L'archeologia del Subcontinente indiano. La regione dell'Indo
di Marco Ferrandi
Il criterio geografico a base regionale adottato per la trattazione del Subcontinente indiano incontra delle difficoltà quando si prende in esame la vasta regione percorsa dal fiume Indo che, dalle sorgenti nell'Hindukush/Pamir/Karakoram alle foci nei pressi della moderna Karachi, attraversa ambienti fra loro assai diversi: dalle alture rocciose e scarsamente umide in cui nasce alle ricche valli kashmire, alla fertile pianura dei "cinque fiumi" (Panjab) e all'arido Sind. Si tratta di contesti che nel corso dei millenni hanno dato origine a modelli insediativi differenti, non riconducibili a una omogeneità culturale (né tantomeno politica) di fondo, dopo la fine della Civiltà dell'Indo.
Tuttavia, l'Indo, unico corso d'acqua veramente perenne per la zona compresa tra il Baluchistan e la pianura gangetica, ha avuto per secoli una funzione unificante dal punto di vista culturale, in quanto via di comunicazione e affidabile risorsa idrica. A tal proposito va ricordato che l'idrografia della regione si è modificata nei millenni, con riflessi profondi sugli insediamenti; ci riferiamo, in particolare, ai dissesti idrogeologici che, causando il cambiamento del corso della Ghaggar/Hakra/Sarasvati (l'altro grande fiume che scorreva più o meno parallelamente all'Indo e a oriente di questo), ebbero un ruolo fondamentale nella fine della Civiltà dell'Indo e nell'accentuazione dell'importanza del fiume per la vita degli insediamenti che su di esso insistevano. La diffusione e affermazione del buddhismo, la cui presenza è rilevabile senza soluzione di continuità dal Pamir al Sind, è il secondo fondamentale motivo che ha fatto propendere per una trattazione unitaria della regione. Stūpa, monasteri e sculture a soggetto buddhista si distribuiscono uniformemente nello spazio, con linee di propagazione e diffusione nel tempo che ‒ sebbene ancora non del tutto comprese ‒ ribadiscono la centralità geografica, culturale ed economica dell'Indo.
Le coordinate storico-archeologiche più generali sono fornite da testi introduttivi che seguono un ordinamento geografico da nord verso sud, ricalcando le moderne suddivisioni, con l'esclusione di alcune aree della North West Frontier Province (NWFP), qui rappresentata dal solo Swat, e con l'inclusione dell'antica regione del Gandhara che, in ragione della sua specificità storica e culturale, è stata trattata separatamente. Un'ultima annotazione riguarda la storia delle ricerche di cui è stata oggetto quest'area. Fin dalle prime indagini/ricognizioni sistematiche del XIX secolo, l'attenzione degli studiosi si è incentrata su contesti culturali precisi, a scapito di una più generale visione d'insieme. Ciò è avvenuto soprattutto a seguito della scoperta della Civiltà dell'Indo, che fino ad anni molto recenti ha monopolizzato l'attenzione (e le risorse) degli studiosi. Se da un lato ciò ha prodotto una grande mole di dati di eccezionale interesse per l'epoca protostorica, dall'altro ha inevitabilmente posto in secondo piano altri contesti e altri periodi della storia archeologica della regione, la quale presenta evidenti zone d'ombra e lacune. Tra queste citiamo, ad esempio, gli inizi del periodo storico nel Sind, la mancanza di studi sistematici e di più ampio respiro sulla propagazione del buddhismo nella regione, o di indagini sulle interazioni sociali e simboliche fra le popolazioni locali e le comunità monastiche.
di Pierfrancesco Callieri
Regione montuosa del Pakistan nord-occidentale a nord della piana di Peshawar, attraversata dall'omonimo fiume, affluente di sinistra del Kabul. Nota alle fonti greche come Σουαστηνή e a quelle indiane come Uḍḍiyāna, la regione ha condiviso il destino politico di tutto il Nord-Ovest del Subcontinente. Le fonti disponibili riguardano soprattutto la spedizione di Alessandro Magno del 327 a.C. e, successivamente, gli itinerari dei pellegrini buddhisti cinesi tra il V e l'VIII sec. d.C.
Luogo di transito obbligato fra la pianura gandharica e le aree montuose dell'Hindukush e del Karakoram, rivolte verso l'Asia Centrale, lo S. fu un importante centro di cultura buddhista. Aperta grazie alla sua posizione al mondo iranico, la regione si caratterizzò sempre per il forte peso esercitato sul buddhismo dal substrato locale, patrimonio di quelle genti della fascia settentrionale della frontiera indo-iranica che oggi definiamo "dardiche": fu proprio da qui che nell'VIII sec. d.C. si mosse Padmasambhava, l'animatore del buddhismo tibetano. La presenza indo-greca, documentata dalle ricerche archeologiche a Bir-kot-ghwandai, portò con sé il radicamento di una tradizione artigianale d'impostazione ellenistica, la cui eredità ebbe forte peso nella successiva nascita di uno dei più attivi centri di scultura buddhista.
Le ricerche archeologiche furono stabilmente impiantate da una missione italiana dell'Istituto per il Medio e l'Estremo Oriente, la cui attività fu avviata da G. Tucci nel 1956; tuttora attiva come missione dell'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente, ha documentato il passato della regione dalle fasi preistoriche a quelle islamiche.
Lo scavo di alcune necropoli (Butkara II, Katelai, Loebanr I), datate al XIV-IV sec. a.C., avviò le ricerche sulla protostoria dello S. La cronologia delle necropoli (e, per esteso, dell'intera regione) è stata suddivisa da G. Stacul in tre periodi: Early (XIV-IX sec. a.C.), Middle (VIII-V sec. a.C.) e Late (IV sec. a.C.). Tali ricerche furono presto arricchite dagli scavi delle coeve necropoli del Dir da parte dell'Università di Peshawar, che le assegnò a un contesto impropriamente denominato Gandhara Grave Culture. Entrambi gli orizzonti sono espressione di società protourbane sedentarizzate, di cui le testimonianze più compiute si hanno negli abitati di Bir-kot-ghwandai e Loebanr 3; caratteristiche di entrambi i siti sono le abitazioni che, fra il 1700 e il 1400 a.C., si evolvono da strutture seminterrate a pianta circolare a forme in muratura suddivise in ambienti a pianta quadrata. Notevole, a Bir-kot-ghwandai, la produzione di artigianato di lusso e di ceramica rossa dipinta in nero, i cui motivi geometrici fitomorfi e teriomorfi ricordano la tradizione della valle dell'Indo.
Nelle tombe si alternano, e talvolta sono contemporaneamente presenti, tre tipi di sepoltura: cremazione, inumazione e deposizione secondaria. Poste al di fuori degli abitati, esse si articolano in due cavità sovrapposte separate tramite grandi lastre di scisto, in cui il corpo o i corpi (frequenti sono infatti le deposizioni multiple) e la gran parte del corredo sono contenuti in quella inferiore e orientati ‒ caratteristica peculiare di questo contesto culturale ‒ con il capo in direzione della montagna. Le necropoli del Dir si differenziano per una maggior varietà delle tipologie e delle pratiche funerarie, l'utilizzo occasionale di pietre poste in circolo attorno alla cavità superiore e una presenza più congrua di tombe a cista; nondimeno, non pochi sono i tratti comuni con quelle dello S.
Sulla sponda occidentale dello S. la città di Aligrama ‒ identificata da alcuni studiosi con la Massaga delle fonti alessandrine ‒ è il sito protostorico complessivamente più indagato e meglio conosciuto, la cui continuità insediativa si estende dal XVIII sec. a.C. al II-IV sec. d.C. Spicca nell'abitato una struttura isolata di grandi dimensioni, a pianta rettangolare e con tracce di un focolare all'interno, per il quale si ipotizza una natura cultuale. Al X sec. a.C. risale l'eccezionale testimonianza di un campo arato ottimamente conservato, sigillato dai detriti di un'alluvione. Il fatto inusuale che le sepolture del IV sec. a.C. di Aligrama siano poste entro i confini dell'abitato ha fatto supporre un collegamento con la spedizione militare di Alessandro e gli sconvolgimenti da essa portati.
Per l'epoca dal III sec. a.C. al V sec. d.C. è noto un numero importante di abitati nel tratto centrale e meridionale della valle: dall'antica capitale ‒ nota alle fonti cinesi come Mengjieli e identificata nell'abitato contiguo al santuario di Butkara ‒ al vicino centro fortificato di Barama, all'altro importante centro di Udegram, 10 km a sud di Butkara, identificato con la Ora degli storici di Alessandro, per finire con Bir-kot-ghwandai e con Damkot, ancora più a sud.
A Udegram i primi scavi italiani (1956-61) portarono alla luce un settore dell'abitato in pianura, denominato "bazar", la cui sequenza fu collocata tra il IV sec. a.C. e il III-IV sec. d.C. Fu anche esplorato il cosiddetto "castello", un insediamento fortificato di epoca ghaznavide posto su uno sperone del monte, al cui interno fu individuato un nucleo più antico assegnato al V-VI sec. d.C.
A Bir-kot-ghwandai, una città fortificata di epoca indo-greca si imposta sulle ultime fasi della frequentazione di epoca protostorica e continua a vivere sino al periodo medievale, con alcuni sensibili mutamenti topografici. Proprio questa località, dove a partire dal IV-V sec. d.C. l'abitato abbandona l'area pianeggiante e si ritira sulle pendici e sulla sommità del colle, suggerisce una datazione a partire dall'Alto Medioevo per i numerosi abitati fortificati che si distribuiscono sulle alture lungo i fianchi del tratto medio e inferiore della valle e che hanno nelle "case-torri" la tipologia architettonica più caratteristica attorno alla quale si aggregano i piccoli nuclei insediativi. Sul colle di Damkot, alla confluenza della valle del Dir con lo S., la sequenza archeologica ‒ scandita in cinque periodi tra la prima metà del I millennio a.C. e il X sec. d.C. ‒ oltre a un monumentale stūpa del V-VI sec. d.C. vede la costruzione di una fortificazione di VIII-X secolo, con bastioni rettangolari, contrafforti semicircolari e cittadella alla sommità.
Per quanto riguarda gli insediamenti religiosi, non conosciamo luoghi di culto più antichi del primo stūpa del santuario di Butkara I (III sec. a.C.), che sembra isolato fino agli inizi del I sec. d.C., periodo in cui l'archeologia documenta non solo lo sviluppo eccezionale di Butkara, ma la fondazione di altri due nuovi complessi a Saidu Sharif I e Panr I. Nel momento in cui negli abitati sono ancora attestate le forme di religiosità tradizionale, si assiste a una straordinaria fioritura di monumenti buddhisti di nuove forme e tipi: ogni area sacra vede sorgere uno o due stūpa di dimensioni maggiori, con basamento di pianta quadrata, attorno a cui si dispongono altri stūpa più piccoli, cappelle per immagini, colonne e pilastri isolati. La tecnica edilizia impiega diversi tipi di opera muraria, sempre di pietra, da quella a blocchi parallelepipedi di scisto o talco, a quelle che impiegano assieme a questi anche lastre di scisto di dimensioni diverse, allettate con o senza regolarità.
A Saidu Sharif I il santuario, di dimensioni monumentali, si dispone su due terrazze, quella inferiore occupata dallo Stupa Principale e dai monumenti minori attigui, quella superiore dal monastero, limitato da un muro perimetrale di pianta rettangolare, con celle sui lati est e ovest e ambienti comuni sul lato sud. Tre sono i periodi strutturali individuati dagli scavi, tra la metà del I e il V sec. d.C. Anche a Panr I il santuario (I-IV sec. d.C.) si distribuisce su due terrazze, occupate però entrambe da monumenti sacri, mentre del monastero sono solo stati individuati resti sul limite orientale.
La rilevante disponibilità di risorse (spiegata dall'adesione al buddhismo dei Saka, dei loro vassalli e dei ricchi ceti mercantili) permette la nascita di uno strumento decorativo, il rilievo scultoreo, che diviene uno straordinario mezzo per una propaganda visiva di grandissimo effetto. Proprio dal santuario di Saidu Sharif I proviene l'unico fregio di stūpa di grandi dimensioni sinora mai individuato nella regione gandharica, i cui frammenti sono stati sapientemente riconosciuti e ricostruiti da D. Faccenna: datato intorno al 50 d.C., il fregio è la testimonianza della sapiente scelta di innestare la tradizione figurativa dell'India centrale nel fertile terreno di botteghe legate alla produzione di manufatti di pietra di tradizione ellenistica.
Grazie all'archeologia, la nascita della scultura del Gandhara, di cui la produzione dello S. è parte, ha finalmente trovato una sua ferma collocazione cronologica nella prima metà del I sec. d.C. È oggi chiaro quanto questa scultura debba all'India centrale, dato che il più antico dei gruppi stilistici delineati da Faccenna a Butkara I, da lui denominato "disegnativo", presenta un forte legame con l'arte di Bharhut e Sanchi, pur mostrando dall'inizio quella concezione illusionistica dello spazio tipica del naturalismo ellenistico. Il secondo momento dell'arte di Butkara, denominato "naturalistico", sembra corrispondere alla fase in cui gli artigiani locali si sono pienamente impadroniti delle tematiche narrative buddhiste e riescono a esprimerle nel linguaggio a loro più consono.
Al periodo di successiva fioritura di arte del Gandhara sono attribuibili numerosi altri santuari buddhisti. Ricordiamo il santuario di Nimogram, importante centro sulla riva destra dello S. datato al II-III sec. d.C., che ha restituito materiale scultoreo di notevole originalità nell'ambito delle scuole gandhariche, e il santuario di Andandheri, che ha uno stūpa principale di dimensioni monumentali (basamento di 36,5 m di lato), datato al III sec. d.C. Un particolare interesse suscita la scoperta, in una conca a breve distanza dalla vetta di Malam Jabba (3.034 m s.l.m.), di un complesso architettonico (monastero?) con uno stūpa di pianta circolare che potrebbe riferirsi al momento successivo alla prima invasione Pashtun dell'XI secolo.
Il quadro dell'arte sacra dello S. è completato dai rilievi di età postgandharica, databili tra il VI e l'VIII sec. d.C., scolpiti sui massi di roccia granitica che caratterizzano il paesaggio della regione e su stele isolate: grandi immagini in cui prevalgono i soggetti buddhistici mahayanici. A differenza dei graffiti dell'alta valle dell'Indo, con cui sono tuttavia evidenti affinità stilistiche oltre che iconografiche, i rilievi rupestri dello S. sono opera di scultori che operavano per una committenza che al momento ci sfugge, così come ci sfugge la motivazione della diffusione di tali immagini sacre al di fuori di un contesto templare.
Bibliografia
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di Anna Filigenzi
Nome di un'antica regione corrispondente all'odierna piana di Peshawar; in una più ampia accezione culturale esso include i territori degli odierni Pakistan settentrionale e Afghanistan orientale, che a partire dagli ultimi decenni del I sec. a.C. e con propaggini che si spingono fino al VII-VIII sec. d.C. videro fiorire un fenomeno artistico sostanzialmente unitario, collegato alla diffusione e al radicamento del buddhismo.
Ciò che comunemente si indica come "arte del Gandhara" è dunque quella considerevole produzione architettonica, plastica e (in misura di gran lunga minore) pittorica relativa alle numerosissime fondazioni religiose presenti nella zona. I materiali usati sono la pietra (soprattutto scisto, ma anche calcare), lo stucco e l'argilla, con distribuzioni cronologiche e regionali differenziate. Tali fondazioni si compongono generalmente di uno stūpa principale, talvolta circondato da cappelle (caityagṛha o, più genericamente, vihāra), nicchie o tettoie che ospitano immagini di culto e che formano un "recinto" intorno al monumento principale, e di un annesso monastero (saṃghārāma, termine che indica anche l'intero complesso) formato da un quadrilatero, composto da piccole celle monastiche (vihāra) che si aprono su una vasta corte, in qualche caso forse dotato di un secondo piano e con annessi ambienti per le esigenze comunitarie (servizi, sale assembleari).
Fra i saṃghārāma più noti e meglio conservati è quello di Takht-i Bahi, circa 15 km a nord-est di Mardan, dove la corte dello Stupa Principale accoglie un unico grande stūpa, circondato da cappelle eccezionalmente conservate con copertura a doppia cupola e, in opposizione simmetrica sullo stesso asse, il monastero, separati da una corte intermedia. La regolarità dell'impianto riflette chiaramente un progetto unitario che si mantiene nelle varie fasi di vita. In altri casi si osserva una crescita più irregolare, pur nel quadro di pianificazioni successive. Ciò si osserva soprattutto nelle aree sacre di più antica fondazione (ad es., l'area intorno ai Dharmarajika Stupa di Taxila e Butkara I, entrambi verosimilmente fondazioni del III sec. a.C.), dove si rintraccia anche l'emergere di quegli elementi che costituiranno il repertorio architettonico tipico del G.; tali mutamenti trovano solo un parziale riflesso nello Stupa Principale, che pur attraverso i rifacimenti tende a mantenersi fedele alla forma originaria.
Gli stūpa gandharici differiscono infatti da quelli più antichi per la forma, che acquisisce nuovi elementi, quali un primo corpo quadrato arricchito, in alcuni casi (come a Saidu Sharif I, Panr, Tokar Dara e Taxila in Pakistan, Hadda in Afghanistan, ma anche Merv in Asia Centrale), da quattro colonne disposte agli angoli e da uno o più corpi cilindrici; ne risulta per il monumento uno slancio verticale, assecondato anche da un innalzamento del corpo superiore emisferico. Una ulteriore novità consiste nella decorazione della superficie curva del tamburo, in forma di rilievi figurati e architettonici o stele profilate. Di natura peculiare sono i fregi figurati che narrano in ordine cronologico episodi della vita del Buddha, in una successione continua di scene separate da elementi architettonici, tratte in massima parte dai racconti agiografici della sua ultima incarnazione (avadāna) e, in misura minore, da quelli delle sue vite precedenti (jātaka). Non soltanto dunque il G. trasferisce sul corpo dello stūpa la decorazione plastica che negli esemplari indiani era riservata alle balaustre di recinzione e ai portali di ingresso, ma rivoluziona la stessa struttura formale dei rilievi, ora impiegati in una narrazione etico-biografica per immagini, che non trova precedenti nel mondo antico né orientale né occidentale, a cui spesso si è voluto far risalire i tratti più originali dell'arte del G. Rilievi, stele e statue (per lo più pensate per la sola visione frontale), ma anche piccoli stūpa, costituivano invece il contenuto di cappelle e nicchie, invero trovate ‒ salvo rare eccezioni ‒ oramai vuote.
Gli scavi nel G., effettuati sin dalla prima metà del XIX secolo, hanno spesso puntato piuttosto alla messa in luce di monumenti e al recupero di sculture che non all'indagine archeologica vera e propria, anche a causa di una notorietà motivata dalla forte presenza di elementi ellenistici. In particolare, la combinazione di tali elementi con quelli di tradizione buddhista ha dato origine alla definizione, ideologica ed eurocentrica, di "arte greco-buddhista" o "romano-buddhista" del G., oggi in verità obsoleta. In pochi decenni, con tali metodi e intendimenti furono identificati e scavati molti dei più importanti siti gandharici tra cui Takht-i Bahi, Shabaz Garhi, Jamal Garhi, Sahri Bahlol, Shah-ji-ki-Dheri.
Non diverso fu l'esordio delle ricerche in Afghanistan. Ai primi scavi regolari, condotti dalla Délégation Archéologique Française, seguiranno quelli di altre missioni straniere, in particolare italiane e giapponesi, che si affiancheranno a quelle afghane riportando alla luce in pochi decenni importanti insediamenti civili e religiosi. Da questi ultimi (Hadda, Fondukistan, Tepe Maranjan, Goldarra, Tapa Sardar e altri ancora) provengono importanti testimonianze di arte gandharica, soprattutto per quanto concerne le realizzazioni architettoniche e scultoree in crudo (argilla e, nella plastica, anche stucco), qui prevalenti. La scultura in stucco è nota anche in territorio pakistano (ad es., a Taxila e Butkara I), dove essa, pur se presente nella produzione più antica (ad es., i frammenti dal tempio absidato di Sirkap, Taxila, I sec. d.C.), sembra tuttavia quantitativamente marginale rispetto alla pietra almeno fino al IV-V sec. d.C.
Un approccio sostanzialmente diverso all'archeologia gandharica è segnato dagli scavi italiani nello Swat (Butkara I, Saidu Sharif I, Panr) diretti da D. Faccenna a partire dalla metà degli anni Cinquanta del XX secolo; il rigoroso metodo di indagine ha condotto, per la prima volta, a importanti acquisizioni cronologiche.
Oggi abbiamo dunque, a fronte di una quantità enorme di testimonianze architettoniche e artistiche, vistose lacune nella loro interpretazione cronologica e culturale, aggravate da carenze e incertezze nella documentazione storica. Strettamente connessa a quest'ultima è l'indagine sui centri di produzione; risultati importanti provengono, oltre che dai dati di scavo, dalle ricerche di carattere geomorfologico, dall'individuazione di antiche cave di estrazione e dalle analisi petrografiche, che cominciano a fornire basi più solide alle interpretazioni di uniformità e localismi. Non diversa è la situazione per quanto concerne la conoscenza dell'architettura del G. Da alcuni siti provengono indizi dell'esistenza di unità architettoniche di natura ancora non chiara, come, ad esempio, il cosiddetto Grande Edificio a Butkara I (che ha forse un analogo corrispettivo a Shnaisha), o di sale sotterranee destinate alla meditazione dei monaci, documentate con sicurezza a Hadda (Afghanistan) e con minore certezza a Takht-i Bahi. Inoltre le raffigurazioni di architetture presenti nei rilievi, certamente ispirate a prototipi reali, appaiono ben più ricche e differenziate di quelle sin qui pervenuteci.
Ancora in gran parte inesplorato è il potenziale archeologico della regione per quanto concerne gli insediamenti civili. La riflessione critica sulle indagini pregresse in siti di grande importanza (ad es., Taxila e Shaikhan Dheri in Pakistan, o Begram in Afghanistan), ma anche i promettenti risvolti di indagini più recenti (ad es., Bir-kot-ghwandai in Pakistan), apportano dati essenziali non soltanto alla conoscenza della storia della regione nel suo complesso, ma anche del rapporto tra società civile e religione. Ciò che si osserva sotto il profilo archeologico a Bir-kot-ghwandai e a Taxila ‒ e che i dati epigrafici confermano ‒ sembra indicare un ruolo determinante delle dinastie saka-partiche nel processo di ellenizzazione ed espansione del buddhismo, che precede di circa un secolo quello tradizionalmente attribuito ai Kushana. Le iscrizioni dei re di Apracha confermano che zone ancora sostanzialmente inesplorate come il Bajaur custodiscono un potenziale archeologico di straordinaria importanza.
Pochissime sono le testimonianze sin qui pervenuteci della pittura gandharica, la cui scarsa conservazione è probabilmente imputabile alla fragilità dei supporti. Oltre al largo impiego del colore per la rifinitura di statue e rilievi di stucco e argilla, ampiamente documentato, anche la superficie degli stūpa e perfino degli ambulacri doveva essere parzialmente ricoperta da una decorazione dipinta (ad es., i frammenti di pittura da Butkara I relativi al Grande Stupa 3 e 4). Se è facile immaginare la vivace policromia dei monumenti nelle epoche e nelle zone in cui maggiore è l'impiego dello stucco (ad es., lo Stupa TK 23 a Hadda), più difficile è ricostruire il ruolo del colore nella produzione, specie la più antica, in cui prevalgono i toni grigi della decorazione plastica di scisto; vi sono tracce di colore tuttavia nello Stupa 17 a Butkara I (primo quarto del I sec. d.C.), così come tracce di doratura su rilievi ed elementi architettonici.
Ancora sfuggente è invece la pittura murale, che doveva essere largamente impiegata, soprattutto nella decorazione di ambienti chiusi. Di eccezionale importanza è pertanto il ritrovamento di frammenti di pittura murale (probabilmente databili al IV-V sec. d.C.) nel vestibolo di ingresso del monastero di Jinna-ki-Dheri, nel circondario di Taxila. Crollati sul pavimento nel corso dell'incendio che distrusse il sito e conservatisi proprio grazie al calore che li ha induriti senza carbonizzarli, essi dimostrano sia la fragilità del supporto (tempera su intonaco di argilla mista a fibre vegetali) sia l'elevato livello tecnico e formale della pittura gandharica, anche se in questo caso di epoca relativamente tarda.
Bibliografia
Per una bibl. esaustiva e aggiornata fino alla data di pubblicazione si veda: W. Zwalf, A Catalogue of the Gandhāra Sculpture in the British Museum, London 1996. In generale: Saeed-ur-Rehman (ed.), Archaeological Reconnaissance in Gandhara 1996, Karachi 1996; R. Allchin et al. (edd.), Gandharan Art in Context. East-West Exchanges at the Crossroads of Asia, New Delhi 1997; Sh. Kuwayama, The Main Stūpa of Shāh-jī-kī-Ḍherī. A Chronological Outlook, Kyoto 1997; R. Salomon, Another Reliquary Inscription of the Apraca Princess Uttarā, in BAsInst, 11 (1997), pp. 183-91; M. Taddei, Some Remarks on the Preliminary Reports Published on the Shnaisha Excavations, Swat, in EastWest, 48 (1998), pp. 171-88; P. Cambon - A. Leclaire, Études pétrographiques des collections "gréco-bouddhiques" du Musée Guimet, in ArtAs, 54 (1999), pp. 135-47; Abdur Rahman, Some Remarks on Taddei's Review of Shnaisha, in AncPak, 14 (2001), pp. 310-20; D. Faccenna, Il fregio figurato dello Stūpa Principale nell'area sacra buddhista di Saidu Sharif I, Roma 2001; Y. Nishioka (ed.), Preliminary Report on the Gandharan Buddhist Cultural Study and the Database of the Relics from Zar Dheri, Tokyo 2001; P. Callieri - A. Filigenzi (edd.), Il Maestro di Saidu Sharif. Alle origini dell'arte del Gandhara (Catalogo della mostra), Roma 2002; M. Taddei, Recent Archaeological Researches in Gandhāra, in G. Verardi - A. Filigenzi (edd.), Maurizio Taddei, Collected Articles, Napoli 2003, II, pp. 517-39; M. Ashraf Khan - M. ul-Hasan, Discovery of Mural Paintings from Jinan Wali Ḍherī, Taxila Valley, in Journal of Asian Civilizations, 27, 1 (2004), pp. 14-27; K.A. Behrendt, The Buddhist Architecture of Gandhāra, Leiden - Boston 2004 [rec. di G. Fussman, in JBuddhistSt, 27, 1 (2004), pp. 237-49]; L. Feugère, À propos des "lieux de méditation" des monastères du Gandhāra, d'Afghanistan et d'Asie Centrale, in Z. Tarzi (ed.), Colloque international sur l'art et l'archéologie des monastères gréco-bouddhiques du Nord-Ouest de l'Inde et de l'Asie Centrale (Strasbourg, 17-18 mars 2000), in c.s.; R. Salomon, New Manuscript and Epigraphic Sources for the Study of Gandharan Buddhism, in P. Brancaccio - K. Behrendt (edd.), The Buddhism of Gandhāra. An Interdisciplinary Approach, in c.s.
di Federica Barba
La regione del P., oggi politicamente divisa tra due Stati (P. pakistano da un parte, P. indiano e Haryana dall'altra), è una grande pianura che si estende nel Nord del Subcontinente tra i fiumi Indo e Yamuna ed è un'importante via di collegamento tra l'Asia Centrale e l'India. Dai primi anni Venti del Novecento, con la scoperta della Civiltà dell'Indo, le ricerche archeologiche si sono focalizzate sul sito di Harappa, uno dei centri principali di questa civiltà. Sino a oggi i siti scavati sono circa venti, la maggior parte dei quali risalenti al periodo di Harappa o alla fase tardoharappana. Quest'ultima ha diverse caratteristiche, che ci permettono di individuare quattro aree: P. pakistano, P. indiano, Haryana meridionale e Haryana settentrionale.
Nel P. pakistano le ultime fasi di Harappa, a partire dal 1900 a.C., sono caratterizzate dalla ceramica detta "del Cimitero H", dipinta con figure di zebù, figure umane e motivi floreali stilizzati. Nello Haryana meridionale (distretti di Hisar, Jind e Bhiwani) si trova la cosiddetta "cultura di Siswal", di matrice locale (ceramica rossa dipinta con una banda nera sull'orlo), presente nella regione dalla fine del III millennio a.C. Essa è rappresentata da insediamenti come Banawali, che entrano nel circuito urbano della Civiltà dell'Indo seguendone il declino fino alla scomparsa, e da villaggi come Mitathal, che ne conoscono in misura minore l'influenza e sopravvivono per qualche secolo alla sua fine, dando vita a una cultura tardoharappana caratterizzata da una ceramica dipinta a motivi geometrici dalle forme semplici.
Nel P. indiano, lungo la Satlej, compare intorno al 2000 a.C. la cosiddetta "cultura di Bara", anch'essa parte della tradizione tardoharappana, ma la cui ceramica rossa dipinta di nero presenta una maggiore varietà di forme (tra cui alcune tipicamente harappane) e di disegni dipinti (tra cui motivi a foglie e tralci naturalistici) rispetto a quella tardo-Siswal. I villaggi di questa zona dovevano essere legati alla Civiltà dell'Indo da rapporti commerciali: a Dher Majra sono stati trovati 1200 grani di pietre semipreziose (tra cui lapislazuli e smeraldi) che fanno pensare a questo sito, posto a metà strada tra le montagne e le città dell'Indo, come a un centro di raccolta e lavorazione di questi prodotti per il commercio harappano. L'occupazione di quest'area è comunque relativamente tarda e non si trovano centri urbani.
A partire dalla metà del II millennio a.C. gli insediamenti che sorgevano lungo i corsi inferiori dei fiumi Ghaggar e Chautang (Haryana meridionale) furono abbandonati, forse a causa di dissesti idrologici o per gli effetti sul lungo periodo della fine della Civiltà dell'Indo, la cui definitiva scomparsa potrebbe aver spinto le popolazioni a risalire i fiumi e a stabilirsi più a nord, in un'area aperta a nuovi contatti. Nello Haryana settentrionale (distretti di Kurukshetra e Ambala) si trovano infatti insediamenti come Bhagwanpura, caratterizzati da una ceramica rossa dipinta a motivi geometrici di stile tardo-Siswal. La caratteristica principale di questi villaggi è lo spostamento del loro riferimento culturale dalla valle dell'Indo ‒ ormai priva di centri aggreganti ‒ a quella del Gange, area nella quale si espandono, insieme alla cultura di Bara.
È forse proprio l'incontro tra le popolazioni tardoharappane del Doab e quelle neolitico-calcolitiche della pianura gangetica centrale a stimolare la creazione di un nuovo tipo di vasellame, la Painted Grey Ware (PGW), la cui origine resta un tema ampiamente dibattuto e ancora irrisolto. Nel P., la PGW è stata rinvenuta per la prima volta alla metà del Novecento nel sito di Rupar, dove essa compare nel periodo II, in una fase nettamente distinta dalla precedente. Una sovrapposizione tra gli strati tardoharappani e quelli con la PGW è stata invece postulata a Bhagwanpura, in un periodo datato tra il 1500 e il 1000 a.C. Tuttavia è proprio l'esame della stratigrafia e della cultura materiale nel suo complesso a dimostrarci come questa cronologia e l'ipotesi di una provenienza occidentale di questa ceramica, spesso connessa a ipotetiche invasioni di popolazioni indoeuropee, non siano accettabili. A Sanghol, Dhaderi, Bhagwanpura e Rupar, insieme alla PGW compaiono elementi tipicamente gangetici, come la Black Slipped Ware (BSW) e la Black and Red Ware (BRW); qui le forme della PGW (ciotole e piatti dalle pareti sottili) ricalcano, anche nella decorazione dipinta, proprio le caratteristiche della BSW e della BRW. Si può dunque ipotizzare che sia stato l'incontro con gli abitanti delle aree centrali della valle del Gange a indurre le popolazioni del P. e del Doab ad acquisire, nella prima metà del I millennio a.C., nuovi tratti culturali e, nelle stesso tempo, a creare prodotti originali come la PGW.
Anche la fase seguente è caratterizzata dall'espansione della cultura gangetica, ora rappresentata dall'impero Maurya e dal diffondersi di un'altra ceramica caratteristica del Gange, la Northern Black Polished Ware (NBPW). Nel P. essa è presente solo in alcuni grandi centri come Taxila, Sugh e Rupar. Proprio la fondazione di Taxila e Sugh, che sorgono in una posizione strategica, rispettivamente sulla via che porta in Asia Centrale e sull'attraversamento della Yamuna, testimonia l'importanza del P. come via di collegamento tra l'India e le regioni occidentali. È in questo periodo che si sviluppa in India una civiltà urbana. Mentre la nascita di centri dominanti è certamente un processo locale e autonomo, l'introduzione di elementi tipici di un contesto urbano, come le monete o i mattoni cotti, ha probabilmente origine dal contatto con i Paesi occidentali. In questo quadro il P. è la prima regione ad assorbire le novità provenienti dal mondo greco-iranico, immediatamente recepite dalle città della pianura gangetica (IV sec. a.C.).
La fase successiva all'impero Maurya ha i suoi principali indicatori archeologici nelle monete e nelle figurine di terracotta. A Rupar, ad esempio, sono state rinvenute monete di diversa provenienza, indo-greche e Saka-partiche, di Mathura (200-100 a.C.) e di Taxila (100 a.C. - 100 d.C.), che rappresentano i centri di potere degli ultimi secoli del I millennio a.C. Questo periodo, come il precedente, trova scarso riflesso nei centri minori, dove non arrivavano né le ceramiche di lusso né gli strumenti della civiltà urbana, come le monete, e i secoli tra il periodo della PGW e quello Kushana sono rappresentati da pochi frammenti di ceramica. Solo nel periodo della dominazione Kushana anche nei centri minori la cultura materiale registra innovazioni significative. In questa fase, come nelle precedenti, nel P. sono presenti culture diverse, dal cui incontro nascono stili sincretici e al tempo stesso originali.
Scavi e ricognizioni condotti a partire dagli anni Novanta del Novecento dalla Pakistan Heritage Society di Peshawar e dall'Università della Pennsylvania nel Salt Range e nella NWFP hanno posto le basi per la definizione cronologica e culturale di una importante scuola regionale di architettura templare Hindu, che gli studiosi coinvolti nella ricerca hanno denominato Gandhara-Nagara. Essa si articola in due fasi, comprese fra il VI e il X sec. d.C., e mostra ‒ pur nell'ambito di una sostanziale affinità ‒ una sua piena autonomia dalla contemporanea architettura kashmira, di cui era stata a lungo ritenuta una semplice propaggine.
Bibliografia
Oltre alle notizie in IndAR, si vedano: J. Marshall, Taxila, I-III, Cambridge 1951; S. Bhan, Excavations at Mitathal and Other Explorations in the Sutlej-Yamuna Divide, Kurukshetra 1975; S. Bhan - J. Shaffer, New Discoveries in Northern Haryana, in Man and Environment, 2 (1977), pp. 59-68; J.P. Joshi - Madhu Bala, Life during the Period of Overlap of Late Harappa and PGW Cultures, in JIndSocOrArt, n.s., 9 (1977-78), pp. 20-29; R.S. Bisht, Excavations at Banawali, 1974-77, in G.L. Possehl (ed.), Harappan Civilization, Warminster 1982, pp. 113-24; Y.D. Sharma, Harappan Complex on the Sutlej (India), ibid., pp. 142-65; R.S. Bisht, Further Excavation at Banawali: 1983-84, in B.M. Pande - B.D. Chattopadhyaya (edd.), Archaeology and History. Essays in Memory of Sh. A. Ghosh, Delhi 1987, pp. 135-56; J. Shaffer, Cultural Development in the Eastern Punjab, in J. Jacobson (ed.), Studies in the Archaeology of India and Pakistan, Warminster 1987, pp. 195-235; K.C. Nauriyal, The NBP and Other Associated Wares from Ropar, in JIndSocOrArt, 21 (1990-91), pp. 87-89; J.P. Joshi, Excavations at Bhagwanpura, 1975-76, New Delhi 1993, pp. 1-263; B.R. Meena, Recent Exploration in Saraswati-Ghagghar Basin, in Purātattva, 26 (1995-96), pp. 106-14; M.R. Mughal, A Preliminary Review of Archaeological Surveys in Punjab and Sindh: 1993-95, in SouthAsSt, 13 (1997), pp. 241-49; M.W. Meister, Gandhāra-Nāgara Temples of the Salt Range and the Indus, in Kalā, the Journal of Indian Art History Congress, 4 (1998), pp. 45-52.
di Giovanni Verardi
Sappiamo che il S. fece parte dell'impero achemenide, ma non esistono attestazioni archeologiche su quel periodo. Non ve ne sono nemmeno per l'epoca di Alessandro Magno, quando il S. appare, nelle fonti storiche, in piena luce. Per le epoche seguenti le fonti scritte sono, di nuovo, molto scarse e quelle archeologiche troppo frammentarie perché si possa derivarne un quadro coerente. Tra il IV e il III sec. a.C. il S. fu annesso all'impero Maurya e vi si diffusero buddhismo e brahmanesimo.
Sono soltanto due i siti che aprono qualche spiraglio sul S. dei primi secoli avanti e dopo Cristo. A Brahmanabad/Bahmanabad, circa 60 km a est di Hyderabad, nei pressi dell'antica capitale islamica di Mansura, sono attestati alcuni ringwells, i pozzi ad anelli modulari diffusi in tutta l'India del Nord e in parte del Deccan nel II-I sec. a.C. I materiali pertinenti, portati alla luce nell'Ottocento, non sono stati studiati e il sito, gravemente saccheggiato nel corso del tempo, non è mai più stato oggetto d'indagine archeologica. A Banbhore, circa 60 km a est di Karachi, identificato con il porto di Debal citato nelle fonti islamiche, sono emerse evidenze del I sec. a.C. e dei primi secoli d.C., in particolare la tipica ceramica rossa polita nota da numerose altre località indiane. Speciale interesse hanno qui i resti di un tempio shivaita in mattoni crudi risalente al VI-VII sec. d.C., i numerosi liṅgam ‒ uno dei quali in situ ‒ e le pavimentazioni in battuto decorate con conchiglie. I frammenti di un'immagine di pietra di Vishnu indicano che esso non era comunque il solo edificio cultuale brahmanico nell'area.
Dal 1920 in poi, a seguito della scoperta delle città protostoriche della valle dell'Indo, scarsa o nulla attenzione è stata dedicata ai siti e ai monumenti di epoca storica, abbandonati a sé stessi e soggetti a spoliazioni che continuano tuttora. Mancano del tutto indagini nelle località, come Sehwan, di cui si è proposta l'identificazione con città di epoca achemenide e greca. L'assenza di scavi rende il S. storico una delle regioni meno note dell'Asia meridionale. La maggior parte delle nostre conoscenze proviene dai monumenti buddhisti portati alla luce nei primi due decenni del Novecento, datati un tempo tra il II e il IV sec. d.C., ma oggi ritenuti non anteriori al VI secolo, vale a dire all'epoca che seguì la fine del dominio Gupta, quando in diverse regioni dell'India crebbe una nuova, importante committenza buddhista. Alcuni di essi vissero fino a un'epoca piuttosto tarda (X sec. e oltre). Dovevano però esistere anche insediamenti più antichi, come si evince dall'iscrizione su rame dell'anno 11 di Kanishka I (prima metà del II sec. d.C.) proveniente da Sui Vihar presso Bahawalpur nel Panjab, storicamente parte del S.
Tra i siti buddhisti che meritano di essere citati è Dhamrao/Dhamraho (Dharmarājika) presso Larkhana, mai scavato, formato da una città bassa, un'imponente cittadella (gravemente depredata), un'area sacra e numerosi siti satelliti. Lo stūpa, come tutti quelli noti del S., è costruito con mattoni crudi e rivestito all'esterno da mattoni decorati molto ben cotti. Ancora nel S. settentrionale, ma sulla riva sinistra dell'Indo, si segnalano i siti di Shah Shakar Ganj e Sirajji Takri, nelle Rohri Hills. In quest'ultimo sito, molto eroso e in parte distrutto dalle attività di cava, si riconoscono i resti di un abitato e di un'area sacra. Di recente sono state condotte analisi archeometriche su varie classi di materiali e si è anche potuto stabilire che il sito visse fino all'VIII secolo. I materiali decorativi che ne provengono, databili al VI-VII secolo, sono vicini alla produzione tardogandharica dell'Afghanistan meridionale. Più a sud sono da ricordare il ben noto stūpa di Thul Mir Rukan, tipologicamente vicino agli stūpa del Gandhara, pertinente a un'area sacra vissuta fin verso il X sec. d.C., e quello di Kahu-jo Daro presso Mirpur Khas, scavato da H. Cousens nel 1910, da cui provengono noti rilievi di terracotta di epoca post-Gupta.
Nel 1916, D.R. Bhandarkar portò alla luce un'altra parte del sito, dove espose una grande terrazza su cui sorgevano numerosi stūpa votivi (oggi scomparsi) databili all'VIII secolo e oltre. Dai pressi di Mirpur Khas proviene la celebre immagine di bronzo di Brahma databile al VII secolo, ora nel Museo di Karachi, una delle sculture più importanti dell'Asia Meridionale del periodo. È evidente come molto resti da chiarire sulla natura degli insediamenti di questa parte del S., con particolare riferimento al periodo immediatamente precedente alla conquista islamica e a quello che immediatamente seguì. Non sappiamo quasi nulla nemmeno del contesto a cui appartengono i frammenti di immagini Hindu portate alla luce a Brahmanabad nel 1800, quando furono scoperti anche gli avori figurati pertinenti a un mobilio che si trovano ora al British Museum. Tra gli insediamenti buddhisti si ricordano anche, nella parte più meridionale del S., il sito di Koriani, comprendente un'area sacra e un abitato, Sudheran-jo Daro e, nei pressi di Umarkot, nel deserto del Thar, Kijrari, da cui provengono placche votive di terracotta simili a numerose altre note dal S. e da altre regioni del Subcontinente, rappresentanti serie di stūpa, il Buddha in bhūmisparśamudrā, ecc., tutte databili tra l'VIII e il X-XI secolo.
Molti dubbi si possono sollevare sulla natura dello stūpa e del monastero di Mohenjo Daro, a pochi chilometri di distanza da Dhamrao. Fu portato alla luce nel 1922 da R.D. Banerji, delle cui note, rimaste a lungo inedite, si servì J. Marshall per stendere il capitolo sulla cosiddetta "area dello stūpa". Soltanto la struttura cilindrica e cava in crudo, interpretata come tamburo dello stūpa, può essere considerata di epoca storica. Il "plinto" di mattoni cotti, del tutto sproporzionato rispetto al "tamburo", era interamente ricoperto, al momento dello scavo, di cenere e, come l'intera area, da urne di epoca protostorica. Durante lo scavo non fu rinvenuto alcun frammento decorativo e iconografico di appartenenza buddhista.
Bibliografia
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di Federica Barba
Il sito di Bh. sorge lungo la sponda destra del fiume Sarasvati, nel distretto di Kurukshetra, in Haryana, su una bassa collina di circa 1 ha livellata nel corso dei secoli dalle inondazioni.
È stato scavato nel 1976 da J.P. Joshi, che vi ha voluto individuare una fase di sovrapposizione tra il periodo IA, tardoharappano, e quello IB, in cui viene introdotta la Painted Grey Ware (PGW). Il periodo IA è stato datato da Joshi al 1700-1300 a.C., citando come riferimento cronologico un gran numero di siti in varie regioni, dal Panjab (Bara), allo Haryana (Mitathal) e al Doab (Ambkheri, Bargaon e Hulas). La ceramica rossa dipinta in nero a motivi geometrici (linee orizzontali) del periodo IA di Bh., caratterizzata da pochi tipi (vaso ad alto collo, ciotola a orlo dritto, piatto su piede con orlo ripiegato verso il basso, vaso in miniatura), sembra però corrispondere più alla cultura tardo-Siswal di Mitathal IIB (1700-1500 a.C.) che alla cultura di Bara, risalente all'inizio del II millennio a.C., la cui ceramica presenta, oltre a una maggiore varietà di forme, anche una decorazione di foglie e tralci naturalistici assente a Bh. e Mitathal. Nello Haryana settentrionale la cultura di Bara è rara: in una ricognizione effettuata nel 1987, sono stati individuati nel distretto di Kurukshetra solo 15 siti Bara a fronte di 40 definiti come "tardoharappani". La fondazione di Bh. è quindi probabilmente da riconnettersi all'abbandono, intorno alla metà del II millennio a.C., dello Haryana meridionale, dove era presente la cultura tardo-Siswal. Possiamo inoltre osservare che, mentre i villaggi della prima metà del II millennio a.C. gravitavano ancora intorno all'Indo, quelli della seconda metà, che sorgono quando la civiltà di Harappa è ormai scomparsa, sono orientati verso il Gange: villaggi che presentano una cultura paragonabile a quella di Bh. furono fondati in questo periodo nel Doab (ad es., Hulas e Alamgirpur).
Il periodo IB è ancora caratterizzato dalla ceramica tardoharappana, presente però solo negli strati più antichi. La PGW compare invece a partire dagli ultimi strati di questo periodo, insieme alla Black Slipped Ware (BSW) e ad alcuni frammenti di una ceramica decorata con impressioni a corda, elementi questi tipici della cultura neolitico-calcolitica delle aree centrali della valle del Gange (Chirand, Senuwar, Koldihawa). Dagli strati più recenti del periodo IB provengono anche una ceramica rossa paragonabile a quella di Hastinapura II e III e un tipo di pendente d'avorio diffuso in alcuni siti del Panjab e del Doab nel periodo della Northern Black Polished Ware (NBPW): Taxila I, Hulas III, Rupar III, Mathura II, Atranjikhera IVA, Alamgirpur II, Sonkh II. La NBPW compare in queste regioni non prima del IV sec. a.C., così come i mattoni cotti, in uso a Bh. nel periodo IB. Dalla descrizione delle singole trincee risulta infine che solo nello strato relativo all'ultima inondazione che distrusse l'insediamento (trincee A1, B1 e A3), probabilmente mescolando i depositi dei due periodi, sono state rinvenute sia la ceramica tardoharappana sia la PGW.
Dal rapporto di scavo non si evince quindi l'esistenza di una sovrapposizione: gli ultimi strati del periodo IB di Bh. presentano una cultura materiale ben distinta da quella degli strati precedenti, riconducibile a quella del Doab nei periodi delle ceramiche PGW e NBPW. La stessa origine della PGW deve essere vista nel contesto dell'incontro tra le popolazioni delle regioni occidentali (dal Panjab al Doab) e quelle della pianura gangetica centrale. La cultura di Bh. non è probabilmente la più antica: le ultime fasi del periodo IB, che già vede l'uso di mattoni cotti, sembrano collocarsi nella seconda metà del I millennio a.C.
Bibliografia
Y.D. Sharma, Exploration of Historical Sites, in AncInd, 9 (1953), pp. 116-69; B.B. Lal, Excavation at Hastināpura, ibid., 10-11 (1954-55), pp. 5-151; IndAR, 1975-76, p. 16; S. Bhan - J. Shaffer, New Discoveries in Northern Haryana, in Man and Environment, 2 (1977), pp. 59-68; J.P. Joshi - Madhu Bala, Life during the Period of Overlap of Late Harappa and PGW Cultures, in JIndSocOrArt, n.s., 9 (1977-78), pp. 20-29; K.N. Dikshit, Hulas and the Late Harappan Complex in Western Uttar Pradesh, in G.L. Possehl (ed.), Harappan Civilization, Warminster 1982, pp. 339-51; J.P. Joshi - Madhu Bala, Manda: a Harappan Site in Jammu and Kashmir, ibid., pp. 185-95; R.C. Gaur, The Excavations at Atranjīkerā. Early Civilization of the Upper Gangā Basin, Delhi 1983; M. Kumar, Archaeological Investigation in Kurukshetra, in A.K. Shastri - R.K. Sharma - A. Prasad (edd.), Vajapeya. Essays on Evolution of Indian Art & Culture, Delhi 1987, pp. 53-62; H. Härtel - V. Moeller (edd.), Excavations at Sonkh. 2500 Years of a Town in Mathurā District, Berlin 1993; J.P. Joshi, Excavations at Bhagwanpura, 1975-76, New Delhi 1993.
di Pierfrancesco Callieri
Sito della valle dello Swat (Pakistan nord-occidentale) nei pressi del villaggio di Barikot, ai piedi del colle omonimo, identificato con la città di Bazira conquistata da Alessandro Magno nel 327 a.C.
Il sito è stato oggetto di ricerche da parte della Missione Archeologica dell'Istituto per il Medio ed Estremo Oriente a partire dal 1966 relativamente all'abitato di epoca protostorica, mentre a partire dal 1984 le ricerche hanno interessato anche la città di epoca storica, che occupa un'area di circa 10 ha sulle pendici meridionali del colle e sul pianoro a sud di questo.
Le più antiche tracce di occupazione risalgono al secondo quarto del II millennio a.C. I materiali portati alla luce documentano l'esistenza di un artigianato di buon livello tecnico e mostrano connessioni con la cultura harappana e postharappana. La vita dell'insediamento proseguì nel I millennio a.C. La città di epoca storica è limitata a sud e a ovest da un imponente muro di cinta. Il muro, spesso 2,7 m, è una struttura massiccia di pietra non tagliata, con fossato sul lato a sud. Bastioni o torri rettangolari, pieni, aggettano dal muro a intervalli regolari di circa 29 m: di questi ne sono stati individuati e in parte portati alla luce tre sul lato sud e uno sul lato ovest, oltre alla torre all'angolo sud-ovest della cinta, di pianta pentagonale. Il muro, che i dati numismatici e ceramici datano al periodo indo-greco (II sec. a.C.), per le sue caratteristiche topografiche, planimetriche e costruttive sembra rientrare a pieno titolo nell'architettura dell'Ellenismo orientale. Nell'area dell'abitato racchiuso dalle fortificazioni sono state scavate finora quattro trincee. Nell'angolo sud-ovest (trincea 4-5) la presenza di una piccola area cultuale buddhistica rappresenta una testimonianza di particolare interesse per il periodo dal II al IV-V sec. d.C.; risalgono poi al IV-V sec. d.C. due unità abitative separate da una strada.
A ridosso del tratto centro-occidentale del lato sud del muro (trincea 3) sono state portate alla luce strutture che sembrano appartenere a un palazzo con due fasi (I-II sec. d.C. e III-IV sec. d.C.). Nel pianoro (trincea 1) è stata messa in luce una sequenza stratigrafica che inizia attorno al II e prosegue fino al III-IV sec. d.C., per poi riprendere nell'età medioislamica (ca. XIV-XV sec.?). Sul pendio (trincea 2), l'occupazione inizia attorno al I sec. d.C. e prosegue, pressoché ininterrotta, fino all'XI-XII sec. d.C., favorita dalla posizione meglio difendibile. Qui è stata rinvenuta una sala quadrata, costruita su un alto basamento addossato al pendio con contrafforti circolari ai due angoli meridionali, con quattro colonne in muratura disposte simmetricamente e un focolare al centro. L'edificio, di probabile funzione cultuale, è stato attribuito all'VIII-IX sec. d.C.
Sulla sommità del colle, le quattro trincee di saggio scavate (trincee 6-9) indicano che l'occupazione dell'area è iniziata nel corso del II millennio a.C. Se i livelli di epoca indo-greca appaiono completamente cancellati dall'episodio di spoliazione di un grosso muro (fortificazione?) verificatosi nel II sec. d.C., l'occupazione del periodo Kushana si presenta importante, anche se poco indagata. Meglio note sono le fasi di epoca Shahi, quando sul limite orientale del colle viene costruita un'imponente terrazza artificiale sulla quale sorge un tempio brahmanico di pianta rettangolare orientato a est, con imponenti dimensioni (23,17 × 14,7 m), di cui si conserva solo il basamento. Lo scavo archeologico ha documentato due fasi strutturali, tra il VII e l'XI sec. d.C. Di particolare rilievo sono i frammenti della decorazione scultorea di stucco e di pietra. Al saccheggio della prima conquista islamica dell'XI secolo segue un complesso architettonico che sembra occupare il periodo ghaznavide.
Bibliografia
P. Callieri, Bīr-koṭ-ghwaṇḍai. Trench BKG 1, in EastWest, 34 (1984), pp. 484-93; A. Filigenzi, Bīr-koṭ-ghwaṇḍai. Trench BKG 2, ibid., pp. 493-500; Ead., Excavations at Bīr-koṭ-ghwaṇḍai: the Historical Layers, ibid., 35 (1985), pp. 436-39; P. Callieri, Archaeological Activities at Bīr-koṭ-ghwaṇḍai, Swāt: a Contribution to the Study of the Pottery of Historic Age from N.W.F.P., in SAA 1987, pp. 675-92; G. Stacul, Prehistoric and Protohistoric Swāt, Pakistan (c. 3000-1400 B.C.), Roma 1987; P. Callieri et al., Bīr-koṭ-ghwaṇḍai 1990-1992. A Preliminary Report on the Excavations of the Italian Archaeological Mission, IsMEO, Napoli 1992; P. Callieri et al., Bīr-koṭ-ghwaṇḍai, Swāt, Pakistan. 1998-1999 Excavation Report, in EastWest, 50 (2000), pp. 191-226; P. Callieri - L. Colliva - Abdul Nasir, Bīr-koṭ-ghwaṇḍai, Swāt, Pakistan. Preliminary Report on the Autumn 2000 Campaign of the IsIAO Italian Archaeological Mission in Pakistan, in AnnOrNap, 60-61 (2000), pp. 215-32; L. Olivieri, Bīr-koṭ-ghwaṇḍai Interim Reports, I. The Survey of the Bir-kot Hill. Archaeological Map and Topographic Documentation, Roma 2003; P. Callieri et al., Bīr-koṭ-ghwaṇḍai Interim Reports, II, Roma 2004.
di Federica Barba
Sito del Panjab indiano, scavato tra il 1991 e il 1997, allo scopo di chiarire l'esistenza di una fase di sovrapposizione (già ipoteticamente individuata a Bhagwanpura) tra il periodo tardoharappano e quello della Painted Grey Ware (PGW).
Durante le prime campagne di scavo (1991-93) il suolo naturale non fu raggiunto, ma venne segnalato il ritrovamento, negli strati più antichi, di frammenti di ceramica tardoharappana associata a PGW e a Black Slipped Ware (BSW) e, nel 1993, anche a ceramica di periodo Kushana. Nel 1994, in una trincea di 2 × 2 m, immediatamente al di sopra del suolo naturale furono messi in luce strati tardoharappani, in cui però non si individua alcuna sovrapposizione con il periodo della PGW; inoltre, gli scarsi ritrovamenti (frammenti di ceramica pertinenti a piatti su piede, bicchieri e olle in miniatura, grandi vasi) non consentono di inquadrarli in una fase cronologica precisa: questa potrebbe infatti risalire sia alla prima metà del II millennio a.C., ed essere dunque parte della cultura di Bara dell'area della Satlej, sia alla seconda metà, come i siti tardoharappani dell'area del fiume Ghaggar, dove si trova B. La stratigrafia del mound da cui provengono i resti tardoharappani rivela la presenza di numerose buche scavate nei periodi successivi: l'area era rimasta quindi disabitata e forse l'intero sito fu abbandonato per un certo tempo.
Il periodo successivo è caratterizzato dagli elementi tipici della fase della PGW: ornamenti di rame, vetro e conchiglia, fusaiole di terracotta biconiche, stili d'osso; sono inoltre stati rinvenuti frammenti di BSW, ceramica da mensa diffusa nella pianura gangetica centrale, insieme alla Black and Red Ware (BRW), nel II millennio a.C. La PGW sembra imitare tanto nelle forme, che comprendono vari tipi di ciotole (emisferiche, a pareti dritte e con corpo a costolature) e grandi piatti, quanto nel repertorio della decorazione dipinta a disegni geometrici (punti, linee, cerchi) queste due ceramiche; essa quindi non rappresenta l'arrivo di nuove popolazioni provenienti dalle regioni occidentali, che si sarebbero inserite nel contesto tardoharappano, come si è sostenuto con la cosiddetta "teoria della sovrapposizione", ma piuttosto l'influenza della cultura gangetica sulle popolazioni del Doab e del Panjab. Le culture tardoharappane, infatti, colonizzando il Doab durante il II millennio a.C., entrarono in contatto con i siti neolitico-calcolitici delle aree centrali della valle del Gange, come è evidenziato dalla presenza di ceramica con impressioni a corda in alcuni siti tardoharappani e in quelli caratterizzati dalla Ochre Coloured Pottery (OCP) e, dall'altra parte, di ornamenti di faïence in quelli gangetici. Nonostante la cultura tardoharappana sembri scomparire, una continuità di occupazione nel Doab e nel Panjab è evidenziata dal fatto che gli insediamenti del periodo della PGW, come nel caso di B., sorgono nelle stesse località dei siti della fase precedente (tardoharappana e OCP). In base alla cronologia della NBPW, che compare nel Doab e nel Panjab nel 400 a.C., e alla date ottenute con il metodo del 14C, possiamo collocare l'inizio della fase della PGW all'VIII sec. a.C.
L'espansione dei siti delle aree centrali della pianura gangetica continua nella seconda metà del I millennio a.C., quando in tutta l'India settentrionale si diffonde la NBPW. Nel Panjab, questa ceramica è rintracciabile solo nei centri maggiori a partire dal IV sec. a.C. A B. non è stata rinvenuta e il sito conserva fino al periodo Shunga le caratteristiche del villaggio. È solo a partire dal I sec. a.C. e poi in epoca Kushana che nel sito compaiono tratti urbani, come l'uso di monete e sigilli, strutture di mattoni cotti, ornamenti di lapislazuli e corallo: ora B. partecipa a scambi su lunga distanza, diventando probabilmente il centro più importante della zona del fiume Ghaggar, in posizione intermedia tra città come Sugh, sulla Yamuna, e Sanghol, sulla Satlej.
Bibliografia
Oltre alle notizie in IndAr dal 1990 al 1997, si vedano: Y.D. Sharma, Exploration of Historical Sites, in AncInd, 9 (1953), pp. 116-69; Id., Harappan Complex on the Sutlej (India), in G.L. Possehl (ed.), Harappan Civilization, New Delhi 1982, pp. 142-65; T.N. Roy, The Ganges Civilization. A Critical Archaeological Study of the Painted Grey Ware and Northern Black Polished Ware Periods of the Ganga Plains of India, New Delhi 1983; C. Margabandhu - G.S. Gaur, Some Fresh Evidence from Sanghol Excavations, 1986, in Purātattva, 16 (1985-86), pp. 73-78; Iid., Sanghol Excavations, 1986. Some New Evidences, ibid., 17 (1986-87), pp. 1-4; J.P. Joshi, Excavations at Bhagwanpura, 1975-76, New Delhi 1993.
di Pierfrancesco Callieri
Nome moderno di un sobborgo di Mingora, il principale centro del distretto dello Swat (NWFP, Pakistan), attribuito a tre diversi siti archeologici: la principale area sacra buddhistica della regione, posta nel tratto pianeggiante della valle del fiume Jambil (Butkara I), una necropoli protostorica sul pendio del versante meridionale della medesima valle (Butkara II) e una seconda area sacra buddhistica adiacente al terreno della necropoli (Butkara III). I primi due siti sono stati portati alla luce tra il 1956 e il 1962 da archeologi dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente diretti da D. Faccenna, il terzo sito è stato scavato nel 1982 e nel 1985 dal Dipartimento di Archeologia dell'Università di Peshawar.
Il recinto sacro, di forma approssimativamente quadrata e pavimentato con lastre di scisto, ha al centro il Grande Stupa, circondato da monumenti minori, stūpa, cappelle (vihāra) e colonne. Sul lato nord è il Grande Edificio, con scalinata a sud, affiancato da una fila di vihāra. Il complesso, per la sua posizione ai margini dell'antica città identificata da G. Tucci con Mengjieli, ricordata dalle fonti cinesi, può essere riconosciuto come il santuario di Tolo, menzionato dal pellegrino cinese Songyun (520 d.C.). Il Grande Stupa è a pianta circolare, affine in area gandharica ad altri stūpa di tradizione più antica, come, ad esempio, il Dharmarājikastūpa di Taxila, e a quelli dell'India centrale e meridionale. Ha subito quattro ricostruzioni che si sono via via aggiunte al primo monumento, ciascuna inglobando la precedente, con il medesimo ricettacolo per reliquie, ma con diverse deposizioni di monete in nicchie che, assieme agli altri rinvenimenti di monete nel resto dell'area sacra, permettono una datazione dei diversi periodi. Il Grande Stupa 1 (III sec. a.C.) è costituito da una cupola di blocchi parallelepipedi di scisto nero (diam. 11,44 m) emergente da un tumulo. Nel Grande Stupa 2 (II sec. a.C.) la cupola resta la medesima, mentre il tumulo è rivestito da un cilindro di muratura a blocchi.
Una nuova concezione formale si manifesta nel Grande Stupa 3 (I sec. a.C. - I sec. d.C.), che vede al di sotto della cupola due corpi cilindrici sovrapposti, il superiore arretrato rispetto all'inferiore, con quattro gradinate sugli assi. Lungo le gradinate e l'orlo del primo corpo corre un'elegante balaustra di elementi di talco, un materiale di recente impiego utilizzato anche per il paramento della nuova struttura, assieme allo scisto verde usato per gli elementi di decorazione architettonica, mentre fanno la loro comparsa basi e cornici modanate. Tali elementi sono ripetuti anche nel Grande Stupa 4 (II-VII sec. d.C.), che vede sei diverse fasi corrispondenti a mutamenti nel monumento e nell'ambulacro che lo circonda. Lungo il corpo inferiore del Grande Stupa sono ricavate delle nicchie dietro le quali sono ricettacoli per deposizioni di reliquie e di monete, chiuse da rilievi figurati più antichi qui riutilizzati. La parete del monumento è rivestita da più mani d'intonaco di calce, la seconda delle quali presenta una decorazione dipinta con un festone rosso e nero con fiori di loto aperti nelle anse; statue di stucco sono erette contro la parete del Grande Stupa e contro la parete del muro dell'ambulacro. Quest'ultimo, sopraelevato sul piano dell'area sacra, presenta inizialmente quattro ingressi sugli assi principali, trasformati in seguito in porte; alcune di queste vengono successivamente richiuse, mentre l'ambulacro è limitato in modo continuo da nuovi monumenti perimetrali e da tratti di muro che finiscono per separarlo dal resto del complesso. Il pavimento a lastre di scisto nero è coperto poi con lastre di scisto verde e quindi con diversi strati d'intonaco di calce. Dopo una serie di eventi naturali catastrofici, che assieme al Grande Stupa distruggono tutti gli altri monumenti dell'area sacra, viene ricostruito, in forme semplificate, tecnica povera e materiali di recupero, il Grande Stupa 5 (VIII-X sec. d.C.), l'unico monumento di quest'ultimo periodo.
I monumenti che circondano il Grande Stupa sono stati distribuiti nella successione di questi periodi sulla base della correlazione dei pavimenti e della stratigrafia e delle connessioni strutturali. La lunga vita dell'area sacra, scandita da frequenti distruzioni e ricostruzioni, è connessa con mutamenti nella planimetria: nei periodi più antichi la crescita è armonica e gli edifici si dispongono via via secondo un progetto compositivo, che culmina nella grande simmetria dell'area relativa al Grande Stupa 3 e al Grande Edificio. Nei periodi successivi il gran numero di nuovi monumenti provoca un denso affollamento, guidato dai mutamenti degli ingressi sia all'ambulacro del Grande Stupa sia all'area sacra. Lo scavo di Butkara I fornisce quindi la documentazione sicura dell'evoluzione tecnica e architettonica delle singole classi di monumenti, degli elementi che li compongono e delle loro modanature. Solo in parte connesso a questo tessuto architettonico è il gran numero di sculture di scisto verde, rinvenute in prevalenza negli strati di crollo o riutilizzate negli ultimi periodi del complesso e quindi scolpite in origine per monumenti di cui non resta testimonianza. L'appartenenza a un unico centro artistico, articolato in diverse botteghe caratterizzate da proprie tendenze stilistiche, conferisce particolare importanza alla valutazione di queste sculture. La loro sequenza cronologica relativa, ottenuta mediante lo studio dei numerosi rilievi rilavorati sul retro dopo il primo danneggiamento per essere di nuovo impiegati, trova un riferimento assoluto nel confronto con la decorazione architettonica e figurata di due stūpa, databili sulla base della stratigrafia al periodo del Grande Stupa 3: la datazione al volgere dell'era cristiana del gruppo di sculture a questi correlate rappresenta uno dei pochi riferimenti cronologici certi per l'arte del Gandhara.
Necropoli appartenente alla civiltà protostorica dello Swat (1400-300 a.C. ca.). Sono state scavate 48 tombe, che attestano contemporaneamente entrambi i rituali dell'inumazione e della parziale cremazione. Le tombe, orientate nord-sud, presentano una fossa articolata in due sezioni sovrapposte: quella inferiore conteneva il corpo di fianco in posizione raccolta, con il capo verso il monte, o l'urna con i resti semicombusti, entrambi accompagnati dal corredo, ed era coperta di lastre poggianti sul suo orlo superiore. La sezione superiore, più profonda e larga, era colmata di terra probabilmente fino al livello del piano di calpestio, non più conservato a causa di lavori di terrazzamento del terreno: il confronto con le altre necropoli protostoriche dello Swat, tuttavia, suggerisce l'assenza di semata.
L'area sacra buddhistica, già individuata nel corso dello scavo della necropoli, si compone di due terrazze separate da un torrente stagionale, il cui letto era in origine canalizzato da opere murarie. La terrazza principale, a sud-ovest, è limitata sui due lati sud e ovest da una serie di vihāra in parte costruiti contro il colle, in parte scavati nella sua argilla, alcuni dei quali conservano quasi intatta la copertura a pseudovolta ad aggetti progressivi e racchiudono uno stūpa; altri monumenti occupano l'area centrale. La seconda terrazza è limitata su due lati ad angolo da ambienti con probabile funzione residenziale. Sulla base della successione dei pavimenti, della modesta stratigrafia, delle diverse tecniche murarie e di alcune monete, viene delineata una periodizzazione in quattro fasi, comprese fra il I e il IV sec. d.C. La decorazione scultorea, di gran pregio, è stata rinvenuta non solo negli strati di crollo o nella riutilizzazione successiva, ma in qualche caso anche nella collocazione originaria.
Bibliografia
G. Alciati, I resti ossei umani delle necropoli dello Swāt, I. Butkara II, Roma 1967; C. Silvi Antonini - G. Stacul, The Proto-historic Graveyards of Swāt (Pakistan), Rome 1972; D. Faccenna, Excavations of the Italian Archaeological Mission (IsMEO) in Pakistan. Some Problems of Gandharan Art and Architecture, in Central Asia in the Kushan Period. Proceedings of the International Conference (Dushanbe, September 27 - October 6 1968), I, Moskva 1974, pp. 126-76; R. Göbl, A Catalogue of Coins from Butkara I (Swāt, Pakistan), Roma 1976; D. Faccenna, Butkara I (Swāt, Pakistan) 1956-1962, I-V, Roma 1980-81 (con bibl. prec.); A. Rahman, Butkara III: a Preliminary Report, in SAA 1987, II, pp. 693-706; D. Faccenna, Il complesso buddhista di Butkara I: nascita e sviluppo, in P. Callieri - A. Filigenzi (edd.), Il maestro di Saidu Sharif. Alle origini dell'arte del Gandhara (Catalogo della mostra), Roma 2002, pp. 107-12; Id., Le prime testimonianze di arte figurativa: il centro artistico di Butkara I ed i gruppi stilistici, ibid., pp. 113-19.
di Pierfrancesco Callieri
Città della provincia della NWFP, Pakistan, nei pressi della confluenza dei fiumi Swat e Kabul, identificata da A. Cunningham con l'antica Pushkalavati, la "città del loto", fondata secondo il Rāmāyaṇa contemporaneamente a Taxila e nota ai Greci come Peukelaotis.
I primi scavi, eseguiti da J. Marshall nel 1903 sulla collinetta nota come Bala Hissar e nei dintorni, non dettero i risultati sperati. Solo nel 1958 le trincee di saggio scavate da sir Mortimer Wheeler per il Dipartimento di Archeologia del Pakistan portarono alla luce i resti di un'intensa occupazione dal I millennio a.C. fino al IV-V sec. d.C., con una rioccupazione in età islamica a partire dall'VIII sec. d.C. L'insediamento di fondazione indo-greca, individuato da Wheeler sulla collinetta di Shaikhan Dheri grazie alle fotografie aeree, venne esplorato nel 1963 e 1964 da una missione dell'Università di Peshawar sotto la direzione di A.H. Dani e con la partecipazione di F.R. Allchin.
Le trincee scavate da Wheeler, pur nella loro limitata estensione, per il rigore metodologico dello scavo costituiscono un punto di riferimento fondamentale per l'archeologia del Pakistan settentrionale. La trincea principale (Charsada I) è rappresentata da un taglio verticale nel limite orientale del Bala Hissar, eroso dall'asportazione del terreno usato dai contadini come fertilizzante; con il suo prolungamento verso est sul piano di campagna moderno (Charsada IIIA) ha permesso di ricostruire la sequenza culturale completa del sito. L'interpretazione della stratigrafia si è basata prevalentemente sullo studio della ceramica, pionieristico per l'archeologia del Gandhara e all'epoca privo di materiali di confronto. L'individuazione di otto tipi-chiave distinti per la forma o per gli aspetti fisici e l'esame della loro posizione relativa all'interno delle sequenze stratigrafiche hanno permesso a Wheeler di proporre una cronologia assoluta, sorretta da alcuni postulati basati sulle notizie storiche o sull'evidenza dei materiali stessi, che nel suo complesso si può considerare ancora valida.
L'inizio della frequentazione, che Wheeler collocava nel VI sec. a.C., sembra tuttavia risalire alla fine del II millennio a.C.; la vita dell'abitato prosegue intensa sino al II-I sec. a.C., quando si sviluppa il nuovo centro a Shaikhan Dheri, per poi continuare ridotta sino all'età post-Kushana, con un'ultima occupazione islamica di datazione ancora imprecisata. Una serie di saggi effettuati da nord a sud lungo il piede est del Bala Hissar (Charsada III) ha portato alla luce un fossato scavato nel terreno naturale, parallelo all'antico letto di un fiume (Charsada II). Adiacente al fossato, in origine approssimativamente largo 5 m e profondo 3 m, era un aggere di terra demolito già in antico colmando il fossato; due file di fori circolari scavati nel terreno perpendicolarmente al fossato e all'aggere sono da riferire verosimilmente a una postierla rivestita di legno e a un ponte. L'attribuzione di tale fortificazione al momento dell'assedio che, secondo Arriano, Efestione, generale di Alessandro, aveva dovuto porre alla città di Peukelaotis guidata dal governatore Astes prima di conquistarla nel 327 a.C., sembra confermata dai ritrovamenti ceramici e costituisce forse l'unica testimonianza archeologica direttamente legata alla spedizione del Macedone in India. L'espansione della città sulla sponda orientale dell'antico fiume è inoltre testimoniata da una casa parzialmente scavata (Charsada IV e V), costruita con mattoni crudi quadrati e caratterizzata da cinque fasi strutturali, tra il IV e il II sec. a.C. Il periodo successivo alla conquista indo-greca vede la nascita di un nuovo centro urbano, che finisce per soppiantare l'antico abitato in modo parallelo a quanto attestato a Taxila. Questo insediamento, sul sito di Shaikhan Dheri, è caratterizzato da un impianto ortogonale ben evidenziato nelle fotografie aeree e confermato dai pur limitati scavi pakistani.
La maggior parte delle strutture portate alla luce è stata datata, sulla base delle monete rinvenute, ai periodi Saka-partico e Kushana, dal I sec. a.C. alla metà del III sec. d.C. circa, e solo in alcuni saggi in profondità sono documentate strutture del periodo indo-greco, in muratura di pietra con fondazioni di mattoni crudi. Tuttavia la pratica, attestata per il periodo Kushana, di spoliazione delle strutture più antiche di pietra, utilizzando le fosse di spoliazione per nuove fondazioni di mattoni crudi e il prezioso materiale edilizio per le nuove strutture, rende probabile che l'impianto della città più tarda ricalchi quello del primo insediamento. Tra le strutture di età Kushana spicca la cosiddetta "casa di Naradakha" (dal nome di un monaco ricordato da un'iscrizione dedicatoria su reliquiario probabilmente a forma di stūpa), con ambienti disposti su tre lati di una corte aperta e quattro principali fasi costruttive. L'insediamento decade nel III sec. d.C. e la città posteriore, ricordata dal pellegrino cinese Xuan Zang nel 630 d.C., doveva occupare una delle altre collinette circostanti, ancora non esplorate.
Bibliografia
A. Cunningham, in ASI, 2 (1863-64), p. 89; J.H. Marshall - J.Ph. Vogel, Excavations at Charsada, in ASIAR, 1902-1903, pp. 141-84; M. Wheeler, Chārsada. A Metropolis of the North-West Frontier, Oxford 1962; A.H. Dani, Shaikhan Dheri Excavation. 1963 & 1964 Seasons, in AncPak, 2 (1965-66), pp. 17-214; R. Dittmann, Problems in the Identification of an Achaemenian and Mauryan Horizon in North-Pakistan, in AMI, n.s., 17 (1984), pp. 155-93; G. Stacul, On Chārsada and beyond: What is Wrong with Sir Mortimer?, in SAA 1987, II, pp. 605-10; W. Vogelsang, A Period of Acculturation in Ancient Gandhara, in SouthAsSt, 4 (1988), pp. 103-13; J. Husain, Pottery Classification System - a Proposed Model for Shaikhan Dheri Pottery, in PakA, 25 (1990), pp. 367-85.
di Marco Ferrandi
Località del Sind (Pakistan) nota per lo stūpa di Kahu-jo Daro, ubicata a meno di 1 km a nord del villaggio moderno di M.Kh., messo in luce negli anni 1909-10 dagli scavi di H. Cousens. Della struttura restano oggi solo tracce del nucleo, mentre si conserva buona parte della decorazione scultorea, che fu asportata al momento dello scavo. Nel 1916 D.R. Bhandarkar esplorò una diversa zona del sito, scoprendo una "foresta di stūpa più piccoli" con reliquiari, due monasteri (vihāra) e numerosi oggetti votivi (tra cui stūpa in miniatura e placchette di terracotta).
Lo stūpa, di tipo gandharico, ha basamento quadrato (ca. 16,2 m di lato; alt. conservata ca. 4,4 m) sormontato da aṇḍa emisferico su tamburo (alt. tot. ca. 11,3 m). La camera delle reliquie, una cavità di pianta quadrata rivestita da lastre di pietra, custodiva ‒ insieme a offerte quali vaghi di cristallo, corallo, oro, monete di rame ‒ un contenitore di cristallo che racchiudeva delle ceneri.
Il basamento fu trovato da Cousens completamente inglobato da una massiccia struttura di mattoni cotti, probabilmente costruita in epoca di poco posteriore per contenerne il cedimento strutturale a causa dell'eccessivo peso dell'aṇḍa. Conseguenza secondaria di questo rinforzo è l'inusuale conservazione della decorazione del basamento originario, le cui facce (con l'eccezione di quella a ovest) erano suddivise da lesene in cinque segmenti, in ciascuno dei quali si apriva una piccola nicchia; i tre segmenti centrali ospitavano ciascuno tre immagini del Buddha in altorilievo. Il basamento era inoltre arricchito da numerosi corsi di mattoni decorati. Tutte le figure di Buddha sono in dhyānamudrā (gesto della meditazione), sedute su fiori di loto, e conservano l'originaria policromia: la tunica rossa, il volto dorato, gli occhi e la chioma neri. Eccetto un caso, tutte hanno un'aureola decorata che circonda la testa. Nel complesso la cifra stilistica è quella gandharica, sebbene alcuni elementi denotino influenze Gupta. Presentano invece caratteri stilistici e iconografici differenti le immagini di Buddha sulle placche votive di argilla cruda decorate a stampo (un centinaio circa) ritrovate presso il centro del lato ovest; molte di esse raffigurano stūpa (singoli o multipli) di una tipologia nota anche da versioni monumentali, caratterizzata da un innalzamento della struttura tramite il moltiplicarsi dei corpi di base, le cui proiezioni determinano una pianta cosiddetta "stellare".
La posizione delle placche nella stratigrafia e la loro associazione a monete con iscrizioni arabe fanno ascrivere la loro deposizione a dopo l'arrivo degli Arabi nel Sind, all'inizio dell'VIII secolo. Il lato ovest del basamento, dove si concentra il ritrovamento di oggetti votivi, costituiva con ogni probabilità la fronte del monumento: una rientranza al centro di esso fungeva da anticamera per tre nicchie o celle, a pianta quadrata (1,35 m di lato). La cella centrale conteneva i resti di quello che poteva essere un altare o una base per un'immagine di culto e una lastra di terracotta con una figura maschile in rilievo, che Cousens, in base alla mancanza di attributi tipici dei Bodhisattva, interpreta come un laico, forse un donatore o il costruttore stesso dello stūpa; per J.E. van Lohuizen-de Leeuw si tratterebbe invece del Bodhisattva Padmapani, sia per la presenza del tipico fiore di loto nella mano destra sia per l'estrema rarità di ritratti di persone vive nella storia dell'arte del Subcontinente indiano. La datazione dello stūpa è un argomento dibattuto: la data del 400 d.C. proposta da Cousens, abbassata da van Lohuizen-de Leeuw ‒ sulla base di elementi architettonici, decorativi e stilistici ‒ al VI secolo, torna a essere condivisa da S. Gorakshkar.
Nei pressi di M.Kh. è stata infine ritrovata una rara immagine bronzea di Brahma (alt. 95 cm ca.), oggi conservata al Museo di Karachi. Datata al VII secolo, essa è celebrata come una delle sculture di metallo più raffinate e significative dell'intera Asia meridionale.
Bibliografia
H. Cousens, Buddhist Stupa at Mirpurkhas, Sind, in ASIAR, 1909-10, pp. 80-92; Id., The Antiquities of Sind with Historical Outline, Calcutta 1929; J.E. van Lohuizen-de Leeuw, The Pre-Muslim Antiquities of Sind, in SAA 1975, pp. 151-74; S. Gorakhskar, Sculputural Activity of the Gupta Period in Western India. Mirpur Khas, Devnimori, Kanheri, in K. Khandalavala (ed.), The Golden Age. Gupta Art - Empire, Province and Influence, Bombay 1991, pp. 81-84.
di Federica Barba
Sito nel distretto di Bhiwani, in Haryana (India), con estensione di 7 ha circa, formato da due mounds distanti 20 m l'uno dall'altro.
Fu individuato nel 1905, in seguito alla scoperta di numerose monete di periodo Gupta. Lo scavo venne intrapreso da S. Bhan circa sessant'anni dopo, quando furono casualmente portati alla luce 2 arponi e 13 anelli di rame. Furono scavate due trincee: una sul primo mound (25 × 6 × 5 m), l'altra alla sommità del secondo (10 × 6 × 4,5 m). Bhan individuò tre periodi di occupazione. Il primo, definito "tardo-Siswal", è stato datato al 2300-2000 a.C. ed è caratterizzato da strutture di mattoni crudi (30 × 20 × 10 cm) con tetto di paglia e ceramica rossa, i cui esemplari principali sono un vaso e un'olla dipinti con una banda nera che copre il collo e la spalla, un recipiente a larga bocca con l'orlo dipinto di nero e una ciotola troncoconica; tra i reperti, si segnalano bracciali di rame, spilloni di avorio e vaghi di terracotta. Il secondo periodo è caratterizzato da due fasi ben distinte. Nella prima, datata 1900-1700 a.C., accanto alla cultura locale compaiono elementi harappani, nella ceramica, nell'uso dei mattoni cotti (40 × 20 × 10 cm), negli ornamenti di faïence e di pietre semipreziose, che non sembrano però modificare il carattere agricolo del villaggio. In altri siti dell'Haryana sud-occidentale i tratti harappani sono invece più marcati: i villaggi di Rakhigarhi, Banawali e Balu diventano vere e proprie città, come è visibile dalla costruzione di fortificazioni, canalette e pozzi, dall'uso di sigilli e pesi, dagli ornamenti d'oro e pietre preziose, tutti elementi assenti a M.
Forse proprio perché meno influenzato e quindi meno dipendente da essa, il sito sopravvive per un certo tempo alla scomparsa della Civiltà dell'Indo. Nel periodo IIB, datato 1700-1500 a.C., la ceramica harappana cade in disuso, mentre quella tardo-Siswal, dipinta a motivi geometrici, è caratterizzata dal vaso a collo alto, dalla ciotola a orlo dritto, dal piatto su piede con orlo ripiegato verso il basso e dalla ciotola emisferica. Come materiale da costruzione furono riutilizzati, inizialmente, i mattoni di tipo harappano, ma le strutture divennero meno solide. Successivamente, prevalsero edifici di mattoni crudi e muri di terra. Tra gli ornamenti, troviamo ancora i vaghi di pietre semipreziose e i bracciali di faïence, la cui produzione aumenta notevolmente.
M. fu infine abbandonata verso la metà del II millennio a.C., secondo Bhan a seguito di dissesti idrologici che avrebbero causato un cambiamento di corso della Yamuna e della Satlej, con il conseguente inaridimento delle fonti dei fiumi Ghaggar e Chautang; le popolazioni di quelle aree avrebbero dunque risalito i corsi di questi fiumi per stabilirsi nello Haryana settentrionale, dove a partire dalla metà del II millennio troviamo numerosi villaggi. La stessa scomparsa della Civiltà dell'Indo potrebbe aver indotto le popolazioni tardo harappane a cercare nella valle del Gange nuove risorse. Le aree sud-occidentali dello Haryana, troppo lontane dalle vie che conducono al Gange, potrebbero essere state quindi abbandonate in favore di quelle a ridosso della Yamuna (Haryana settentrionale).
Nel corso del II millennio a.C., le popolazioni tardoharappane si diffondono anche nel Doab, dove si trovano insediamenti caratterizzati da una ceramica che riprende sia i tipi tardo-Siswal sia quelli della cultura di Bara. Di quest'ultima sono però assenti i motivi di foglie e tralci naturalistici. In particolare, gli insediamenti tardoharappani (vicini alla tradizione di Mitathal) sorgono nelle aree nord-occidentali del Doab, mentre in tutto il Doab sono presenti siti caratterizzati dalla Ochre Coloured Pottery (OCP) e i cosiddetti "tesori di rame". La OCP conserva i disegni dipinti in stile geometrico di M., ma ha anche elementi riconducibili alla cultura di Bara; i tesori di rame hanno probabilmente origine nei movimenti di artigiani itineranti, che gravitavano anche nell'area di M., come è dimostrato dall'ascia di rame risalente al periodo IIB e dagli arponi rinvenuti in superficie.
Bibliografia
M.S. Vats, Excavations at Harappa, Delhi 1940; S. Bhan, Siswal. A Pre-Harappan Site in Drishadvati Valley, in Purātattva, 5 (1971-72), pp. 44-46; Y.D. Sharma, Salvage of Archaeological Evidence from Bahadrabad, ibid., pp. 39-42; S. Bhan, Excavations at Mitathal and Other Explorations in the Sutlej-Yamuna Divide, Kurukshetra 1975; K.N. Dikshit, The Excavations at Hulas, in Man and Environment, 5 (1981), pp. 70-76; R.S. Bisht, Excavations at Banawali, 1974-77, in G.L. Possehl (ed.), Harappan Civilization, Warminster 1982, pp. 113-24; K.N. Dikshit, Hulas and the Late Harappan Complex in Western Uttar Pradesh, ibid., pp. 339-51; Y.D. Sharma, Harappan Complex on the Sutlej (India), ibid., pp. 142-65; R.S. Bisht, Further Excavation at Banawali, 1983-84, in B.M. Pande - B.D. Chattopadhyaya (edd.), Archaeology and History. Essays in Memory of Sh.A. Ghosh, Delhi 1987, pp. 135-56.
di Giovanni Verardi
Località del Panjab indiano, situata 40 km a ovest di Chandigarh, dove ‒ accanto all'abitato moderno ‒ sorgono diversi monticoli che documentano un'occupazione pressoché ininterrotta a partire dal 2000 a.C. circa e lo sviluppo maggiore durante il periodo Shaka-Kushana (I sec. a.C. - II-III sec. d.C.).
L'insediamento più antico è riferibile alla cultura di Bara, che si affianca ai siti tardoharappani del Rajasthan, dell'Haryana e del Panjab. Essa conosce, a S., sei fasi strutturali: le più antiche sono caratterizzate da abitazioni di argilla e mattoni, quelle più recenti da case di argilla pressata. Sui pavimenti sono stati osservati oggetti (ad es., un cono di terracotta e un vaso coperto da una lastra di pietra, tutti in situ) forse pertinenti ad atti rituali. La ceramica presenta disegni geometrici e naturalistici dipinti di nero, marrone e rosso scuro e si accompagna a oggetti quali braccialetti e anelli di maiolica, vaghi di agata e steatite, stili di osso e figurine rituali teriomorfe di terracotta. Il secondo periodo ha inizio con la comparsa della Painted Grey Ware (PGW) intorno all'VIII sec. a.C. Essa è associata a ceramica grigia comune e a ingobbio nero, la più abbondante.
Il terzo periodo, poco studiato, è caratterizzato dalla Northern Black Polished Ware (NBPW) associata a ceramica rossa, un fatto che sembra indicare una data relativamente bassa per questa parte del deposito (IV-I sec. a.C.). La ceramica rossa, sempre più dominante, si accompagna alla fase strutturale pre-Kushana, testimoniata dai resti di due case separate da un vicolo, costruite con grandi mattoni cotti e crudi. L'insediamento pre-Kushana e Kushana comprende una cittadella, un abitato circondato da mura ‒ sorto dopo una radicale bonifica dell'insediamento precedente eseguita tra l'ultimo quarto del I sec. a.C. e l'inizio del secolo successivo ‒ e, poco fuori città, un'area sacra buddhista. La cittadella, che misura 340 × 210 m, consiste di un edificio palaziale di 150 m2, cui sono annessi altri edifici. Il palazzo comprende una sala per le udienze (?) e una struttura che aveva, presumibilmente, funzioni amministrative, di 43 × 20 m. La sala delle udienze (18,5 × 15,5 m), in cui si riconoscono tre fasi costruttive ‒ riferite rispettivamente ai periodi proto-, medio- e tardo-Kushana ‒, ha grosse mura e spessi pavimenti di mattoni cotti in cui si notano numerose buche di palo: gli alzati interni e la copertura erano dunque di legno. I materiali associati alle strutture della cittadella sono vaghi di collana di pietre semipreziose (agata, calcedonio, diaspro, ecc.), dadi d'avorio e alcuni oggetti di terracotta.
Nell'abitato sono state individuate cinque fasi strutturali. Le prime due hanno abitazioni di mattoni crudi; nella fase successiva, con l'adozione dei mattoni cotti, non si nota alcuna standardizzazione dei laterizi, che hanno misure assai diverse (da 33 × 21 × 7,6 cm a 23 × 15 × 6 cm). Le abitazioni, piccole, sono addossate le une alle altre e si aprono su strette viuzze, senza che si colga alcun coerente piano urbano. Nella parte sud-orientale è stata esposta una complessa struttura comprendente grandi piattaforme e vasche rettangolari (3,3 × 1,7 m) colmate con ceneri, ossa carbonizzate e pochi frammenti ceramici. Le piattaforme, su cui erano ceneri miste a grani carbonizzati, sono state interpretate come altari del fuoco funzionali a rituali non specificati. Tra i numerosi materiali si segnalano monete in rame dei Kuninda, degli Indo-Parti e dei Kushana, e oggetti votivi di terracotta. Si notano in particolare dischi decorati con motivi floreali e animali, grattatoi, pesi, incensieri e un buon numero di sigilli datati tra il II e il IV sec. d.C., con brevi iscrizioni in kharoṣṭhī e brāhmī.
L'area sacra si trova circa 600 m a nord-est dell'abitato; il monumento più importante è uno stūpa (di cui rimangono le sole fondazioni) che risponde in pianta ‒ benché iscritto in una base quadrata ‒ al tipo del dharmacakra, o Ruota della Legge: tre cerchi concentrici di mattoni sono divisi a intervalli regolari da ventiquattro raggi nella parte più interna e da trentadue in quella esterna. Attorno alla base quadrata correva il pradakṣināpatha o sentiero processionale. Un reliquiario di steatite è stato rinvenuto spezzato in due diversi punti. In una fossa (?) lungo il pradakṣināpatha vennero rinvenuti 117 elementi di vedikā, scolpiti nella tipica arenaria rossastra di Mathura con iconografie e in uno stile altrettanto tipici dell'arte mathurena. I pilastrini, le traverse e gli elementi terminali (uṣṇīṣa) erano accuratamente sistemati gli uni accanto e sopra gli altri. Si è pensato che la vedikā fosse stata smontata e posta al riparo quando gli Huna, poco dopo la metà del V secolo, irruppero in India, ma l'ipotesi è poco credibile. Si ha l'impressione che gli elementi della vedikā, giunti da Mathura e composti in una pila, non siano mai stati montati.
Nell'area sacra di S. sono venuti alla luce altri due stūpa più piccoli, presso un monastero che si trova a circa 500 m dallo stūpa maggiore. Il monastero misura 39 × 36 m e comprende 27 celle. Nell'abitato di S. sono venuti alla luce anche materiali di epoca Gupta (IV-V sec. d.C.), tra cui sigilli con immagini di divinità Hindu (Vishnu e Shiva) e alcune terrecotte con Durga che uccide il demone Mahisha. Altri sigilli hanno la leggenda Śrī mahārāja Kapila niyuktas-yādhikarṇasya, che suggerisce la presenza a S. di un governatore o principe feudale alle dipendenze dell'imperatore Gupta. Il declino di S. va posto intorno al 500 d.C., anche se non sappiamo se i destini della città e dell'area sacra andarono di pari passo.
Bibliografia
Notizie degli scavi in IAR, 1985-86, pp. 67-69; 1986-87, pp. 95-99; 1987-88, pp. 69-71.
Bibl. analitica:
G.B. Sharma, Bara Culture and its Housing Remains with Special Reference to Sanghol, in R.K. Sharma (ed.), Indian Archaeology. New Perspectives, Delhi 1982, pp. 71-72; S.P. Gupta (ed.), Kushana Sculptures from Sanghol (1st-2nd Century A.D.). A Recent Discovery, New Delhi 1985; S.P. Gupta (ed.), Coins, Seals and Sealings from Sanghol, Chandigarh 1986; C. Margabandhu - G.S. Gaur, Sanghol Excavations 1987. Some New Evidences, in Purātattva, 17 (1986-87), pp. 1-4; C. Margabandhu, Excavation at Sanghol, District Ludhiana, Punjab: 1985-90. Some New Evidence on the Cultural Sequence, in B.U. Nayak - N.C. Ghosh (edd.), New Trends in Indian Art and Archaeology. S.R. Rao's 70th Birthday Felicitation Volume, New Delhi 1992, I, pp. 183-92.
di Luca Colliva
Città del Panjab occidentale (Pakistan) situata circa 35 km a nord-ovest della moderna Islamabad. Comprende i resti di tre distinti centri urbani e di numerosi complessi religiosi, in maggioranza buddhisti; in loco si trova anche un importante museo.
Il sito, oggetto nell'Ottocento dell'interesse di alcuni archeologi inglesi e di brevi saggi a opera di A. Cunningham, fu scavato in maniera estensiva da J.H. Marshall tra il 1913 e il 1934; successivamente vi condussero indagini M. Wheeler (1944-45) e alcune missioni del Dipartimento di Archeologia del Pakistan. Il nome di T., riduzione greca dell'originale sanscrito Takṣaśilā, è menzionato già nei testi epici del Rāmāyaṇa e del Mahābhārata. Dalle fonti emerge l'immagine di una città che, grazie alla felice posizione, all'incrocio di tre grandi vie di comunicazione che la collegavano con l'India gangetica, con l'Asia occidentale, con il Kashmir e l'Asia Centrale, era divenuta un importante centro di cultura e di scambi commerciali.
La zona presenta tracce di attività antropica fin dal periodo pre- e protostorico, come dimostrano i resti rinvenuti nel sito di Sarai Khola, databili a partire almeno dal IV millennio a.C., e le tracce di occupazione sul colle di Hathial. I ritrovamenti archeologici forniscono però un quadro attendibile solo a partire dal VI-V sec. a.C., epoca che vede T. sottomessa al dominio achemenide. A questo periodo è tradizionalmente attribuito il più antico livello di Bhir Mound, il primo dei tre centri urbani del sito, e anche alcuni resti recentemente scoperti sul vicino colle di Hathial. L'insediamento di Bhir Mound presenta edifici modesti e costruiti senza una regolare pianificazione urbanistica; dotato di un buon sistema di scarico per le acque nere, esso appare più carente sotto il profilo dell'approvvigionamento idrico, per lo più dipendente dal vicino corso d'acqua.
Al periodo Maurya (IV-II sec. a.C.), che vede l'espansione del sito di Bhir Mound, la tradizione fa risalire anche la costruzione del grande stūpa non lontano dalla città, denominato dalle fonti successive Dharmarājika, al pari degli altri stūpa fatti erigere da Ashoka (274-232 a.C.); in realtà il dato archeologico non risale oltre il I sec. a.C. In prossimità di questo stūpa, che presenta pianta circolare, furono edificati numerosissimi monumenti minori, mentre a nord sono stati rivenuti i resti di alcuni monasteri. Questi, datati dal I al V sec. d.C., appartengono alla tipologia di saṃghārāma, diffusa nel Nord-Ovest, con le celle che si affacciano su una corte interna a pianta quadrata.
Secondo l'ipotesi di sviluppo proposta da Marshall, l'ascesa della nuova dinastia indo-greca (II-I sec. a.C.) e la fondazione di un nuovo insediamento, Sirkap, causarono l'abbandono di Bhir Mound. Un identico processo verrà ipotizzato, con l'arrivo dei Kushana (I-III sec. d.C.) e la fondazione di Sirsukh, anche per l'abbandono di Sirkap. Recenti studi hanno messo in discussione l'eccessiva schematicità di questa ipotesi e sembra che, almeno per un certo periodo, in entrambi i casi il nuovo insediamento abbia convissuto col precedente. Se l'esistenza di un abitato di epoca indo-greca a Sirkap è certa, la sua esatta estensione è ancora oggetto di dibattito; secondo Marshall, il suo perimetro originario coincideva con le possenti fortificazioni in muratura di pietra da lui portate alla luce. Già Wheeler, però, contestava quest'ipotesi; egli verificò la datazione al I sec. a.C. delle fortificazioni e suggerì che l'abitato indo-greco includesse solo la parte settentrionale dell'insediamento scavato da Marshall, ma si estendesse verso nord fino a comprendere anche il monticolo di Kachchha Kot, resto di una linea di fortificazioni di crudo. In tempi recenti la teoria proposta da Marshall è stata ripresa (A.H. Dani, F.R. Allchin), anche se, in qualche caso (G. Fussman), con alcune concessioni alle ipotesi di Wheeler. Ritrovamenti sul colle di Hathial, nell'area sud di Sirkap, mostrano in realtà che anche questo colle apparteneva alla città indo-greca e verisimilmente ne costituiva l'acropoli.
L'insediamento di Sirkap oggi visibile mostra una struttura ortogonale di chiara ispirazione ellenistica, ma è composto quasi esclusivamente da resti di edifici dei periodi Saka e partico (I sec. a.C. - I sec. d.C.). Lo schema ortogonale delle strade ha spinto molti ad attribuire questa pianificazione ai sovrani indo-greci, ma la struttura tipicamente orientale delle abitazioni e la mancanza di monumenti di tipo ellenistico fanno pensare, più semplicemente, che i nuovi sovrani avessero fatto propri alcuni elementi delle città battriane da loro recentemente conquistate. Fra le strutture di rilievo emerse durante gli scavi, oltre l'imponente cinta muraria di pietra con bastioni massicci di pianta rettangolare, ricordiamo il grande tempio absidato (la cui identificazione come caitya buddhista è stata di recente messa in discussione) e alcuni monumenti religiosi di dimensioni minori, tra cui il cosiddetto "sacello dell'aquila bicipite", famoso per la decorazione che presenta elementi ellenistici insieme ad altri squisitamente indiani.
L'insediamento di Sirsukh, attribuito da Marshall al periodo Kushana, è stato oggetto di studi molto limitati: solo una piccolissima parte dell'abitato quadrangolare e un tratto della cinta muraria, con bastioni di pianta semicircolare dotati di un varco interno, sono stati riportati alla luce.
Tra le strutture a carattere religioso che fanno da corona ai centri urbani ricordiamo alcuni edifici templari di incerta attribuzione religiosa, caratterizzati dalla presenza di forti tratti ellenistici sia nella pianta sia nella decorazione architettonica (Jandial C, Mohra Maliaran). Numerosi sono inoltre i siti buddhisti (principali quelli di Bhamala, Giri, Jaulian, Kalawan e Mohra Moradu), composti in genere da un'area sacra con uno o più stūpa e da un monastero a pianta quadrata. In uno di questi siti, Jinna ki Dheri, ampiamente saccheggiato da clandestini, il Dipartimento di Archeologia del Pakistan ha condotto uno scavo di salvataggio nel 2004, portando alla luce, tra i materiali crollati sul pavimento nel corso dell'incendio che pose fine alla vita del sito, frammenti di pitture murali che decoravano il vestibolo d'ingresso al monastero, conservatesi grazie alla "cottura" dell'intonaco di supporto. Databili intorno al IV-V sec. d.C., esse costituiscono una preziosa testimonianza della pittura gandharica, di cui si conoscono finora pochissimi esempi.
Bibliografia
A. Cunningham, Four Reports Made during the Years 1862-63-64-65, in ASIAR, 2 (1871); A. Ghosh, Taxila (Sirkap), 1944-45, in AncInd, 4 (1947-48), pp. 41-84; J.H. Marshall, Taxila, I-III, Cambridge 1951; S.R. Dar, A Fresh Study of Four Unique Temples at Taxila, in JCA, 3 (1980), pp. 91-137; F.R. Allchin, How Old is the City of Taxila?, in Antiquity, 56 (1982), pp. 8-14; S.R. Dar, Taxila and the Western World, Lahore 1984; A.H. Dani, The Historic City of Taxila, Tokyo 1986; G. Erdosy, Taxila: Political History and Urban Structure, in SAA 1987, II, pp. 657-74; F.R. Allchin, The Urban Position of Taxila and its Place in Northwest India-Pakistan, in H. Spodek - D.M. Srinivasan (edd.), Urban Form and Meaning in South Asia. The Shaping of Cities from Prehistoric to Precolonial Times, Washington 1993, pp. 69-81; G. Fussman, Taxila: the Central Asian Connection, ibid., pp. 83-100; M. Ashraf Khan - M. ul-Hasan, Discovery of Mural Paintings from Jinan Wali Ḍherī, Taxila Valley, in Journal of Asian Civilizations, 27, 1 (2004), pp. 14-27.