L'archeologia dell'Oceania
La penetrazione europea nel Pacifico fu legata nelle sue fasi iniziali (XVI-XVII sec.) alle mire di espansione politica e commerciale delle maggiori potenze coloniali dell'epoca (Spagna, Portogallo, Olanda). La diffusione dei principi illuministici e dei metodi di ricerca mutuati dall'empirismo influenzò nel XVIII secolo le successive esplorazioni inglesi e francesi. I tre viaggi di J. Cook (1768-71, 1772-75, 1776-79) furono quindi motivati dalla curiosità scientifica di estendere i confini del mondo conosciuto e di indagare, tramite la raccolta sistematica di informazioni e materiali, sullo stato "naturale" dell'uomo. L'interesse scientifico per le terre colonizzate e il passato dei loro abitanti si manifestò dunque sin dalle prime fasi dell'insediamento europeo: nel 1788 il governatore A. Phillip e il capitano J. Hunter indagarono infatti il contenuto di vari tumuli funerari nell'area di Port Jackson (Australia). Il primo scavo effettuato in Nuova Zelanda fu quello condotto nel 1852 da W. Mantell ad Awamoa, un sito di caccia ai moa, i megapodi neozelandesi; indagini successive alla foce del fiume Rakaia, nell'Isola del Sud, consentirono a J. von Haast di definire, sulla base degli schemi evolutivi elaborati in Europa nel XIX secolo, due distinte fasi preistoriche. La prima, di notevole antichità, avrebbe documentato le attività di gruppi paleolitici dediti alla caccia ai moa (Moa-Hunters), mentre la seconda avrebbe visto lo stanziamento più recente di gruppi neolitici Maori, i quali levigavano i propri strumenti e allevavano il cane. Le ricerche seguenti (Moa-Bone Point Cave) rivelarono l'infondatezza della tesi di von Haast e i "cacciatori di moa" furono considerati già dalla fine del XIX secolo i diretti progenitori dei Maori moderni. Analogamente, venne operata una distinzione tra gruppi neolitici australiani, in possesso di animali domestici (dingo) e strumenti levigati, e aborigeni della Tasmania, i quali, costretti ad un isolamento millenario, avrebbero vissuto in un'era paleolitica. L'impossibilità di dimostrare la presunta antichità degli aborigeni tramite l'associazione a faune estinte e l'apparente staticità dei loro complessi culturali attenuarono l'interesse di etnologi, geologi e naturalisti per il passato di queste culture. L'esistenza di mutamenti culturali venne riconosciuta solo negli anni Trenta, con la scoperta di sequenze stratificate di manufatti litici a Devon Downs e, anni più tardi, a Lapstone Creek; sulla base dei dati raccolti in questi e in altri siti, N. Tindale e F. McCarthy elaborarono i primi schemi di evoluzione culturale in Australia. Nella prima metà del XX secolo furono preminentemente etnologi e studiosi delle tradizioni indigene ad interessarsi della preistoria Maori: tra questi E. Best, P. Smith, fondatore della Polynesian Society, P. Buck (Te Rangi Hiroa) e H.D. Skinner, il quale dimostrò l'origine polinesiana dei Moriori, i nativi delle Isole Chatham, e fornì la prima classificazione delle asce polinesiane, uno dei principali fossili-guida della preistoria del continente. Gli studi di questo periodo avevano come obiettivo la ricostruzione del complesso quadro razziale, linguistico e socio-culturale dei gruppi insulari polinesiani e la documentazione delle testimonianze lasciate da queste popolazioni; ricordiamo i lavori di R. Linton nelle Isole Marchesi, di K.P. Emory nelle Isole della Società, nelle Tuamotu e nelle Hawaii, di W.C. McKern nelle Tonga e di H. Lavachery e A. Metraux nell'Isola di Pasqua. Negli anni Cinquanta l'archeologia del Pacifico conobbe un profondo rinnovamento, a cui contribuì la diffusione delle tecniche di datazione radiometrica, e acquistò una piena autonomia con l'istituzione di corsi universitari. J. Golson e J. Mulvaney introdussero rispettivamente in Nuova Zelanda e in Australia nuovi metodi e indirizzi di studio, dando impulso alle ricerche sul campo con l'applicazione di rigorosi metodi d'indagine stratigrafica. In Nuova Zelanda gli scavi di R. Duff a Wairau Bar (1942-52) avevano dimostrato l'utilità dell'indagine archeologica nello studio della preistoria polinesiana e nella verifica dei dati offerti dalle fonti tradizionali. Un'ulteriore conferma venne dalle indagini di Emory nel Riparo di Kuliouou (1950), ubicato nell'isola di Oahu (Hawaii), dove fu documentata inaspettatamente l'antichità del popolamento della Polinesia (1000 d.C. ca.); egli presentò inoltre la prima classificazione di un altro importante fossile-guida, l'amo dell'Oceania. In Melanesia gli scavi di E.W. Gifford e R.J. Shutler (1952) nel sito di Lapita (Nuova Caledonia) e le analogie osservate tra il vasellame rinvenuto e le ceramiche scoperte nelle Tonga e, ancor prima, a Watom (Arcipelago di Bismarck) portarono all'individuazione di un particolare stile ceramico (Lapita), diffuso prima degli inizi dell'era cristiana in un'area compresa tra l'Arcipelago di Bismarck e la Polinesia occidentale. La distribuzione e le origini di questo peculiare vasellame e dei complessi culturali associati hanno costituito sin da allora uno dei temi cruciali dell'archeologia del Pacifico. Negli anni Sessanta gli specialisti di preistoria aborigena iniziarono ad orientare i loro studi, oltre che sull'analisi dei repertori litici, sui sistemi economici, sui contatti con le popolazioni asiatiche e sulla questione dell'antichità dell'uomo australiano. J. Mulvaney aveva dimostrato l'inattendibilità dei modelli dei suoi predecessori, in particolare delle sequenze culturali definite da McCarthy e Tindale, creando i presupposti per un radicale rinnovamento dell'archeologia australiana. I suoi scavi a Kenniff Cave avevano accertato inequivocabilmente la presenza dell'uomo in Australia durante il Pleistocene e posto in risalto la continuità delle industrie messe in luce nel sito. A queste si aggiungevano nel Medio Olocene nuovi tipi di strumenti, i quali, differentemente dai manufatti più antichi direttamente impugnati, sarebbero stati immanicati o fissati in serie su strumenti compositi. Numerosi altri ricercatori confermarono successivamente tale distinzione e anni più tardi furono adottate le definizioni di Australian Core-Tool and Scraper Tradition per le industrie più antiche e di Australian Small-Tool Tradition per gli strumentari più recenti. Nello stesso periodo in Nuova Zelanda vennero intraprese ricerche sulle strategie di sussistenza e sugli insediamenti fortificati Maori (pa); temi centrali dell'archeologia Maori furono la questione dell'introduzione dell'agricoltura e i mutamenti adattativi e culturali che segnarono il passaggio da una fase Arcaica a una Classica. In Polinesia gli sforzi degli archeologi si indirizzarono essenzialmente verso la definizione di sequenze culturali e la ricerca delle origini dei primi colonizzatori. Un nuovo approccio fu introdotto negli anni Sessanta dall'archeologo statunitense R.C. Green, il quale, diffondendo nel Pacifico la tradizione di studi nordamericana, prese in esame i modelli d'insediamento di Moorea (Isole della Società). Ricerche analoghe furono successivamente estese in numerosi arcipelaghi polinesiani (Hawaii, Nuova Zelanda, Isola di Pasqua, Cook, Samoa), in Melanesia (Mailu, Port Moresby, Figi) e in Micronesia (Pohnpei, Kosrae). Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta i rinvenimenti dei fossili del lago Mungo (Australia), datati a circa 30.000 anni fa, le testimonianze di arte rupestre a Koonalda (Australia) e i complessi orticoli di Kuk (Papua Nuova Guinea), risalenti a circa 9000 anni fa, hanno contribuito a dare all'Oceania un ruolo di primo piano nel panorama dell'archeologia mondiale, confermato da recenti scoperte di siti che retrodatano di diversi millenni le fasi iniziali del popolamento del continente. Discipline quali l'antropologia, l'etnografia e l'etnostoria hanno avuto in questo periodo un'influenza determinante per le indagini archeologiche, in virtù della continuità esistente tra i complessi culturali indagati. La visione statica della preistoria aborigena, implicita tuttavia in alcuni contributi che utilizzavano le fonti etnografiche per l'interpretazione dei dati archeologici, è stata messa in discussione tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta da varie pubblicazioni, in cui si sottolineavano importanti fenomeni di mutamento culturale (innovazioni nei repertori artistici, intensificazione delle attività di sussistenza, livelli crescenti di densità demografica) verificatisi tra 7000 e 3000 anni fa. Questi ultimi decenni hanno visto lo sviluppo di nuovi settori d'indagine, quali la paleodemografia, l'analisi degli effetti della colonizzazione umana negli ambienti insulari, lo studio degli aspetti tecnologici ed ecologici relativi allo sfruttamento della fauna ittica e l'esame dei mutamenti sociali e politici che portarono alla formazione dei chiefdoms polinesiani. La ricostruzione dei modelli economico-produttivi ha determinato inoltre un crescente interesse per l'individuazione delle aree di estrazione delle materie prime maggiormente esportate (ossidiana, basalto) e per i processi di lavorazione di manufatti largamente utilizzati (asce). Notevole è stato infine lo sviluppo, principalmente in Australia e in Nuova Zelanda, di ricerche archeologiche indirizzate verso siti di epoca coloniale (insediamenti urbani e rurali, missioni, miniere, aree commerciali) e verso lo studio dei relitti di velieri europei.
J.P. White - J.F. O'Connell, A Prehistory of Australia, New Guinea and Sahul, Sydney 1982; J. Davidson, The Prehistory of New Zealand, Auckland 1987²; S. Bowdler, Views of the Past in Australian Prehistory, in M. Spriggs et al. (edd.), A Community of Culture. The People and Prehistory of the Pacific, Canberra 1993, pp. 123-38; R.C. Green, Tropical Polynesian Prehistory. Where are we now?, ibid., pp. 218-38; P.G. Bahn (ed.), The Cambridge Illustrated History of Archaeology, Cambridge 1996, passim.