L'archeologia dell'Africa
L'archeologia africana è stata per lungo tempo ed è tuttora considerata da alcuni un settore periferico dell'archeologia, per il preconcetto secondo cui le popolazioni africane non avrebbero dato un contribuito significativo allo sviluppo culturale dell'umanità e sarebbero rimaste sostanzialmente arretrate rispetto a quelle dell'Oriente e dell'Occidente. Non a caso, le manifestazioni culturali più complesse (società di tipo statale, insediamenti urbani, architettura monumentale, ecc.) sono state spesso spiegate con l'arrivo di genti straniere. Le origini stesse della civiltà egiziana sono state a lungo attribuite ad invasori dal Vicino Oriente e soltanto negli ultimi decenni le radici africane di questa civiltà sono state riconosciute dalla maggior parte degli studiosi. In realtà tutte le popolazioni africane hanno avuto una storia lunga e complessa, il cui studio richiede competenze specifiche a livello continentale e regionale. L'archeologia africana, pertanto, si sta oggi affermando come un campo di ricerca ben definito, anche se diviso in specializzazioni regionali, e il suo ruolo fondamentale per la ricostruzione del passato del continente è riconosciuto da tutti. L'esplorazione archeologica dell'Africa si è sviluppata parallelamente alla progressiva penetrazione politico-economica e coloniale occidentale nel continente. Una svolta decisiva si è avuta nella seconda metà del XX secolo con la decolonizzazione e la nascita di stati nazionali. Una nuova svolta è attualmente in corso, per effetto della profonda crisi economica, politica e ambientale che da alcuni anni sta travagliando il continente. È possibile perciò dividere la storia delle ricerche archeologiche in Africa in tre fasi: esplorativa, coloniale e postcoloniale. La fase esplorativa (XVIII-XIX sec.) fu caratterizzata principalmente dalla raccolta di informazioni su monumenti e resti antichi, nell'ambito di una più ampia acquisizione di conoscenze sugli aspetti ambientali, culturali e storici delle regioni visitate. Queste prime indagini furono condotte soprattutto lungo la valle del Nilo e nel Corno d'Africa e portarono alla scoperta di monumenti egiziani, della successiva civiltà meroitica in Nubia e di quella aksumita in Etiopia e in Eritrea. A tale fase risalgono anche le prime segnalazioni di strumenti litici nell'Africa meridionale. Di particolare rilievo in questa fase pionieristica fu l'attività in Nubia dell'italiano G.B. Belzoni, del francese F. Cailliaud e del tedesco K.R. Lepsius. A Belzoni si deve la scoperta nel 1816-17 del grande tempio ipogeo di Ramesse II ad Abu Simbel. Tale scoperta, oltre a far conoscere l'esistenza di uno dei maggiori monumenti faraonici pervenuti fino a noi, fornì anche la prima evidenza archeologica della penetrazione egiziana in Nubia. Agli inizi del XIX secolo Cailliaud descrisse numerosi siti monumentali del Sudan, gettando così le basi dell'archeologia sudanese. All'esploratore francese si deve in particolare la prima descrizione delle piramidi reali, databili tra la fine del I millennio a.C. e gli inizi del I millennio d.C., di Meroe, l'antica capitale del regno omonimo, presso la sesta cataratta del Nilo. Le sue illustrazioni di queste piramidi sono ancora oggi preziose, in quanto Cailliaud ebbe la possibilità di vederle in buono stato di conservazione. Alcuni anni dopo la sua visita, infatti, le piramidi di Meroe furono gravemente danneggiate da un viaggiatore italiano, G. Ferlini, che le scoperchiò alla ricerca di tesori sepolti. K.R. Lepsius diresse tra il 1842 e il 1845 la spedizione prussiana in Nubia, che documentò in modo molto accurato e ancora oggi valido tutti i monumenti antichi lungo la valle del Nilo tra la frontiera egiziana e la confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro a Khartum, fornendo così una documentazione scientifica di gran lunga superiore a quella dei viaggiatori che lo avevano preceduto. Tra i monumenti da lui descritti vanno annoverati i resti della cosiddetta Defufa di Kerma, che oggi sappiamo risalire alla prima metà del II millennio a.C., e alcuni grandi templi egiziani, tra cui quello di Soleb, fatto costruire dal faraone Amenhotep III a sud della terza cataratta del Nilo e che costituisce con Abu Simbel una delle più imponenti testimonianze della presenza faraonica nella regione. L'esistenza di monumenti antichi in Etiopia e in Eritrea era stata già segnalata agli inizi del XVI secolo da un cappellano portoghese, padre Alvarez; tuttavia le prime descrizioni relativamente dettagliate risalgono alla fine del XVIII e alla prima metà del XIX secolo. In particolare, vanno ricordate l'attività dello scozzese J. Bruce, che si recò in Etiopia nel 1769 alla ricerca delle sorgenti del Nilo, nonché le esplorazioni dell'inglese H. Salt (1814) e del francese Th. Lefebvre (1839-43), che rilevarono numerosi monumenti antichi in Eritrea e in Etiopia. Bruce fornì una prima descrizione abbastanza accurata delle grandi stele scolpite (i cosiddetti "obelischi") di Aksum, la capitale dell'Etiopia antica, gettando così le basi dell'archeologia etiopica. Salt identificò per primo le rovine visibili presso Zula, sulla costa eritrea, con l'antico porto aksumita di Adulis, menzionato in fonti classiche del I sec. d.C. come il maggior emporio marittimo lungo il Mar Rosso meridionale e in precedenza identificato con l'isola di Massaua. L'esploratore inglese tracciò inoltre una prima pianta topografica delle rovine di Aksum sull'altopiano tigrino, tuttora per certi aspetti utile. Th. Lefebvre compì una prima esplorazione sistematica dell'Etiopia settentrionale, individuando numerosi siti fino ad allora ignoti e fornendo una descrizione molto accurata delle rovine di Aksum. In Africa meridionale l'inglese Th.H. Bowker effettuò nel 1858 le prime raccolte di strumenti litici presso la foce del fiume Great Fish, nella Provincia del Capo, fornendo così la prima evidenza dell'esistenza di un'età della Pietra africana. La fase coloniale (fine del XIX - metà del XX sec.) fu caratterizzata dall'attività di archeologi professionisti, soprattutto francesi e inglesi, interessati a ricostruire la storia culturale delle regioni da loro indagate. In questa fase particolare attenzione venne data allo studio delle industrie litiche più antiche, che attestavano l'evoluzione culturale del continente, e dell'arte rupestre. Figure dominanti in questa fase furono gli inglesi M.C. Burkitt, A.J.H. Goodwin, L.S.B. Leakey, Th. Shaw e J.G.D. Clark, i francesi H. Breuil, Th. Monod, G. Bailloud, H. Lothe, H. Alimen e l'italiano P. Graziosi. Con le loro indagini questi studiosi contribuirono a delineare l'archeologia africana come disciplina autonoma a carattere continentale. Ciò si concretizzò con l'istituzione dei Congressi Panafricani di Preistoria e Studi del Quaternario, il primo dei quali tenuto a Nairobi nel 1947. Particolare rilievo fu attribuito in questa fase allo studio della paleontologia umana, in quanto la scoperta di fossili di ominidi databili al Pleistocene inferiore e medio nell'Africa meridionale e orientale suggerì che questo continente fosse stato la culla dell'umanità. Un contributo fondamentale all'introduzione di metodi rigorosi di indagine venne dato nei primi decenni del XX secolo dall'archeologo ed egittologo americano G. Reisner, che effettuò ricognizioni sistematiche e scavi estensivi lungo la valle del Nilo in Nubia. A lui si devono la prima sistemazione organica della sequenza culturale nella Nubia inferiore, dalla tarda preistoria all'epoca islamica, e la scoperta di uno dei maggiori siti archeologici dell'Africa tropicale a Kerma, la capitale del più antico regno africano a sud dell'Egitto risalente al III-II millennio a.C. Nella prima metà del XX secolo si intensificò inoltre l'esplorazione archeologica del Sahara, soprattutto ad opera di archeologi francesi e italiani, con la scoperta sia di una ricca arte rupestre (databile dalla fine del Paleolitico ad epoca moderna) e di industrie paleolitiche e neolitiche, sia di necropoli megalitiche e centri carovanieri che hanno permesso di ricostruire la storia del popolamento della regione dagli inizi del Paleolitico al presente. Particolare attenzione venne prestata negli stessi anni anche all'arte rupestre dell'Africa australe; tra gli studiosi che maggiormente contribuirono alla conoscenza dell'arte rupestre africana nei primi decenni del XX secolo va ricordato il tedesco L. Frobenius, fondatore dell'omonimo istituto a Francoforte sul Meno, tuttora uno dei maggiori centri di ricerca in questo campo. A Frobenius si deve infatti non solo lo studio di pitture rupestri nell'area sahariana e nell'Africa australe, ma anche la prima segnalazione di incisioni rupestri lungo la catena dell'Etbai, tra il Nilo e il Mar Rosso, e nell'Eritrea. Agli inizi del secolo (1901-1902) risale l'esplorazione della valle del fiume Omo, tra l'Etiopia e il Kenya, e dell'Etiopia sud-orientale da parte del visconte francese R. de Bourg de Bozas, che oltre a una grande quantità di dati naturalistici raccolse numerosissimi strumenti litici, il cui studio, condotto negli anni Trenta dall'abate H. Breuil, permise di ricostruire a grandi linee la sequenza cronologica delle più antiche fasi del popolamento dell'Africa orientale. In Etiopia venne inoltre condotta nel 1905-1906 una delle prime ricognizioni archeologiche estensive nell'Africa subsahariana da una missione tedesca diretta da E. Littman (Deutsche-Aksum Expedition). In soli tre mesi gli studiosi tedeschi rilevarono, descrissero e classificarono tutti i monumenti antichi visibili nell'Akkelè Guzai (Eritrea centrale) e nel Tigrè (Etiopia settentrionale). Grande impulso ebbero in questa fase anche le ricerche sull'età del Ferro nell'Africa subsahariana: ciò soprattutto in seguito alla scoperta alla fine del XIX secolo delle imponenti rovine di Great Zimbabwe, sull'altopiano che divide i bacini dello Zambesi e del Limpopo, nell'attuale Zimbabwe. Queste rovine vennero inizialmente interpretate come i resti di una colonia fenicia nell'Africa meridionale e furono identificate come una delle fonti di oro di Salomone da R.N. Hall, che agli inizi del XX secolo condusse scavi estensivi in questo sito. Indagini più recenti hanno tuttavia dimostrato l'origine indigena di questi resti, che rappresentano una delle manifestazioni monumentali più imponenti del continente a sud del Sahara. Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale iniziarono ricerche sistematiche anche in altre regioni del continente. Nel Congo il belga J. Colette fu tra i primi archeologi a condurre accurati scavi stratigrafici a Kalina Point, avviando lo studio della preistoria nell'Africa centrale. Nello stesso periodo E.J. Wayland stabilì la prima sequenza culturale delle industrie litiche più antiche nell'Africa orientale, distinguendo una cultura kafuana, una sangoana e una magosiana. Alla fine degli anni Trenta e negli anni Quaranta ebbero inizio anche le prime ricerche condotte con procedure moderne nell'Africa occidentale ad opera di archeologi inglesi, quali Th. Shaw in Nigeria e O. Davies nel Ghana, la cui attività continuò anche nel periodo postcoloniale. Questi studiosi contribuirono in modo determinante alla conoscenza sia della preistoria, sia della protostoria dell'area. Contemporaneamente A.J. Arkell, con le sue ricerche nella regione di Khartum, gettò le basi per lo studio della tarda preistoria nel Sudan, mentre J.G.D. Clark definì la sequenza delle industrie litiche della Somalia. A sua volta, la fondazione nel 1938 dell'Institut Français d'Afrique Noire (IFAN), dove fino alla fine degli anni Sessanta operarono R. Mauny e G. Szumowski, segnò l'inizio dello studio della preistoria e protostoria nell'Africa occidentale francofona. Nell'Africa australe ebbe invece un forte impulso lo studio della preistoria più antica, ad opera inizialmente di A.J.H. Goodwin, C. van Riet Lowe e M.C. Burkitt. A Goodwin in particolare si deve la prima definizione sistematica della sequenza cronologica e culturale delle industrie litiche africane, con l'introduzione di una suddivisione in Early Stone Age, Middle Stone Age e Late Stone Age, in sostituzione della terminologia europea precedentemente adottata anche in Africa. Di grande rilievo fu anche la scoperta di un più antico fossile di ominide a Taung, nel Transvaal: studiato da R. Dart, il reperto dimostrò chiaramente come le prime fasi dell'evoluzione umana fossero avvenute in Africa. La fase postcoloniale (seconda metà del XX sec.) è stata caratterizzata dall'affermarsi di studiosi locali nei singoli stati resisi indipendenti e da una più attiva presenza di studiosi americani nel continente. In particolare, la creazione di stati nazionali multietnici ha portato gli intellettuali africani a prestare maggiore attenzione al problema dell'identità culturale di ciascuna nazione e a focalizzare il loro interesse sulla preistoria finale e l'epoca storica, nel corso delle quali si sono formate le etnie attuali. Per gli studiosi africani l'archeologia ha quindi acquistato una forte valenza nazionalistica, in quanto mezzo per ricostruire la storia delle singole nazioni. Al tempo stesso, la presenza americana ha accentuato un'impostazione ecologica della ricerca, già presente nella fase precedente, dando particolare enfasi alle risposte culturali delle singole popolazioni ai mutamenti ambientali avvenuti sul continente nel corso del tempo. In questa fase la paleontologia umana si è imposta come uno dei settori dominanti di indagine, grazie a scoperte spettacolari, come quella di Lucy, un ominide di oltre tre milioni di anni fa, effettuata nell'Afar (Etiopia) nella metà degli anni Settanta da D. Johanson. Un contributo fondamentale alla ricostruzione della storia evolutiva dell'uomo venne dato comunque dalle ricerche condotte nella gola di Olduvai (Tanzania) da L.S.B. e M.D.N. Leakey, ai quali si deve la scoperta di una delle più antiche industrie litiche umane, l'Olduvaiano, e dei resti di uno dei più antichi ominidi da cui è disceso l'uomo attuale. La campagna lanciata dall'UNESCO per il salvataggio della Nubia negli anni Sessanta ha rappresentato senza dubbio uno degli episodi più rilevanti di questo periodo. Essa ha visto infatti lo sforzo congiunto di numerose spedizioni internazionali per il recupero dei grandi monumenti nubiani e per il rilevamento e lo studio sistematico di tutti i siti individuabili lungo il tratto della valle del Nilo compreso tra la prima e la terza cataratta, oggi sommerso dal bacino artificiale del Lago Nasser in seguito alla costruzione della grande diga di Assuan. Le ricerche qui condotte con metodi ormai pienamente scientifici hanno permesso di ricostruire completamente la storia culturale della regione dal Paleolitico inferiore al presente. Particolare importanza hanno avuto le indagini condotte dalla Combined Prehistoric Expedition diretta da F. Wendorf, che hanno permesso di ricostruire la preistoria più antica dell'area, e quelle della Scandinavian Joint Expedition diretta da T. Säve-Söderbergh, che hanno gettato nuova luce sulla fase protostorica. In questo periodo anche le ricerche nell'ambito dell'archeologia storica hanno avuto un particolare sviluppo. Indagini di rilievo sono state condotte negli anni Sessanta lungo la costa dell'Africa orientale da N. Chittick, al quale si devono le prime ricerche sistematiche sui grandi siti urbani afro-arabi della cultura Swahili in Kenya e in Tanzania, tra i quali Kilwa. Vanno anche ricordati gli scavi condotti da Th. Shaw a Igbo Ukwu (Nigeria orientale), quelli più recenti di R. e S. Keech McIntosh a Djenné-Djeno (Mali), nonché quelli di F. Anfray a Matara (Eritrea). Nell'ambito dell'archeologia preistorica vanno ricordate invece le ricerche condotte da una spedizione internazionale franco-americana e kenyota, diretta inizialmente da C. Arambourg e successivamente da Y. Coppens, F.C. Howell e R. Leakey, nella valle dell'Omo, alla quale si deve tra l'altro la scoperta di alcuni tra i più antichi manufatti umani, datati a oltre due milioni di anni fa. Oggi si assiste a una nuova svolta nella storia dell'archeologia africana. Infatti gli studiosi, sia africani sia stranieri, si interrogano sempre più spesso sul contributo che l'archeologia può dare ai problemi di sviluppo sociale ed economico dei Paesi africani. Una prima risposta, fortemente ideologica, è stata quella di sottolineare il ruolo della ricerca archeologica per la formazione di una coscienza storica come reazione al precedente dominio culturale. Più di recente, invece, si è posto maggiormente l'accento sul contributo che l'archeologia, inserita in un contesto multidisciplinare più ampio, può dare ad una corretta ricostruzione della dinamica di interazione tra l'uomo e l'ambiente, al fine di comprendere meglio come le società attuali africane si sono sviluppate, adattandosi ai mutamenti ambientali e agli influssi culturali esterni e come esse potrebbero reagire ad ulteriori cambiamenti nel presente o in un prossimo futuro, dando maggior rilievo alla continuità tra passato e presente piuttosto che alla sola ricostruzione del passato. Sempre più urgente e pressante si sta facendo infine l'esigenza di conservare il patrimonio archeologico e culturale del continente; questo infatti sta subendo un processo di degrado e di progressiva distruzione, che nel giro di pochi decenni renderà impossibile qualsiasi recupero della storia dei popoli che lo abitano.
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