L'archeologia dell'Asia Centrale. La Mesopotamia centroasiatica
di Bertille Lyonnet
I primi riferimenti a un paese così chiamato (gr. Βαϰτϱία; avestico bākhdi; antico persiano bākhtri; battriano bakhl) compaiono a partire dal VI-V sec. a.C., sia in autori greci quali Erodoto, Ctesia e Senofonte, che ne evocano la potenza militare o la ricchezza, sia nelle iscrizioni regie achemenidi di Bisutun e di Susa, che la annoverano tra le satrapie dell'impero. Non ne abbiamo più alcuna menzione, invece, dopo la fine della dominazione greca. Questo Paese è stato posto in relazione con il nome della sua capitale e coinciderebbe quindi, stricto sensu, con l'oasi di Balkh, nell'attuale Afghanistan settentrionale. Strabone e Tolemeo ne collocano il confine con la vicina regione della Sogdiana lungo l'Oxus (attuale Amu Darya), al quale i due geografi assegnano un tracciato dapprima in direzione sud-nord (chiaramente confuso da Tolemeo con il fiume Kunduz), poi in direzione est-ovest.
Alcune contraddizioni in questi autori antichi hanno condotto la maggior parte degli archeologi a ritenere che tali informazioni non siano del tutto affidabili e che si debba piuttosto tener conto dell'apparente (ma contestabile) unità culturale tra i paesi della riva destra e quelli della riva sinistra del fiume. Per essi, dunque, la Battriana è un'entità geografica assai più vasta, che ingloba tutto il bacino dell'Amu Darya/Darya-i Panj, che vi scorre al centro, ed è circondata da alte montagne: i Monti Hissar a nord, il Pamir-Badakhshan a est, l'Hindukush a sud. Gli affluenti di destra dell'Amu Darya, cioè il Surkhan Darya, in Uzbekistan, e il Kafirnigan, il Vakhsh e il Kizil Su in Tajikistan, e quelli di sinistra, cioè il Kokcha e il Kunduz-Taluqan, in Afghanistan, scorrono tra vallate più o meno ampie, dove la pratica dell'irrigazione (che ricerche recenti fanno risalire al Calcolitico) doveva contribuire in modo significativo alla leggendaria ricchezza del paese.
L'insieme di questo vasto territorio non ha conosciuto, in epoca protostorica, uno sviluppo culturale omogeneo. Nell'area sud-orientale, a est del fiume Kunduz-Taluqan, le testimonianze archeologiche risalenti al Calcolitico e all'età del Bronzo sono in diretto rapporto con le culture del Sud dell'Hindukush. I siti di Taluqan, datati al 3000-2500 a.C. circa, si collegano infatti alla cultura di Mundigak-Quetta nel Baluchistan, mentre quelli di Shortugai, datati al 2400-1800 a.C. circa, sono in rapporto con la civiltà harappana della valle dell'Indo. Di contro, a ovest, nella piana di Balkh e nella valle del Surkhan Darya (Uzbekistan), siti dell'età del Bronzo, quali Dashli, Sapalli Tepa e Jarkutan, datati al 2200-1700 a.C. circa, hanno rivelato forti legami con la cultura di Namazga V nel Kopet Dagh, ma anche rapporti con il mondo indo-baluchi e con l'Elam. Tutti questi insediamenti, che attestano l'esistenza di una civiltà molto sviluppata, scompaiono bruscamente, forse a causa dell'arrivo di genti arie, cui si associa l'introduzione del cavallo e del rito della cremazione.
Tali innovazioni sono talvolta collegate alle infiltrazioni di pastori della cultura di Andronovo, percepibili in tutto il bacino dell'Amu Darya/Darya-i Panj, ma si osserva anche, solo a est dell'Amu Darya (Kafirnigan, Vakhsh e Kizil Su), la comparsa di nomadi che praticavano, nelle loro necropoli di kurgan, riti del fuoco che sono stati messi in rapporto con quelli di tradizione vedica. Poco più tardi, nel periodo compreso fra il 1500 e il 1100 a.C. circa, nella pianura di Balkh (Tillya Tepe) e in Margiana si manifesta una nuova cultura (Yaz I), che trova riscontri nella valle del Surkhan Darya (Kuchuk Tepe), ma non a est delle valli del Kafirnigan e del Kunduz-Taluqan. È possibile che essa sia da porre in relazione con l'arrivo di nuove popolazioni, forse di lingua iranica. Il suo tratto caratterizzante è l'assenza di inumazioni, sostituite dal rito della scarnificazione.
A partire dal 1100-1000 a.C. circa, si osserva per la prima volta una notevole unità culturale in tutta l'Asia Centrale, dalla Chorasmia alla Sogdiana, malgrado la probabile infiltrazione di gruppi nomadici nella parte orientale. In questa fase si registra anche uno sviluppo dei sistemi d'irrigazione, un incremento della popolazione e la comparsa di città fortificate a pianta circolare od ovale (Bala Hissar di Balkh e di Kunduz). I dati archeologici non offrono elementi utili a comprendere il tipo di organizzazione politica di tale "entità". Secondo una leggenda riportata da Ctesia, gli Assiri avrebbero tentato d'impadronirsi delle ricchezze battriane con incursioni militari verso l'VIII-VII sec. a.C. Né scoperte archeologiche in Battriana né riferimenti negli annali assiri confermano questo racconto, ma l'unità della cultura sia materiale sia religiosa in una regione tanto vasta, così come lo sviluppo agricolo e urbano, fanno supporre alla base una forte struttura dirigente.
È di questa entità che, con Ciro II, gli Achemenidi si impadroniscono nel corso del VI sec. a.C., perdendo soltanto, entro tempi piuttosto brevi, la Chorasmia. La satrapia di Battriana, che ormai paga tributi all'impero, fornisce anche oro, cammelli e vasi di metallo lavorato, mentre la Sogdiana, che dipende dalla sua autorità, fornisce lapislazuli e corniola, armi e cavalli. Con l'esclusione del (peraltro discusso) Tesoro dell'Oxus, che proviene da un deposito votivo scoperto sulle sponde del fiume omonimo, probabilmente a Takht-i Kubad, le tracce lasciate dal dominio achemenide sono estremamente rare. Esse si limitano a una possibile influenza nell'architettura e all'uso dell'alfabeto aramaico, che si protrarrà ancora in epoca greca, come testimoniano i rinvenimenti effettuati ad Ai Khanum. Né i sovrani persiani né i loro satrapi (anch'essi provenienti dalla famiglia reale) sembrano aver sviluppato i sistemi d'irrigazione già esistenti. La cultura materiale non manifesta che un'evoluzione locale. I Greci, al contrario, la trasformarono totalmente.
Dopo la conquista di Alessandro Magno e un'occupazione dapprima militare, limitata ad avamposti fortificati, si assiste sotto i re seleucidi Antioco I e Antioco II a un massiccio arrivo di coloni. Una delle grandi città dell'epoca, Ai Khanum, posta alla confluenza del Panj con il Kokcha, offre la prova di un importante sviluppo in questo periodo, associato a un aumento delle superfici irrigate e del numero di villaggi e alla diffusione della ceramica ellenistica in tutte le campagne vicine. I coloni portarono con sé la propria cultura (teatro, educazione nel ginnasio, scrittura, scultura, elementi decorativi architettonici, ecc.), che avrebbe segnato in modo profondo l'Asia Centrale. Il territorio conquistato è lo stesso già sottomesso dai Persiani, come testimoniano la distribuzione delle monete e i numerosissimi siti con indiscutibile influsso greco, fino ad Alessandria Eschate sulle rive dello Iaxartes (Sir Darya), verosimilmente da identificare con l'odierna Khojent. Una certa continuità con gli Achemenidi si manifesta forse nel Tempio dell'Oxus, a Takht-i Sangin, da cui provengono numerosi oggetti votivi che ricordano quelli del Tesoro dell'Oxus. Sotto Diodoto (250 a.C. ca.), il regno greco-battriano divenne indipendente dai Seleucidi. All'inizio del II sec. a.C., i sovrani greco-battriani si lanciarono alla conquista dell'India. Nel 145 a.C. circa, al ritorno da una di queste campagne, Eucratide, ultimo re attestato ad Ai Khanum, fu assassinato. Contemporaneamente, tribù nomadi, alcune delle quali probabilmente vivevano già alle frontiere del regno, si riversarono sull'Asia Centrale. Eliocle riuscì a mantenere il suo potere nella pianura di Balkh all'incirca fino al 130 a.C.
A partire da questa data numerosi gruppi di nomadi si impadronirono della Battriana, forse la Daxia delle fonti cinesi, che fanno riferimento agli Yuezhi; Pompeo Trogo cita invece gli Asi, i Pasiani, i Tocari e i Sacarauci. Testimonianze di queste popolazioni sono le necropoli di kurgan in diverse aree della Battriana e alcune caratteristiche forme ceramiche (bicchieri su peduccio, vasi su base tripode, vasi a forma di bottiglia), oltre a copie delle monete greche in corso al loro arrivo. Il loro passaggio ad Ai Khanum, dove presero parte al saccheggio della città, è noto anche da un'iscrizione runica su un lingotto d'argento. È stata ipotizzata la presenza di gruppi di Saka (o Sciti) nella regione occidentale del paese (necropoli di Babashov, Tulkhar e Tup Khona), di Tocari e Yuezhi nel settore orientale (necropoli di Ksirov e di Ai Khanum).
Una di queste tribù prese il potere e, con l'ascesa al trono di Kujula Kadphises poco dopo l'inizio della nostra era, costituì il regno Kushana, la cui frontiera è segnata da una linea di fortificazioni a ovest della valle del Surkhan Darya (Darband). Si datano a quest'epoca, grazie al rinvenimento di una moneta dell'imperatore romano Tiberio, sei tombe di straordinaria ricchezza attribuite ai Saka, venute alla luce nella parte occidentale della pianura di Balkh, a Tillya Tepe. I Kushana adottarono la cultura dei territori conquistati (il che significa, in Battriana, la scrittura, la ceramica e le decorazioni architettoniche greche); soprattutto durante il regno di Kanishka, essi furono protettori del buddhismo e ne favorirono la diffusione a nord dell'Hindukush. Mentre all'epoca dei Grandi Kushana sono ascrivibili importanti siti nella piana di Balkh (Surkh Kotal, Dilberjin) e nel Surkhan Darya (Dalverzin Tepe), un sicuro declino si constata invece a est (Vakhsh, Kizil Su e tutta la regione a est del Kunduz): contrariamente a quanto si è a lungo supposto, i Kushana non furono gli ideatori dei grandi sistemi d'irrigazione, né sotto la loro egida l'urbanizzazione ricevette un particolare impulso.
Alla metà del III sec. d.C. il re sasanide Ardashir si impadronì di Balkh e il suo successore Shapur I iscrisse il Kushanshahr entro i confini del proprio regno. Sotto i Kushano-Sasanidi, la zona orientale conobbe una certa ripresa, con la rimessa in funzione di canali abbandonati e la fondazione di città come Kala-i Zal. Nel corso del IV sec. d.C. altri nomadi (Kidariti, Chioniti e poi Eftaliti) portarono nuovi conflitti in Battriana e una divisione del territorio: i Chioniti si attestarono a nord del tratto compreso fra Kafirnigan/Bishkent e Taluqan, gli Eftaliti stabilirono il loro regno tra Kunduz, Taluqan e Ishkamesh, mentre i Sasanidi tentarono di conservare Balkh, il Surkhan Darya e la pianura di Kunduz. Con la fine del controllo sasanide si assiste al declino della piana di Balkh e del Surkhan Darya. Il Tokharistan, spesso identificato a torto con la Battriana, si incentra in realtà prevalentemente sulla zona situata a est del Kafirnigan e del Kunduz; alla fine del VI sec. d.C., assieme alla piana di Balkh, esso fu sottomesso dai Turchi occidentali. Soltanto sotto i Samanidi, nel X sec. d.C., Balkh e il Surkhan Darya (Shaganian) ritroveranno il loro trascorso splendore per un breve periodo, che avrà fine con l'arrivo dei Mongoli (anni Venti del XIII sec.).
Bibliografia
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di Claude Rapin
Colonia greca sulla frontiera settentrionale dell'Afghanistan, 100 km circa a nord-est di Kunduz, alla confluenza dei fiumi Amu Darya e Kokcha; fondata in epoca seleucide verso la fine del IV o l'inizio del III sec. a.C., fu capitale della Battriana greca orientale e venne distrutta intorno al 145 a.C. in seguito alle incursioni dei nomadi.
La città è stata ampiamente esplorata tra il 1964 e il 1978 dalla Délégation Archéologique Française en Afghanistan, sotto la direzione di P. Bernard; purtroppo a partire dal 1991 essa è stata costantemente saccheggiata da scavi clandestini. Il sito rappresenta la più ricca fonte di informazioni sulla civiltà greco-battriana, non avendo conosciuto alcuna occupazione precedente a quella greca, né altro insediamento rilevante tra quest'epoca e l'età moderna. I suoi resti testimoniano di uno stretto legame degli abitanti con la cultura ellenistica, ma anche di una simbiosi tra i Greci e il substrato iranico-orientale della popolazione indigena. Le conoscenze sulla prima fase di occupazione greca della città sono molto lacunose: le fonti letterarie non ne fanno menzione, tanto che si ignora ancora il nome greco che la città aveva al momento della fondazione; si conosce solo il nome del fondatore, un certo Kineas, il cui mausoleo si trovava al centro della città. Il nome di Alessandria sull'Oxus, conosciuto dai testi, non era probabilmente riferito ad A.K., il cui nome attuale ("Signora-Luna") è quello uzbeko di una principessa leggendaria.
Per il II sec. a.C. Pompeo Trogo, riportato da Giustino (XLI, 6) in un brano dedicato al re greco-battriano Eucratide I, sembra alludere in modo indiretto alla città: A.K., in effetti, potrebbe essere stata la sua ultima capitale con il nome di Eucratidia (Strab., XI, 11, 2; Ptol., XI, 8). Le guerre che derivarono dai contrasti con il sovrano indo-greco Menandro dovettero fruttare un ricco bottino, riportato da Eucratide dalla regione di Taxila (India di nord-ovest) e depositato nella tesoreria del palazzo di A.K.; esso annovera, fra l'altro, monete indiane e indo-greche, un trono di agata e cristallo di rocca, pietre preziose e una placca circolare composta da tessere di conchiglia applicate su un supporto oggi perduto, decorata con scene del mito indiano di Shakuntala. I successi militari di Eucratide comportarono per la città un imponente programma urbanistico, che portò alla ricostruzione dei principali monumenti ufficiali.
La città si estendeva a sud di una pianura, il cui sfruttamento agricolo era potenziato da un complesso sistema di irrigazione; i giacimenti metalliferi e le miniere del vicino Badakhshan favorirono inoltre lo sviluppo di un fiorente artigianato locale. L'ubicazione all'estremità orientale della pianura del medio Oxus e la topografia del sito mostrano come A.K. abbia svolto anche un ruolo militare di primo piano, attestato da un potente sistema di fortificazioni. Collocata su una terrazza di löss, alta 25 m circa sulla confluenza dei due fiumi che la delimitano a sud e a est, la città ha pianta triangolare, con una lunghezza di 1800 m e una larghezza alla base di 1500 m; essa comprende una città bassa, che racchiude il centro monumentale, e un'acropoli a est, che, posta su un pianoro alto 60 m circa e rinforzata da una cittadella, formava, insieme ai fiumi, una protezione naturale rispetto alla pianura circostante. Il sistema difensivo vero e proprio constava di un possente muro, che seguiva l'andamento del rilievo: a est esso si appoggiava ai contrafforti esterni dell'acropoli, a ovest e forse anche a sud si innalzava sulla falesia a strapiombo sui due fiumi e a nord, estendendosi dalla riva dell'Amu Darya all'acropoli e lasciando fuori una cospicua area periferica, arrivava a un'altezza di oltre 8 m rispetto alla pianura. Si trattava di un muro pieno, di mattoni crudi e spesso 8 m, con torri massicce di pianta quadrangolare, circondato nel corso del III sec. a.C. da un grande fossato esterno. L'armamento della guarnigione era prodotto e immagazzinato in un arsenale situato al centro della città ai piedi dell'acropoli.
Il centro monumentale era attraversato da un'arteria nord-sud, che costeggiava la base dell'acropoli e su cui risultano orientati gli edifici della città bassa, fatta eccezione per il palazzo reale. I monumenti erano divisi secondo la loro funzione: a sud vi era un quartiere residenziale composto da ampie case di tipo greco-battriano, i cui ambienti, disposti intorno a una grande stanza centrale, si affacciavano attraverso un portico su una vasta corte a nord. Al centro della città bassa, il palazzo rappresentava il potere politico; vi si accedeva dalla strada principale attraverso i propilei, un corridoio ad angolo retto e una corte monumentale circondata da portici (118 colonne con basi dal profilo attico e capitelli corinzi). Il palazzo era composto da un insieme di edifici amministrativi, residenziali ed economici, associati a cortili e percorsi da corridoi. Se la pianta riflette una tradizione orientale di origine achemenide, in parte derivata dai palazzi di Nabucodonosor a Babilonia e di Dario I a Susa, la decorazione architettonica è di tradizione greca, con i capitelli dorici o corinzi dei portici, le antefisse e le tegole terminali, i bagni con pavimento coperto da mosaici a ciottoli, secondo una tecnica ben conosciuta nel primo periodo ellenistico nel mondo mediterraneo (Pella, Eretria).
La simbiosi tra pianta di tipo orientale e decorazione di tipo occidentale è evidente anche nell'architettura dei templi. Uno dei due, il "tempio con le nicchie a dentelli", si innalza a nord del palazzo su un basamento a gradini: composto da un pronao che immette in una cella tra due ambienti minori, esso riflette un'origine orientale di lontana influenza mesopotamica. La statua del dio è di stile tipicamente greco, anche se il culto, senza dubbio quello di Zeus-Mitra, è di tipo sincretistico, ispirato a credenze orientali e non alla religione ufficiale greca. Un disco di argento dorato proveniente dallo stesso tempio rappresenta, come un altro simile rinvenuto nel cosiddetto Tempio dell'Oxus a Takht-i Sangin, la dea Cibele sul carro, in una sintesi di motivi greci e orientali. A fronte di tali manifestazioni orientali o sincretistiche, diversi monumenti di A.K. rispecchiano le istituzioni fondamentali dell'educazione greca e riflettono tradizioni architettoniche mediterranee, come il ginnasio, dedicato come era usuale a Hermes ed Eracle, il teatro ai piedi dell'acropoli verso l'entrata della città e la fontana monumentale sul lato esterno della fortificazione, vicino al ginnasio. Le necropoli si trovavano, come molti monumenti, fuori delle mura; due mausolei ufficiali, tra cui quello di Kineas, erano invece all'interno della città.
La lingua greca era alla base della vita morale e intellettuale; ne sono la prova le massime delfiche che il filosofo Clearco di Soli aveva personalmente fatto incidere su una stele del mausoleo di Kineas e le testimonianze della vita letteraria: un doccione decorato con una maschera del teatro greco, frammenti letterari su papiro e pergamena trovati nella biblioteca del palazzo, relativi a un testo filosofico, probabilmente aristotelico, e a un testo in versi, forse teatrale. Un ostrakon in aramaico testimonia il carattere orientale dell'amministrazione dei santuari; tuttavia, come nel resto del mondo ellenistico, l'amministrazione reale utilizzava unicamente la lingua greca, come dimostrano le iscrizioni sui vasi che custodivano il tesoro reale del palazzo. La presenza greca peraltro si manifestava non soltanto nella vita intellettuale e artistica, ma anche nella vita quotidiana. L'instrumentum domesticum comprende ceramica fondamentalmente ellenizzante, macine con tramoggia, pigiatoi per il vino, calamai e manufatti di ferro. Alcuni tra questi spariranno con la fine della presenza greca; altri, al pari delle arti decorative, sopravviveranno a lungo nella storia dell'Asia Centrale e dell'India.
Bibliografia
In generale:
comunicazioni di P. Bernard in CRAI, dal 1966 al 1980; Fouilles d'Aï Khanoum, I-VIII, Paris 1973-92. Bibl. fino al 1980 in W. Ball, Archaeological Gazetteer of Afghanistan, Paris 1982, pp. 30-32. Bibl. ult.: P. Bernard - H.-P. Francfort, Études de géographie historique sur la plaine d'Aï Khanoum (Afghanistan), Paris 1978; B.Ja. Staviskij, La Bactriane sous les Kushans. Problèmes d'histoire et de culture, Paris 1986, pp. 162-72; Cl. Rapin, The Greeks in Afghanistan: Ai Khanoum, in J. Descoudres (ed.), Greek Colonists and Native Populations, Canberra - Oxford 1990, pp. 329-42; I.R. Pičikjan, Kul´tura Baktrii: Achemenidskij i ellinističeskij periody [Cultura della Battriana: periodi achemenide ed ellenistico], Moskva 1991, pp. 200-73.
Cronologia:
O. Bopearachchi, Monnaies gréco-bactriennes et indo-grecques. Catalogue raisonné, Paris 1991.
Ceramica:
B. Lyonnet, Prospections archéologiques de la Bactriane orientale, II. Céramique et peuplement du chalcolithique à la conquête arabe, Paris 1997.
di Boris A. Litvinskij
Denominazione attuale delle rovine di un monastero buddhista altomedievale (saṃghārāma), situato 12 km a est della città di Kurgan Tyube, nella valle del fiume Vakhsh (Tokharistan medievale, attuale Tajikistan meridionale).
Di pianta rettangolare (50 × 100 m; alt. 4-6 m), il tepe è stato oggetto di scavi (1961-75) che hanno riportato alla luce l'intera area occupata dal monastero. Questo era costruito su un asse orientato da nord-ovest a sud-est e comprendeva un settore residenziale e un settore cultuale. Nel settore sud-orientale era collocata la parte propriamente monastica, composta da una serie di edifici costruiti intorno a una corte di pianta quadrata. Il settore nord-occidentale aveva anch'esso una corte con stūpa centrale, circondata da ambienti con destinazione prevalentemente religiosa. I due settori presentano il medesimo schema compositivo a quattro īwān (sala con copertura a volta aperta su una corte) comunicanti; il saṃghārāma era costruito con blocchi di argilla pressata (pakhsā) e mattoni crudi.
Lo scavo ha permesso di identificare tre fasi: la prima relativa al funzionamento del complesso come monastero buddhista, la seconda corrispondente al più tardo riutilizzo delle strutture del monastero, la terza alla distruzione del monumento. La fase più antica è stata datata tra la seconda metà del VII secolo e l'invasione araba della regione (737-750 d.C.); in questo arco di tempo il complesso venne utilizzato come monastero buddhista e in seguito distrutto e abbandonato. Nella seconda metà dell'VIII-inizi del IX sec. d.C. le sue rovine furono utilizzate per scopi abitativi e di servizio e come laboratori. La terza fase, protrattasi per molti secoli, coincide con il graduale abbandono del sito e con la sua distruzione. Nel settore monastico, al centro di ogni lato si trovava un īwān con accesso a una cella di pianta quadrangolare; gli īwān erano collegati tra loro da corridoi ad angolo retto. In alcuni casi lungo i lati esterni vi erano i corridoi, mentre in altri le celle dei monaci. Sul lato meridionale si trovava il santuario principale, un ambiente a pianta quadrata (lato di 7 m) con pareti dipinte e basamenti modanati sui quali erano collocate sculture, mentre sul lato sud-occidentale era una grande sala tetrastila destinata a ospitare le riunioni dei religiosi (upasthānaśāla).
Fulcro del settore cultuale era il grande stūpa centrale (25 × 25 m) a pianta stellare; sette santuari minori contenenti stūpa piccoli e sculture erano disposti intorno alla corte. Nei corridoi e nelle nicchie con volte a botte si trovavano grandi sculture del Buddha seduto e, in uno dei corridoi su un basso piedistallo, un colossale Buddha in parinirvāṇa. Le pareti e le volte dei corridoi erano interamente ricoperte da raffigurazioni dipinte di Buddha seduti e da altre composizioni buddhiste. La decorazione scultorea del monastero, completamente realizzata in argilla cruda, comprendeva rappresentazioni di Buddha, Bodhisattva, esseri divini (devatā), monaci, devoti, animali e rilievi ornamentali. L'architettura e l'arte di A.T. esprimono una sintesi tra gli influssi provenienti dall'India e dall'Afghanistan e le tradizioni locali; vi si trovano inoltre testimoniate idee e soluzioni compositive che svolgeranno un ruolo importante nello sviluppo dell'architettura buddhista e islamica.
Bibliografia
B.A. Litvinskij, Outline of the History of the Buddhism in Central Asia, Moscow 1968; B.A. Litvinskij - T.I. Zeimal´, Adžina-Tepa. Architektura. Živopis´. Skul´ptura [Ajina-Tepa. Architettura. Pittura. Scultura], Moskva 1971; B.A. Litvinskij, s.v. Centrale Asia, in EBuddhism, IV, 1979, pp. 21-52; B.A. Litvinskij - T.I. Zeimal´, Nekotorye aspekty semantiki stupa v Srednej Azii i Indii [Alcuni aspetti della semantica dello stūpa in Asia Centrale e in India], in Drevnjaja Indija. Istoriko-kul´turnye svjazi, Moskva 1982, pp. 164-86; B.A. Litvinskij, s.v. Adjina Tepe, in EIran, IV, 1985, pp. 703-705; B.A. Litvinskij - T.I. Zejmal´, The Buddhist Monastery of Ajina Tepa, Tajikistan. History and Art of Buddhism in Central Asia, Rome 2004.
di Chiara Silvi Antonini
Castello altomedievale nell'Uzbekistan meridionale, non lontano da Termez, portato alla luce da L.I. Al´baum (1953-55).
Di pianta quadrata (30 m per lato), il castello è costruito in mattoni crudi e comprendeva 16 ambienti appartenenti a due fasi successive. Le stanze del periodo I (1-11) erano disposte intorno a un cortile quadrato, la cui area fu poi occupata nel periodo II dagli ambienti 12-16. L'ambiente 4 ha restituito alcuni oggetti di particolare interesse per il loro possibile significato cultuale collegabile, come anche l'altare dell'ambiente 12, a un culto del fuoco, di una divinità femminile e di una divinità con cammello, presente anche in altre località dell'Asia Centrale di epoca altomedievale (Afrasiab, Penjikent). Oltre a una certa quantità di ceramica, in particolare vasi di forme eleganti (fiasche e brocche), sono stati rinvenuti medaglioni, oggetti di legno e frammenti di tessuti di lana e di seta.
Di grande interesse sono le pitture murali dell'ambiente 14, una sala quadrata di 4,85 m per lato e di 2 m circa di altezza. La scena rappresentata è un banchetto cui partecipano 47 persone. In primo piano vi sono figure maschili e femminili sedute o semisdraiate su tappeti circolari, in secondo piano figure stanti di minori dimensioni. I convitati indossano vesti in tessuti preziosi decorati con motivi diversi (palmette, semi delle carte, volti umani, teste di cinghiale) e tengono in mano una coppa e/o un oggetto circolare su alto stelo. Alla scena sono state date differenti interpretazioni. In un primo momento Al´baum ritenne si trattasse della rappresentazione di un banchetto rituale in onore di una dea della fertilità, celebrato durante il raccolto delle messi; successivamente, avanzò l'ipotesi che i gesti dei convitati alludessero a un banchetto nuziale. Basandosi sulle fonti letterarie che descrivono i costumi delle genti del Turkestan occidentale, C. Silvi Antonini (1972) ha invece proposto di interpretare la scena come rappresentazione di un ricorrente banchetto in onore dei defunti.
Per il sito Al´baum proponeva la seguente cronologia: V sec. d.C. per il periodo I e fine del V-inizi del VI sec. d.C. per il periodo II. Alla metà del VI sec. d.C. il castello sarebbe stato distrutto e solo sporadicamente frequentato. Su questa cronologia sono stati sollevati dubbi da Silvi Antonini e A.A. Jerusalimskaja, che, sulla base di argomenti diversi (rispettivamente i confronti con le altre scuole pittoriche centroasiatiche e lo studio dei tessuti rappresentati nei dipinti), propongono di datare il periodo II alla fine del VI-inizi del VII secolo. Attualmente quest'ultima datazione è accettata dalla maggioranza degli studiosi.
Bibliografia
L.I. Al´baum, Balalyk Tepe, Tashkent 1960; G.A. Pugačenkova - L.I. Rempel´, Istorija iskusstv Uzbekistana s drevnejšich vremën do serediny devjatnadcatogo veka [Storia delle arti dell'Uzbekistan dalle epoche più antiche alla metà del XIX secolo], Moskva 1965; A.A. Jerusalimskaja, K složeniju školy chudožestvennogo šelkotkačestva v Sogde [Sulla costituzione di una scuola dell'arte della tessitura serica in Sogdiana], in Srednjaja Azija i Iran, Leningrad 1972; C. Silvi Antonini, Le pitture murali di Balalyk Tepe, in AnnOrNap, 32 (1972), pp. 35-77; G. Azarpay, Sogdian Painting, Berkeley - Los Angeles - London 1981; G. Achadova, Novye elementy v živopisi Balalyktepe [Nuovi elementi nella pittura di Balalik Tepe], in IstMatKulUzbek, 32 (2001), pp. 239-41.
di Claude Rapin
Città e provincia dell'Afghanistan settentrionale, allo sbocco della valle del Balkhab, al centro della grande oasi omonima, 21 km a est di Mazar-i Sharif.
L'occupazione moderna copre in parte il sito, un'enorme area di rovine di 450 ha, che racchiude resti databili dall'epoca achemenide al Medioevo. L'impianto urbano è noto a grandi linee solo grazie al tracciato delle fortificazioni in terra cruda e ai resti di grandi monumenti isolati, che ricercatori francesi, indiani, britannici, americani, afghani e giapponesi hanno esplorato a partire dal 1920.
Indicata da Erodoto (VI, 9) come capitale della Battriana, l'antica Bactra fu una delle maggiori città del mondo iranico e dell'Asia Centrale, grazie alla sua posizione al crocevia delle carovaniere che, provenienti dall'Iran, lungo le oasi tra il versante settentrionale dell'Hindukush e la riva sinistra dell'Amu Darya (l'antico Oxus), si biforcavano per raggiungere a sud l'India nord-occidentale attraverso i passi dei Paropamisadi e la Sogdiana e la Cina a nord. Secondo fonti persiane e arabe, B. sarebbe stata fondata da Key Lohrasp, uno dei primi re ari. La sua importanza storica già prima della conquista achemenide è sottolineata, inoltre, dai racconti leggendari, tramandati da Ctesia di Cnido, sulle spedizioni assire e sulla conquista dell'acropoli della città a opera della regina Semiramide, dalla tradizione zoroastriana (Avesta) e dall'epica (Šāhnāmah). Le iscrizioni achemenidi (in particolare la lista di Dario I a Bisutun) indicano la Bakhtriš, conquistata da Ciro II, come la dodicesima satrapia dell'impero. Le strette relazioni con il potere centrale, a lungo privilegiate per i vincoli familiari che legavano i satrapi alla dinastia, favorirono la diffusione in Iran della religione zoroastriana, nata nell'Iran orientale. In seguito alla conquista di Alessandro Magno, nel 329 a.C., B. è conosciuta anche con il nome di Zariaspa (Strab., XI, 11, 2).
Sotto il profilo archeologico, le testimonianze più antiche sono rappresentate da siti di comunità agricole della tarda età del Bronzo (fine del III-prima metà del II millennio a.C.) che, dapprima insediate a nord dell'oasi, in seguito all'inaridimento degli antichi canali di irrigazione si spinsero gradualmente verso sud, fino alla regione di B. Il periodo achemenide è rappresentato essenzialmente da reperti ceramici, le cui forme, cilindrica e cilindro-conica, sono quelle tipiche delle tradizioni locali dei primi insediamenti agricoli della Battriana nell'età del Ferro. Anche il periodo seleucide e greco-battriano è rappresentato dalla sola ceramica, nonostante le splendide monete coniate dalle sue zecche indichino per B. un ruolo politico e culturale di primo piano. La documentazione è più soddisfacente nel resto dell'oasi (difesa a nord da un terrapieno lungo 60 km), in siti quali Dilberjin (47 km a nord-ovest) e Jiga Tepe (5 km a est di Dilberjin). Come sappiamo da fonti cinesi, alcuni decenni dopo la fine del dominio greco, nel 130 a.C., la stirpe dei Kushana si impose tra le popolazioni nomadi da poco insediatesi nella regione (Daxia) e B. (Lanshi) tornò a essere una città fiorente.
L'attuale città alta (Bala Hissar), edificata su una collinetta quasi ottagonale di 120 ha e dominata all'angolo meridionale da una cittadella (ark), costituisce il nucleo più antico, a partire dal quale si sviluppò la città (Balkh I). I resti oggi visibili della cinta risalgono all'epoca timuride e si elevano ancora per un'altezza di oltre 20 m. Essi coprono parzialmente le rovine delle mura greche, che tra il 208 e il 206 a.C., sotto il re greco-battriano Eutidemo I, permisero alla città di resistere all'assedio del seleucide Antioco III il Grande. A sud, diverse linee difensive erette nella pianura indicano le trasformazioni del tracciato urbano (Nuova B.). Una prima cinta, costruita in grandi mattoni quadrati alla fine dell'occupazione greca o in epoca Kushana, comprende i quartieri sviluppatisi ai lati della via carovaniera che portava verso l'India (Balkh IA). Tra il periodo Kushana e il periodo islamico un'ulteriore espansione verso oriente, fino a Tepe Zargaran (collinetta artificiale del II sec. d.C.), inglobò i quartieri nord-occidentali della città (Balkh II) entro una cinta quadrangolare di tradizione ellenistica. Da qui, in particolare, partiva la via che, oltrepassando l'Oxus a Termez/Tarmita (forse l'Alexandria Oxiana delle fonti classiche), permetteva poi di raggiungere la Sogdiana.
Come altre grandi città dell'impero Kushana, B. ospitava importanti santuari buddhisti, tra cui lo stūpa di Tup-i Rustam (alto alla cupola 60 m) e Takht-i Rustam, alla periferia sud, e lo stūpa di Chakhr-i Falak nella periferia est, affiancato da una moschea che indica la continuità del luogo di culto. I monumenti utilizzavano ampiamente decorazioni architettoniche di pietra (basi e capitelli) accanto al tradizionale mattone crudo. Il Pantheon delle monete Kushana e delle figurine di terracotta testimonia la presenza, accanto al buddhismo, dello zoroastrismo e di numerosi culti indigeni o sincretistici greco-orientali. Figurine maschili, di cavalieri, di cavalli, presenti fino al Medioevo, sono forse riferibili al culto degli antenati, mentre culti femminili sono testimoniati dalle "dee con specchio" e dalla menzione, da parte di Clemente di Alessandria, di una statua di Afrodite del Tanais innalzata da Artaserse II. A B. trovarono inoltre ospitalità comunità manichee e cristiane nestoriane.
Conquistata dai Sasanidi alla metà del III sec. d.C., B. divenne la capitale di una dinastia Kushano-sasanide. Risalgono a questo periodo documenti in lingua battriana, scritti in un corsivo tipico dell'epoca.
Bibliografia
A. Foucher, La vieille route de l'Inde, de Bactres à Taxila, I-II, Paris 1942-47, pp. 55-121; J.-Cl. Gardin, Céramiques de Bactres, Paris 1957; M. Le Berre - D. Schlumberger, Observations sur les remparts de Bactres, in B. Dagens et al., Monuments préislamiques d'Afghanistan, Paris 1964, pp. 61-105; A. Achmedov, Istorija Balcha [Storia di Balkh], Tashkent 1982; W. Ball, Archaeological Gazetteer of Afghanistan, Paris 1982, pp. 47-49 (con bibl. fino al 1980); B.Ja. Staviskij, La Bactriane sous les Kushans. Problèmes d'histoire et de culture, Paris 1986; F.L. Holt, Alexander the Great and Bactria (Suppl. 104 a Mnemosyne), Leiden 1988; X. de Planhol et al., s.v. Balk, in EncIr, III, 1989, pp. 587-96.
di Ciro Lo Muzio
Sito nella valle del Surkhan Darya, affluente di destra dell'Amu Darya, nell'antica Battriana settentrionale (Uzbekistan meridionale).
Individuato già dal 1949, solo dal 1967 il sito è stato oggetto di scavi sistematici, diretti per circa quindici anni da G.A. Pugačenkova; dal 1982 le indagini sono proseguite sulla base di una collaborazione tra archeologi uzbechi e giapponesi (sotto la conduzione di K. Kato e, dal 1996, di K. Tanabe). Sviluppatasi da un abitato sorto tra la fine del II e gli inizi del I sec. a.C. nel sito della futura cittadella, D.T. assunse la fisionomia di un centro urbano durante l'epoca Kushana (I-III sec. d.C.), entrò in declino nel IV secolo e, dopo una debole ripresa (VI-VII secolo), fu definitivamente abbandonata nell'VIII secolo.
La città occupa un'area rettangolare (650 × 500 m) difesa da un muro in blocchi di pakhsā e mattoni crudi e da un fossato; nell'angolo sud-est, su di un rilievo naturale e protetta da una solida cinta muraria, si trova la cittadella. Nella città bassa sono state messe in luce numerose strutture (quartieri residenziali e artigianali, edifici di culto), collegate da una rete viaria irregolare. Sono degne di nota le abitazioni DT5 e DT6, dimore dell'élite cittadina, che rispecchiano un modello planimetrico documentato nella regione anche in altri siti di epoca greco-battriana (Ai Khanum) e Kushana (Saksanokhur, Dilberjin). L'edificio DT7 era con ogni probabilità un santuario consacrato a una divinità femminile (la "Grande dea della Battriana"); della dea si conserva una rappresentazione scultorea frammentaria di argilla cruda e al suo culto allude il soggetto di un dipinto murale parzialmente conservato. La venerazione di una o diverse divinità femminili è testimoniata da frammenti scultorei rinvenuti nel santuario del quartiere dei vasai (DT9), nonché dalle numerose figurine femminili di terracotta rinvenute sia nella città sia nel suo circondario.
A D.T. sono stati scavati due santuari buddhisti: uno extra muros (DT1), l'altro (DT25) situato nel centro della città. Entrambi gli edifici hanno restituito un'ingente quantità di frammenti di decorazione scultorea di argilla cruda e gesso (ganč) che, insieme con gli indizi forniti dalla ceramica e dai reperti monetali, consentono di attribuire le due costruzioni a epoche diverse. Il primo (DT1), datato al I-II sec. d.C., ospitava uno stūpa, di cui si conserva solo il basamento. L'ambiente con stūpa era circondato da vani stretti e lunghi; tra questi la "sala degli idoli" (a nord) e la "sala dei re" (a ovest), così denominate per la presenza, al loro interno, di gruppi scultorei di stucco incentrati su immagini del Buddha, accompagnate da Bodhisattva, monaci e altri personaggi nella prima, da donatori appartenenti alla cerchia dinastica nella seconda. Anche il secondo tempio racchiudeva uno stūpa, alloggiato nella corte centrale (Turgunov 1992); l'accentuato decorativismo e la tendenza al gigantismo delle immagini di culto (per una della sculture del Buddha si è stimata un'altezza di 3 m ca.) fanno sembrare troppo alta la cronologia proposta dagli autori degli scavi, rendendo più plausibile una datazione del tempio al V-VI secolo (Silvi Antonini 1995).
A nord-est della città, a una distanza di 300 m circa, è stata scavata una costruzione funeraria (DT14) di pianta quasi quadrata (13 × 12,5 m), in mattoni crudi, poggiante su di una piattaforma in pakhsā. L'edificio racchiude due file di quattro ambienti rettangolari con copertura a volta, disposti simmetricamente sui lati di un corridoio assiale; in esso sarebbero state praticate l'inumazione e, in una fase intermedia, la deposizione dei resti ossei scarnificati, secondo la pratica zoroastriana, ipotesi questa contestata da P. Bernard (1980), che ipotizza invece inumazioni successive. Si ricorda infine il rinvenimento di un tesoro di oggetti di oro (lingotti e monili), seppellito nella seconda metà del I sec. d.C. in un ambiente della casa DT5.
Bibliografia
G.A. Pugačenkova - B.A. Turgunov, Issledovanije Dal´verzin-tepe v 1973 g. [Ricerche a Dalverzin Tepe nel 1973], in Drevnjaja Baktrija, Leningrad 1974, pp. 58-73; G.A. Pougatchenkova, La culture de la Bactriane du Nord à la lumière des découvertes archéologiques dans la vallée du Sourkhan-Darya, ibid., pp. 281-95; G.A. Pugačenkova et al., Dal´verzin-tepe. Kušanskij gorod na juge Uzbekistana [Dalverzin Tepe. Una città Kushana nell'Uzbekistan meridionale], Tashkent 1978; Ead., Les trésors de Dalverzine-tépé, Leningrad 1978; P. Bernard, Une nouvelle contribution soviétique à l'histoire des Kushans: la fouille de Dal´verzin-tépé (Uzbékistan), in BEFEO, 68 (1980), pp. 313-48; B.Ja. Staviskij, La Bactriane sous les Kushans, Paris 1986, pp. 265-68; E.V. Rtveladze et al. (edd.), Drevnosti Južnogo Uzbekistana [Antichità dell'Uzbekistan meridionale], Soka 1991, nn. 48-145, pp. 261-80; B.A. Turgunov, Excavations of a Buddhist Temple at Dal´verzin-tepe, in EastWest, 42, 1 (1992), pp. 131-53; C. Silvi Antonini, The Dalverzin Temple, in A. Invernizzi (ed.), In the Land of the Gryphons. Papers on Central Asian Archaeology in Antiquity, Firenze 1995, pp. 259-68; B. Tourgounov, Nouvelles données sur le site de Dalverzin-Tepe, in P. Leriche et al. (edd.), La Bactriane au carrefour des routes et des civilisations de l'Asie centrale, Paris 2001, pp. 241-44; B.A. Turgunov, Issledovanija uzbeksko-japonskoj ekspedicii na Dalverzintepa [Le indagini della spedizione uzbeco-giapponese a Dalverzin Tepe], in Archeologičeskie issledovanija v Uzbekistane - 2000 god, Samarkand 2001, pp. 150-58.
di Ciro Lo Muzio
Situata al margine settentrionale dell'oasi di Balkh (Afghanistan), nell'antica Battriana, D. è stata scavata dalla Missione Archeologica Afghano-Sovietica nella prima metà degli anni Settanta del XX secolo. Secondo la cronologia proposta dalla direttrice degli scavi, I.T. Kruglikova, per diversi aspetti contestata, la fondazione della città si data a epoca greco-battriana (ca. II sec. a.C.), la fase di fioritura al periodo Kushana (I-III sec. d.C.) e il suo abbandono intorno al V sec. d.C.
L'area urbana è difesa da una cinta muraria quasi quadrata (383 × 393 m) rinforzata da torri di pianta rettangolare; la porta è situata al centro del lato sud; nella parte centrale sorge una cittadella circolare fortificata. Gli scavi hanno interessato diversi settori della città e del suo immediato circondario. Nella parte nord-est è stato riportato alla luce il Tempio dei Dioscuri, che ha rivelato cinque fasi costruttive, susseguitesi tra l'epoca greco-battriana e il V sec. d.C. circa, nel corso delle quali una serie di rimaneggiamenti ne modificarono in modo sostanziale l'impianto originario. Elemento cruciale di questa sequenza cronologica è un dipinto raffigurante i Dioscuri sulla facciata del tempio di I fase (da cui il nome dell'edificio), che la Kruglikova data all'epoca del re greco-battriano Eucratide (secondo quarto del II sec. a.C.); di fatto, in considerazione dello schema iconografico cui la rappresentazione si ispira, sembra difficile datare il dipinto a prima del II sec. d.C. (Lo Muzio 1999).
All'interno della cella, al centro della quale è una struttura più volte rimaneggiata e di funzione non ancora chiarita (altare o base per statue), sono stati rinvenuti i frammenti di una lunga iscrizione in lingua battriana (non completamente decifrata) e frammenti di sculture che hanno indotto la Kruglikova a parlare di un culto dinastico incentrato sui sovrani Kushana (III fase). Nel vestibolo del tempio di IV fase è stato rinvenuto un dipinto murale raffigurante Shiva e Parvati seduti sul toro (vṛṣa), che l'autrice degli scavi data all'epoca di Vasudeva I (III sec. d.C.), benché il tipo iconografico da cui la rappresentazione deriva sia testimoniato nell'arte indiana non prima del VI secolo circa. Gravi incongruenze nell'interpretazione dei dati stratigrafici (Fitzsimmons 1995) rendono, più in generale, scarsamente affidabile la ricostruzione della storia di questo edificio, cui è legata la cronologia dell'intero sito. Dipinti murali di notevole interesse sono stati rinvenuti in alcuni ambienti del cosiddetto "complesso nord-est" (datati dalla Kruglikova al V sec.). Si segnalano la rappresentazione di due figure shivaite o di dvārapāla ("guardiani delle porte"; ambiente 16a), una scena di adorazione di una dea dall'aspetto marziale (ambiente 12), identificata da F. Grenet (1987) con l'iranica Ršti, scene di banchetto e di culto (ambiente 16).
Nella parte ovest della città è stato scavato un presunto "tempio dinastico" di epoca Kushana, che ha restituito frammenti di sculture di argilla. All'interno della cittadella le indagini si sono concentrate su alcuni quartieri abitativi. Fuori dalle mura, a sud-est della città, è stato riportato alla luce un santuario buddhista che ha conservato resti di uno stūpa, sculture frammentarie e brani di pittura murale; poco più a est era un gruppo di costruzioni funerarie. A sud della città è stata scavata una grande dimora plurifamiliare d'epoca Kushana, confrontabile, in base alla planimetria, con abitazioni di Ai Khanum e Dalverzin Tepe. Si segnala infine il rinvenimento di una scultura raffigurante Eracle (o divinità locale assimilata al dio greco) in uno dei vani presso la porta urbica (Pugačenkova 1977).
Bibliografia
I.T. Kruglikova, Dil´berdžin I. Raskopki 1970-1972 gg. [Dilberjin I. Scavi 1970-1972], Moskva 1974; I.T. Kruglikova (ed.), Drevnjaja Baktrija, I. Materialy sovetsko-afganskoj ekspedicii 1969-1973 gg. [L'antica Battriana. Materiali della spedizione afghano-sovietica, 1969-1973], I, Moskva 1976; Ead., Les fouilles de la Mission Archéologique soviéto-afghane sur le site gréco-kushan de Dilberdjin en Bactriane (Afghanistan), in CRAI, 1977, pp. 407-27; I.T. Kruglikova - G.A. Pugačenkova, Dil´berdžin II. Raskopki 1970-1973 gg. [Dilberjin II. Scavi 1970-1973], Moskva 1977; G.A. Pugačenkova, Gerakl v Baktrii [Eracle in Battriana], in VesDrevIstor, 2 (1977), pp. 77-92; P. Bernard - H.P. Francfort, Nouvelles découvertes dans la Bactriane afghane, in AnnOrNap, n.s., 29, 1 (1979), pp. 119-48, in part. p. 123 ss.; I.T. Kruglikova (ed.), Drevnjaja Baktrija, II. Materialy sovetsko-afganskoj ekspedicii [L'antica Battriana. Materiali della spedizione afghano-sovietica], Moskva 1979; I.T. Kruglikova (ed.), Drevnjaja Baktrija, III. Materialy sovetsko-afganskoj archeologičeskoj ekspedicii [L'antica Battriana, III. Materiali della spedizione archeologica afghano-sovietica], Moskva 1984; Ead., Dil´berdžin. Chram Dioskurov [Dilberjin. Il Tempio dei Dioscuri], Moskva 1986 (rec. P. Bernard, in Abstracta Iranica, 1987, pp. 60-62); F. Grenet, L'Athéna de Dil´berdžin, in F. Grenet (ed.), Cultes et monuments religieux dans l'Asie Centrale préislamique, Paris 1987, pp. 41-45; T. Fitzsimmons, Chronological Problems at the Temple of the Dioscuri, Dil´berdžin Tepe (North Afghanistan), in EastWest, 46, 3-4 (1995), pp. 271-98; C. Lo Muzio, The Dioscuri at Dilberjin (Northern Afghanistan): Reviewing their Chronology and Significance, in StIranica, 28, 1 (1999), pp. 41-71.
di Boris A. Litvinskij
Sito urbano nel Tajikistan meridionale, presso il villaggio di Esanbay, 80 km a sud-ovest di Dushanbe, sulla riva sinistra (orientale) del Kafirnigan, indagato negli anni 1974-80 dalla Spedizione Archeologica del Tajikistan meridionale sotto la guida di B.A. Litvinskij.
Estesa su un'area di 275 m (nord-sud) × 100-150 m (est-ovest), ai margini di un'altura, e difesa da una cinta muraria rinforzata da numerosi bastioni a pianta rettangolare, K.-i K. comprendeva una cittadella (55 × 30 m) circondata da un fossato e una città bassa (šahristān). Quest'ultima era attraversata in direzione nord-sud da una via principale che, dopo un percorso di 155 m, piegava verso ovest per congiungersi con una parallela. Gli scavi effettuati in diversi settori hanno consentito di suddividere la vita dell'insediamento in tre periodi: greco-battriano, Kushana e altomedievale (V-VIII sec.). L'impianto difensivo, sorto in epoca greco-battriana, restò in funzione fino agli inizi del Medioevo.
Nel settore I, nella parte meridionale dello šahristān, sono state riportate alla luce le rovine di una costruzione monumentale il cui nucleo è costituito da una sala quadrangolare (7,35 × 7,55 m). La muratura era in blocchi di pakhsā (argilla mista a paglia). Alle pareti, rivestite da uno spesso strato di intonaco, era addossato un banco di argilla a due piani con podio aggettante di fronte all'entrata, in corrispondenza del quale era una nicchia nel muro. Al centro dell'ambiente si trovava un basamento rettangolare di argilla che, come suggeriscono i vistosi segni di combustione, era probabilmente supporto di un altare del fuoco. La copertura poggiava su quattro colonne lignee intagliate (si conservano il fusto e la base di una di esse), sostenute da plinti di pietra infissi nel suolo. Sul pavimento e sui banchi è stata rinvenuta una consistente quantità di resti combusti di colonne, pannelli e travi della copertura. La sala era circondata da un corridoio, con copertura piana di legno, i cui resti carbonizzati conservano una pregevole decorazione intagliata (archi, girali di vite con grappoli d'uva). L'ingresso dalla strada era situato nel tratto occidentale del corridoio. Non è escluso che il complesso in esame, almeno in un primo momento, avesse una destinazione cultuale, oltre che abitativa.
Un secondo complesso, a sud-ovest del primo, è chiaramente identificabile come tempio buddhista. Esso comprende un ambiente centrale quasi quadrato (4,65 × 4,95 m) con due ingressi sull'asse est-ovest, quello orientale con portico tetrastilo che affacciava su una corte recintata. All'interno, agli angoli, si conservano basamenti pentagonali su cui erano poste statue di argilla (di cui rimangono solo i piedi). Al centro della parete meridionale era una grande nicchia ad arco con basamento su cui poggiava una statua del Buddha seduto, della quale si sono conservate la parte inferiore e la testa. La nicchia ha rivelato un recesso murato contenente 37 lucerne di argilla. Al centro, un grande podio a due gradini, di pianta stellare, ospitava probabilmente una statua del Buddha seduto al centro e altre minori sugli aggetti. Una statua del Buddha su podio era contenuta da una nicchia nella faccia esterna del muro meridionale.
L'ambiente era circondato su tre lati da un corridoio, largo 2,2 m, con copertura a volta e pareti interamente decorate da pitture; da questo si accedeva alla cerchia più esterna di ambienti e a un piccolo vano quadrato a ovest, con entrata situata quasi sull'asse centrale dell'edificio e piano pavimentale notevolmente più alto rispetto agli altri ambienti. La copertura poggiava su trombe angolari ad archi prospettici. In ciascuna delle pareti si apriva una profonda nicchia ad arco; è questo uno dei primi esempi di uno schema architettonico che sarebbe stato successivamente impiegato per i mausolei islamici a pianta centrale. La vita del santuario è stata suddivisa in tre periodi, l'ultimo dei quali, cui risalgono le strutture descritte, è stato datato, in base alle monete e ad altri elementi, agli inizi del VII - metà dell'VIII secolo. Il primo e il secondo periodo si collocano presumibilmente tra la fine del V e gli inizi del VII secolo. Nel primo periodo la pianta dell'edificio è strettamente affine a quella del čahār tāq iranico, tuttavia non è provato che esso fosse un tempio del fuoco, né si può escludere che anche nei primi due periodi l'edificio fosse dedicato al culto buddhista.
Il rinvenimento di maggiore interesse è senz'altro un ampio brano di pittura murale su due registri, quello superiore con scena incentrata su una figura di Buddha in trono, affiancato da due personaggi stanti; nel registro inferiore è raffigurata una processione incedente verso destra, comprendente due figure femminili aristocratiche precedute da un monaco; il gruppo include due figure maschili inginocchiate, rappresentate in scala minore. Caratterizzato da colori brillanti, il dipinto mostra evidenti affinità stilistiche con le pitture di Balalik Tepe, da un lato, e con quelle di Ajina Tepa, dall'altro, rispetto alle quali si colloca in una fase cronologica intermedia. Da un punto di vista tematico, inoltre, sono numerosi i paralleli possibili con le pitture di Turfan (Xinjiang), dove il rito di offerta di doni da parte del fondatore del tempio è un soggetto diffuso. Di elevata qualità è anche la scultura, arricchita dall'uso del colore, che dà particolare risalto agli ornamenti e al vestiario; i confronti più pertinenti sono offerti dalla produzione in crudo da Fondukistan (dove analoga era, probabilmente, la committenza) e da Tapa Sardar, in Afghanistan, e da quella di Shorchuq, Subashi e Tumshuq, nel Xinjiang.
Bibliografia
B.A. Litvinskij, Kalai-Kafirnigan. Problems of the Religion and Art of Early Mediaeval Tokharistan, in EastWest, 31 (1981), pp. 35-66; Id., Buddijskij chram Kalai-Kafirnigan (Južnyj Tadžikistan) i problemy istorii i kul´tury Central´noj Azii [Il tempio buddhista di Kala-i Kafirnigan (Tajikistan meridionale) e problemi di storia e cultura dell'Asia Centrale], in Istorija i kul´tura Central´noj Azii, Moskva 1983; B.A. Litvinskij - V. Solovjev, L'art du Tokharistan à l'époque du Haut Moyen Age (monuments non-bouddhiques), in ArtsAs, 40 (1985), pp. 5-17; Oxus. Tesori dell'Asia Centrale (Catalogo della mostra), Roma 1993, pp. 51-52 (n. 62), 197.
di Ciro Lo Muzio
Insediamento monastico buddhista nella Battriana settentrionale, sulla riva destra dell'Amu Darya (Uzbekistan meridionale).
La sua scoperta, da parte di A.S. Strelkov, risale al 1928. Dopo alcune esplorazioni parziali degli anni Trenta, il sito è stato oggetto di scavi sistematici sotto la guida di B.Ja. Staviskij tra il 1961 e il 1991; successivamente le indagini sono proseguite a cura di una Missione Archeologica uzbeco-giapponese, diretta da Š.R. Pidaev e K. Kato.
Sorto intorno agli inizi del II sec. d.C. alla periferia occidentale dell'oasi di Termez, al di fuori della cinta muraria della città preislamica, il complesso si sviluppò per aggiunte successive durante il regno dei Kushana e consta di una serie di complessi monastici e cultuali apprestati sui versanti sud, nord e ovest di una collina. La maggior parte di essi, soprattutto quelli del versante meridionale, comprende ambienti cavati nei fianchi della collina e, negli spazi antistanti, strutture all'aria aperta (corti quadrate o rettangolari, circondate o meno da un porticato, cappelle con stūpa, celle monastiche e vani di servizio). La parte rupestre, di destinazione cultuale, in diversi casi consta di un piccolo ambiente quadrangolare circondato sui quattro lati da un corridoio (complessi A, B, D), schema che sembra ispirarsi all'architettura religiosa iranica piuttosto che al modello del caityagṛha indiano; ancor meno usuale è la serie di sale parallele di forma stretta e allungata in cui si articola la parte rupestre del complesso C. Il settore del versante settentrionale della collina, sul quale si concentrano le indagini degli ultimi anni, consiste invece solo di strutture all'aria aperta (corte con stūpa circondata da ambienti monastici e di culto).
A K.T. si sono conservate interessanti testimonianze artistiche: frammenti di sculture e decorazioni architettoniche di argilla cruda e di pietra (sculture di argilla raffiguranti il Buddha seduto e altri personaggi, fregi, capitelli figurati e altro). Di particolare interesse sono i resti di pittura parietale che, accanto a temi consolidati dalla tradizione (fila di donatori nella corte del complesso A, il Buddha seduto sotto un albero affiancato da monaci, anch'essi assisi sotto alberi, nella corte del complesso B), mostrano soggetti meno consueti. Particolarmente degna di nota è la rappresentazione di un Buddha completamente avvolto dalle fiamme, che un'iscrizione apposta in epoca più tarda (fine IV-V sec.) identifica come Buddha-Mazda (ΒΟΔΔΟΜΑΖΔΟ), alludendo ‒ ma a posteriori ‒ a una contaminazione zoroastriana nell'immagine dell'Illuminato. È tuttavia difficile credere, con Staviskij, che il dipinto di K.T. costituisca la prova di un'invenzione battriana dell'iconografia del Buddha fiammeggiante, che contemporaneamente, o già in epoca precedente (il dipinto di K.T. potrebbe risalire al IV secolo), è testimoniata anche nell'arte del Gandhara, soprattutto nell'area del Kapisha (Afghanistan). L'immagine è realizzata al tratto con colore rosso su fondo bianco, così come la serie di scene che si dipanano sulla parete del corridoio adiacente e che ancora attendono un'adeguata interpretazione.
Non meno significative sono le testimonianze epigrafiche, costituite da brevi iscrizioni graffite sulle pareti dei templi o incise su vasi di ceramica in battriano, pracrito (nelle scritture brāhmī e kharoṣṭhī) e, nella fase più tarda, in mediopersiano. L'ingente quantità di monete recuperate nel corso degli scavi è stata di fondamentale ausilio per la definizione della sequenza cronologica.
L'insediamento rimase in attività per due secoli. Nel IV secolo, se non già alla fine del III, in seguito all'invasione sasanide, gran parte del monastero era dismessa o in rovina e diversi suoi settori (soprattutto quelli rupestri) cominciarono a essere utilizzati per sepolture collettive. Dopo una parziale ripresa agli inizi del V secolo (costruzione di uno stūpa tra i complessi B e C e ristrutturazioni nel settore settentrionale), alla fine dello stesso secolo K.T. fu definitivamente abbandonata.
Bibliografia
B.J. Staviskij, Kara-Tepe in Old Termez: a Buddhist Religious Centre of the Kushan Period on the Bank of the Oxus, in J. Harmatta (ed.), From Hecataeus to al-Huwarizmi, Budapest 1984, pp. 95-135; Id., Le problème des liens entre le bouddhisme bactrien, le zoroastrisme et les cultes mazdéens locaux à la lumière des fouilles de Kara-tépé sur le site de l'antique Termez (Ouzbékistan), in F. Grenet (ed.), Cultes et monuments religieux dans l'Asie Centrale préislamique, Paris 1987, pp. 47-51; Id., Sud´by Buddizma v Srednej Azii [Le sorti del buddhismo in Asia Centrale], Moskva 1998, pp. 23-44 (con esauriente bibl. sui rapporti di scavo e altri studi alle note 14, 21 e 44).
di Galina A. Pugačenkova
Insediamento nella valle del Surkhan Darya, nell'antica Battriana settentrionale (Uzbekistan meridionale), scavato da G.A. Pugačenkova negli anni 1959-63.
A Kh. sono stati individuati la cittadella, i resti di singole costruzioni in un'area piuttosto estesa e un piccolo palazzo che, designato localmente come Khanaka Tepe, è la struttura che ha destato maggiore interesse. Secondo l'autrice degli scavi, l'edificio era originariamente destinato a ricevimenti e solo successivamente fu adibito alla funzione di "casa degli antenati divinizzati". La facciata principale era dotata di un portico a colonne (ayvan), che immetteva nella sala per le udienze, da cui si accedeva alla piccola sala del trono a due colonne; su entrambi i lati del nucleo centrale erano vani secondari e corridoi. Le pareti del portico e della sala per udienze erano decorate da pitture e sculture di argilla cruda che celebravano la stirpe regnante. La metà superiore delle pareti era occupata da rilievi, consistenti in grandi pannelli figurati coronati da un fregio. Di particolare interesse è la decorazione della parete opposta all'entrata, nella sala per le udienze, articolata in tre composizioni separate.
Nella composizione centrale è rappresentato un dinasta in trono insieme alla sua consorte; al di sopra di essi sono raffigurate le divinità protettrici: i busti di Eracle e Mitra e una Nike in volo. Su entrambi i lati si dispongono i membri della famiglia reale, tra cui un esponente della casata partica. Nella scena a destra, un altro rappresentante della stirpe dinastica è accompagnato da congiunti di età diverse e da una dea asiatica (probabilmente Ashi) su carro. Sulla parete opposta si svolge una dinamica scena di combattimento cui prendono parte arcieri in tenuta leggera della tribù di Heraos e guerrieri corazzati di diverso tipo etnico. Il fregio mostra Eroti sostenenti un pesante festone, dalle cui anse emergono busti di musicanti (suonatrici di liuto e arpa) e figure teatrali, tra cui un personaggio dai tratti grotteschi (maskaraboz). Le pareti della sala e del portico conservano resti di pittura, con motivi figurati e ornamentali.
Secondo la Pugačenkova vi sono raffigurati personaggi storici reali, ossia gli esponenti della stirpe di Heraos, uno dei primi re Kushana, il cui nome e il cui aspetto fisico ci sono noti da monete del I sec. a.C. A lui si deve l'unificazione delle tribù Yuezhi insediate nei territori già appartenuti al regno greco-battriano, che pose le basi del futuro impero dei Grandi Kushana. Le figure maschili riflettono quasi tutte il suo stesso tipo fisiognomico: grandi occhi a mandorla, fronte fortemente inclinata per via della deformazione craniale artificiale, baffi, basette, capelli a casco tenuti da una fascia; ciò nonostante, ognuna di esse presenta tratti individuali distintivi, come anche i personaggi femminili, pur accomunati dal viso pieno e dal tipo di acconciatura.
L'interpretazione della Pugačenkova è stata tuttavia messa in dubbio da alcuni studiosi; in particolare, B.Ja. Staviskij sottolinea l'assenza di monete di Heraos nella valle del Surkhan Darya, che sembrerebbe essere stata conquistata da uno dei suoi successori, e propone di ritardare al I sec. d.C. la data di fondazione dell'edificio che potrebbe aver avuto sin dall'origine una funzione di tempio o di santuario dinastico.
Il palazzo di Kh. rappresenta l'esito della fusione tra la tradizione locale battriana (evidente nelle tecniche edilizie, nella planimetria, nelle immagini divine di origine orientale quali Mitra e la Grande Dea) e quella ellenistica (basi attiche, antefisse di terracotta, divinità di derivazione greca come Eracle e Atena). Il festone sostenuto da Eroti è sì un motivo ricorrente nella scultura ellenistica e nei sarcofagi romani, ma i busti che ne emergono sono tipicamente asiatici. Nella pittura troviamo associati la testa di una giovane figura maschile di tipo ellenistico e il profilo di un giovinetto di tipo centroasiatico. Anche la resa delle caratteristiche individuali e l'espressività delle figure, di tradizione ellenistica, si manifestano nell'arte battriana dell'epoca in maniera originale.
Bibliografia
G.A. Pugačenkova, Chalčajan. K probleme chudožestvennoj kul´tury severnoj Baktrii [Khalchayan. Il problema della cultura artistica della Battriana settentrionale], Tashkent 1966; Ead., Skul´ptura Chalčajana [La scultura di Khalchayan], Moskva 1971; B.Ja. Staviskij, La Bactriane sous les Kushans. Problèmes d'histoire et de culture, Paris 1986, pp. 224-28, 278; G.A. Pugačenkova, Eščë o chalčajanskoj skul´pture [Ancora sulla scultura di Khalchayan], in B.B. Piotrovskij - G.M. Bongard-Levin (edd.), Central´naja Azija. Novye pamjatniki pis´mennosti i iskusstva, Moskva 1987, pp. 253-67; L. Nehru, Khalchayan Revisited, in SilkRoadArtA, 6 (1999-2000), pp. 217-39.
di Boris A. Litvinskij
Sito nell'oasi di Mirshade, nella valle del Surkhan Darya, in Uzbekistan. Vi è stata individuata l'unica città della Battriana settentrionale di epoca achemenide.
Di pianta rettangolare (750 × 550 m) e cinto da mura imponenti, il sito è stato dilavato dalle acque del Kizilsay nella parte settentrionale. La fortificazione, conservata sul lato est per una lunghezza di oltre 300 m e in resti più esigui sul lato sud, è costituita da una base monolitica di argilla pressata (larga oltre 10 m) e, nella parte superiore, da file di blocchi di pakhsā (argilla cruda e paglia). Essa raggiunge alla base una larghezza di 20 m e si conserva per un'altezza di 4-5 m; la porta era situata al centro del lato orientale. Il sito era circondato da un fossato e ulteriore protezione era fornita dagli affluenti del Kizilsu. Nell'angolo sud-ovest sorgeva il gruppo più consistente e compatto di rovine, da identificare con la cittadella, mentre nella parte sud-ovest erano i resti di un palazzo. Aree edificate sono state individuate anche all'esterno della cinta muraria, soprattutto a est.
Scoperta nel 1971 da un distaccamento della spedizione storico-artistica dell'Uzbekistan (diretta da G.A. Pugačenkova), K.T. è stata oggetto di scavi su scala limitata (diretti da Z.A. Chakimov, nel 1973-74 affiancato da T. Sagdullaev). Le indagini hanno consentito di chiarire la stratigrafia del sito, ma non una precisa ricostruzione planimetrica delle strutture dell'area scavata (200 m2). Nel livello archeologico superiore sono stati messi in luce muri di pakhsā. Lo strato sottostante ha restituito alcuni ambienti di dimensioni assai ridotte (1,3 × 1,7 m o 1,7 × 2,8 m) con pavimenti rivestiti di argilla mista a paglia triturata e muri di notevole spessore (1-1,7 m) di mattoni crudi (48 × 28 × 11 cm; 42-44 × 28-29 × 11-12 cm). Nel livello inferiore, un insieme di strutture mostra ambienti di superficie più ampia dei precedenti (fino a 2,75 × 6,6 m), alcuni dei quali suddivisi da file di sottili blocchi di pakhsā; in base alla planimetria e ai reperti è stata ipotizzata per essi la funzione di magazzini. In altre zone del sito gli scavi hanno riportato alla luce ambienti abitativi e di servizio, di dimensioni modeste, con pianta rettangolare, quadrata o simili a corridoi, con muri in pakhsā. Alcuni dei vani sottostanti furono ricoperti da una piattaforma di mattoni crudi di maggiore formato (58-64 × 29-32 × 11-13 cm).
L'esistenza del sito è stata suddivisa in tre periodi. Sorto nel X sec. a.C., l'insediamento assume la fisionomia di una città nel VII-VI secolo e continua a esistere fino al V sec. a.C. Nel circondario di K.T., a breve e media distanza, sono state individuate 18 residenze fortificate dell'età del Bronzo e della prima età del Ferro; tra queste, Kizilcha 6 è stata oggetto di uno studio dettagliato.
Bibliografia
A.S. Sagdullaev, Kul´tura Severnoj Baktrii v epochu pozdnej bronzy i rannego železa [La cultura della Battriana settentrionale nell'età del Bronzo Tardo e nella prima età del Ferro], Tashkent 1978; Id., Usad´by drevnej Baktrii [Fortezze dell'antica Battriana], Tashkent 1987.
di Ciro Lo Muzio
Gruppo di manufatti di oreficeria riportato alla luce nel 1877 in una località della riva destra dell'Amu Darya, nell'attuale Tajikistan meridionale, forse Takht-i Kubad, presso la confluenza del Kunduz, o la poco distante Takht-i Sangin.
Rinvenuto fortuitamente, il "tesoro" sarebbe stato acquistato da mercanti di Bukhara e, successivamente, immesso nel mercato antiquario; alcuni singoli oggetti furono venduti separatamente, ma altri, di origine spuria, entrarono a far parte del tesoro, snaturandone la composizione originaria. Una parte cospicua degli oggetti fu infine acquistata da due ufficiali britannici, sir Alexander Cunningham e sir Augustus W. Franks; quest'ultimo acquisì anche la parte di Cunningham e, alla sua morte (1896), lasciò il tesoro al British Museum.
Il Tesoro dell'O. include oggetti d'oro e d'argento di grande valore artistico: bracciali, torques, vasi, ornamenti lavorati a sbalzo o a tutto tondo e placchette di lamina d'oro con motivi figurati a sbalzo o a incisione. Nell'insieme, i manufatti sembrano costituire un gruppo stilisticamente omogeneo, collocabile tra il V e il IV sec. a.C. Al suo interno prevalgono opere di tradizione achemenide, verosimilmente attribuibili a maestranze locali; solo una parte più esigua di pezzi è riconducibile all'arte delle steppe e almeno un manufatto (un fodero d'oro di pugnale) può essere attribuito all'artigianato medo (ante 550 a.C.). Il giudizio sull'epoca di deposizione del tesoro è stato a lungo condizionato dalla sua associazione con un ripostiglio di monete, pervenuto in Europa insieme con il tesoro stesso, e comprendente coni datati tra gli inizi del V e gli inizi del II sec. a.C., verosimile data del suo interramento. La scarsa chiarezza sul rapporto esistente tra i due gruppi di reperti (probabilmente frutto di due rinvenimenti distinti) invita tuttavia a considerarli separatamente.
Un altro insieme di oggetti di oreficeria, acquisito alla fine degli anni Novanta dal Miho Museum (Giappone), sarebbe stato, secondo I.R. Pičikjan (1997), parte integrante del tesoro, avente origine nei depositi votivi del tempio di Takht-i Sangin. Di segno opposto è invece la tesi avanzata di recente da O.W. Muscarella (2003), che del tesoro, considerato per tutto il Novecento uno dei più saldi punti di riferimento per lo studio dell'oreficeria achemenide, mette in dubbio la stessa autenticità.
Bibliografia
O.M. Dalton, The Treasure of the Oxus, London 19633; Oxus. Tesori dell'Asia Centrale (Catalogo della mostra), Roma 1993, pp. 97-106; M. Taddei, s.v. Oxus, Tesoro dello, in EAA, II Suppl. 1971-1994, IV, 1996, pp. 151-52; I.R. Pichikyan, Rebirth of the Oxus Treasure: Second Part of the Oxus Treasure from the Miho Museum Collection, in Ancient Civilizations from Scythia to Siberia, 4, 4 (1997), pp. 306-83; O.W. Muscarella, Museum Constructions of the Oxus Treasures: Forgeries of Provenience and Ancient Culture, ibid., 9, 3-4 (2003), pp. 259-75.
di Gérard Fussman
S.K. (il "colle rosso") è il nome dato dagli archeologi francesi a una collina sul bordo della piana irrigua di Pul-i Khumri, 15 km circa a nord-ovest di questa città, nella Battriana afghana.
Gli scavi, condotti dal 1952 al 1963 dalla Délégation Archéologique Française en Afghanistan sotto la direzione di D. Schlumberger, hanno portato alla luce un enorme santuario dominante la piana, costruito rimodellando l'intera faccia est della collina. Esso aveva l'aspetto di una gigantesca fortezza rettangolare (82,5 m da nord a sud, 170 m da est a ovest), che si sviluppava lungo il pendio, difesa da un muro di mattoni crudi (spess. 3,2 m, alt. superiore a 5 m) scandito da torri cave quadrate e costruito, ai piedi della collina, su una fondazione di pietra grezza di altezza compresa fra 6 e 7 m. Lo stacco tra la fondazione e la muratura di mattoni era marcato da tre assise con paramento di pietra su cui era incisa l'iscrizione di fondazione. A questo livello si apriva l'unica porta del santuario, cui si accedeva mediante una scalinata di pietra larga da 6 a 7 m.
Dietro questa parete, alta oltre 13 m, il versante della collina si presenta completamente ritagliato e trasformato in una terrazza a quattro gradoni, attraversato al centro da una scalinata di pietra, larga 6,6 m, che conduceva alla sommità spianata del colle dove, sul bordo, a 50 m di altezza dalla piana, si elevava il santuario principale, detto Tempio A, aperto solo a est e circondato sui restanti tre lati da una corte, i cui portici si appoggiavano sulla parete interna del muro di difesa. Si tratta di un edificio rettangolare (46,3 m nord-sud × 39,2 m est-ovest), su podio di mattoni crudi, con paramento di pietra decorato da lesene corinzie, con peristilio di colonne a base attica. Esso consisteva di un ambiente centrale, la cella (11,5 × 11,5 m), circondata su tre lati (sud, ovest e nord) da un corridoio spoglio, le cui pareti esterne corrispondevano a quelle interne del peristilio. Il tetto della cella era sostenuto da quattro gigantesche colonne a base attica; l'unica, ampia porta d'ingresso si apriva a est, in asse con la scalinata e di uguale larghezza; aperta, essa permetteva di visualizzare una piattaforma (4,7 × 4,7 m), posta al centro della cella, di pietra concia, con facce decorate da rosette dipinte; si ignora che cosa essa sostenesse.
Il peribolo del santuario era anch'esso racchiuso da una cinta fortificata, che si raccordava con il muro di facciata ai piedi della collina; quest'ultimo, comune alle due cinte murarie, era preceduto da una spianata bordata a est da un canale d'irrigazione. Tra le due cinte murarie, sulla sommità del colle, sorgevano dimore molto semplici, forse destinate all'alloggio del personale del tempio. Il più vicino abitato antico, localizzato 4 km più a sud, non è ancora stato esplorato. La piana di Pul-i Khumri è disseminata, del resto, di evidenze archeologiche, due delle quali, assai vicine a S.K., furono indagate contestualmente allo scavo di questo: il basamento di un monumento buddhista e il villaggio di Kohna Masjid.
Pochi sono stati i reperti rinvenuti: qualche frammento di statua e alcuni elementi della decorazione di pietra che rivestiva i muri di mattoni crudi. Essi sono tuttavia di importanza estrema per la storia dell'arte, avendo permesso a Schlumberger di dimostrare come l'arte greco-buddhista del Gandhara fosse un prodotto dell'arte ellenizzata dell'Asia Anteriore. L'iscrizione di fondazione era quasi interamente scomparsa, ma il sito ne ha restituito altre, in particolare tre versioni complete dell'iscrizione di ripristino, redatte nella lingua della Battriana dell'inizio dell'era corrente, pressoché sconosciuta all'epoca della scoperta, scritta in caratteri greci. Essendo il battriano una lingua iranica, i testi hanno potuto essere compresi nelle linee essenziali; il loro contenuto, unitamente all'esame dei reperti (in particolare dei frammenti di statue) e alle indicazioni supplementari fornite oggi dall'iscrizione di Rabatak, permette di chiarire la natura e la storia del sito.
Il santuario faceva parte di una rete di templi detti "dinastici", costruiti per ordine di Kanishka all'inizio del suo regno (78 o 125 d.C. ca., secondo gli studiosi) per glorificare il potere di origine divina della dinastia Kushana. Non è chiara la natura del culto: la divinità principale era probabilmente Oanindo, ovvero la Vittoria di Kanishka; non si trattava comunque di un tempio del fuoco, come era stato supposto invece all'inizio. Dopo qualche anno appena, l'acqua venne a mancare e il tempio fu abbandonato, per essere restaurato nell'anno 31 dell'era Kushana da un alto funzionario di nome Nokonzok: furono consolidati i muri, aggiunte due semiterrazze davanti alla facciata originale e ristabilita l'adduzione di acqua. L'insieme dei rinvenimenti monetali mostra che il Tempio A fu abbandonato tra l'80 e il 120 dell'era di Kanishka.
Sulle rovine del sito, sulla sommità del colle, furono costruiti in seguito (200 d.C. ca.?) due templi del fuoco. Il pozzo rinvenuto ai piedi del colle, che conteneva come materiale di reimpiego due copie dell'iscrizione di ripristino, si ascrive probabilmente a quest'epoca. Dopo l'incendio che distrusse il sito tra il 250 e il 350 d.C., uno dei templi del fuoco e la cella del Tempio A furono oggetto di un sommario restauro (i detriti lasciati dall'incendio non furono neanche rimossi), probabilmente di breve durata. Verso il 350 d.C. il sito fu abbandonato definitivamente.
Bibliografia
D. Schlumberger, Descendants non-méditerranéens de l'art grec, in Syria, 37 (1960), pp. 131-66, 253-320; D. Schlumberger - M. Le Berre - G. Fussman, Surkh Kotal en Bactriane, I. Les temples, Paris 1983; G. Lazard - F. Grenet - Ch. de Lamberterie, Notes bactriennes, in StIranica, 13 (1984), pp. 199-232; G. Fussman - J.-C. Gardin - O. Guillaume, Surkh Kotal en Bactriane, II. Monnaies, céramique, petits objets, Paris 1989; N. Sims-Williams, A New Bactrian Inscription of Kanishka the Great, I. The Rabatak Inscription, Text and Commentary, in SilkRoadArtA, 4 (1995-96), pp. 75-96, 128-37; G. Fussman, L'inscription de Rabatak et l'origine de l'ère śaka, in JAs, 286 (1998), pp. 571-651.
di Boris A. Litvinskij
Sito del Tajikistan sud-occidentale (regione di Kobadian), posto su una terrazza sovrastante la riva destra (occidentale) del fiume Vakhsh, nel punto in cui esso si unisce con il Panj, dando origine all'Amu Darya.
Delimitato a est dal fiume e a ovest dalla catena del Teshik Tash, l'insediamento si estende per circa 2 km lungo la riva del fiume e per 250-350 m in direzione est-ovest. Al centro del sito sorge una cittadella rettangolare (238 × 168 m) difesa da un muro e da un fossato; a nord e a sud di questa, a una distanza di 550 m circa, sono state individuate le mura di cinta esterne. Rinvenimenti di superficie suggeriscono che la vita del sito copra un lungo periodo, compreso tra le epoche achemenide e post-Kushana. Dopo alcuni sondaggi, a partire dal 1928, tra il 1975 e il 1991 la Spedizione Archeologica del Tajikistan meridionale, diretta da B.A. Litvinskij, condusse un'indagine sistematica della cittadella, portando alla luce il monumentale Tempio dell'Oxus. Attualmente scavi di dimensioni limitate proseguono, sempre nella cittadella, a cura dell'Istituto di Storia dell'Accademia delle Scienze del Tajikistan.
Il Tempio dell'Oxus (51 × 51 m) è caratterizzato da una pianta simmetrica, con sala centrale tetrastila quadrata, circondata su tre lati da due file di corridoi a L. L'ingresso, sul lato orientale della sala, era preceduto da un portico ottastilo fiancheggiato, a sud e a nord, da due gruppi di ambienti, ciascuno dei quali comprendeva un ātešgāh (locale per la conservazione del fuoco perpetuo), comunicante direttamente con il portico. L'area antistante il tempio a est, il temenos, era delimitata da un imponente muro, rivestito sulla faccia interna da blocchi di pietra. Al centro del muro orientale, in asse con l'entrata del tempio, si aprivano i propilei che davano sulla strada. Nel corso della sua prolungata esistenza il tempio subì diversi rimaneggiamenti e ricostruzioni. Al suo interno si sono conservati molti elementi e strutture di uso rituale: un pozzo, altari del fuoco negli ātešgāh, una piattaforma rituale nella sala centrale, due altari ellenistici, altri altari nel temenos e fosse per la deposizione delle ceneri sacre. L'architettura del tempio è marcatamente sincretistica: la planimetria rispecchia il modello del tempio del fuoco achemenide; le mura sono in mattoni crudi di grande formato; le basi delle colonne, di pietra, sono di tipo achemenide; i capitelli, così come alcuni altri dettagli, sono di tradizione ellenistica, in particolare di tipo ionico-microasiatico; inoltre, dinanzi all'edificio sorgeva, su un basamento di pietra, una gigantesca statua di bronzo, elemento caratteristico dei templi ellenistici.
Gli scavi hanno restituito oltre 8000 oggetti, che vanno dall'epoca achemenide a quella Kushana, molti dei quali votivi e rinvenuti in bothroi e favissae. Considerevole è la quantità di manufatti artistici di oro, argento, bronzo, avorio, osso, fritta, gesso e argilla, oltre che di armi ed elementi di armature. Fra le testimonianze più eloquenti del profondo impatto che la tradizione ellenistica ebbe sulla cultura della Battriana è un altare di pietra in miniatura, con figura di bronzo di Marsia. Sulla faccia anteriore l'altare reca un'iscrizione in lingua greca che ricorda la dedica, da parte di un Battriano, a Oxus, trascrizione greca del nome locale del fiume Vakhsh e dell'omonima divinità fluviale, cui fu conferito l'aspetto del Sileno greco. Sotto il profilo iconografico, si segnalano i ritratti scultorei (alcuni dei quali ispirati alla scuola di Lisippo), le raffigurazioni di sacerdoti zoroastriani, di personaggi della mitologia greca (Marsia, Helios, Eracle, Acheloo e altri), di esseri fantastici (grifone e ittiocentauressa) e di scene di battaglia.
Si è ipotizzato che il tempio messo in luce dagli scavi sia stato edificato all'epoca di Alessandro Magno o di uno dei due primi sovrani seleucidi su un tempio preesistente, ereditandone i tesori. Successivamente, ma ancora in epoca ellenistica, sotto la minaccia di un'aggressione nemica, i sacerdoti avrebbero sotterrato lungo la sponda del fiume i manufatti più preziosi, che, casualmente ritornati alla luce negli anni Settanta del Novecento, costituirebbero il famoso Tesoro dell'Oxus, oggi al British Museum. Ciò che si può affermare sulla base delle caratteristiche architettoniche e dei reperti ‒ in particolare le monete ‒ è che il tempio fu costruito tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. e che continuò a essere utilizzato, pur con restauri e ristrutturazioni, fino al III o agli inizi del IV sec. d.C.
Bibliografia
I.R. Pičikjan, Kul´tura Baktrii v drevnosti. Achemenidskij i ellinističeskij periody [La cultura della Battriana nell'antichità. Periodi achemenide ed ellenistico], Moskva 1992; Id., Oxos-Schatz und Oxos-Tempel. Achämenidische Kunst in Mittelasien, Berlin 1992; B.A. Litvinskij - I.R. Pichikian, An Achaemenian Griffin Handle from the Temple of the Oxus. The Makhaira in Northern Bactria, in A. Invernizzi (ed.), In the Land of the Gryphons. Papers on Central Asian Archaeology and Antiquity, Firenze 1995, pp. 107-28; Iid., River-Deities from Greece Salute the God of the River Oxus-Vakhsh. Achelous and the Hippocampess, ibid., pp. 129-49; Iid., The Hellenistic Architecture and Art of the Temple of the Oxus, in B.A. Litvinskij - C. Altman Bromberg (edd.), Archaeology and Art in Central Asia. Studies from the Former Soviet Union, in BAsInst, n.s., 8 (1996), pp. 47-66; Iid., Ellinističeskij chram Oksa v Baktrii (Južnyj Tadžikistan), I. Raskopki. Architektura. Religioznaja žizn´ [Il tempio ellenistico dell'Oxus in Battriana (Tajikistan meridionale), I. Scavi. Architettura. Vita religiosa], Moskva 2000; B.A. Litvinskij, Chram Oksa v Baktrii (Južnyj Tadžikistan), II. Baktrijskoe vooruženie v drevnevostočnom i grečeskom kontekste [Il tempio dell'Oxus in Battriana (Tajikistan meridionale), II. L'armamento battriano nel contesto antico-orientale e greco], Moskva 2001; Id., Il tempio battriano dell'Oxus e l'ellenismo orientale. Problemi e ipotesi, in C. Silvi Antonini - B.M. Alfieri - A. Santoro (edd.), Oriente e Occidente. Convegno in ricordo di Mario Bussagli (Roma, 31 maggio - 1 giugno 1999), Pisa - Roma 2002, pp. 160-67; B.A. Litvinskij - I.R. Pičikian, Taxt-i Sangin. Der Oxus-Tempel. Grabungsgefund, Stratigraphie und Architektur, Mainz a.Rh. 2002.
di Ciro Lo Muzio
Sito della Battriana settentrionale, sulla riva destra dell'Amu Darya (Uzbekistan meridionale). Le rovine della città antica, sorta in epoca greco-battriana e abbandonata a seguito dell'invasione mongola (1220 d.C.), sorgono a 8 km dall'omonima cittadina odierna e si estendono, a nord e a ovest di essa, su di una superficie di 500 ha circa.
Dopo un'esplorazione sommaria di G. Bonvalot, nel 1882, il sito e il suo circondario sono stati oggetto a più riprese di indagini archeologiche, inizialmente sotto la guida di B. Denike (1926-28) e in seguito, con un progetto più articolato, dirette da M. Masson (1936-38). A partire dal 1979 hanno avuto luogo scavi e sondaggi sotto la guida di Š.R. Pidaev; dal 1993 al presente è attiva a T. la Missione Archeologica Franco-Uzbeca (direttori P. Leriche e Š.R. Pidaev).
Sull'antica denominazione della città (e sulle origini del suo nome attuale) sono state avanzate diverse ipotesi, nessuna delle quali ha ricevuto un consenso generale. V. Tomaschek ne ha supposto la derivazione dall'avestico taro-maetha, "villaggio al di là del fiume", mentre W. Tarn ipotizza che la Tarmita menzionata in una fonte buddhista tibetana (e verosimilmente da identificare con T.) sia da ricondurre a un originario Demetriade, postulando dunque una relazione tra la città e il sovrano greco-battriano Demetrio, suo probabile fondatore. Al di là dell'etimologia del toponimo, secondo Pidaev il sito di T. potrebbe essere identificato con la Alexandria Oxiana di Plinio.
Il sito si compone di tre settori principali. Nella zona occidentale si stagliano due alture: quella meridionale è la cittadella, di pianta rettangolare (400 × 200 m) e difesa da una imponente cinta muraria, quella a nord (Chingiz Tepe) ha conservato resti strutturali probabilmente appartenenti a un impianto difensivo. A est della cittadella si estende la città bassa (šahristān), difesa da una fortificazione ancora ben conservata; ancora più a est è un'ampia area suburbana, anch'essa cinta di mura (parzialmente scomparse). Al di fuori del perimetro urbano sorgono altri siti e monumenti preislamici di notevole interesse archeologico: a nord di Chingiz Tepe, in posizione elevata, i due monasteri buddhisti di Kara Tepe e Fayaz Tepe, alla periferia sud-orientale lo stūpa di Zurmala.
La presenza di un insediamento greco, già rivelata dai numerosi elementi architettonici riportati alla luce dagli scavi di Masson (basi attiche, capitelli di pilastri corinzi, fusti di colonne, cornici modanate) ma anche dai frequenti rinvenimenti fortuiti di monete greco-battriane, ha ricevuto ulteriore conferma dalle indagini stratigrafiche di Pidaev. Queste hanno individuato per la prima volta l'esistenza di un consistente strato d'epoca greco-battriana, oltre alle tracce di un'occupazione di epoca anteriore (seleucide o addirittura achemenide). I risultati delle ricerche della missione franco-uzbeca, concentrate su diversi settori della cittadella, portano a concludere, seppure in via preliminare, che la T. greca era di superficie piuttosto ridotta (non più che la porzione centrale della cittadella), probabilmente un insediamento militare preposto al controllo di uno dei più importanti punti di attraversamento dell'Amu Darya. La cittadella assunse i suoi contorni attuali in epoca Kushana, alla quale risale una grande base di colonna evidentemente appartenente a un edificio monumentale. Le indagini degli ultimi anni hanno rivolto una speciale attenzione alla cinta muraria, in particolare al suo tratto meridionale lambito dall'Amu Darya; resti strutturali (in particolare, la base di una torre circolare) rinvenuti a est della cittadella hanno fatto ipotizzare la presenza di un porto fluviale.
La ceramica riportata alla luce dagli scavi mostra una certa omogeneità sia nell'impasto (tra il beige rosato e l'arancione) sia nell'ingobbio arancione-rossastro. Tra le forme chiuse prevalgono le olle con o senza collo; nell'ambito delle forme aperte è degna di nota la compresenza di modelli di derivazione ellenistica (ad es., i "piatti da pesce") e di tipi caratteristici dell'epoca Kushana (ad es., i piatti con orlo rientrante), ampiamente attestati in altri siti della Battriana (Kara Tepe, Zar Tepe, Balkh, Dilberjin).
Insieme con Kara Tepe, Fayaz Tepe è uno dei siti extraurbani di maggiore interesse archeologico. Scavato negli anni Settanta da L.I. Al´baum, ma mai pubblicato in maniera esaustiva, il complesso si estende per un centinaio di metri con orientamento nord-ovest/sud-est, mostra un impianto tripartito e, diversamente da Kara Tepe, molto regolare e di concezione affine a quella dei saṃghārāma gandharici: tre corti circondate rispettivamente da ambienti di culto (quella centrale), residenziali (la nord-occidentale) e artigianali o di servizio (la sud-orientale). A nord della corte centrale, all'esterno del complesso, era un grande stūpa. All'interno del monastero sono stati trovati resti di dipinti murali policromi di soggetto religioso (Buddha, monaci e donatori) e di sculture di argilla cruda.
Bibliografia
B.P. Denike, Ekspedicija Muzeja Vostočnych kul´tur v Termeze. Predvaritel´nyj otčët [La spedizione del Museo delle Culture Orientali a Termez. Rapporto preliminare], Moskva 1926-27; L.I. Al´baum, Raskopki buddijskogo kompleksa Fajaz-tepe [Scavi del complesso buddhista di Fayaz Tepe], in Drevnjaja Baktrija, Leningrad 1974, pp. 53-58; Š.R. Pidaev, K voprosu o lokalizacii Aleksandrii na Okse [Sulla localizzazione di Alessandria sull'Oxus], in IstMatKulUzbek, 26 (1992), pp. 46-59; P. Leriche et al. (edd.), La Bactriane au carrefour des routes et des civilisations de l'Asie centrale, Paris 2001, in part. pp. 37-159.
di Ciro Lo Muzio
Sito dell'antica Battriana, 5 km a nord-est dell'odierna Shibargan (Afghanistan settentrionale), indagato negli anni 1969-71 e 1977-78 dalla Missione Archeologica Afghano-Sovietica, sotto la conduzione di V.I. Sarianidi. Vi sono stati portati in luce i resti di un edificio di culto della tarda età del Bronzo (fine del II millennio a.C.) e una piccola necropoli del I sec. d.C.
Impostato su una piattaforma di mattoni crudi, il tempio aveva pianta quadrata ed era racchiuso da un muro di cinta con torrioni circolari agli angoli e semicircolari al centro di ogni lato, eccetto quello settentrionale, ove era situato un accesso fiancheggiato da due piloni. Lo spazio interno era in buona parte occupato da una sala ipostila con altare nella parte centrale; più a sud era un altro ambiente con sei colonne in fila (o spazio aperto con porticato sul lato meridionale). Dedicato, secondo Sarianidi, al culto del fuoco, l'edificio sarebbe stato utilizzato fino al IV sec. a.C., quando fu distrutto da un incendio.
Qualche secolo più tardi, nella stratificazione accumulatasi sulle rovine del tempio, furono scavate alcune tombe a fossa per inumazioni individuali; ciascun defunto (cinque donne e un uomo) era deposto in una bara realizzata con assi lignee (solo in un caso, la tomba 5, il sarcofago potrebbe essere stato ricavato da un tronco d'albero), priva di coperchio e avvolta in un sudario impreziosito da centinaia di placchette d'oro. Ancor più sontuosi erano i costumi degli inumati (decorati da applicazioni di oro e pietre dure), i gioielli e i corredi d'accompagno. Si tratta evidentemente delle sepolture di esponenti della locale aristocrazia nomadica, che Sarianidi pone in relazione con i Kushana e altri studiosi, forse più plausibilmente, con la cerchia Saka-partica. A ogni modo, una moneta di Tiberio (14-37 d.C.), rinvenuta nella tomba 3, fissa nella metà del I sec. d.C. il terminus post quem per la datazione di queste sei tombe, tutte apprestate a distanza di tempo molto ravvicinata, se non addirittura ‒ come è stato ipotizzato ‒ nello stesso giorno.
Oltre alle numerosissime placchette d'oro che ne decoravano le vesti, gli inumati erano adorni di diademi, pendenti per tempie, spilloni, orecchini, pettorali, bracciali, fermagli per chiusura degli abiti e cinture, realizzati in massima parte in oro, spesso con inserti di pietre dure; altrettanto sfarzosa era l'ornamentazione di un pugnale e del suo fodero rinvenuto nella tomba dell'uomo (accompagnato, inoltre, dal cranio e dalle ossa di una zampa di cavallo). Le pregevoli decorazioni a rilievo di questi oggetti offrono un'eccezionale testimonianza delle correnti culturali e artistiche convergenti nella Battriana dei secoli a cavallo della nostra era. Se le tipologie formali di base e il gusto decorativo degli ornamenti del vestiario, delle armi e dei gioielli derivano dall'arte delle steppe (particolarmente forte è il legame con lo "stile policromo"), i soggetti e il linguaggio stilistico delle decorazioni sono debitori sia dell'arte animalistica sia, in diversi casi, della tradizione ellenistica (scena di ispirazione dionisiaca, guerrieri in armatura greca, Eroti che cavalcano delfini).
Tra i soggetti di particolare interesse si segnalano un personaggio regale (maschile o femminile?) con corona turrita che afferra due draghi dal corpo anguiforme rappresentati ai suoi lati e una figura femminile con coppa nella mano destra a cavallo di un leone, che in parte richiama l'iconografia della dea Nana. I corredi includono anche oggetti importati, quali tre specchi cinesi di argento e un pettine indiano d'avorio. Oltre alla già citata moneta romana, sono state rinvenute monete partiche. Menzioniamo infine una singolare medaglia d'oro di provenienza indiana recante l'immagine di un uomo barbato e ignudo nell'atto di sospingere una grande ruota, che un'iscrizione kharoṣṭhī nell'esergo identifica come dharmapravartako ("colui che mette in moto la Ruota della Legge"); da qui l'ipotesi che ci si trovi di fronte a un prototipo di matrice ellenistica dell'immagine del Buddha.
Bibliografia
V.I. Sarianidi, Le tombe regali della "collina d'oro", in Mesopotamia, 15 (1980), pp. 5-18; Id., The Golden Hoard of Bactria. From the Tillya-tepe Excavations in Northern Afghanistan, New York - Leningrad 1985; B. Brentjes, Zur Datierung und Einordnung des Gräberfeldes auf dem Tillja-Tepe, in CentrAsJ, 43 (1999), pp. 175-79; S.A. Yatsenko, The Costume of the Yueh-Chihs/Kushans and its Analogies to the East and to the West, in SilkRoadArtA, 7 (2001), pp. 73-120, in part. pp. 74-88; R. Brown, The Walking Tilya Tepe Buddha: a Lost Prototype, in BAsInst, 14 (2003), pp. 77-87.
di Ciro Lo Muzio
Il territorio dell'antica Chorasmia corrisponde alla regione a sud del Lago d'Aral, oggi divisa tra Uzbekistan (regione del Khorezm e Repubblica Autonoma del Karakalpakstan) e Turkmenistan (regione di Tashauz). Delimitata a est, a ovest e a sud da deserti (rispettivamente Kizil Kum, Ustyurt e Kara Kum), la Chorasmia si identifica, di fatto, con le terre bagnate dall'Amu Darya nel suo basso corso e dai suoi affluenti, ma anche dalle reti irrigue artificiali che, a partire dall'età del Bronzo, favorirono lo sviluppo dell'agricoltura. A causa dell'instabilità del bacino idrografico dell'Amu Darya in prossimità del suo delta e delle periodiche espansioni e contrazioni dei sistemi di irrigazione, determinate da fattori storici diversi, i confini di questa antica regione subirono nel tempo oscillazioni più o meno marcate.
Le più antiche testimonianze letterarie (Ecateo di Mileto, Ctesia ed Erodoto) fanno riferimento al popolo dei Chorasmi, mentre le prime menzioni della regione (Huwarizm) ricorrono in iscrizioni achemenidi e nell'Avesta (Mihr Yašt). Dall'insieme delle testimonianze greche e persiane sembrerebbe che inizialmente i Chorasmi fossero stanziati più a sud della regione suddetta, ossia nel Khorasan settentrionale, e che solo nel V sec. a.C. fossero migrati nel delta dell'Amu Darya. Annessa per breve tempo all'impero achemenide, nel IV sec. a.C. (ci informa Arriano) la Chorasmia era un potentato indipendente governato da Farasman, che propose ad Alessandro Magno un patto di alleanza. A partire dal II sec. a.C. la regione, che non fu conquistata dai Macedoni né dai Kushana (I-III sec. d.C.), è menzionata nelle fonti cinesi come Yujian (probabilmente dal nome dell'antica città di Gurganj, od. Kunya Urgench) e nel III-IV secolo compare nelle iscrizioni sasanidi. Dati storici sull'antica Chorasmia sono tramandati anche da autori d'epoca islamica, in particolare Biruni e Tabari, ma la loro interpretazione è spesso controversa. Secondo Biruni, tra il IV e l'VIII secolo la regione fu governata da una dinastia indipendente, gli Afrigidi; la lista di sovrani fornita dallo storico, tuttavia, non ha trovato riscontro nei reperti monetali, se non per l'VIII secolo. Alcuni studiosi ritengono che nel VI-VII sec. d.C. la Chorasmia fu inglobata nel primo kaghanato turco. Nel 711/2 fu conquistata dagli Arabi.
La Chorasmia è stata oggetto di indagini archeologiche sistematiche a partire dal 1937. Le attività della Spedizione Archeo-etnografica della Chorasmia, guidata da S.P. Tolstov, produssero un'immensa mole di dati e servirono a delineare, seppure in via preliminare, un quadro dello sviluppo culturale della regione dal Neolitico al Medioevo, arricchitosi negli anni grazie al contributo di altri archeologi (B.V. Andrianov, A.V. Gudkova, V.N. Jagodin, M.S. Lapirov-Skoblo, M. Mambetullaev, E.E. Nerazik, Ju.A. Rapoport e altri).
Uno dei principali interrogativi cui gli archeologi hanno a lungo cercato di dare risposta è quello della genesi della cultura chorasmiana "arcaica" (VI-V sec. a.C.), secondo la definizione di Tolstov, che una netta cesura separa dalle precedenti culture del Ferro (Tazabagyab e Amirabad). Ciò sembrerebbe avvalorare l'ipotesi, suggerita dalle fonti scritte, di un'immigrazione di gruppi umani da altre regioni che, sulla base delle indagini condotte nel bacino dell'Uzboy, si propone di identificare con le comunità di agricoltori e allevatori della cultura di Kuyusay (Vajnberg). Ancora enigmatico rimane il fenomeno delle "città dalle mura abitate" (Kyuzeli Gir, VI-V sec. a.C., e Kalali Gir I, IV sec. a.C.), grandi fortezze quasi del tutto prive di costruzioni interne, attribuite a comunità di allevatori o considerate città incompiute (Kalali Gir I), di fatto situate in prossimità di punti nodali dei sistemi di irrigazione artificiale. Al IV secolo risale la fondazione di uno dei più interessanti monumenti della Chorasmia, Koy Krilgan Kala, la cui destinazione (residenza, centro di culto, mausoleo od osservatorio astronomico) è ancora oggi dibattuta.
Agli ultimi secoli del I millennio a.C. data il primo impulso all'urbanizzazione. Le città chorasmiane di quest'epoca presentano non di rado un impianto regolare: pianta rettangolare e suddivisione interna dell'abitato determinata da un tracciato viario ortogonale (ad es., Janbas Kala); sono cinte di mura, ma raramente sono dotate di una cittadella. Nei primi secoli dell'era cristiana non si verificano cambiamenti di rilievo nei modelli insediativi; molte delle città sorte in epoca precedente continuano a esistere e ne nascono di nuove, la più importante delle quali è Toprak Kala.
Il IV secolo segna l'inizio di un periodo di declino che, causato da fattori diversi (in particolare, fenomeni migratori e invasioni), investe gran parte dell'Asia Centrale. In Chorasmia le testimonianze archeologiche di questa crisi sono eloquenti: l'abbandono di ampi settori delle reti di irrigazione artificiale, come pure di diverse città soprattutto nelle aree periferiche della regione, un sensibile peggioramento qualitativo della produzione ceramica e la contrazione dei commerci. Tra il VI e l'VIII secolo, tuttavia, la Chorasmia entra in una nuova fase di prosperità. Oltre a una sensibile ripresa della vita urbana, in quest'epoca si definiscono la fisionomia architettonica e il ruolo sociale ed economico dei castelli, ossia le residenze dei grandi proprietari terrieri, ma anche di più modesti insediamenti rurali fortificati, che si moltiplicano nelle oasi irrigue della regione (Berkut Kala, Yakke Parsan, Teshik Kala e altre). Le "rocche feudali" sono in genere di aspetto imponente; l'edificio residenziale, solitamente impostato su di un alto zoccolo, sorge all'interno di una corte racchiusa da una solida cinta muraria; ai piedi della rocca si sviluppano villaggi agricoli che, nel corso del tempo, daranno vita a centri urbani.
In posizione appartata, e per questo solo marginalmente toccata da influssi ellenistici e indiani, la Chorasmia è rimasta a lungo un focolare di "iranismo arcaico" (soprattutto nell'ambito cultuale e funerario), in cui l'impatto delle culture nomadiche, da cui questa regione agricola era accerchiata, fu più forte che in altre zone dell'Asia Centrale. Per quanto concerne le pratiche funerarie, il rito dell'esposizione dei cadaveri, prescritto anche nello zoroastrismo, è qui testimoniato a partire dal IV sec. a.C. Ossuari di materiali e fogge diverse (antropomorfi, a cassetta, a forma di edificio fortificato), destinati a contenere le ossa scarnificate dei defunti, sono stati riportati alla luce in diversi siti e provano che, fino alla conquista araba, questo rituale era tra quelli più saldamente radicati. A tale riguardo è degna di menzione la singolare struttura di forma ovale (170 × 65 m) scavata a Chilpek, identificata dagli archeologi come dakhma, l'edificio destinato all'esposizione dei cadaveri, ipotesi che trova sostegno anche nella presenza, nei dintorni del sito, di necropoli a ossuari.
Alle indagini di Tolstov e dei suoi successori si deve anche la scoperta di documenti in lingua chorasmiana, appartenente al ramo orientale del gruppo iranico e redatta (come l'antico persiano) in una scrittura derivata dall'aramaico. Testi in chorasmiano sono stati rinvenuti in diversi siti (Koy Krilgan Kala, Ayaz Kala I, Burli Kala e, soprattutto, Toprak Kala), redatti su diversi tipi di supporto: documenti scritti su pelle, legno e osso, iscrizioni su pareti e su vasi ceramici, ostraka e, in epoca tarda (VII-VIII sec.), su ossuari (Tok Kala). In chorasmiano erano inoltre redatte le leggende delle monete coniate dalle locali dinastie.
Bibliografia
S.P. Tolstov, Drevnij Chorezm [L'antica Chorasmia], Moskva 1948; Id., Po sledam drevnechorezmijskoj civilizacii [Sulle tracce dell'antica civiltà chorasmiana], Moskva - Leningrad 1948; Id., Po drevnim del´tam Oksa i Jaksarta [Sugli antichi delta dell'Oxus e dello Iaxartes], Moskva 1962; E.E. Nerazik, Sel´skie poselenija afrigidskogo Chorezma [Insediamenti rurali della Chorasmia afrigide], Moskva 1966; B.V. Andrianov, Drevnie orositel´nye sistemy Priaral´ja [Gli antichi sistemi irrigui della regione dell'Aral], Moskva 1969; S.P. Tolstov (ed.), Kočevniki na granicach Chorezma [I nomadi ai confini della Chorasmia], Moskva 1979; G.A. Košelenko (ed.), Drevnejšie gosudarstva Kavkaza i Srednej Azii [I più antichi Stati del Caucaso e dell'Asia Centrale], Moskva 1985, pp. 317-37; G.A. Brykina (ed.), Srednjaja Azija i Dal´nyj Vostok v epoche srednevekov´ja. Srednjaja Azija v rannem srednevekov´e [L'Asia Centrale e l'Estremo Oriente in epoca medievale. L'Asia Centrale nell'Alto Medioevo], Moskva 1999, pp. 30-49.
di Chiara Silvi Antonini
Con questo nome sono designati due siti distinti ‒ Kalali Gir I e II ‒ dell'antica Chorasmia, oggi nella provincia di Tashauz (Turkmenistan).
Kalali Gir I era racchiusa da una cinta muraria di pianta rettangolare (1100 × 600 m ca.), rinforzata da 100 torri e con 4 ingressi a labirinto posti al centro di ciascun lato. Le mura, dello spessore di 15 m, erano costruite con blocchi di pakhsā (argilla cruda e paglia) e mattoni crudi. Al loro interno erano stati ricavati due corridoi paralleli, con funzione di galleria di tiro quello esterno, suddiviso in ambienti abitativi rettangolari quello interno. Questa particolarità suggerì a S.P. Tolstov la denominazione di "città dalle mura abitate", con cui K.G. e la vicina Kyuzeli Gir sono generalmente note.
Esplorata nel 1938 dall'architetto V.I. Piljavskij, nel 1939 dal Tolstov e nel 1946 da S.A. Vjazigin, la città fu sistematicamente scavata tra il 1953 e il 1958 dalla Spedizione Archeo-etnografica della Chorasmia diretta da Tolstov. L'area interna alle mura si rivelò priva di costruzioni, a eccezione di un grande edificio a pianta quadrangolare a ridosso del lato ovest, verso nord, i cui 30 ambienti avevano pareti decorate con rilievi di argilla (è stata trovata la matrice di una testa di grifone); il materiale rinvenutovi si compone di vasi, terrecotte zoomorfe e un rhytòn con protome equina. Ju.A. Rapoport ha proposto una suddivisione cronologica del complesso in tre periodi: il primo, datato al V-IV sec. a.C. sulla base del materiale ceramico, dei dati stratigrafici e delle analogie con l'architettura achemenide, termina con un incendio; il secondo è una fase di transizione (IV-II sec. a.C.); il terzo va dal II al IV sec. d.C. (ma F. Grenet propone una datazione al III - metà del V sec.).
La particolarità urbanistica del luogo ha dato adito a diverse interpretazioni. Tolstov pensò a una città abitata da allevatori (ma tracce di canali di irrigazione indicano che vi era praticata anche l'agricoltura), che vivevano nelle mura e custodivano il loro bestiame nello spazio interno a esse, accostandola al "var quadrato" citato nell'Avesta come opera dell'eroe mitico Yima (Vidēvdāt, II, 33-38). L'edificio a nord-ovest doveva essere una "casa dei defunti" (Tolstov) o un tempio del fuoco (Rapoport). Secondo Rapoport si tratta invece di una città incompiuta, progettata come sede del satrapo achemenide e abbandonata dopo la liberazione della Chorasmia dal giogo persiano; per B. Brentjes, invece, lo spazio interno vuoto era destinato a giochi di tipo cultuale. Nell'ultimo periodo di vita le mura e l'edificio della città vennero utilizzati come cimiteri. Vi sono state rinvenute circa 150 sepolture in fosse e, soprattutto, in ossuari; questi ultimi sono di pietra o di ceramica e hanno diverse forme: quadrati, cilindrici, a sarcofago e a volta.
Gli scavi di Kalali Gir II, svoltisi in maniera intensiva sotto la conduzione di B.I. Vajnberg a partire dal 1985 (ma sospesi nel 1991), hanno riportato alla luce una fortezza del IV-II sec. a.C. a pianta triangolare, con ingresso monumentale sul lato settentrionale e, nella parte nord del sito, un santuario avente come fulcro una costruzione a pianta circolare, probabilmente da ricondurre all'ambito cultuale iranico.
Bibliografia
S.P. Tolstov, Drevnij Chorezm [L'antica Chorasmia], Moskva 1948; Id., Chorezmskaja Archeologo-etnografičeskaja Ekspedicja Akademi Nauk SSSR 1950g. [Spedizione Archeo-etnografica chorasmiana dell'Accademia delle Scienze dell'URSS nel 1950], in SovA, 18 (1953), pp. 301-25; S.P. Tolstov - T.A. Ždanko, Archeologičeskie etnografičeskie raboty Chorezmijskoj Ekspedicii 1949-1953 [Lavori archeo-etnografici della Spedizione Chorasmiana nel 1949-1953], in TChAEE, 2 (1958), pp. 153-67; Ju.A. Rapoport, Iz istorii religii drevnego Chorezma (ossuarii) [Storia religiosa dell'antica Chorasmia (ossuari)], Moskva 1971; B. Brentjes, Die Stadt des Jima, Leipzig 1981; F. Grenet, Les pratiques funéraires dans l'Asie Centrale sédentaire de la conquête grecque à l'islamisation, Paris 1984, pp. 117-20; Ju.A. Rapoport, Svjatilišče vo dvorce na gorodišče Kalaly-gyr I [Il santuario nel palazzo della cittadella di Kalali-gir I], in V.A. Ranov (ed.), Prošloe Srednej Azii [Il passato dell'Asia Centrale], Dushanbe 1987, pp. 140-48; B.I. Vajnberg (ed.), Kalaly-Gyr 2. Kul´tovyj centr v Drevnem Chorezme [Kalali Gir 2. Un centro cultuale nell'antica Chorasmia], Moskva 2004.
di Chiara Silvi Antonini
Sito dell'Uzbekistan settentrionale (Repubblica Autonoma del Karakalpakstan), a 22 km dall'attuale città di Turtkul´. Individuato nel 1938 e scavato intensivamente negli anni successivi, è uno dei monumenti più interessanti portati alla luce dalla Spedizione Archeo-etnografica della Chorasmia, diretta da S.P. Tolstov. Compresa tra l'Amu Darya a ovest e il Kizil Kum a est, l'area in cui sorge K.K.K. è stata definita "oasi morta", per le tracce qui rinvenute dei numerosi canali irrigui che la attraversavano a partire dal VII-V sec. a.C.
Il monumento, costruito con mattoni crudi e pakhsā (blocchi di argilla cruda e paglia), si presenta come una torre circolare a due piani (diam. 42 m; alt. 8,5 m), coronata da un parapetto merlato e racchiusa entro due cinte murarie concentriche (dist. interm. 16,8 m ca.), anch'esse circolari, quella esterna con galleria da tiro all'interno, intramezzata da nove torri, disposte a intervalli regolari. L'ingresso, a labirinto, è situato a est ed è protetto da due grandi torri semicircolari. Lo spazio tra le due cinte murarie è occupato da ambienti abitativi e di servizio. Il piano inferiore della torre centrale si compone di otto sale con copertura a volta, due delle quali (ambienti I e V) sono collocate lungo il diametro est-ovest, mentre le altre, tre per lato, sono ortogonali alla "navata" centrale. Sul lato est e ovest due rampe di scale conducevano al piano superiore. Tra l'ambiente V e l'VIII è stata trovata una fossa di 3,5 m di diametro × 2 m di profondità, celata da un basso muro. Tutti gli ambienti, salvo l'VIII, hanno finestre quadrate. L'assenza di porte di ingresso ha fatto supporre che l'accesso alla torre avvenisse dall'alto.
Lo scavo ha restituito una gran quantità di materiale di rilievo; in primo luogo una produzione fittile che comprendeva giare da magazzino decorate con larghe spirali dipinte in rosso, figurine di terracotta (maschili, femminili e animali), rhytà con terminazioni a protome di cavallo alato e grifone, fiasche con originali decorazioni figurate a rilievo (animali reali e mitici, cavalieri e altri personaggi maschili e femminili). Su alcuni frammenti ceramici sono state rinvenute iscrizioni in alfabeto aramaico e lingua chorasmiana (appartenente alla famiglia iranico-orientale). Ricordiamo ancora oggetti di pietra, metallo, osso e vetro (armi, utensili, ornamenti, astragali e sigilli). In due ambienti del secondo livello sono state rinvenute tracce di pittura murale; uno dei frammenti meglio conservati lascia intravedere l'immagine di un arciere.
Sono stati individuati tre periodi di vita del monumento: I, datato al IV-III sec. a.C.; II e III, datati dal I al III-IV sec. d.C. L'interpretazione del complesso come monumento funerario viene generalmente accettata. Se è vero, infatti, che all'interno della torre centrale non è stata rinvenuta alcuna sepoltura, è altrettanto vero che la struttura stessa dell'edificio ‒ pianta circolare e ambienti disposti a croce ‒ trova strette analogie con i mausolei rinvenuti sul basso Sir Darya (Tagisken 1 e 2, Chirik Rabat, Balandi 3, Babishmulla 2), appartenenti a una cultura seminomadica, e che frammenti di vasi funerari erano stati deposti nella galleria della cinta esteriore; inoltre, nei pressi di K.K.K. sono stati ritrovati ossuari antropomorfi di ceramica contenenti ceneri. È difficile determinare il rituale funerario. La pratica della cremazione sembrerebbe attestata dal ritrovamento di uno strato di cenere, reputato una possibile testimonianza di un rito di incinerazione di un personaggio di alto rango (il sovrano?) apprestato al secondo piano dell'edificio; non può escludersi tuttavia che esso fosse dovuto a un incendio.
La pianta del piano inferiore, con gli ambienti separati in due complessi indipendenti, e la presenza di una fossa destinata presumibilmente a riti lustrali hanno indotto Ju.A. Rapoport a ipotizzare che le due metà della costruzione (orientale e occidentale) fossero consacrate rispettivamente alle divinità del sole e dell'acqua, o meglio al re e alla regina divinizzati come Siyavush e Anahita. La circolarità dell'edificio (che richiama il simbolismo solare caro alle popolazioni Saka e massagete), unita alla sua posizione e al rinvenimento di frammenti di strumenti astrologici, hanno fatto pensare che il monumento fosse adibito anche a osservazioni astronomiche e al culto astrale.
Bibliografia
S.P. Tolstov, Drevnechorezmijskie pamjatniki v Karakalpakii [Monumenti antico-chorasmiani nel Karakalpakstan], in VestDrevIst, 3 (1939), pp. 180-81; Id., Drevnij Chorezm [L'antica Chorasmia], Moskva 1948; Id., Po sledam drevnechorezmijskoj civilizacii [Sulle tracce dell'antica civiltà chorasmiana], Moskva - Leningrad 1948; Id., Po drevnim delt´am Oksa i Jaksarta [Sulle tracce dell'Oxus e dello Iaxartes], Moskva 1962; S.P. Tolstov - B.I.Vajnberg (edd.), Koj-Krylgan-kala. Pamjatnik kul´tury drevnego Chorezma IV v do n.e. - IV v n.e. [Koy Krilgan Kala. Monumento della cultura dell'antica Chorasmia tra il IV sec. a.C. e il IV sec. d.C.], Moskva 1967; Ju.A. Rapoport, Iz istorii religii drevnego Chorezma (ossuarii) [Storia religiosa dell'antica Chorasmia (gli ossuari)], Moskva 1971; M.S. Lapirov-Skoblo, Analiz postroenija drevnim zodčim plana Koj-Krylgan-kaly [Analisi della concezione planimetrica di Koy Krilgan Kala], in Etnografia i archeologija Srednej Azii, Moskva 1979; F. Grenet, Les pratiques funéraires dans l'Asie Centrale sédentaire de la conquête grecque à l'islamisation, Paris 1984, pp. 59-63, 82-83; Culture and Art of Ancient Uzbekistan (Catalogo della mostra), I-II, Moskva 1991, pp. 198-206, 217-20; S. Chmel´nickij, Koj-Krylgan-kala kak istočnik somnenij [Koy Krilgan Kala come fonte di dubbi], in IstMatKulUzb, 34 (2004), pp. 109-30.
di Ciro Lo Muzio
Città dell'antica Chorasmia, nella provincia di Ellik Kala (Repubblica Autonoma del Karakalpakstan, Uzbekistan), scavata negli anni 1946-50 da S.P. Tolstov e negli anni 1966-75 sotto la guida di E.E. Nerazik.
L'insediamento è cinto da una fortificazione rettangolare (500 × 350 m), rinforzata su tutti i lati da numerose torri poste a distanze regolari. Al centro del lato sud si trovava l'unica porta, accessibile tramite un'entrata a labirinto. Nell'angolo nord-occidentale si ergeva il palazzo; lo spazio antistante la costruzione era racchiuso da una cinta quadrata (lato di 180 m). Grazie allo scavo di due quartieri abitativi nella parte centrale del sito e alla fotografia aerea è stato accertato che l'impianto urbano era suddiviso in blocchi residenziali di forma rettangolare e di dimensioni regolari (100 × 40 m) da un tracciato viario ortogonale (una via magistrale, che dalla porta urbica conduceva alla cittadella, intersecata da vie laterali parallele). La parte nord-orientale del sito si suppone fosse occupata da un grande bacino idrico.
Il palazzo, la struttura più approfonditamente indagata del sito, è costituito da un nucleo di pianta quadrata, poggiante su di un alto zoccolo troncopiramidale, e da tre imponenti bastioni adiacenti alla costruzione centrale, due sul lato esterno della cinta, uno sul lato interno (sud-est). Nel primo piano dell'edificio sono stati scavati oltre 100 ambienti di diversa destinazione. Tra gli ambienti di parata si staglia la "sala dei re", lungo le pareti della quale erano alti banchi d'argilla suddivisi da tramezzi in 23 parti, all'interno di ciascuna delle quali era una scultura raffigurante un personaggio seduto affiancato da due personaggi femminili e da due maschili stanti. Si suppone che la figura più grande dell'intera composizione rappresentasse il re e le altre riproducessero le sembianze dei suoi antenati. Fulcro del palazzo era un settore costituito da una corte con portico, interpretato come sala del trono scoperta (450 m2); adiacente al portico era la "sala dei danzatori mascherati", così denominata per la presenza di 16 pannelli di argilla a bassorilievo raffiguranti coppie danzanti, intercalati da figure isolate di danzatrici, e, secondo Ju.A. Rapoport, probabile santuario della dea iranica Anahita. Oltre a quelli menzionati, il palazzo ospitava altri ambienti decorati da sculture e da pitture ("sala dei cerchi", "sala dell'arpista" e altre).
Secondo gli autori degli scavi, il palazzo sarebbe da interpretare come edificio di culto o, più esattamente, come un complesso di santuari dedicati al culto dinastico; questa ipotesi, tuttavia, è stata contestata con buoni argomenti (Grenet 1986). Sebbene non si possa escludere che alcune sue parti abbiano avuto una destinazione religiosa, sembra infatti più ragionevole attribuire a questa costruzione una destinazione principalmente residenziale e amministrativa. È opportuno ricordare, a questo proposito, che tra i materiali di crollo degli ambienti del piano superiore è stato rinvenuto un centinaio di documenti di contenuto fiscale redatti, in lingua chorasmiana, su legno e su pelle.
Un secondo edificio palaziale (il "complesso settentrionale") è stato scavato a nord del sito, all'esterno della cinta muraria, e a ovest di questo è stato individuato, grazie alla fotografia aerea, un terrapieno delimitante una vastissima area rettangolare (1250 × 100 m), la cui funzione non è stata ancora chiarita.
Bibliografia
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di Boris I. Maršak
Regione storica dell'Asia Centrale inizialmente corrispondente, nelle fonti classiche, al territorio compreso tra i fiumi Amu Darya e Sir Darya, con l'esclusione della Chorasmia (regione del delta dell'Amu Darya), e successivamente (dal I-II sec. d.C. ca.) a un'area più circoscritta, il cui confine meridionale non è più l'Amu Darya, bensì la catena dello Zerafshan; benché fino al I-II sec. d.C. i dati archeologici non evidenzino marcate differenze culturali tra le regioni a nord e a sud di questa linea, in conformità alla tesi corrente nella letteratura archeologica si considereranno qui come "sogdiani" solo i siti e i monumenti ubicati nelle valli dei fiumi Zerafshan e Kashka Darya.
I più antichi materiali riportati alla luce in questa regione datano al Paleolitico superiore (ad es., la stazione Samarkandskaja), tuttavia il Neolitico non è ancora documentato. Il sito eneolitico di Sarazm, in Tajikistan, sulla via che collega Samarcanda a Penjikent, risale al IV-III millennio a.C. Sarazm è un agglomerato di insediamenti originatosi, secondo R. Besenval, dall'afflusso di gruppi di origini diverse, attratti dalle opportunità economiche offerte dalle ricchezze minerarie dell'alto Zerafshan. L'età del Bronzo è ancora poco nota; la cultura del Bronzo Antico di Zaman Baba, sul basso Zerafshan, mostra diverse affinità con la cultura di Afanas´evo. A Zardcha-Khalifa, nei pressi di Penjikent, è stata rinvenuta una sepoltura appartenente alla seconda fase della cultura di Sapalli (variante della cultura battriano-margiana del Bronzo Tardo, inizi del II millennio a.C.). Poco più tardi (prima metà del II millennio a.C.) nella valle dello Zerafshan si diffonde la cultura di Andronovo (necropoli di Muminabad, nella regione di Samarcanda, e di Dasht-i Kozi, a est di Penjikent). Da tutti questi monumenti, che appaiono non correlati tra loro, non è possibile ricavare un'idea precisa sull'origine dei Sogdiani.
L'urbanizzazione in Sogdiana prende avvio intorno agli inizi del I millennio a.C., ossia nella prima età del Ferro, quando nelle aree di Samarcanda e del Kashka Darya si afferma una nuova cultura, che per diversi aspetti appare più primitiva della cultura battriano-margiana (Bronzo Tardo), ma anche di quella di Sarazm: invece delle case a più ambienti costruite in mattoni crudi, troviamo abitazioni con pavimento ribassato e la ceramica è ancora modellata a mano, a volte con una modesta decorazione dipinta; va tuttavia sottolineato che essa non presenta alcuna affinità con la ceramica modellata a mano di Andronovo, anche se la comparsa di popolazioni iranofone (tra cui i Sogdiani) viene frequentemente messa in relazione con l'immigrazione di tribù andronoviane dalle steppe del Nord durante il I millennio a.C. Con l'espansione dei nomadi andò in gran parte perduto il retaggio della cultura battriano-margiana, ma non il sostrato più antico.
Nell'VIII-VII sec. a.C. sorsero i primi grandi centri urbani: Kok Tepa (ca. 100 ha) e Samarcanda (sito di Afrasiab, ca. 220 ha). Le indagini condotte da una missione franco-uzbeca in entrambi i siti hanno evidenziato la vastità e la complessità delle opere difensive e, a Kok Tepa, di architetture di carattere cultuale (scavi di C. Rapin e M.Ch. Isamiddinov). Ragionevolmente, Isamiddinov ipotizza che la realizzazione dei canali di irrigazione nell'area di Samarcanda ‒ lunghi oltre 100 km e conservatisi, con poche modifiche, fino a oggi ‒ sia contestuale alla nascita delle città. Si verifica, dunque, una vera rivoluzione socioeconomica, resa possibile da tre fattori: rapido incremento demografico nelle aree coltivabili, livello di organizzazione militare più avanzato e formazione di un potentato guidato da capi di origine nomadica. Nel VII-VI sec. a.C. compaiono vasi ceramici di forma cilindro-conica lavorati al tornio, mattoni crudi rettangolari di grande formato e altri elementi caratteristici di una cultura diffusa anche in Battriana, Margiana, Partia settentrionale e, più tardi, in Chorasmia, regioni che si ritiene facessero parte di un unico potentato, sebbene non sia possibile stabilire quale ne fosse il centro politico. È in quest'epoca, se non prima, che nella Sogdiana meridionale compare il grande centro urbano di Erkurgan.
Resta sostanzialmente valida, per il periodo compreso tra il VI sec. a.C. e la fine dell'VIII sec. d.C., la cronologia, sia relativa sia assoluta, elaborata per la ceramica e per altre categorie di materiali da A.I. Terenožkin intorno al 1950. L'invasione della Battriana, della Sogdiana e della Chorasmia da parte di Ciro II nella seconda metà del VI sec. a.C. e la conseguente entrata di queste regioni nell'impero achemenide sembrano non aver avuto riflessi tangibili nella loro cultura materiale. Nuovi elementi, in particolare le forme ceramiche aperte (coppe e ciotole) caratteristiche dell'Iran, non si diffusero che nel IV sec. a.C., in periodo postachemenide e antico-ellenistico. In epoca ellenistica, accanto a edifici in mattone crudo sopravvivono le tradizionali abitazioni seminterrate; una testimonianza significativa è fornita dal sito di Kurgancha (IV-III sec. a.C.), nella Sogdiana meridionale (scavi di M. Chasanov). Anche l'influsso greco si manifesta tardivamente; nella ceramica di Afrasiab le forme greche ("piatti da pesce" e crateri) compaiono solo nel III sec. a.C., durante il regno seleucide. Alla fine dello stesso secolo la Sogdiana fu occupata da popolazioni nomadi, che ne mantennero il controllo nonostante un'effimera riconquista dei Greci nella prima metà del II sec. a.C. Nell'architettura di età ellenistica dominano elementi antico-orientali. La cinta muraria di Afrasiab, ad esempio, era costruita con grossi mattoni crudi, estranei alla tradizione greca e tuttavia marchiati con lettere greche; gli aggetti e le feritoie a punta di freccia derivano da modelli medi. L'utilizzo del mattone crudo rimase caratteristico in tutta la storia dell'architettura sogdiana.
Ai secoli a cavallo dell'era volgare datano le necropoli a kurgan dei gruppi nomadi stabilitisi ai margini delle oasi di Bukhara e di Samarcanda (fine II/inizi I sec. a.C. - I/II sec. d.C.), che utilizzavano ampiamente i prodotti dell'artigianato delle comunità stanziali, soprattutto la ceramica lavorata al tornio. La cultura urbana di quest'epoca è ben rappresentata da Samarcanda, Erkurgan e altri centri e insediamenti minori, mentre per quanto riguarda il periodo successivo (fine del II-IV sec. d.C.) Samarcanda, a differenza di Erkurgan, è ancora poco studiata. Tra il II e gli inizi del III sec. d.C., la Sogdiana attraversa una fase di parziale declino. Stando a documenti scritti (le "antiche lettere" sogdiane), agli inizi del IV secolo molti mercanti di Samarcanda vivevano e lavoravano in Cina, mantenendo i contatti con la città di origine. A Erkurgan, intorno al III secolo, fu edificato un tempio dedicato agli dei della città.
Tra il II sec. a.C. e il I sec. d.C. sono attestate piccole strutture difensive fortificate, a due piani, solitamente di pianta quadrata con bastioni agli angoli o al centro. A volte la fortezza era racchiusa entro una seconda cinta muraria e accoglieva costruzioni residenziali nello spazio intermedio. Insediamenti simili sono documentati, in epoca più antica, in Iran (Shahr-i Qumis). In Asia Centrale se ne trovano anche in Ferghana, Ustrushana e Chach. In Sogdiana questi piccoli centri rurali fortificati subiscono una graduale evoluzione che porta alla conversione degli originari bastioni e degli spazi compresi tra essi in strutture abitative e, successivamente, alla creazione di un nuovo corridoio di tiro perimetrale con bastioni, che da quattro diventano otto. Nel V secolo intorno alle cittadelle sorgono le residenze dei proprietari fondiari, anche queste fortificate, e nel VI-VII secolo si afferma la tipologia del castello (ampiamente rappresentata nell'area di Samarcanda e nell'alto Zerafshan) con impianto difensivo tripartito, costituito cioè da un nucleo residenziale, in genere costruito su di un alto zoccolo, che spesso ingloba una struttura fortificata preesistente, circondato da due cinte murarie. Di frequente l'edificio centrale era abitato dalla guardia, mentre il palazzo del signore si trovava nella corte interna; la cinta muraria esterna proteggeva le abitazioni degli agricoltori al servizio del proprietario. Un intero insediamento di fine del VII - inizi dell'VIII secolo, sviluppatosi vicino al palazzo del proprietario, è stato scavato da Ju. Jakubov a Gardani Hisar, sull'alto Zerafshan.
Sulla struttura delle antiche città della Sogdiana sappiamo ancora poco. A Erkurgan il cosiddetto Palazzo è affine alle residenze urbane della Battriana d'epoca ellenistica e Kushana; le vie si intersecavano ad angolo retto formando isolati quadrati; non sappiamo, tuttavia, a che epoca si debba datare questo impianto viario. Nel III-V secolo, la parte più fittamente edificata di Samarcanda ‒ il settore settentrionale, pari a un terzo dell'area urbana ‒ fu circondata da una cinta muraria. A partire dal VI secolo nello spazio compreso tra queste mura e la fortificazione originaria sorsero residenze aristocratiche.
Nel IV secolo una popolazione di presunta origine unnica orientale conquistò la Sogdiana, dando origine a una nuova dinastia che ebbe sede a Samarcanda. Un rapido incremento demografico si registrò alla fine del IV secolo, ma soprattutto nel V, quando nacquero nuove città, quali Penjikent, costituita da una cittadella e da una città bassa caratterizzata da un impianto regolare. Le fortificazioni sono ora di notevole altezza e dotate di bastioni posti a brevi intervalli e di numerose feritoie di tiro; nonostante la loro imponenza, tuttavia, tali opere erano scarsamente efficaci dal punto di vista difensivo. La tradizione ellenistica (battriana) sopravvive anche nell'architettura cultuale (Penjikent, Jar Tepa). La produzione di statuette di terracotta ottenute a stampo, in particolare quelle riproducenti l'immagine di una dea assisa di ispirazione ellenistica, è testimoniata sin dal III sec. a.C. Nei primi secoli dell'era volgare si diffondono figurine votive, più di frequente femminili. Piccole icone di terracotta, raffiguranti dei o dee e alloggiate in nicchie all'interno di templi, sono tipiche, nel VI secolo, dell'area di Samarcanda.
Fino al V secolo la monetazione della Sogdiana è basata sull'imitazione di modelli ellenistici. Nel V e soprattutto nel VI secolo ha inizio nella regione la circolazione di monete argentee sasanidi, cui fecero rapidamente seguito imitazioni locali. Il V secolo è in generale un periodo di importanti trasformazioni. A Penjikent un tempio del fuoco zoroastriano fu annesso a uno dei due santuari urbani e comparvero, in periferia, i primi nawwus, edifici funerari con copertura a volta per la deposizione degli ossuari, ossia le urne contenenti i resti ossei dei cadaveri sottoposti, secondo la pratica zoroastriana, al rito della scarnificazione. L'uso degli ossuari e dei nawwus si sarebbe protratto a Samarcanda e a Bukhara fino agli inizi dell'VIII secolo.
Una diffusa agiatezza è testimoniata da un nuovo tipo di residenza aristocratica, documentato tra il VII e la prima metà dell'VIII secolo e caratterizzato da una ripartizione interna in settori diversi: abitativo, di servizio e di parata. Le sale di ricevimento erano decorate da pitture murali e da statue e rilievi di legno. Le case dell'aristocrazia (Samarcanda, Penjikent) si distinguevano dai palazzi dei governanti dei principati sogdiani (Varakhsha, Penjikent) solo per le dimensioni; allo stesso modo, le abitazioni dei cittadini benestanti erano simili a quelle della nobiltà. Nel VII e nella prima metà dell'VIII secolo a Samarcanda, Penjikent e in altri centri si coniavano monete bronzee basate sul modello cinese, con foro centrale quadrato per il passaggio di una cordicella. L'abbondanza di queste monete nelle città testimonia l'incremento del commercio al dettaglio.
Nell'ambito della ceramica si assiste, nel III-IV secolo, alla comparsa di scuole locali; alcune forme si rivelano peculiari di determinate botteghe (Tali Barzu a sud di Samarcanda, strati I-IV, scavi di G.V. Grigor´ev; strati più antichi di Penjikent). Nel VII secolo e nella prima metà dell'VIII nei nuovi centri di produzione ceramica (Kafir Kala, a sud di Samarcanda, scavi di Grigor´ev) si afferma e in breve tempo si diffonde ampiamente una produzione basata sull'imitazione del vasellame d'argento, che testimonia un diffuso desiderio di emulazione dell'opulento stile di vita dei cittadini più abbienti. Nelle aree periferiche, soprattutto in quelle montane, come in passato la ceramica era modellata a mano e cotta sul fuoco; questo tipo di vasellame era tuttavia utilizzato anche dagli abitanti delle città, principalmente per la preparazione dei cibi. Le abitazioni rurali erano simili alle case tagiche di montagna del XX secolo; nelle pianure, e soprattutto nelle vicinanze dei centri urbani, si incontrano tuttavia dimore affini a quelle cittadine. Anche i settori residenziali all'interno dei castelli mostrano analogie con le abitazioni urbane.
Nelle arti figurative della Sogdiana l'elaborazione delle immagini divine risentì dell'influsso greco, al quale, nel V secolo, si sommò l'apporto sasanide e, nel VI secolo, quello indiano. La pittura secolare illustrava opere letterarie di generi diversi (epica, fiabe, leggende) di origine locale, iranica, indiana e greca. Temi non meno favoriti furono la scena di banchetto (e, in generale, di festeggiamento) e la scena di caccia, mentre poco frequente era la rappresentazione di eventi della storia recente. Lo stile sogdiano maturo (VII-VIII sec.) è contraddistinto da dinamismo e da un cromatismo brillante e armonico. L'ocra era il pigmento minerale maggiormente utilizzato, mentre per gli sfondi si faceva ampio uso del lapislazuli proveniente dal Badakhshan.
Nell'VIII secolo la Sogdiana fu sottomessa dagli Arabi e gran parte della popolazione urbana si convertì rapidamente all'Islam. Iniziava contemporaneamente la diffusione della lingua persiana (da cui avrebbe avuto origine il tagico), che finì per soppiantare il sogdiano, sopravvissuto a lungo nelle località montane. I palazzi di due governatori arabi, di cui la missione franco-uzbeca ha riportato alla luce i resti a Samarcanda (scavi di F. Grenet, F. Ivanickij, Ju. Karev), si datano agli anni Quaranta e Cinquanta dell'VIII secolo e appaiono già estranei all'architettura sogdiana. Il dominio arabo cancellò progressivamente l'autonomia dei principati locali; l'aristocrazia e il ricco ceto mercantile abbandonarono i centri urbani minori, come Penjikent. Le grandi città, come Samarcanda e Bukhara, entrarono invece in una nuova fase di sviluppo e divennero importanti centri amministrativi.
Sebbene molti elementi della cultura materiale sogdiana sopravvivano fino all'XI secolo, anche nelle località dell'Asia Centrale orientale e della Cina che avevano ospitato comunità di Sogdiani, nel IX secolo la Sogdiana ha oramai perso la sua specificità etnica e culturale.
Bibliografia
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di Claude Rapin
Nome dato nel XVII secolo alla città premongola di Samarcanda, la Maracanda delle fonti classiche, capitale dell'antica Sogdiana, oggi in Uzbekistan, presso la riva sinistra del fiume Zerafshan. Situata nel punto d'incontro delle strade che congiungevano l'Iran, l'India, le steppe dei nomadi e la Cina, A. è stata una delle grandi città commerciali dell'Asia Centrale.
Dopo i primi scavi archeologici della fine del XIX secolo, le indagini sono proseguite negli anni 1960-70; dal 1989 il sito è stato oggetto di regolari campagne di scavo da parte della missione franco-sovietica e dal 1991 di quella franco-uzbeka, tuttora attiva sotto la direzione di F. Grenet e M. Isamiddinov.
Il tepe di A., a nord del bazar e della moschea di Bibi Khanum, che costituirono il centro di Samarcanda a partire dall'epoca di Tamerlano (fine del XIV sec.), è un altopiano di löss sul quale si estendono per quasi 220 ha le rovine della città fondata in epoca achemenide e distrutta dalle armate mongole di Gengis Khan nel 1220. Ancora oggi sul terreno dominano due gruppi di resti monumentali: le fortificazioni e i canali. Protetto da una ripida falesia, l'altopiano su cui si trova la città fu rafforzato tra la metà del VI e la metà del V sec. a.C. da un possente muro di fortificazione a galleria lungo 5 km, ricostruito in età ellenistica e conservato quasi senza modifiche fino a epoca islamica. Diversi muri di cinta intermedi segnalano le variazioni nel tracciato urbano. Una rete di canali disposti a ventaglio e connessi con grandi bacini circondati da parchi, canalizzazioni di terracotta e fontane assicurava l'approvvigionamento idrico alla città; l'acqua, prelevata da uno dei bracci dello Zerafshan, raggiungeva la città attraverso la periferia meridionale, tramite un canale monumentale (Dargom) costruito in sopraelevazione nella pianura già in epoca achemenide, se non prima.
Il primo nucleo urbano è posto al limite settentrionale della città, protetto da una falesia di 30 m e, a sud, da un possente muro di fortificazione, il cui basamento nell'ultima fase achemenide raggiungeva in alcuni settori uno spessore di 10 m. Questo settore settentrionale sarebbe sempre rimasto il centro politico e religioso della città. La metà orientale, dominata da una cittadella costruita su una piattaforma artificiale, formava l'ark, ossia l'acropoli citata dalle fonti antiche (Curzio Rufo e Arriano) dove, all'epoca della conquista macedone del 329 a.C., si trovava il palazzo del satrapo, teatro del tragico banchetto durante il quale Alessandro Magno uccise il compagno Clito. Fino al periodo islamico l'importanza di questa zona non venne mai meno, come indica la recente scoperta del palazzo degli emiri, rappresentanti del califfato di Baghdad.
La parte occidentale, consacrata alle istituzioni religiose almeno a partire dal periodo tardoantico, comprende una larga terrazza occupata dalle vestigia della moschea principale di Samarcanda, fondata dopo la conquista islamica del 712 sulle rovine di un antico tempio zoroastriano (messe in luce da scavi recenti); in seguito l'edificio della moschea si accrebbe progressivamente, inglobando uno tra i più antichi mausolei islamici conosciuti (765 ca.). Tra la moschea e la cittadella, un'arteria nord-sud collegava in età medievale due delle quattro porte della città, quella settentrionale, detta "di Bukhara", e quella meridionale, detta "di Kesh", nome antico di Shahr-i Sabz.
A differenza dei quartieri ufficiali, quelli residenziali, commerciali e artigianali conobbero un'evoluzione discontinua, condizionata dalle vicende storiche e dai problemi di approvvigionamento idrico. Molto presto nella piana circostante nacquero quartieri suburbani che resero necessaria la costruzione di una fortificazione esterna, la cui lunghezza, inizialmente di 13 km, raggiungeva alla metà dell'VIII secolo i 40 km. Oltre al sistema di fortificazioni, alla cittadella e al bacino, i resti di epoca ellenistica consistono in un grande granaio, costruito nel centro dell'acropoli, un forno per ceramica, vasellame (nelle cui forme si riconosce la stessa origine mediterranea della ceramica di Ai Khanum) e figurine di terracotta, le cui tipologie, sostanzialmente invariate fino al VI secolo, si inscrivono nell'ambito di una forma centroasiatica di zoroastrismo che, a differenza di quello dell'Iran occidentale, non aveva abbandonato il culto delle immagini.
Nell'Alto Medioevo, all'apogeo dei traffici commerciali lungo la Via della Seta, A. attraversò un nuovo periodo di floridezza. A quest'epoca risale la decorazione pittorica della sala di parata di una residenza aristocratica, eseguita intorno al 660 e probabilmente commissionata dal re Varkhuman. La composizione, che aveva come fulcro un'immagine andata perduta (sovrano o divinità), includeva diversi soggetti (cortei di ambasciatori, una processione funebre, scene di caccia e leggende indiane), ma il suo significato generale è ancora oggetto di dibattito.
Bibliografia
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di Boris A. Litvinskij
Città d'epoca antica e medievale nella Sogdiana meridionale, 10 km a nord di Karshi (regione del Kashkadarya, Uzbekistan).
Le ricerche archeologiche vi ebbero inizio a cavallo degli anni Cinquanta del XX secolo sotto la guida di S.K. Kabanov; scavi sistematici furono intrapresi dalla metà degli anni Settanta, a opera della spedizione del Kashkadarya dell'Istituto di Archeologia dell'Accademia delle Scienze dell'Uzbekistan, guidata da R.Ch. Sulejmanov.
Centro principale della regione nota nell'antichità e nell'Alto Medioevo con il nome di Nakhshab, E. era difesa da una duplice cinta muraria e copriva una superficie totale di 150 ha. Le mura interne, alte fino a 8 m e rinforzate da bastioni, cingevano un'area pentagonale di 40 ha, più densamente edificata della parte esterna. Al centro del lato nord-est delle mura si trovava la cittadella, costruita nel I sec. d.C. e dotata di una propria cinta muraria con bastioni di pianta rettangolare. La fortificazione interna della città fu completamente ristrutturata intorno al III-IV sec. d.C.: poggiante su di uno zoccolo di pakhsā (argilla cruda e paglia) e provvista di torri a pianta circolare, aveva uno spessore di 5,5 m ed era attraversata da una galleria. Nella stessa epoca fu edificata la seconda cinta difensiva. Ai piedi della cittadella, presso il lato nord delle mura, era il palazzo del governatore (45 × 23 m), costruito su di un'alta piattaforma di mattoni crudi. Il settore di rappresentanza era costituito da due ambienti, rispettivamente di pianta rettangolare e quadrata, circondati da un corridoio a Π e preceduti da un portico (ayvan) distilo, affacciato su una corte. I rivestimenti parietali erano di stucco dipinto. A est del centro della città si trovava il tempio (III-IV sec. d.C.). Esso consisteva in un ambiente a pianta rettangolare (13,2 × 7,5 m), con pareti scompartite da nicchie; al centro del lato sud era il vano d'accesso. Sul pavimento, dinanzi alla nicchia opposta all'entrata, era un basamento a due gradini. Lungo le pareti erano banchi di argilla. La copertura era sostenuta da due imponenti colonne di mattoni cotti. L'edificio era decorato da sculture e pitture di buona fattura. Le strutture hanno rivelato numerose tracce di combustione.
Lungo il lato est delle mura interne è stata individuata un'ampia zona artigianale per la produzione di vasellame e terrecotte. I forni ceramici, a due livelli, sono all'interno di corti domestiche, in abitazioni talora raggruppate in quelli che appaiono come piccoli quartieri fortificati. Un altro quartiere ospitava i laboratori metallurgici. Al centro del lato nord della cinta esterna si trovava il dakhma (edificio sulla cui sommità aveva luogo la scarnificazione dei cadaveri, secondo la pratica zoroastriana), murato agli inizi dell'epoca in questione. Una delle vie maestre (la cui larghezza era di poco superiore ai 10 m) conduceva, dalla porta meridionale in direzione nord, lungo il quartiere dei ceramisti, alla piazza antistante il tempio cittadino; un'altra collegava la porta nord-orientale al palazzo del governatore. I settori abitativi consistevano in quartieri separati, costituiti da diversi edifici con un comune sbocco in una corte o in un piccolo spiazzo. Analoga era l'organizzazione planimetrica di alcune parti del settore urbano più esterno.
Bibliografia
S.K. Kabanov, Nachšeb na rubeže drevnosti i srednevekov´ja (III-VII vv.) [Nakhsheb tra l'antichità e il Medioevo (III-VII sec.)], Tashkent 1977, pp. 23-28; M.Ch. Isamiddinov, Chapelles cultuelles au quartier des céramistes d'Erkurgan, in P. Bernard - F. Grenet (edd.) Histoire et cultes de l'Asie Centrale préislamique. Sources écrites et documents archéologiques, Paris 1991, pp. 173-76; R.Ch. Sulejmanov, L'architecture monumentale d'Erkurgan. Complexes cultuels et communautaires, ibid., pp. 167-72; Id., Drevnij Nachšab [L'antica Nakhshab], Tashkent 2000 (con bibl. prec.).
di Boris A. Litvinskij
Sito altomedievale (noto anche come Kala-i Mugon) sulla riva meridionale del fiume Zerafshan, nel punto in cui in esso si riversa il fiume Kum (Tajikistan).
Il "castello del Monte Mug" (19,5 × 18,5 m) sorgeva sulla sommità di una ripida collina; affiancato da una corte recintata da un muro, era accessibile solo da un lato tramite una via interrotta da un muro. Nel 1932 un pastore del luogo rinvenne fortuitamente tra le rovine un manoscritto identificato come sogdiano dall'iranista A.A. Frejman (San Pietroburgo), che nel 1933 avviò gli scavi sul sito, completati da A.I. Vasil´ev, membro della stessa spedizione; tuttavia, lo scarso rigore scientifico del metodo di indagine lasciò insoluti molti problemi. Nel 1946, con la spedizione di A.Ju. Jakubovskij, le rovine furono nuovamente pulite e l'architetto V.L. Voronina curò l'elaborazione di una più precisa planimetria del monumento.
Il castello poggiava in parte sulla roccia, in parte su una piattaforma costruita con pietrame (scisto). La muratura dell'edificio era realizzata in pietra nella parte bassa e in mattoni crudi rettangolari (48-52 × 24-26 × 8-10 cm) nella parte alta. L'interno della costruzione ha rivelato cinque ambienti stretti e allungati (17,5 × 2-2,25 m; solo uno di essi è più corto), adiacenti e orientati nella medesima direzione. Le coperture, a volta, non si sono conservate. Tra i circa 500 oggetti rinvenuti (in uno stato di conservazione sorprendentemente buono, ma tutti raccolti al di sopra dello strato di detriti), compaiono manufatti di ceramica, vimini, legno e pelle. Si segnalano resti di stoffe di cotone e di seta, di produzione sia cinese sia locale, nonché tessuti di lana. Numerose sono le armi: uno scudo ligneo rivestito di pelle con raffigurazione dipinta di un cavaliere, un fodero di pugnale di legno, punte di freccia di ferro, aste di freccia di bambù e legno.
Di grande importanza è il rinvenimento di sei monete, prime chiare attestazioni di monetazione sogdiana e, soprattutto, di 89 manoscritti su carta, pelle e legno: uno in lingua araba, otto in cinese e i restanti in sogdiano, i primi rinvenuti nella regione d'origine e preziosa fonte per la storia della Sogdiana tra la metà del VII e gli inizi dell'VIII sec. d.C. Il sito è stato identificato con il castello di Abghar che, come tramandano le fonti arabe, avrebbe offerto rifugio all'ultimo governatore di Penjikent, Devashtich, quando la città cadde in mano araba.
Bibliografia
M.P. Vinokurova, Tkani iz zamka na gore Mug [Le stoffe dal castello del monte Mug], in Izvestija Otdelenija obščestvennych nauk AN Tadžikskoj SSR, 14 (1957), pp. 17-32; A.A. Frejman, Opisanie, publikacija i issledovanie dokumentov s gory Mug [Descrizione, pubblicazione e analisi dei documenti dal monte Mug], Moskva 1962; V.A. Livšic, Juridičeskie dokumenty i pis´ma [Documenti giuridici e lettere], Moskva 1962; M.N. Bogoljubov - O.I. Smirnova, Chozjajstvennye dokumenty [Documenti economici], Moskva - Leningrad 1963; Ju.Ja. Jakubov, Pargar v VII-VIII vekach našej ery. Verchnij Zerafshan v epochu rannego srednevekov´ja) [Pargar nel VII-VIII sec. d.C. L'alto Zerafshan nell'Alto Medioevo], Dushanbe 1979; Oxus. Tesori dell'Asia Centrale (Catalogo della mostra), Roma 1993.
di Grigorij L. Semënov
Nota nell'antichità per la solidità delle sue fortificazioni e per la sua vocazione mercantile, P. (Baykand nelle fonti arabe, Bi nelle fonti cinesi), sita 60 km a sud-ovest di Bukhara, era la città sogdiana più occidentale sulla Via della Seta.
Vi si trovava, secondo lo Šāhnāmah di Firdausi, il tempio del fuoco costruito dal leggendario sovrano Kay Khusraw, sulle cui pareti erano trascritti in oro i versi dell'Avesta (testo sacro degli zoroastriani). Le indagini archeologiche a P. furono avviate nel 1913 da L.A. Zimin, membro del circolo di archeologi amatoriali del Turkestan, che vi condusse due campagne di scavo, in cui furono messi in luce i livelli più alti della stratigrafia e i resti di alcuni ambienti del IX-XI secolo. Nel 1939-40 le indagini furono riprese dalla spedizione congiunta dell'Ermitage e dell'Uzkomstarisa, sotto la guida di A.Ju. Jakubovskij, e permisero di redigere una nuova planimetria della città, della quale furono descritti i settori principali: la cittadella, i due šahristān (città bassa) e il rabād (suburbio). Dal 1981 sul sito lavora la spedizione congiunta dell'Istituto d'Archeologia dell'Accademia delle Scienze dell'Uzbekistan e dell'Ermitage, le cui indagini hanno consentito di precisare le tappe fondamentali dello sviluppo della città e le loro specifiche caratteristiche.
Risale al III-II sec. a.C. un insediamento fortificato (ca. 1 ha), su cui si impianterà la cittadella di epoca posteriore. Tra la fine del V e gli inizi del VI secolo a ovest della cittadella si sviluppa una prima città bassa (šahristān I, superficie 7 ha), cui rapidamente se ne aggiungerà una seconda (šahristān II, superficie 13 ha). Nel IX secolo nell'area extraurbana, lungo le vie di comunicazione, sorgono insediamenti fortificati e villaggi artigianali. Agli inizi dell'XI secolo P. viene abbandonata.
Le strutture più antiche messe in luce sinora sono il tempio e il palazzo, entrambi nella cittadella. Il tempio comprendeva due ambienti circondati da sei corridoi; ciascun ambiente presentava un podio centrale rettangolare ed era dotato di tre ingressi. Il palazzo constava di una sala, di un portico e di una corte, disposti sullo stesso asse. Resta incerta l'attribuzione all'uno o all'altro dei complessi dell'arsenale scoperto in uno degli ambienti. Nel X secolo nella cittadella fu eretta la moschea congregazionale, di cui si conserva il muro orientale e la base del minareto; alla stessa epoca risalgono gli ultimi rimaneggiamenti del palazzo. Le mura di cinta della cittadella e della città bassa rappresentano, nei loro diversi periodi costruttivi, esempi significativi dell'architettura difensiva della Sogdiana. La più antica cinta muraria della cittadella (III-IV sec. d.C.), con i suoi corridoi interni, gli aggetti e le feritoie a punta di freccia, fu successivamente rinforzata da massicci bastioni di pianta quadrata a più piani con feritoie di tiro a fessura semplice; nell'ultima fase di vita della città lo spessore delle mura, accresciutosi nel tempo, era di alcune decine di metri. Ingressi a gomito garantivano la sicurezza delle porte.
La rete viaria, di ampiezza maggiore nella parte più recente (šahristān II), suddivideva la superficie urbana in quartieri di area e forme variabili e fu conservata, senza modifiche, per tutta la durata di vita della città. Al centro della città, all'incrocio di due vie, sono stati rinvenuti i resti di due ostraka in lingua araba (uno riportava la data del 30 giugno 790, l'altro una lista di nomi) insieme con alambicchi di vetro. In altri incroci viari sono state ritrovate botteghe per la cottura e la vendita del pane. Nello šahristān I sono state scavate alcune abitazioni del VII-VIII secolo, con superficie da 150 a 350 m2; esse presentano tutte un settore di parata con una grande sala e ambienti residenziali con banchi di argilla lungo le pareti e un podio centrale per il focolare.
Un grande incendio, di cui sono evidenti le tracce nella cittadella e nella città bassa, segna la presa della città da parte degli Arabi, avvenuta nel 706. Nello šahristān II, lungo il muro meridionale è stato messo in luce un gruppo di abitazioni risalenti al X - inizi XI secolo, di pianta rettangolare e comprendenti da tre a otto ambienti; alcune abitazioni presentavano pareti decorate da pannelli di gesso lavorati a incisione; alcuni grandi edifici rinvenuti nella zona orientale, con corte interna e planimetria diversa da quella delle altre abitazioni, sono stati interpretati come possibili locande. In due settori della città sono stati rinvenuti forni ceramici, nei quali si produceva vasellame con invetriatura verde, e resti di forni per la produzione del vetro. Fuori delle mura, a est della città, è stato scavato uno dei piccoli insediamenti fortificati (ribāṭ) suburbani; di pianta quadrata (lato di 75 m) e con torri angolari quadrate, esso presentava una corte centrale scoperta, lungo il cui perimetro era una serie di ambienti suddivisi in sezioni (comprendenti da una a tre stanze) e un magazzino. Nelle fonti scritte si fa riferimento ai numerosi ribāṭ di P., ciascuno dei quali costruito e mantenuto da una comunità di Bukhara. L'abbandono della città, nell'XI secolo, sembra dovuto a una drastica riduzione delle risorse idriche, che dipendevano da un canale proveniente da Bukhara. Nel XII secolo, il tentativo di Arslan Khan di far rinascere P. mediante la costruzione di un nuovo canale che derivava le acque dello Zerafshan non fu coronato da successo; tracce di un modesto ripopolamento sono state osservate solo nella cittadella.
Bibliografia
A.R. Muchamedžanov et al., Gorodišče Pajkend [Il sito di Paykend], Tashkent 1988; G.L. Semënov, Studien zur sogdischen Kultur an der Seidenstrasse, Wiesbaden 1996; Id., Excavations at Paikent, in The Art and Archaeology of Ancient Persia, London 1998, pp. 111-21; G.L. Semënov - Dž.K. Mirzaachmedov (edd.), Raskopki v Pajkende v 1999-2002, I-IV [Scavi a Paykend 1999-2002], Sankt-Peterburg 2000-2003.
di Boris I. Maršak
Città sogdiana (sogdiano Pancyknð; tagico Panjakand), situata alla periferia meridionale della P. odierna, ai margini di una terrazza che domina una fertile vallata, nella valle del fiume Zerafshan, in Tajikistan. Sorta nel V sec. d.C., P. cessò di esistere intorno al 770.
Il sito è noto dagli anni Settanta del XIX secolo, ma i primi, limitati scavi archeologici (inediti) furono condotti nel 1937-40 da V.R. Čejlitko. Nel 1946 la direzione degli scavi passò ad A.Ju. Jakubovskij, il quale programmò un'indagine pianificata della città. Nel 1953, dopo la morte di Jakubovskij, la conduzione degli scavi fu ereditata da M.M. D´jakonov; tra il 1954 e la fine degli anni Settanta ne fu direttore A.M. Belenickij e da allora al presente B.I. Maršak insieme con V.I. Raspopova. Dopo oltre mezzo secolo di campagne di scavo, P. può essere considerata la città altomedievale meglio studiata dell'intera Asia.
La cittadella, che un dirupo separa dalla città vera e propria (šahristān) situata più a est e difesa da una propria cinta muraria, presenta nella sua parte centrale un castello di pianta quadrata. A nord di questo, a un livello inferiore, è una fortezza. Tra il II sec. a.C. e il I sec. d.C. in quest'area esisteva un insediamento, testimoniato da un livello contenente ceramica, ma non resti di strutture. A sud del castello la fortificazione racchiudeva uno spazio libero da costruzioni, mentre a est sorgeva il palazzo del governatore di P. (Devashtich: 708?-722), frutto della radicale ristrutturazione di un edificio più antico (VI sec.). Un altro palazzo del VI secolo sorgeva nella fortezza bassa. Nel V secolo lo šahristān, di circa 8 ha, era difeso da una cinta muraria alta 10-11 m, con bastioni posti a brevi intervalli. Sia le mura sia i bastioni erano realizzati in mattoni crudi e blocchi di argilla pressata (pakhsā) e presentavano numerose feritoie disposte a scacchiera; successivamente, la struttura fu resa più massiccia, furono eliminate le feritoie alla base delle mura e diminuì il numero dei bastioni. A cavallo tra il V e il VI secolo la superficie urbana era aumentata a 13,5 ha e due nuovi muri di cinta furono eretti a proteggere i lati sud ed est, creando nella città due settori concentrici.
Le vie principali e quelle secondarie si intersecavano ad angolo retto. Sin dall'epoca di fondazione la città ospitò, nella zona centrale, due templi che si richiamano alla tradizione architettonica della Battriana ellenistica. Ciascuno di essi constava di un edificio principale con facciata rivolta a est, al centro di una corte preceduta, a oriente, da un'altra corte affacciata sulla via. Giunto nella corte interna, il visitatore poteva osservare il portico del tempio e la sua sala principale, che non era protetta da un muro. Sul fondo della sala era la porta di accesso alla cella, ai lati della quale erano due nicchie contenenti statue di culto in argilla. Dal portico erano accessibili le due estremità del corridoio che circondava la sala e la cella retrostante. I due santuari erano dedicati a culti teisti, ma nel V secolo in uno di essi (Tempio I) fu aggiunto un tempio del fuoco zoroastriano.
Fin dal V secolo i templi ospitavano statue di culto e dipinti murali. Pitture risalenti al VI secolo si conservano nei palazzi della cittadella; nello stesso periodo comparvero in città edifici a due piani, anch'essi con ambienti decorati da pitture. Nel VII - prima metà dell'VIII secolo si moltiplicarono le abitazioni private di lusso e agli inizi dell'VIII secolo lo sviluppo urbanistico era tale che anche le vie che originariamente separavano gli isolati venivano sfruttate come spazio edificabile, assumendo l'aspetto di corridoi voltati, sovrastati da strutture abitative. In questo periodo oltre un terzo delle abitazioni private, anche di famiglie appena benestanti, era decorato da pitture murali e da legni intagliati. Le vie erano costeggiate da botteghe, laboratori artigianali e piccoli mercati. Ogni casa presentava al pianterreno ambienti poco illuminati, per lo più di servizio, e una scala a chiocciola che conduceva al primo piano, dove erano collocate le stanze più comode. Di frequente la sala di parata, accessibile dall'ingresso dell'abitazione tramite un corridoio, aveva un'altezza pari a quella dei due piani e presentava al centro del soffitto, configurato "a lanterna", un'apertura per l'illuminazione. Sulla parete opposta all'ingresso era una grande nicchia ad arco, larga fino a 4,5 m, reale o a trompe-l'oeil, all'interno della quale erano raffigurate le immagini delle divinità protettrici. La parte centrale della sala era spesso delimitata da quattro colonne lignee che fungevano da sostegno alla struttura di copertura, anche questa lignea, con cupola impostata su un quadrato centrale; tutti gli elementi di questa struttura erano riccamente decorati a intaglio e ornati da figure lignee a tutto tondo di cariatidi e atlanti. Pitture murali, spesso suddivise in tre registri, decoravano le pareti della sala, sebbene di volta in volta secondo un programma originale; i soggetti di queste composizioni erano banchetti, scene di caccia, leggende tratte dal ciclo di Rustam, eroi locali, amazzoni, figure mitologiche dell'epica indiana (Mahābhārata). Il registro inferiore, immediatamente al di sopra dei larghi banchi di argilla (suffa), ospitava talvolta composizioni di formato minore: animali incedenti, coppie amorose e illustrazioni di leggende, aneddoti e fiabe, in diversi casi inequivocabilmente ispirati a Esopo, al Pañcatantra e al Sindbādnāmah.
Al VII-VIII secolo risale gran parte dei nawwus, edifici funerari con copertura a volta e destinati a contenere gli ossuari, secondo la pratica zoroastriana, raggruppati lungo le vie che conducevano alle porte della città (i più antichi datano al V - inizi VI sec.); nella medesima epoca sorsero gli insediamenti rurali suburbani, posti ai margini dei fondi agricoli. Nel 722 gli Arabi giustiziarono Devashtich e si impossessarono di P. Nel corso dei due decenni successivi la città fu abbandonata, ma tornò a ripopolarsi intorno al 740. Intorno alla metà dell'VIII secolo i suoi abitanti si convertirono all'Islam. Negli anni Settanta dello stesso secolo P. fu definitivamente abbandonata a favore di un nuovo centro sorto nelle vicinanze.
Bibliografia
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di Ciro Lo Muzio
Sito altomedievale, 40 km circa a nord-ovest di Bukhara (Uzbekistan), nella parte occidentale dell'antica Sogdiana.
Segnalata con il nome di Khwaja Ubon nei resoconti di viaggiatori europei della prima metà dell'Ottocento (J. Fraser, A. Burnes), V. è stata identificata con la città omonima descritta dalle fonti arabo-persiane (la più importante fra tutte la Tārīḫ-i Buḫārā di al-Narshakhi, metà del X sec.) per la prima volta da V.V. Bartol´d agli inizi del Novecento; a un suo allievo, L.A. Zimin, si devono le prime indagini archeologiche (1917). Scavi sistematici furono condotti da V.A. Šiškin a partire dal 1937 e, dopo l'interruzione bellica, tra il 1949 e il 1954. Successivamente vi sono stati effettuati interventi di conservazione (asportazione di pitture murali, 1970) e scavi di estensione limitata (spedizione del Museo d'Arte Orientale di Mosca, 1986-91).
Residenza fortificata nella quale i membri della famiglia regnante di Bukhara, i Bukhar Khudah, ripararono nel periodo dell'invasione araba (VII sec. d.C.), V. è situata ai margini dell'oasi, alle soglie del Kizil Kum, in una zona di interferenza tra nomadi e stanziali; fu un'importante tappa dei commerci sulla via che collegava Bukhara alla Chorasmia e vitale centro agricolo e artigianale, ma rimase "il più grande dei villaggi" dell'oasi di Bukhara (al-Narshakhi), non essendo cioè considerata dai contemporanei alla stregua di una vera città, sebbene ne avesse molte caratteristiche. Esteso su una superficie di circa 9 ha, il sito era difeso da una cinta muraria di blocchi di pakhsā (argilla cruda e paglia) e mattoni crudi, rinforzata da torri rettangolari; l'abitato ("città bassa") era dominato da una cittadella fortificata, costruita a ridosso delle mura, nella parte sud-orientale. Al centro della cittadella sorgeva il palazzo dei Bukhar Khudah. La planimetria messa in luce da Šiškin riflette l'impianto del palazzo nella sua ultima fase di vita (seconda metà dell'VIII sec.). Procedendo da ovest, un ingresso monumentale a tre archi immetteva in un īwān da cui si aveva accesso alla parte residenziale. Questa comprendeva numerosi ambienti, tra i quali si stagliavano quattro grandi sale di parata: la Sala Occidentale, la Sala Settentrionale, la Sala Rossa e la Sala Orientale. Dalle ultime due provengono le pitture murali che, prime testimonianze dell'esistenza di una scuola pittorica sogdiana, hanno reso celebre il sito.
I dati di scavo portano a non escludere che l'occupazione del sito abbia avuto inizio ben prima dell'epoca altomedievale; è quest'ultima, tuttavia, la parte meglio conosciuta della storia di V., in particolare del suo complesso palaziale, principale oggetto delle indagini archeologiche svoltesi nel sito. Secondo la più recente proposta di ricostruzione delle vicende costruttive di questo complesso (Naymark 2003), la fondazione del palazzo si daterebbe al VII secolo, forse alla sua ultima parte (non al V o VI sec., come pensava Šiškin); committente dell'impresa sarebbe stato Khunak, esponente dei Bukhar Khudah, e nel suo progetto gli elementi di base della residenza erano già grosso modo definiti. Alla seconda fase (prime decadi dell'VIII sec.) data la prima ristrutturazione, forse voluta dal successore di Khunak, Toghshada (709-732) e, in particolare, la decorazione pittorica della Sala Orientale (o Sala Blu), il cui soggetto sembra confermare quanto al-Narshakhi affermava su Toghshada, che anche dopo la conversione all'Islam sarebbe segretamente rimasto un infedele: personaggi di alto rango intenti a celebrare un rito presso un altare del fuoco, nell'ambito di una più ampia composizione la cui figura centrale (divinità o sovrano) non si è conservata. A Toghshada sembra sia da attribuire anche la terza fase costruttiva, cui risale la composizione pittorica della Sala Rossa (730 ca.), che mostra la rappresentazione reiterata di un personaggio in groppa a un elefante che si difende dall'assalto di fiere (leoni, tigri o animali fantastici). Sull'identità del protagonista (se si tratti, cioè, di una figura regale, mitica o divina) e sul significato della composizione (laico o religioso) sono state avanzate ipotesi diverse, ma nessuna sembra del tutto soddisfacente. Il costume e i gioielli del personaggio principale, la presenza dell'elefante e, in generale, la resa stilistica denunciano un evidente influsso indiano o, quanto meno, l'intenzione di suggerire un'ambientazione indiana, non priva di elementi di pura fantasia, per un soggetto che ancora sfugge alla nostra comprensione.
La quarta fase, che non sembra caratterizzata da ristrutturazioni degne di nota, coincide con il regno di Qutayba, figlio di Toghshada, e ha termine con un incendio (751/2). La quinta e ultima fase è legata al nome di Bunyat bin Toghshada, fratello del suo predecessore, che regnò dal 751/2 al 782/3. Gli interventi da lui commissionati rispecchiano le tendenze dell'epoca abbaside, in particolare le imponenti colonne dell'īwān realizzate in mattoni cotti (che, in generale, in questa fase sono utilizzati più ampiamente che in passato) e le pregevoli decorazioni di gesso (ganč) realizzate a intaglio e a stampo; di queste si sono conservati numerosi frammenti appartenenti sia a composizioni figurate sia a fregi ornamentali. Dopo le devastazioni che accompagnarono l'uccisione di Bunyat, il palazzo perse la sua originaria funzione politica e di rappresentanza, ma alcune sue parti continuarono a essere utilizzate fino al X secolo, epoca in cui V. aveva ancora una certa vitalità come luogo di mercato (al-Narshakhi). Dopo il XII secolo, la cittadina era già quasi completamente disabitata.
Bibliografia
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di Ciro Lo Muzio
Il Ferghana è un'ampia valle attraversata dall'alto corso del Sir Darya, oggi divisa tra il Tajikistan, l'Uzbekistan e il Kirghizistan. La sua parte centrale, arida e stepposa, è circondata da una larga fascia di oasi agricole, limitrofe ai primi contrafforti montani. Nella sua parte nord-orientale ha origine il Sir Darya (dalla confluenza del Narin e del Kara Darya, mentre a ovest la conca è chiusa da un forte restringimento ‒ la valle di Khojent). L'abbondanza di corsi d'acqua, soprattutto nella parte meridionale, e il clima favorevole rendono il Ferghana ambiente particolarmente adatto all'agricoltura, ma anche regione idonea all'allevamento transumante o nomadico basato su trasferimenti verticali (da monte a valle e viceversa). Area di grande interesse archeologico, il Ferghana è ideale terreno di studio dell'interazione culturale tra nomadi e stanziali. Ricognizioni e scavi vi hanno avuto inizio negli anni Ottanta del XIX secolo, tuttavia il primo sostanziale contributo alla riscoperta delle culture del Ferghana fu portato dalle attività di A.N. Bernštam (1946-52), cui seguirono le indagini di altri archeologi (B.A. Litvinskij, Ju.A. Zadneprovskij, N.G. Gorbunova, G.A. Brykina, A.A. Anarbaev e altri).
Nell'età del Ferro si susseguono due culture che appaiono specifiche del Ferghana e ne abbracciano l'intero territorio: la cultura di Chust (XI sec. a.C. - VIII/VII sec. a.C.) e la cultura di Eilatan (VII-IV sec. a.C.). La prima rientra nel più ampio complesso delle culture della ceramica dipinta, esteso anche ad altre regioni dell'Asia Centrale. Gli insediamenti, raggruppati nelle oasi fluviali, hanno una superficie molto modesta (da 0,02 a 0,9 ha), fatta eccezione per alcuni centri maggiori, come Chust (4 ha), Ashkaltepe (12 ha) e, soprattutto, Dalverzin (25 ha), il sito più approfonditamente indagato, caratterizzato da un impianto tripartito (una cittadella e una vasta area abitata, che un ampio spazio non edificato separa dalla cittadella). La cultura di Eilatan prende il nome dall'unico sito che sia stato oggetto di scavi estesi; si tratta di un insediamento di pianta quadrangolare irregolare (500 × 400 m) con duplice cinta muraria di mattoni crudi e pakhsā (blocchi di argilla cruda e paglia). La ceramica, che nel complesso presenta caratteristiche diverse dal vasellame della cultura precedente, è stata suddivisa in diverse classi (ceramica modellata a mano, con o senza decorazione dipinta, vasellame lavorato al tornio, ceramica grigia da cucina). Sono state inoltre scavate anche alcune necropoli di tombe a fossa (Aktam, Kungay, Sufan e Dasht-i Asht).
La cultura di Shurabashat, dal nome di un sito nell'oasi di Uzgen, copre il periodo tra il IV e il I sec. a.C. che segna, per il Ferghana, un netto incremento demografico. A questa cultura sono stati attribuiti circa 40 insediamenti, comprendenti piccoli abitati non fortificati ma anche centri maggiori con planimetria regolare e cinti di mura, in primo luogo il sito eponimo (70 ha), di pianta rettangolare e suddiviso in quattro settori disposti in fila, con cittadella nel settore orientale. Caratteristica di questa cultura è una ceramica modellata a mano con ingobbio rosso, nero o chiaro, con ornamentazione dipinta (triangoli, rombi, reticoli, linee ondulate, chevrons e altri). La successiva cultura di Marhamat (I-IV sec. d.C.) mostra i segni di un marcato progresso economico e culturale: potenziamento dei sistemi di irrigazione artificiale, incremento dei commerci, impulso dell'artigianato, perfezionamento nelle tecniche di produzione della ceramica (lavorata al tornio e dipinta).
Nel IV-V secolo numerose città ‒ tra queste, Marhamat ‒ cessano di esistere. La crisi dell'urbanesimo si accompagna al rafforzamento di un modo di produzione "feudale", dunque al moltiplicarsi di "castelli" o residenze fortificate di proprietari terrieri, tipologia di monumenti che nel Ferghana è ancora poco studiata, fatta eccezione per la fortezza di Kayragach, con villaggio e necropoli adiacenti. Tra il V e l'VIII secolo non mancano, tuttavia, centri urbani di rilievo, alcuni dei quali estesamente scavati, quali Kuva (l'antica Kuba), dove è stato riportato alla luce, unico nella regione, un tempio buddhista, e Akhsiket, entrambi fortificati e con impianto tripartito (cittadella, città bassa e suburbio).
Di estremo interesse e notevolmente diversificato è il panorama delle pratiche funerarie. Accanto alle sepolture a tumulo (kurgan) delle necropoli nomadiche (tombe a fossa semplice, a catacomba, a pozzo con nicchia laterale), sono attestate inumazioni in fosse con copertura lignea, cripte ipogee, nawwus (edifici per ossuari, forse attribuibili a immigrati sogdiani) e strutture funerarie erette in superficie (mug khona). Queste ultime ‒ dette anche kurum ‒ sono peculiari del Ferghana e si concentrano nella sua parte settentrionale. Isolati o riuniti in gruppi, i mug khona hanno l'aspetto di tumuli di pietre di pianta circolare al cui interno, tuttavia, è ricavata, al livello superficiale, una camera funeraria delimitata da lastre di pietra; sorgono in posizione isolata o riuniti in gruppi. A risultati di grande interesse hanno portato gli scavi di Anarbaev a Munchak Tepe (VII-VIII sec. d.C.), necropoli della città di Pap. All'interno di cripte familiari, utilizzate per 100-150 anni, sono state trovate fino a 47 inumazioni in sarcofagi interamente realizzati con canne (rinvenuti in ottimo stato di conservazione) e accuratamente impilati; come si evince dagli abiti e dai corredi, i defunti erano di rango elevato. Probabilmente legate al culto degli antenati, e altrettanto tipiche del Ferghana, sono infine le schematiche sculture antropomorfe dai tratti fortemente stilizzati rinvenute all'interno di sepolture (ad es., necropoli di Vorukh, Tashravat e Turatash), ma anche, in un consistente numero di esemplari, nel santuario domestico di Kayragach.
L'antico Chach (Čāčstān, in un'iscrizione del sovrano sasanide Shapur I, Šāš nelle fonti arabe) corrisponde all'oasi di Tashkent, dunque al territorio attraversato dal Chirchik e dall'Ahangaran, entrambi affluenti del Sir Darya, che di questa regione è il limite occidentale. L'età del Ferro è qui rappresentata dalla cultura di Burgulyuk, individuata da A.I. Terenožkin (1940), anche se i primi reperti riferibili a essa erano stati riportati alla luce nel 1934 da G.V. Grigor´ev, nei livelli inferiori del sito di Kaunchi. Le conoscenze su questa cultura si sono ampliate grazie agli scavi di insediamenti e necropoli condotti negli anni Settanta e Ottanta da diversi archeologi (Ju.F. Burjakov, Ch. Duke, M.I. Filanovič e altri), che hanno contribuito a precisarne la durata e la sequenza cronologica, articolata in un periodo iniziale (IX-VII sec. a.C.) e in un periodo recente (VI-IV sec. a.C.). Nella sua genesi ebbero un ruolo determinante gli influssi delle culture del Ferro del Ferghana (Chust ed Eilatan), ma anche quelli delle culture nomadiche (Saka).
Gli insediamenti (ne sono stati indagati 10) sono in genere situati su bassi rilievi naturali in genere non fortificati, in alcuni casi protetti da rudimentali impianti difensivi (fossati, terrapieni) e comprendono fino a 15 abitazioni. L'agricoltura era a uno stadio piuttosto avanzato; sono stati individuati piccoli campi coltivati demarcati mediante terrapieni, oggi appena riconoscibili, e un canale artificiale che convogliava sui terreni le acque dell'Ahangaran. Anche l'artigianato legato alla fusione del bronzo ha lasciato testimonianze significative. La ceramica è lavorata a mano; predominano di gran lunga le forme aperte con fondo sferico. Il vasellame è privo di ornamentazione, fatta eccezione per una percentuale assai esigua con decorazione dipinta (triangoli, linee spezzate e larghe fasce di colore marrone).
Al complesso di Burgulyuk segue la cultura di Kaunchi. Il sito eponimo è un insediamento urbano nei pressi di Tashkent, con cittadella (40 × 75 m) e città bassa (šahristān), entrambe cinte di mura, e un secondo šahristān non fortificato, con una superficie totale di 25 ha. La sequenza cronologica elaborata da Grigor´ev, a seguito degli scavi svolti tra il 1934 e il 1935 su un'area piuttosto limitata, fu contestata e radicalmente modificata da A.I. Terenožkin; grazie alle precisazioni fornite da saggi effettuati negli anni Settanta, la cronologia di Kaunchi, e della cultura che da essa prende il nome, si articola in tre periodi: I (II sec. a.C. - I sec. d.C.), II (II-IV sec. d.C.), III (IV - prima metà del VI sec. d.C.); quest'ultimo è considerato da alcuni studiosi come una variante culturale del precedente e designato come "fase di Jun". La cultura di Kaunchi segna l'inizio dell'urbanizzazione nell'area del Chach; degli oltre 100 insediamenti che le vengono attribuiti, almeno 15 mostrano caratteristiche chiaramente urbane. Il fenomeno interessa inizialmente la fascia di territorio prospiciente il Sir Darya e successivamente l'entroterra. Accanto a insediamenti privi di regolarità planimetrica (ad es., Kavardan), sorgono centri il cui impianto si articola negli elementi tipici della città centroasiatica, con ogni verosimiglianza per influsso sogdiano: fortificazione rettangolare o quadrata, cittadella (spesso ovale o circolare) su un lato della cinta e città bassa; questi ultimi si concentrano per lo più in prossimità del Sir Darya, ma non ne mancano esempi nell'interno (ad es., Minguryuk). La città più importante è Kanka, sull'Ahangaran (affluente del Sir Darya). Il suo primo nucleo fortificato risale al III-II sec. a.C.; nei secoli successivi la sua area si accrebbe e le fortificazioni, più volte ristrutturate, nel V-VI secolo racchiudevano una superficie di 150 ha. Tra gli altri centri si ricordano Kavardan, di impianto irregolare (75 ha), Minguryuk, presso Tashkent, di pianta rettangolare (35 ha), Kendiktepe (25 ha) e Sharkiya (21 ha), entrambe sull'Ahangaran, a monte di Kanka.
Oltre all'agricoltura, basata sull'utilizzo di reti idriche artificiali, nell'economia di Kaunchi ebbe grande rilievo l'estrazione e la lavorazione dei metalli e di altri minerali presenti nei monti circostanti (ferro, rame, oro, argento, pietre semipreziose e pietre da costruzione). La ceramica di Kaunchi I, che non sembra geneticamente correlata con quella di Burgulyuk, è quasi interamente modellata a mano, ma di buona fattura; peculiare è la decorazione dipinta ottenuta lasciando colare macchie di colore (in genere marrone) sulle pareti dei vasi. Tra le forme più diffuse sono i piccoli e grandi contenitori per stoccaggio (khum), le brocche, le olle e le caratteristiche fiasche di forma emisferica (mustahara), imitanti un otre di pelle; tra i reperti ceramici si segnalano inoltre i supporti con terminazione a protome di ariete. L'utilizzo del tornio si afferma, e in breve tempo diventa prevalente, nel periodo II.
Come in Chorasmia, in Sogdiana e nel Ferghana, nel VI-VII secolo si accresce l'importanza e il numero dei castelli. Un esempio tipico, e di certo quello più approfonditamente indagato, è Ak Tepe, inglobato in un quartiere dell'odierna Tashkent (Yunusabad). Di questo castello, situato a breve distanza da Minguryuk, dal VII secolo capitale del Chach, gli scavi di Terenožkin, poi proseguiti da M. Filanovič, hanno rivelato l'impianto nelle sue diverse fasi costruttive (tra il V e l'VIII sec.): una cinta di pianta quadrata con torri rettangolari agli angoli e, al suo interno, una grande torre troncopiramidale e altri edifici, tra i quali un tempio (nella parte est); sul lato nord del complesso fortificato si estende, in direzione nord-ovest, una vasta corte di forma irregolare.
Oggi diviso tra il Kazakhstan e il Kirghizistan, il Semireč´e appartenne, per gran parte della sua storia, al mondo delle steppe. In epoca altomedievale, per una serie di fattori concomitanti la sua parte occidentale (le valli del Talas e del Chu) entrò a far parte della sfera delle culture urbane dell'Asia Centrale meridionale. Annesso al primo kaghanato turco nel VI secolo, divenne il centro dei Turchi occidentali (VII sec.), che elessero a capitale Suyab (Ak Beshim), e, poco dopo, del potentato dei Türgesh. Pienamente integrato nella rete di carovaniere della Via della Seta, il Semireč´e divenne, nel VII secolo, meta di immigrati sogdiani che, stando alle fonti, vi fondarono colonie. Secondo molti studiosi l'influsso della Sogdiana sembra sia stato decisivo nella nascita e nello sviluppo dell'urbanesimo in questa regione, secondo altri (ma sono ancora una minoranza) il fenomeno ha radici locali.
Di fatto, tra il VI e la prima metà del IX secolo, sullo sfondo di una temperie culturale definibile come turco-sogdiana, di una composizione etnica sicuramente eterogenea e di una mentalità religiosa aperta che accoglie il buddhismo, il nestorianesimo e lo zoroastrismo, le città del Semireč´e rivelano caratteristiche peculiari, innanzitutto sotto il profilo topografico e urbanistico. La maggior parte degli insediamenti presenta infatti uno schema composto da un nucleo urbano centrale comprendente cittadella e città bassa, la cui superficie totale varia dai 10 ai 35 ha, circondato da un vasto suburbio rurale racchiuso da una cerchia di mura che può raggiungere decine di chilometri di lunghezza. Pianificata è, inoltre, la distribuzione territoriale dei centri abitati, posti a distanze regolari tra loro (nella valle del Talas, ad es., 15-20 km). Molti di questi siti sono stati identificati con le città menzionate nelle fonti islamiche.
Bibliografia
G.A. Brykina, Jugo-Zapadnaja Fergana v pervoj polovine I tysjačeletija našej ery [Il Ferghana sud-occidentale nella prima metà del I millennio d.C.], Moskva 1982; Ju.F. Burjakov, Genezis i etapy razvitija gorodskoj kul´tury Taškentskogo oazisa [Genesi e tappe di sviluppo della cultura urbana dell'oasi di Tashkent], Tashkent 1982; G.A. Košelenko (ed.), Drevnejšie gosurdarstva Kavkaza i Srednej Azii [I più antichi Stati del Caucaso e dell'Asia Centrale], Moskva 1985, pp. 193-201, 297-316; B.A. Litvinskij, Antike und frühmittelalterliche Grabhügel im westlichen Fergana-Becken, Tadžikistan, München 1986; G.A. Brykina (ed.), Srednjaja Azija i Dal´nyj Vostok v epochu srednevekov´ja. Srednjaja Azija v rannem srednevekov´e [Asia Centrale ed Estremo Oriente in epoca medievale. L'Asia Centrale nell'Alto Medioevo], Moskva 1999, pp. 88-113, 151-74.
di Boris A. Litvinskij
Sito nella valle del fiume Chu (Semireč´e), 60 km a est di Bishkek, 8 km a sud-ovest della città di Tokmak (Kirghizistan), scavato nel 1938-39 da A.N. Bernštam, nel 1953-54 da L.R. Kyzlasov e P.N. Kožemjako, nel 1955-58 da L.P. Zjablin, nel 1996-98 da una missione congiunta russo-kirghiza diretta da G.L. Semenov.
Sembra ormai certa, grazie a reperti epigrafici, la sua identificazione con la Su ye delle fonti cinesi (la prima menzione ricorre nei resoconti di viaggio di Xuan Zang ed è datata al 629) e con la Suyab delle fonti islamiche. Agli inizi dell'VIII secolo Suyab divenne una delle "quattro guarnigioni", ossia uno dei principali posti di frontiera cinesi, insieme con Kucha, Kashgar e Khotan. Dal 738 fu capitale dei Türgesh e 10 anni dopo fu distrutta dalle armate cinesi. Nel 760 circa fu conquistata dai Karluk e da allora, fino all'XI secolo, fu controllata da dinastie turche. Il nucleo originario della città, costituito da cittadella (ark) e città bassa (šahristān) e probabilmente di fondazione sogdiana, data al VI sec. d.C. A sud-est di questo, nella seconda metà dell'VIII secolo, si aggiunse un nuovo settore cinto di mura (ca. 60 ha), che probabilmente ospitava la residenza del khaghan Türgesh. Nel vasto suburbio rurale che circondava la città, racchiuso da una fortificazione con una circonferenza di 16 km, erano residenze di proprietari terrieri, fattorie, necropoli e due templi buddhisti. Il primo (fine del VII-VIII sec.) era un complesso di pianta rettangolare, costituito da un vano di ingresso affiancato da due gruppi di ambienti (a est), una corte centrale e il santuario propriamente detto, con cella quadrata circondata da un corridoio e preceduta da un portico ottastilo. Il secondo tempio (38 × 38 m), datato al VI-VII secolo, aveva una cella centrale di pianta cruciforme, circondata da due corridoi perimetrali concentrici; era accessibile da nord, da una piccola corte quadrata. Entrambi i santuari hanno restituito frammenti di sculture buddhiste in argilla cruda. Nella seconda metà dell'VIII secolo i templi furono distrutti e incendiati dai Turchi, che invasero la città e li utilizzarono come abitazioni. All'VIII secolo risale una chiesa cristiana nestoriana, riportata alla luce nella parte nord-orientale dello šahristān. Era una costruzione rettangolare (36 × 15 m), orientata sull'asse nord-est, composta da una corte e da un ambiente di culto a pianta cruciforme con copertura a cupola; nell'immediato circondario (spesso al di sotto dei muri), ma anche nei livelli superiori, sono state rinvenute numerose sepolture. Un altro complesso nestoriano (X sec.), costituito da tre chiese di pianta analoga alla precedente, accostate tra loro, è stato scavato alla fine degli anni Novanta nell'angolo sud-orientale dello šahristān.
Bibliografia
A.N. Bernštam, Trudy Semirečenskoj archeologičeskoj ekspedicii "Čujskaja dolina" [Lavori della spedizione archeologica in Semireč´e, "Valle del Chu], Moskva - Leningrad 1950, pp. 47-55; L.R. Kyzlasov, Archeologičeskie issledovanija na gorodišče Ak-Bešim v 1953-1954 [Ricerche archeologiche nel sito di Ak Beshim nel 1953-1954], in Trudy Kirgizskoj archeologo-etnografičeskoj ekspedicii, II, Moskva 1959, pp. 155-241; P.N. Kožemjako, Rannesrednevekovye goroda i poselenija Čujskoj doliny [Città e villaggi medievali della valle del Chu], Frunze 1959, pp. 71-78; C. Clauson, Ak-Beshim-Suyab, in JRAS, 1-2 (1961), pp. 1-13; L.P. Zjablin, Vtoroj buddijskij chram Ak-Bešimskogo gorodišča [Il secondo tempio buddhista di Ak Beshim], Frunze 1961; L. Hambis, Ak-Beshim et ses sanctuaires, in CRAI, 1962, pp. 124-37; A. Forte, An Ancient Chinese Monastery Excavated in Kirgizia, in CentrAsJ, 38, 1 (1994), pp. 41-57; M.B. Piotrovskij et al. (edd.), Sujab - Ak Bešim, Sankt-Peterburg 2002.
di Ciro Lo Muzio
Sito nella valle del Chu (Semireč´e), a monte dell'odierna città di Tokmak, in Kirghizistan. È stato scavato da A.N. Bernštam negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo.
Il primo nucleo urbano di K.R., identificata con la Nawakat delle fonti islamiche, ebbe origine secondo Bernštam da alcune residenze isolate dell'aristocrazia sogdiana, qui insediatasi nel VI-VII secolo; in tal caso la genesi della città potrebbe essere stata affine a quella di altre città sogdiane (ad es., Penjikent). Il più antico nucleo fortificato è quello denominato "šahristan II" (19 ha), nell'angolo nord-occidentale del sito. Nel VII secolo viene cinto di mura anche lo "šahristan I", che accorpa i castelli preesistenti nel suo territorio. La città assume la sua fisionomia definitiva nel corso dell'VIII-IX secolo. La cittadella, situata nell'angolo sud-orientale dello "šahristan I", si erge su un'alta piattaforma (110 × 110 m), a sua volta poggiante su un'elevazione naturale. La cittadella ha rivelato tre periodi costruttivi tra il VII e il XII secolo; a partire dal X secolo, tuttavia, perde la sua funzione ed entra in declino.
Gli scavi di modesta estensione condotti negli šahristān non hanno fornito dati sufficienti per la ricostruzione dell'impianto urbano; dei castelli preesistenti ne sono stati indagati due all'interno delle mura e due extra muros. Anche a K.R., come ad Ak Beshim, sono stati riportati alla luce due templi buddhisti. Uno di essi è di planimetria affine a quella del primo tempio di Ak Beshim: presenta, cioè, una cella quadrata (6 m di lato) con copertura a cupola, circondata da due corridoi e preceduta da una corte. Tra i resti della ricca decorazione scultorea di argilla cruda si ricorda, in particolare, il Buddha in parinirvāṇa parzialmente conservatosi nel corridoio occidentale. L'edificio fu distrutto nel IX-X secolo. A quest'epoca data il secondo tempio buddhista, con cella quadrata (3,2 m di lato) circondata su tre lati da un corridoio e corte antistante; facevano parte del complesso anche due ambienti laterali comunicanti con la corte e dotati di banchi d'argilla alle pareti. Nella cella si sono conservati frammenti di pitture policrome, uno dei quali recava un'iscrizione (non decifrata).
Nella parte occidentale della città è stata scavata una struttura turrita di forma conica, circondata da una corte delimitata da una serie di ambienti (superficie totale 220 × 160 m). La torre, alta 12 m, poggiava su una piattaforma (diam. 40 m); alla sua sommità era una terrazza con pavimentazione di mattoni crudi rivestita di gesso (ganč); a un livello inferiore correva una galleria. È stato ipotizzato che l'edificio fosse utilizzato come tempio zoroastriano; il fuoco sacro sarebbe stato custodito all'interno della torre e, secondo l'usanza persiana, portato sulla terrazza per l'ufficio di cerimonie. Lo scavo della necropoli, che si estende su un'area di circa 5 ha, a 350 m a occidente dall'abitato, ha restituito un quadro molto diversificato delle pratiche funerarie, a testimonianza del carattere eterogeneo della popolazione della città. Oltre alle sepolture a kurgan (tombe a fossa, a catacomba e a pozzo con nicchia laterale), che si moltiplicano tra la fine del VII e gli inizi dell'VIII secolo (presumibilmente in concomitanza con l'insediamento di gruppi nomadi o seminomadi), la necropoli comprendeva cripte semipogee, camere funerarie di mattoni, tombe a fossa semplice contenenti inumazioni od ossuari, sepolture di infanti all'interno di giare (khum). Tra la metà dell'VIII secolo e gli inizi del X si accresce il numero dei nawwus, edifici a una o due camere con copertura a volta contenenti ossuari, khum o resti ossei isolati e connessi alla pratica zoroastriana della scarnificazione, con ogni probabilità introdotta da residenti di origine sogdiana.
Bibliografia
V.D. Gorjačeva, La pratique des sépultures en naus dans le Sémiretchié, in F. Grenet (ed.), Cultes et monuments religieux dans l'Asie Centrale préislamique, Paris 1987, pp. 73-79; Ead., Gorod zolotogo verbljuda (Krasnorečenskoe gorodišče) [La città del cammello d'oro (Krasnaja Rečka)], Frunze 1988; V.A. Livšic - V.M. Ploskich - V.D. Gorjačeva (edd.), Krasnaja Rečka i Burana [Krasnaja Rečka e Burana], Frunze 1989; S.Ja. Peregudova, O vtorom buddijskom chrame Krasnorečenskogo gorodišča (k rekonstrukcii svjatilišča) [Il secondo tempio buddhista di Krasnaja Rečka (ricostruzione del santuario)], in K.I. Tašbaeva et al. (edd.), Iz istorii i archeologii drevnego Tjan´-Šanja, Bishkek 1995, pp. 187-201.
di Ciro Lo Muzio
In epoca antica e medievale questo nome designava la regione compresa tra la catena del Turkestan e il Sir Darya, oggi in gran parte rientrante nei confini del Tajikistan. Il toponimo è attestato in fonti sogdiane (Ustrušana), cinesi (la Sudulisena di Xuan Zang) e arabo-persiane (Usrušāna). Limitrofa alla Sogdiana, l'U. fu da questa profondamente influenzata, soprattutto nei secoli che precedettero la conquista islamica, che qui giunse a compimento un secolo più tardi, cioè nella prima parte del IX secolo.
Sebbene le testimonianze archeologiche di maggior interesse e consistenza risalgano al periodo altomedievale (VII-IX sec. d.C.), le indagini hanno messo in luce siti databili a epoche più antiche. Materiali dell'età del Ferro sono stati rinvenuti a Nur Tepa (VII sec. a.C.), che ha fornito vasellame affine alla ceramica di Burgulyuk (Chach), e a Khojent (VI-IV sec. a.C.), probabilmente da identificare con la città conquistata da Alessandro Magno e da lui rifondata con il nome di Alessandria Eschate. Per i secoli a cavallo dell'era cristiana, il sito più rappresentativo è la città di Munchak Tepe, probabile caposaldo militare sul Sir Darya, di pianta rettangolare e con cittadella. Ne è stata scavata anche la necropoli costituita da tombe a fossa per inumazioni singole o multiple; i corredi funerari includono oggetti di importazione (cauri, collane di ambra, uno specchio cinese), indizi di traffici commerciali di lungo raggio, ulteriormente confermati dal rinvenimento presso il villaggio di Mujum di un ripostiglio di monete romane del I-II sec. d.C. (delle 300 monete originarie se ne conservano 19). Strati e resti strutturali databili al IV-V sec. d.C. sono stati rinvenuti a Shirin I; a poca distanza da questo sito, presso Kurkat, è stata esplorata una necropoli rupestre (I-V sec. d.C.), costituita da camere funerarie scavate nei fianchi del monte Shirin.
La cultura dell'U. altomedievale è assai meglio illustrata grazie agli scavi svolti a Kala-i Kahkaha I-III, sotto la direzione di N.N. Negmatov. Il sito, che si ritiene si debba identificare con la Bunjikat delle fonti islamiche, rispetta l'usuale schema urbano tripartito: città bassa (I), cittadella (II) e suburbio (III). La cittadella, di pianta quadrata e protetta da solide mura di cinta, si ergeva su di un'elevazione naturale e ospitava, nell'angolo nord-orientale, un palazzo di tre piani, distrutto da un incendio nel IX secolo. Nella città bassa, anch'essa fortificata, è stato indagato un complesso palaziale, identificato con la residenza del governatore (afšin) dell'U. Il palazzo, costruito su di un alto zoccolo, comprendeva ambienti residenziali e di servizio, una caserma e un santuario (poi convertito in moschea). Nella planimetria si staglia il settore di rappresentanza, costituito da una vasta sala del trono (230 m2), con grande basamento centrale e nicchia per l'alloggiamento del trono nella parete meridionale, e da una "sala piccola" tetrastila di pianta quadrata.
Gran parte degli ambienti di questo settore era decorata da pitture murali, delle quali si sono conservati numerosissimi frammenti ma anche estesi brani in parete. Per repertorio tematico, stile e tecnica questi dipinti sono sostanzialmente assimilabili alla scuola pittorica sogdiana, della quale, tuttavia, rappresentano un'evoluzione più tarda, essendo in gran parte posteriori alla fine di Penjikent, caduta in mano araba nel 722. Dalla tradizione sogdiana deriva la gamma cromatica, l'organizzazione spaziale delle decorazioni (suddivisione delle pareti in tre zone sovrapposte), l'iconografia divina (in particolare, la dea Nana a cavallo di un leone e con i simboli del Sole e della Luna nelle mani), le movimentate scene di combattimento tra eroi e figure demoniache e la rappresentazione di un personaggio regale (o divino) su un trono zoomorfo. Del tutto inconsueta, tanto in Sogdiana quanto nelle altre regioni dell'Asia Centrale, è invece la rappresentazione di una lupa che allatta due infanti, evidentemente ispirata alla Lupa romana, motivo verosimilmente introdotto tramite le monete bratteate bizantine, sulle quali era di frequente raffigurato. Come in Sogdiana, oltre alla pittura l'apparato ornamentale includeva legni lavorati a intaglio (colonne, fregi e altri elementi architettonici) con decorazioni figurate, vegetali e geometriche, ancora leggibili sulle centinaia di frammenti carbonizzati dall'incendio che distrusse il palazzo alla fine del IX secolo.
Nei dintorni di Shahristan sono stati individuati numerosi castelli, il più importante dei quali è quello di Chilkhujra. Impostato su di un alto zoccolo e preceduto da una corte cinta di mura, il castello conobbe due fasi costruttive. Alla prima (V-VI sec.) appartiene il pianterreno, comprendente quattro ambienti rettangolari; alla seconda (VII - inizi del IX sec.) i corridoi che circondano il nucleo originario e gli ambienti del secondo piano, che includono una sala di parata e probabilmente un ambiente di culto. Tra gli altri castelli si ricordano quelli di Urtakurgan (VIII sec.), non lontano da Chilkhujra, e Tirmizaktepe (VII-VIII, con un riutilizzo nel IX-XII sec.), nella conca di Shahristan.
Bibliografia
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