo da Vicenza, l’altare di Santa Maria del Soccorso, di Andrea dell’Aquila, e la tomba Agnifili (1480), di Silvestro dell’Aquila.
La Basilica è rimasta colpita in modo gravissimo dal terremoto del 2009: la volta è crollata nel punto in cui è sito il sepolcro di Celestino V, le cui spoglie, rimaste miracolosamente integre, sono state recuperate nei giorni successivi. Lesionate e a rischio crollo anche le due absidi, mentre sono stati completamente distrutti gli altari maggiori e quello laterale
Alla fine del 13° secolo, al tempo della prima costruzione delle mura, risale anche la fontana delle Novantanove cannelle, o della Rivera, considerata il simbolo della città. I 99 mascheroni porta-getto di varia foggia (umana, animale e floreale), che gettano zampilli in una vasca sottostante, la quale a sua volta li riversa in un’altra, sono opera dell’architetto Tancredi da Pentima, il cui intervento diretto, testimoniato dall’iscrizione sulla fronte, si può riconoscere, oltre che nel parapetto con i pilastrini ottagonali, in numerosi mascheroni del lato frontale e in alcuni di quello di sinistra. La sostanza gotica nitida e calibrata di queste sculture rimonta alla plastica pugliese di epoca tardofedericiana, nella quale probabilmente vanno ricercate le primissime esperienze di Nicola Pisano, tanto da consentire il significativo confronto di alcuni mascheroni aquilani con le teste-mensola del tamburo della cupola del duomo di Siena. La plastica di maestro Tancredi, se riconnessa ad alcune coeve e rare testimonianze architettoniche di radice borgognona, dal portale laterale di San Pietro di Coppito (seconda metà del sec. 13°) a quelli, anch’essi laterali, di San Martino (seconda metà del sec. 13°), può gettar luce sul ruolo della cultura gotica, prima di marca sveva e successivamente angioina, la quale, benché non sempre solidale con lo svolgimento artistico della città, tuttavia costituì nel suo ambito un’importante presenza. Nel corso dei secoli la fontana è stata più volte rimaneggiata e ampliata, con l’aggiunta di nuovi lati, la sostituzione dei conci corrosi dagli elementi atmosferici e del rivestimento in pietra bianca e rosa, la ricostruzione di altri mascheroni, la selciatura e, infine, la chiusura a cancellata. Durante il terremoto del 2009 non ha riportato gravi danni e ha presto ripreso la sua funzione.
Tra gli edifici del 13° secolo gravemente danneggiati dal sisma, vi sono invece San Pietro a Coppito, in cui il terremoto ha provocato il crollo di parte della facciata e del campanile, e Santa Maria di Paganica, che, completata nel 1308, presentava un notevole portale gotico scolpito; sottoposta nel tempo a numerosi restauri, soprattutto in seguito ai ripetuti eventi tellurici, come testimonia l’interno settecentesco, nel 2009 è stata completamente squarciata, con il crollo dell’abside e dell’intera copertura.
Il castello, o Forte Spagnolo, iniziato dagli Spagnoli nel 1530 e ultimato nel 1635, ha pianta quadrata con robusti bastioni angolari ed è cinto da un profondo fossato; la sua costruzione era all’avanguardia nelle strutture per l’offesa e la difesa delle armi da fuoco. Attualmente vi hanno sede la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici, quella per il Patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico dell’Abruzzo e soprattutto il Museo nazionale d’Abruzzo, che conserva pitture di varia età provenienti dalla regione (degni di nota i dipinti di Cola dell’Amatrice), sculture lignee, oreficerie dal 14° secolo della scuola locale, maioliche abruzzesi. Il terremoto del 2009 ha reso inagibili il complesso delle strutture.
Fra i più interessanti esempi di costruzioni barocche, in gran parte posteriori al terremoto del 1703 e legate ai modelli contemporanei di Roma e di Napoli, vanno ricordati specialmente i palazzi Quinzi, Antonelli e Centi. Nello stesso periodo sono state edificate anche importanti chiese come quella di Santa Maria del Suffragio, o delle Anime Sante, del 1713, con una caratteristica facciata concava e una piccola cupola, opera di Giuseppe Valadier, aggiunta nel 1805. Tra le più importanti del capoluogo abruzzese, Santa Maria del Suffragio è rimasta fortemente lesionata dal terremoto del 2009, subendo il crollo quasi integrale della cupola.