L'archeologia delle Americhe
Dai suoi primi sviluppi ad oggi l'archeologia americana si è fondamentalmente occupata della preistoria delle popolazioni indigene del Nuovo Mondo, dall'Artide alla Terra del Fuoco, un immenso territorio caratterizzato dalle più diverse ed estreme condizioni climatico-ambientali. Questa "preistoria" copre un arco temporale che va dal momento in cui i primi gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori provenienti dalla Siberia cominciarono dall'Alaska il popolamento del continente (almeno 12.000 anni fa, ma vi sono vari ritrovamenti ancora in discussione che sembrerebbero attestare una ben più alta antichità), sino all'arrivo degli Europei, i quali a partire dal 1492 progressivamente colonizzarono le differenti regioni americane. Considerando che in Mesoamerica e nelle Ande Centrali al momento dell'invasione spagnola, agli inizi del XVI secolo, vi era una serie di società complesse tecnologicamente assai progredite, organizzate in città, stati e imperi, appare evidente che il termine "preistoria", nell'ambito dell'archeologia americana, non fa riferimento ad alcuno specifico stadio di evoluzione culturale, né rimanda ad alcuna particolare fase cronologica, se non all'intero arco temporale di sviluppo autonomo dei popoli nativi, prima che con l'avvento della cultura occidentale si cominciasse a produrre e a tramandare relativamente ad essi documentazione scritta "di tipo alfabetico". Questa specificazione sul tipo di scrittura è necessaria in quanto sin dai secoli precedenti l'era volgare gli abitanti dell'Oaxaca (Messico centro-meridionale) e i Maya possedettero sistemi di notazione in grado di riportare date, nomi e particolari di eventi storici e, al tempo del contatto con gli Europei, anche gli Aztechi e, in minor misura, gli Inca utilizzavano evoluti sistemi pittografico-ideografici e mnemotecnici, con componenti fonetiche, capaci di registrare storie dinastiche e cronologie, oltre a rilevazioni statistiche e tributarie quanto mai accurate. Ad ogni modo, assumendo come elemento discriminante fra la "preistoria" e la "storia" la presenza di documentazione scritta "di tipo alfabetico", vanno evidentemente considerate come protostoriche tutte quelle culture e società ‒ quale che fosse il loro livello di sviluppo e complessità, dai piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori del Gran Bacino (Stati Uniti occidentali) e della Terra del Fuoco alle grandi formazioni statali mesoamericane e andine ‒ che gli Europei andarono via via incontrando sul suolo americano a partire dalla fine del XV secolo e di cui si ha quindi una qualche conoscenza sia attraverso le evidenze archeologiche, sia attraverso le fonti documentali. Benché negli ultimi anni siano stati realizzati anche vari progetti di archeologia coloniale e industriale, lo studio del passato precoloniale delle culture autoctone del continente ha rappresentato e continua a rappresentare il campo precipuo e specifico dell'archeologia americana.
Lo specifico oggetto di studio, ossia le civiltà indigene del Nuovo Mondo, ha profondamente condizionato gli stessi indirizzi metodologici e teorici dell'archeologia americana: infatti, la forte ed evidente continuità fra la maggior parte delle culture preistoriche e quelle incontrate dagli Europei e successivamente studiate dagli etnologi ha fatto sì che questa si sviluppasse in stretta relazione con l'antropologia socio-culturale ‒ ora vista come disciplina storica volta allo studio dei caratteri specifici di ogni cultura (approccio storico-culturale), ora come scienza generale della società e del suo divenire (approccio processuale) ‒ derivandone di continuo dati, inferenze analogiche, categorie e modelli esplicativi. A tal punto che, nella tradizione degli studi nordamericani, l'archeologia viene in genere considerata come un sottocampo dell'antropologia, ossia come quella sua particolare branca che si occupa di studiare le culture del passato attraverso i resti materiali. Di fatto, maestri dell'antropologia come L.H. Morgan, F. Boas, A.L. Kroeber, J.H. Steward e L.A. White hanno marcato e diretto il corso degli sviluppi dell'archeologia americana. L.H. Morgan (1818-1881), ritenuto il padre degli studi di antropologia sociale, ebbe vasti interessi in campo archeologico, tanto che nel 1879 venne incaricato di preparare il programma di ricerche e scavi del nascente Archaeological Institute of America. Lo schema di evoluzione unilineare da lui proposto in Ancient Society (1877) ‒ consistente in una sequenza di tre "periodi etnici", o stadi culturali (stato selvaggio, barbarie e civiltà), i primi due dei quali suddivisi in tre sottoperiodi, ciascuno contraddistinto da un particolare livello di sviluppo delle tecniche di sussistenza e dell'organizzazione socio-politica ‒ avrebbe fornito alle successive generazioni di studiosi fondamentali coordinate per l'elaborazione dei quadri e delle sequenze spazio-temporali relativi alle culture preistoriche americane. Inoltre, esso avrebbe avuto un'influenza diretta e determinante sullo sviluppo delle teorie ecologico-neoevoluzioniste di J.H. Steward (1902-1972) e L.A. White (1900-1975), a loro volta all'origine delle formulazioni della New Archaeology. Altrettanto, se non più importante, fu il contributo di F. Boas (1858-1942), il fondatore dell'antropologia culturale americana, che con la sua concezione relativista, volta a cogliere la dimensione storica e particolare dei fenomeni culturali, e con il suo richiamo a rapportare ove possibile i reperti archeologici con le realtà storicamente ed etnograficamente conosciute, indirizzò gli studiosi verso la definizione delle differenti aree culturali e fu in qualche modo ispiratore del cosiddetto "approccio storico diretto". Il suo allievo A.L. Kroeber (1876-1960), l'altra figura dominante dell'antropologia americana del XX secolo, formò all'Università di California tutta una generazione di eminenti archeologi, da W.D. Strong (1899-1962) a R.F. Heizer (1915-1979), ed effettuò egli stesso innovative ricerche preistoriche nel Sud-Ovest degli Stati Uniti e in Perù. Come Boas e Kroeber, numerosi altri americanisti, soprattutto nel passato, da A.F.A. Bandelier a W.C. Bennett, da W.H. Holmes a M. Gamio, da S.K. Lothrop a Th. Mathiassen, da E. von Nordenskiöld a G. Reichel-Dolmatoff, hanno correntemente praticato sia l'etnologia che l'archeologia, concependo tali discipline come due momenti assolutamente complementari di un'unica scienza dedicata alla ricostruzione e alla comprensione della storia culturale del Nuovo Mondo. Da parte loro, anche gli archeologi americani più puri in senso disciplinare e di orientamento più "scientifico" in termini metodologici non hanno mai misconosciuto questo organico legame con l'antropologia, anzi, l'hanno sempre rivendicato come fondamentale, anche a livello teorico e programmatico. Basti ricordare la celebre frase "l'archeologia americana è antropologia o non è niente", in apertura dell'ormai classico Method and Theory in American Archaeology (1958) di G.R. Willey e Ph. Phillips, o al titolo Archaeology as Anthropology dato da L.R. Binford al suo saggio-manifesto (1962) della New Archaeology.
L'archeologia nelle Americhe ebbe inizio di fatto come semplice etnografia, ossia come descrizione degli aspetti della vita materiale dei popoli che conquistadores, esploratori, missionari e coloni europei andarono incontrando sul loro cammino a partire dal 1492. Purtuttavia, è possibile che uno "scavo" in terra americana ad opera di Europei fosse già avvenuto vari secoli prima, intorno all'anno 1000, quando ‒ secondo un vecchio racconto norreno ‒ alcuni naviganti vichinghi alla ricerca di oggetti preziosi scavarono un'antica costruzione ubicata su un'isoletta della Groenlandia orientale. Ma, al di là di questo remoto e oscuro episodio, fu evidentemente solo nel XVI secolo, con l'invasione iberica, che cominciò a svilupparsi un interesse storico-descrittivo per il mondo amerindiano e per le sue antichità. Paradossalmente furono sovente proprio alcuni di coloro che presero parte attiva alla distruzione delle civiltà native a lasciarne fondamentali testimonianze. L'evangelizzatore fra' Bernardino de Sahagún (1499 ca.-1590), ad esempio, consacrò pressoché l'intera esistenza a raccogliere, in modo estremamente sistematico e rigoroso, informazioni sulla storia e la cultura degli Aztechi, col fine ultimo di poterli meglio convertire alla fede cristiana. Pervenne così ad elaborare una monumentale Historia general de las cosas de Nueva España, sulla base di un'iniziale narrazione pittografica da lui sollecitata a vari informatori indigeni, ai quali poi chiese, dopo aver loro insegnato l'alfabeto latino, una spiegazione- commento scritta in lingua Nahuatl (Codice Fiorentino); l'insieme di questa documentazione rappresenta un corpus unico e fondamentale per la conoscenza del mondo azteco. Ancora più emblematica è forse la figura di fra' Diego de Landa (1524-1579), provinciale e poi vescovo di Mérida (Messico), implacabile repressore della religione nativa e al tempo stesso autore di una Relación de las cosas de Yucatán, che costituisce oggi la fonte più completa sui Maya del XVI secolo, con innumerevoli annotazioni sulla loro cultura materiale, sulla loro tecnologia e soprattutto sul loro sistema geroglifico e calendariale. Landa si interessò inoltre agli antichi centri cerimoniali dell'area, accompagnandone in taluni casi la descrizione con schizzi e schematiche piantine dei principali complessi. Per altro verso, lo stesso religioso perseguì con estremo rigore ogni manifestazione di "paganesimo", arrivando a distruggere in un solo autodafé non solo innumerevoli immagini del culto autoctono, ma decine di antichi codici (testi sacri) indigeni, contenenti informazioni di inestimabile valore tanto per i Maya che per i moderni studiosi di quella civiltà. Di frequente conquistadores, funzionari coloniali e missionari, onde individuare i santuari indigeni e i tesori che si supponeva vi potessero essere custoditi, ricorsero a tecniche ‒ quali questionari, interviste, la ricognizione del territorio e l'osservazione diretta ‒ che sarebbero più tardi divenute proprie dell'etnografia e dell'archeologia. Vennero così raccolti e tramandati importanti inventari e descrizioni di siti archeologici, sovente corredati da preziose informazioni sulla loro funzione e sulla vita cerimoniale e religiosa che in essi aveva luogo. Ad esempio, l'elenco degli antichi luoghi sacri del Cuzco e dintorni, compilato verso il 1560 dal funzionario reale Polo de Ondegardo e riportato nella Historia del Nuevo Mundo (1653) del gesuita Bernabé Cobo, costituisce un documento unico per la ricostruzione e la comprensione dell'organizzazione socioterritoriale Inca, così come i resoconti del capitano Miguel de Estete sulla spedizione (1533) di Hernando Pizarro a Pachacamac forniscono una serie di illuminanti dettagli sull'aspetto originario e sulla struttura del celebre oracolo andino. Il cronista-soldato Pedro de Cieza de León visitò e descrisse a sua volta numerosi centri cerimoniali e amministrativi dell'antico Perù, talora rilevando, come nel caso di Huari e di Tiwanaku, la loro anteriorità rispetto agli Inca. Ma importanti testimonianze vennero pure prodotte direttamente da individui di origine nativa: non vi è studio di archeologia Inca che non attinga informazioni da Garcilaso de la Vega, autore dei famosi Comentarios reales de los Incas (1609) o da Felipe Guaman Poma de Ayala, la cui Nueva corónica y buen gobierno (1615) contiene numerosi disegni che illustrano la cultura materiale, la tecnologia e l'architettura autoctona; lo stesso può dirsi per i testi pittografici e gli scritti di vari cronisti indigeni del Messico. Sin dal primo periodo coloniale vennero pure avviate importanti riflessioni di tipo teorico sulla natura e sulle origini dei popoli indigeni delle Americhe. Fra' Bartolomé de Las Casas (1474-1566), nella sua Apologética, si pose il problema di quale influenza avesse potuto avere sullo sviluppo delle culture del Nuovo Mondo l'ambiente, alla cui minuziosa descrizione dedicò vari capitoli. Ma il problema sentito come più pressante da molti religiosi e uomini di scienza del tempo fu sicuramente quello dell'antichità e dell'origine dell'uomo americano: un problema che ha peraltro accompagnato e segnato l'intera storia dell'archeologia americana e che tuttora rappresenta uno dei suoi temi più dibattuti. Sull'argomento dal XVI al XVIII secolo furono formulate le più ardite teorie e le più fantasiose speculazioni, venendo via via ipotizzato che gli Amerindiani potessero essere discendenti dei Fenici, degli Assiri, degli Egiziani, dei Greci, degli Sciti, degli Indù, dei Tartari, dei Vichinghi, dei Gallesi e naturalmente degli abitanti del mitico continente di Atlantide. Assai ricorrente fu pure l'idea che essi fossero la progenie di una delle dieci tribù disperse di Israele, come proposto inizialmente da fra' Diego Durán (1537 ca.-1588) e creduto fermamente ancora nel XIX secolo da un grande antiquario come lord Kingsborough (1795-1837), il quale arrivò a rovinarsi economicamente pur di pubblicare in facsimile tutti i codici messicani precolombiani conosciuti (Antiquities of Mexico, I-IX, 1831- 48), nella convinzione che essi potessero dimostrare una volta per tutte che le grandi civiltà americane erano state create dai discendenti di una delle tribù ebraiche della Diaspora. Sul tema appare dunque davvero geniale l'intuizione avuta dal gesuita spagnolo José de Acosta (1540-1600), il quale nel 1590, nella sua Historia natural y moral de las Indias, era arrivato a concepire che l'America doveva essere stata popolata alcune migliaia di anni prima della Conquista da "cacciatori selvaggi" venuti dall'Asia via terra: un'ipotesi che sarebbe stata provata e universalmente accettata solo centinaia di anni più tardi. I
Nel periodo coloniale venne avviata dalle corti europee e da alcuni ordini religiosi la raccolta di manufatti indigeni, soprattutto di quelli più preziosi e di maggior pregio estetico. Gli oggetti americani finirono così per costituire il nucleo principale di molti "gabinetti di curiosità" (o "camere delle meraviglie", Wunderkammern), le cui collezioni sono state all'origine di alcuni importanti musei moderni. Fu proprio un grande collezionista, il religioso messicano C. de Sigüenza y Góngora (1645-1700), a effettuare quello che può essere considerato il primo scavo con interessi scientifici del Nuovo Mondo, allorché intorno al 1680 praticò un cunicolo in una delle piramidi di Teotihuacan. In Perù i primi scavi con finalità investigative vennero realizzati da alcuni studiosi francesi: nel 1709 dal naturalista L. Feuillé e nel 1713 dall'ingegnere A.F. Frézier. Entrambi si limitarono ad aprire alcune tombe nella regione di Ilo e Arica, mentre più avanti, fra il 1778 e il 1785, il botanico J. Dombey esplorò estesamente la costa centrale, scavando vari siti (Chancay, Pachacamac) e raccogliendo una collezione di oltre 400 reperti destinati alla corte di Luigi XVI. Il precursore per eccellenza dell'archeologia andina fu comunque il vescovo di Trujillo B.J. Martínez de Compañon (1737-1797), il quale, approfittando di un'ampia visita pastorale condotta fra il 1782 e il 1785, dispose e curò l'esecuzione di centinaia di disegni acquerellati (poi raccolti in nove volumi e inviati insieme ad una ricca collezione archeologica a Carlo III), volti a documentare pressoché tutti gli aspetti della vita e della realtà della sua diocesi: nel nono volume, interamente dedicato alle antichità della regione, si ritrovano accurati disegni e piantine di alcuni importanti complessi monumentali, quali la Huaca del Sol, Chanchan e Marca Huamachuco, di antiche opere idrauliche e di interi contesti funerari scavati dallo stesso vescovo, così come riproduzioni piuttosto fedeli degli innumerevoli reperti Moche e Chimú recuperati e persino la sezione di un profondo pozzo praticato in un tumulo sepolcrale, con indicati i differenti strati di terra rimossi per raggiungere la camera mortuaria. Poco più tardi, nel 1791, veniva data alle stampe in Messico quella che può essere considerata la prima monografia interamente dedicata ad un singolo sito archeologico americano: la Descripción de las antigüedades de Xochicalco, dell'eclettico uomo di scienza e pubblicista J.A. de Alzate y Ramírez (1737-1796). L'anno seguente usciva un altro pionieristico contributo alla nascente archeologia americana: un corposo studio dell'erudito A. de León y Gama (1735-1802) su due monoliti ‒ la grande statua della dea Coatlicue e la cosiddetta Pietra del Sole o Calendario Azteco ‒ recuperati nel corso del rifacimento del lastricato della Plaza Mayor di Città di Messico. Nell'opera, secondo un'impostazione decisamente già moderna, l'autore, partendo dalla minuziosa descrizione dei reperti, arrivava ad illustrare una serie di aspetti dell'antica civiltà Mexica. Inoltre, sempre nello stesso periodo, il governo coloniale promuoveva alcune missioni di esplorazione dei più monumentali centri preispanici, come quella del 1787 a Palenque del capitano A. del Río, la cui Description of the Ruins of an Ancient City, Discovered near Palenque, pubblicata a Londra nel 1822, costituisce la prima descrizione con illustrazioni di un sito Maya, e quelle effettuate fra il 1805 e il 1808 a Cholula, Mitla e Palenque dal colonnello fiammingo G. Dupaix, le cui relazioni, corredate dai numerosi e pregevoli disegni del collaboratore J.L. Castañeda, vennero edite prima nella collezione curata da lord Kingsborough (1830), quindi in traduzione francese a Parigi col titolo di Antiquités mexicaines (1834). Ad ogni modo, nonostante questi incipienti interessi antiquari, in genere le autorità coloniali manifestarono scarso entusiasmo per le antiche civiltà indigene che nel XVI secolo esse avevano distrutto: una loro rivalutazione storica avrebbe infatti potuto in qualche modo significare una delegittimazione del potere della Corona spagnola e alimentare spinte nazionalistiche. Forse anche per questo motivo non fu in America Latina, ove pure erano fiorite le più fulgide civiltà del continente, bensì in America Settentrionale che si ebbero i primi significativi sviluppi dell'archeologia scientifica, soprattutto in relazione ai numerosi tumuli e ai resti di altre costruzioni incontrati a partire dagli ultimi decenni del XVIII secolo dai coloni euroamericani nel loro movimento di espansione verso ovest. Al di là della catena degli Appalachi, nelle vaste pianure dell'Ohio e del Mississippi, questi infatti andarono trovando centinaia di elaborate costruzioni di terra (mounds), sovente contenenti sepolture dai ricchi corredi funerari, le quali smentivano la diffusa opinione che i nativi fossero selvaggi senza storia, incapaci di qualsiasi sviluppo culturale. Ma il pregiudizio era così radicato (e organico all'impresa colonizzatrice) che in genere si preferì attribuire la costruzione dei mounds ad un'immaginaria "razza", presumibilmente caucasica, di Mound- Builders ("costruttori di tumuli"), che a un certo punto doveva essere stata annientata o costretta alla migrazione dalla calata delle orde selvagge degli Indiani. Vi fu comunque anche chi riconobbe l'origine pienamente autoctona dei tumuli: il naturalista W. Bartram (1739-1823), che compì un'estesa esplorazione di parte dei territori della Carolina, della Georgia e della Florida, non rilevando la minima evidenza di influenze euro-occidentali nei vari siti archeologici con monticoli da lui visitati, giunse alla conclusione che questi dovevano appartenere ad un popolo indigeno, anche se con ogni probabilità anteriore a quelli moderni. Inoltre, vero antesignano dell'approccio storico diretto, Bartram cercò di interpretare la funzione dei tumuli sulla base di analogie con le strutture cerimoniali da lui osservate presso i gruppi Creek. Il primo ad intraprendere lo scavo di un mound col fine di chiarirne la natura fu Th. Jefferson (1743-1826), il grande statista e intellettuale, autore della Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti e successivamente terzo presidente del Paese. Sin da giovane interessato alla cultura delle popolazioni indigene del suo stato natale, la Virginia, Jefferson fra il 1781 e il 1782 ‒ come riferisce nell'accurata descrizione dello scavo che allegò alle sue Notes on the State of Virginia ‒ praticò una trincea in uno dei tumuli presenti all'interno delle sue proprietà, individuando quattro strati con sepolture multiple, delle quali non mise in alcun momento in dubbio l'origine pienamente autoctona. Purtroppo la metodologia di scavo di Jefferson, che rappresentò il primo tentativo di indagine stratigrafica non solo dell'archeologia del Nuovo Mondo, ma probabilmente dell'intera storia dell'archeologia, non ebbe praticamente seguito fra gli studiosi di antichità americane del XIX secolo. Né al tempo alcuno sviluppo ebbe l'intuizione di M. Cutler, che intorno al 1788 cercò di datare i tumuli di Marietta (Ohio) mediante il computo del numero degli anelli dei tronchi degli alberi cresciutivi sopra, precorrendo così di un secolo e mezzo la tecnica dendrocronologica, che sarebbe stata applicata con notevole successo solo dopo il 1930 nel Sud-Ovest americano. Quello di Cutler fu con ogni probabilità il primo tentativo di datazione assoluta mai realizzato nel Nuovo Mondo.
Il XIX fu il secolo delle esplorazioni e della scoperta delle maggiori civiltà dell'antica America, attraverso l'individuazione, la descrizione, la documentazione e la classificazione secondo tipologie formali dei loro principali siti, monumenti e reperti. Nel 1812, quale segno di un crescente interesse per le antichità indigene ‒ legato anche al desiderio dei nuovi stati indipendenti di darsi delle "radici" e di rivendicare una propria identità storico- culturale ‒ venne fondata in Massachusetts la American Antiquarian Society, prima istituzione del genere nel continente, la quale si attivò immediatamente per creare un gabinettomuseo e costituire una biblioteca specializzata, avendo come suoi obiettivi prioritari la promozione della ricerca archeologica e la diffusione dei risultati. Nel primo volume delle Transactions della Società (1820) venne pubblicata una lunga relazione di C. Atwater (1778-1867), Description of the Antiquities Discovered in the State of Ohio and Other Western States, con un'accurata documentazione di innumerevoli tumuli e fortificazioni in terra. Nonostante le fantasiose conclusioni dell'autore, che attribuì la costruzione della maggior parte di queste opere a Indù giunti attraverso lo Stretto di Bering e successivamente migrati in Messico, questo lavoro può considerarsi il primo serio studio descrittivo delle antichità di un'intera regione americana. Nel 1846 venne fondata a Washington la Smithsonian Institution, che inaugurò le sue pubblicazioni con un'altra classica opera areale sui mounds, Ancient Monuments of the Mississippi Valley di E.G. Squier (1821-1888) ed E.M. Davis (1811-1888). In essa non solo veniva operata, sulla base di criteri formali, una distinzione fra i tumuli tondeggianti dell'alto Mississippi, i recinti simmetrici dell'Ohio e le piattaforme del Sud, ma, con un'impostazione scientifica quanto mai rigorosa, venivano pure formulate ipotesi sulla funzione di tali strutture e indicate le possibili linee di ricerca per verificarle. Successivamente, con la creazione nel 1879 del suo Bureau of Ethnology, la Smithsonian sarebbe assurta a principale centro di studi sulle culture indigene del continente, fornendo una serie di fondamentali contributi al progresso dell'antropologia e dell'archeologia americana. Il primo direttore del Bureau of Ethnology, J.W. Powell (1834-1902) ‒ esploratore, geologo ed etnologo, il quale aveva fra l'altro compiuto accurate osservazioni sui siti preistorici del Grand Canyon ‒ varò nel 1881 un vasto programma di ricerca sui mounds, affidandone il coordinamento all'entomologo C. Thomas (1825-1910). Questi organizzò varie squadre che per sette anni esplorarono estesamente tutto il Midwest, documentando e scavando oltre 2000 tumuli e raccogliendo non meno di 40.000 reperti, che andarono ad arricchire le collezioni del National Museum, altro organo della Smithsonian. Nella monumentale e minuziosa relazione finale, Report on the Mounds Explorations of the Bureau of Ethnology, pubblicata nel 1894, che segnò la nascita della moderna archeologia americana, Thomas sfatò una volta per tutte il mito dei Mound- Builders, mostrando l'estrema varietà culturale delle genti che avevano costruito i tumuli e la fondamentale continuità esistente fra esse e i gruppi indiani storici. Tali conclusioni trovarono piena conferma nei lavori di F.W. Putnam (1839-1915), curatore del Peabody Museum of American Archaeology and Ethnology dell'Università di Harvard, altra dinamica istituzione scientifica che, dalla sua fondazione nel 1866, svolse un ruolo di primissimo piano nello sviluppo delle ricerche sulla preistoria del Nuovo Mondo. Putnam, considerato uno dei padri dell'archeologia nordamericana, oltre a condurre importanti indagini sui tumuli della valle dell'Ohio, fra cui il famoso Great Serpent Mound da lui restaurato e musealizzato, si interessò all'antichità della presenza umana nel continente, che intuì e cercò di provare essere anteriore alla fine del Pleistocene. Inoltre, fu uno dei principali promotori della creazione (1879) dell'Archaeological Institute of America, una delle cui prime iniziative fu quella di affidare ad A.F.A. Bandelier (1840-1914) l'incarico di compiere un'ampia indagine etnografica e archeologica del Sud-Ovest. Gli istituti di ricerca e i musei statunitensi estesero ben presto i loro interessi all'area mesoamericana, attratti soprattutto dalle monumentali vestigia della civiltà Maya, la cui esistenza era stata rivelata al pubblico nordamericano dalle relazioni di viaggio di J.L. Stephens (1805-1852). I suoi fortunati libri Incidents of Travel in Central America, Chiapas, and Yucatan (1841) e Incidents of Travel in Yucatan (1843), corredati dai minuziosi e raffinati disegni del compagno di esplorazioni F. Catherwood (1799-1854), nel documentare e divulgare la magnificenza delle rovine di Copán, Palenque, Uxmal, Kabah, Chichén Itzá, Cozumel e Tulum, avevano di fatto inaugurato l'era dell'archeologia mesoamericana. Stephens non si era limitato a descrivere i vari siti, ma era pervenuto alla conclusione ‒ in un'epoca in cui ancora dominava la credenza in un'antica e civilissima nazione preindigena ‒ che la loro costruzione fosse da attribuirsi alle "stesse razze che abitavano il paese al tempo della conquista spagnola, o a loro progenitori non molto lontani". Di lì a pochi anni l'abate francese Ch.-E. Brasseur de Bourbourg (1814-1874) avrebbe recuperato e pubblicato alcune delle più importanti fonti documentali sulle antiche culture dell'area, fra cui la relazione di Diego de Landa e la famosa raccolta di miti Maya delle alteterre conosciuta come Popol Vuh, mentre altri antiquari e ricercatori come i francesi A. Le Plongeon (1826-1908) e D. Charnay (1828-1915), l'inglese A.P. Maudslay (1850-1931) e il tedesco-austriaco T. Maler (1842- 1919), per conto del Peabody Museum, avrebbero esplorato, scavato e documentato, anche fotograficamente, vari altri centri Maya. Una menzione a parte, poi, merita il tedesco E.G. Seler (1849-1922), curatore del Museum für Völkerkunde e professore di Americanistica all'Università di Berlino, il quale per i suoi innumerevoli ed eruditissimi studi di carattere linguistico, storico-artistico e archeologico, soprattutto sulla religione e il sistema di scrittura e calendariale dei Maya e degli Aztechi, e ancor più per le sue fondamentali edizioni commentate di vari codici messicani, fra cui il Fejérváry-Mayer, il Vaticanus B e il Borgia, è da considerarsi uno dei maggiori pionieri degli studi mesoamericani. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo importanti apporti alla conoscenza del mondo Maya vennero pure dagli statunitensi E.H. Thompson (1856-1935), che scoprì la cosiddetta Tomba del Grande Sacerdote e i tesori del Cenote Sacro di Chichén Itzá, e G.B. Gordon (1870-1927), considerato uno dei fondatori dell'archeologia dell'Honduras, il quale sotto gli auspici del Peabody Museum condusse a Copán i primi scavi su vasta scala in area mesoamericana. Da parte sua, lo storico dell'arte ed etnologo W.H. Holmes (1846-1933) diede un importante contributo alla nascente archeologia messicana con Archaeological Studies among the Ancient Cities of Mexico (1895- 97), lavoro, corredato da una serie di accurati quanto suggestivi disegni da lui stesso eseguiti, in cui operò una classificazione della ceramica cercando di porla in relazione con i differenti tipi di strutture cerimoniali. Inoltre Holmes pubblicò nel 1903 una monografia, Aboriginal Pottery of the Eastern United States, che gettò le basi per lo studio della preistoria di quella regione, e nel 1914 un saggio in cui, ispirandosi al metodo etnologico, sulla base delle evidenze archeologiche elaborò una fondamentale divisione dell'America Settentrionale e Centrale in 16 aree culturali, che in seguito sarebbe stata solo perfezionata. Tra i pionieri dell'archeologia centroamericana va infine ricordato lo svedese C.V. Hartman (1862-1941), che condusse ricerche e scavi accurati in Costa Rica, pubblicando due ben documentate monografie sui numerosi siti da lui indagati. Per quanto concerne l'America Meridionale, l'era della ricerca archeologica venne inaugurata in Brasile intorno al 1840 dal botanico danese W.P. Lund, che, sulla base del rinvenimento a Lagoa Santa di resti umani associati ad ossa fossili di animali, postulò un'alta e fino ad allora insospettata antichità per l'uomo sudamericano. Nell'area andina i primi studi archeologici vennero prodotti da peruviani: nel 1927 F. Barreda dava alle stampe a Lima un'ampia Memoria sobre los sepulcros o huacas de los antiguos peruanos e l'anno seguente M.E. de Rivero y Ustariz (1798-1857), fondatore nel 1826 del Museo Nacional di Lima, pubblicava alcune osservazioni sulle Antigüedades peruanas, che sarebbe andato via via arricchendo sino alla grande omonima opera del 1851, con eleganti illustrazioni di ceramiche e di monumenti e piante di Tiwanaku, Chanchan, Huánuco Pampa, Cuzco e Ollantaytambo. Le monumentali vestigia delle alte culture andine non tardarono ad attrarre l'attenzione di grandi viaggiatori-antiquari stranieri, come lo statunitense E.G. Squier (Peru. Incidents of Travel and Exploration in the Land of the Incas, 1877), l'austriaco- francese Ch. Wiener (Pérou et Bolivie, 1880), il tedesco E.W. Middendorf (Peru, I-III, 1893-95) e lo svizzero-statunitense A.F.A. Bandelier (The Islands of Titicaca and Coati, 1910). Fu grazie ai dettagliati e ben documentati resoconti delle loro esplorazioni, con sporadici scavi, che si cominciò ad avere un ampio quadro descrittivo delle principali vestigia preispaniche della regione. Innumerevoli siti e monumenti archeologici vennero pure registrati e descritti dal naturalista e geografo milanese A. Raimondi (1824-1890) nella sua enciclopedica opera El Perú (I-VI, 1874-1913), frutto di oltre vent'anni di ricognizioni in tutto il Paese. I primi scavi su vasta scala nell'area andina furono comunque quelli condotti nel 1874-75 sulla costa centrale peruviana dai geologi tedeschi W. Reiss e A. Stübel, che nei tre volumi di Das Todtenfeld von Ancón (1880-87), corredati da magnifiche tavole a colori, documentarono minuziosamente sia le operazioni di scavo che i materiali recuperati, compresi i resti umani, animali e vegetali, oggetto di specifiche analisi. Quanto agli studi di carattere più propriamente storico-antropologico, un posto di riguardo spetta al grande viaggiatore e geografo inglese sir Clements Robert Markham (1830-1916), che fra il 1856 e il 1910 pubblicò una serie di contributi assai puntuali sulla civiltà Inca, delineandone i caratteri e l'ambito geografico e differenziandola dall'insieme ancora nebuloso delle altre culture andine preispaniche.
Nei primi decenni del XX secolo, grazie allo sviluppo dello scavo stratigrafico, del metodo della seriazione e del survey, che permisero di collocare le varie tipologie formali riscontrate nei differenti contesti areali in definiti quadri spazio-temporali, l'archeologia americana entrò in una fase di piena maturità: in relativamente poco tempo si pervenne infatti all'ordinamento cronologico della maggior parte dei siti e delle culture preistoriche e all'elaborazione di ampie sintesi regionali. Sebbene già nel corso del XIX secolo fossero stati compiuti sporadici tentativi di indagine stratigrafica, soprattutto in relazione a tumuli e chiocciolai, i primi scavi compiutamente stratigrafici furono quelli realizzati in Perù (1896-97) e in California (1902) dal tedesco F.M. Uhle (1856-1944), il quale stabilì la prima sequenza delle culture delle Ande Centrali. Nel 1909 attente osservazioni stratigrafiche vennero compiute dallo svedese N.E.H. von Nordenskiöld (1877-1932), nello scavo di un deposito di rifiuti nella remota regione boliviana dei Llanos de Mojos. Nel 1911 il messicano M. Gamio (1883-1960), per incoraggiamento di F. Boas, suo maestro alla Columbia University e in quel momento direttore a Città di Messico della International School of American Ethnology and Archaeology, scavò per livelli arbitrari un pozzo stratigrafico in un deposito di rifiuti del sito di Azcapotzalco, individuando i tre periodi fondamentali (Arcaico, Teotihuacan e Azteco) della sequenza archeologica del Messico centrale. Successivamente, a partire dal 1917, Gamio avrebbe portato avanti un pionieristico progetto di ricerca interdisciplinare (archeologico- storico-etnografico) sulla valle di Teotihuacan, dai più antichi insediamenti ai tempi moderni. L'uso del metodo stratigrafico venne perfezionato da N.Ch. Nelson (1875-1964), il quale, su incarico dell'American Museum of Natural History, tra il 1913 e il 1915 effettuò scavi per livelli arbitrari in vari insediamenti del bacino del Galisteo (New Mexico), fra cui in particolare a Pueblo San Cristóbal, riuscendo a stabilire mediante una precisa sequenza dei vari stili ceramici la cronologia della regione. Il lavoro di Nelson indusse un altro ricercatore della preistoria del Sud-Ovest, A.V. Kidder (1885-1963), ad applicare su vasta scala il metodo stratigrafico, seguendo però l'andamento naturale dei livelli, nelle varie campagne da lui condotte a Pecos Pueblo fra il 1915 e il 1924. Grazie anche ad un sistematico ricorso al survey e alla seriazione, quali momenti propedeutici allo scavo e di confronto con le evidenze stratigrafiche, Kidder in An Introduction to the Study of Southwestern Archaeology with a Preliminary Account of the Excavations at Pecos (1924) pervenne ad elaborare un'ampia sintesi storico-culturale della preistoria degli Stati Uniti sud-occidentali (con una sequenza evolutiva di quattro periodi, comune a nove tradizioni culturali regionali), la prima del genere nell'archeologia del Paese. Il metodo della seriazione, già in qualche modo informalmente impiegato intorno al 1910 da F. Boas per ordinare materiali ceramici di superficie della Valle di Messico, era stato di fatto introdotto nell'archeologia americana da A.L. Kroeber. Questi, in base allo studio dei differenti complessi ceramici incontrati in superficie in una serie di siti dell'area Zuñi (Sud- Ovest) e delle variazioni nella loro frequenza in ciascun sito, aveva elaborato una sequenza storica dei vari insediamenti. L'affidabilità del metodo era stata poi confermata da L. Spier (1893-1961), il primo a parlare di associational seriation, il quale, in An Outline for the Chronology of Zuñi Potsherds del 1917, aveva ampliato e perfezionato la seriazione di Kroeber, comprovandone nel contempo la validità mediante saggi stratigrafici di controllo. Lo stesso Kroeber, coadiuvato da un gruppo di allievi fra cui W.D. Strong, utilizzò negli anni Venti la tecnica della seriazione per studiare i materiali scavati alcuni decenni prima da Uhle in varie necropoli della costa peruviana, ricavandone una sequenza di sette fasi stilistico-culturali. Mediante la stratigrafia e la seriazione, sovente usate in forma complementare, nel decennio successivo vennero elaborate le cronologie basilari, ancorché relative, di varie regioni e culture del continente: H.B. Collins (1899-1987) ‒ anche sulla base dei lavori di Th. Mathiassen (1892-1967), pioniere dell'archeologia eschimese ‒ pervenne a un primo ordinamento cronologico delle culture dell'Artide, J.A. Ford (1911-1968) di quelle della valle del Mississippi, G.C. Vaillant (1901-1945) di quelle della Valle di Messico, I. Rouse di quelle dei Caraibi (Haiti) e W.C. Bennett (1905-1953) di quelle dell'altopiano andino (Tiwanaku). Nel Sud-Ovest, grazie all'invenzione della dendrocronologia ad opera dell'astronomo A.E. Douglass, a partire dal 1929 si poterono ottenere datazioni assolute delle varie fasi della sequenza Basketmaker-Pueblo. Verso la fine degli anni Trenta J.L. Giddings (1909-1964) applicò il metodo di Douglass in Alaska, elaborando una scala dendrocronologica che gli consentì di datare vari siti della regione del Kobuk. L'unica altra cultura per la quale si possedessero all'epoca precise indicazioni temporali era quella dei Maya del Periodo Classico, grazie alla consuetudine di questi ultimi di segnare la data di costruzione degli edifici mediante iscrizioni geroglifiche di carattere calendariale e di erigere stele ad intervalli regolari di tempo. I pionieristici studi sull'aritmetica e sul calendario Maya di E.W. Förstemann tra il 1880 e il 1887 e quindi quelli di J.T. Goodman agli inizi del secolo, seguiti da quelli di J. Martínez Hernández e J.E.S. Thompson (Maya Chronology, 1937), avevano infatti permesso di stabilire una correlazione fra il calendario Maya e quello cristiano. Le datazioni così ottenute erano poi state estese a varie aree limitrofe mediante l'individuazione di analogie stilistiche nella ceramica e nella scultura. Oltre all'elaborazione di quadri cronologici entro cui ordinare i loro dati, gli archeologi statunitensi degli anni Trenta e Quaranta ebbero fra le loro principali preoccupazioni quella di definire con precisione le unità archeologiche oggetto di studio e di interpretare le evidenze dal punto di vista funzionale. In tale prospettiva risultò di grande utilità il cosiddetto "approccio storico diretto", metodologia di ricerca in qualche modo empiricamente già impiegata da numerosi studiosi, come Bartram, Bandelier, Kidder e Collins, ma di fatto sviluppata e applicata con notevoli risultati solo alla fine degli anni Trenta da W.D. Strong e W.R. Wedel (1908-1996) nell'area delle Grandi Pianure e quindi da R.F. Heizer in California. Il metodo prevedeva che nello studio delle antiche culture native si dovesse partire da realtà etnografiche e/o storiche conosciute (e quindi ben definite), per risalire attraverso stratigrafia e/o seriazione progressivamente indietro nel tempo fino alle epoche più antiche. Seguendo tale ordine, Strong riuscì a ricostruire con un alto grado di precisione la storia culturale degli Indiani delle Pianure, mostrando in particolare come la loro economia a seguito dell'introduzione del cavallo fosse passata da fondamentalmente orticola e semisedentaria a prevalentemente venatoria (caccia al bisonte) e nomade. L'"approccio storico diretto", che presuppone un certo grado di coincidenza fra culture storiche, protostoriche e preistoriche e, a livello teoricometodologico, una decisa corrispondenza tra fatti e categorie etnologici ed evidenze e categorie archeologiche, nello stabilire una formale connessione tra le due discipline, permise fra l'altro la piena definizione delle varie aree archeologiche del continente, a questo punto legittimamente ricalcate su quelle culturali riscontrate dagli antropologi. All'individuazione di alcune grandi tradizioni archeologiche areali contribuì comunque anche un altro metodo, sviluppatosi soprattutto in contesto museale e pur esso in qualche modo connesso con l'etnologia (boasiana): il cosiddetto "metodo tassonomico", o tipologico, basato sul presupposto che a somiglianze formali corrispondessero origini e sviluppi culturali comuni. Tale metodo venne impiegato soprattutto negli Stati Uniti medio-occidentali e orientali ‒ ove all'epoca non erano conosciuti che pochi siti di prolungata occupazione e pertanto con depositi stratificati ‒ per classificare un gran numero di materiali museali raccolti per lo più da archeologi dilettanti. Il metodo venne proposto da un gruppo di archeologi guidato da W.C. McKern, curatore del Milwaukee Public Museum e primo direttore della rivista American Antiquity (fondata nel 1935), il quale ne presentò compiutamente il procedimento nell'articolo The Midwestern Taxonomic Method as an Aid to Archaeological Culture Study (1939). Il sistema classificatorio di McKern prevedeva che il complesso di manufatti di ogni singolo sito, o di un singolo livello in caso di stratificazione, fosse da considerarsi una "componente", che varie "componenti" con un'alta percentuale di tratti uguali fossero da ricondursi ad un determinato focus (concepito come l'equivalente della "tribù" in etnologia), che più foci simili facessero parte di uno stesso "aspetto", che vari "aspetti" con alcuni caratteri generali in comune fossero da attribuirsi ad un'unica "fase" e che tutte le fasi con alcuni grandi tratti analoghi configurassero un "modello". Con il metodo tassonomico si pervenne ad identificare il "modello" del Woodland (caratterizzato dalla presenza di un sistema di vita semisedentario, vasi fittili subconoidali a impressione di corde e punte di proiettili peduncolate o ad alette), quello del Mississippi (con insediamenti stabili, ceramica incisa o modellata di forma varia e piccole punte di proiettile triangolari) e quello dell'Arcaico (caratterizzato dalla caccia-raccolta e dall'assenza di ceramica, ma con manufatti in ardesia). Successivamente, nel 1941, J.A. Ford e G.R. Willey organizzarono queste tradizioni in una sequenza di cinque fasi della preistoria degli Stati Uniti orientali: Arcaico, Tumuli Sepolcrali I (culture Woodland Antico e Adena), Tumuli Sepolcrali II (Woodland Medio e Hopewell), Tumuli Templari I (Mississippi Antico) e Tumuli Templari II (Mississippi Recente). Nella prima metà del XX secolo, grazie anche agli sviluppi dall'archeologia statunitense, sostanziali progressi nella ricostruzione della storia culturale preispanica vennero pure compiuti in varie regioni dell'America Latina, ove si andarono moltiplicando le esplorazioni e gli scavi. In Mesoamerica particolarmente attiva fu la Carnegie Institution di Washington, che a partire dal 1914 avviò un progetto a lungo termine di studio della civiltà Maya, inizialmente diretto da S.G. Morley (1883-1948), che compì un'ampia ricognizione delle basseterre meridionali Maya e varie campagne di scavo (1924-40) a Chichén Itzá. Successivamente, dal 1929, il coordinamento generale venne affidato a A.V. Kidder, che varò un vasto programma multidisciplinare di ricerca, effettuando egli stesso scavi (1935-37) a Kaminaljuyú. Al programma collaborarono, fra gli altri, G.C. Vaillant, che fornì fondamentali contributi per la definizione della cronologia Maya, e l'etnologo e archeologo inglese J.E.S. Thompson (1898-1975), il grande studioso di fonti epigrafiche. La regione centroamericana venne invece estesamente esplorata da S.K. Lothrop (1892-1965), curatore del Peabody Museum, che pubblicò fondamentali studi sulla ceramica della Costa Rica, del Nicaragua e del Panama, ove scavò la necropoli di Coclé, e sulla metallurgia precolombiana, sia della Mesoamerica che delle Ande. Per quanto concerne le ricerche in quest'ultima regione, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, l'Università di Yale e la National Geographic Society sponsorizzarono le famose spedizioni in Perù di H. Bingham (1875-1956), che portarono all'individuazione di Machu Picchu e di vari altri centri Inca della regione del Cuzco. Seguirono numerose altre missioni statunitensi, tra cui quelle del 1925 e del 1926 di A.L. Kroeber per conto del Field Museum of Natural History di Chicago; ad esse partecipò, come controparte locale, J.C. Tello (1880-1947), considerato a giusto titolo il fondatore dell'archeologia peruviana, sia per la scoperta di importanti siti e la sistematica opera di esplorazione del territorio nazionale, sia per la fondazione e l'organizzazione dei principali musei e istituti universitari di Lima. In effetti fu in questo periodo che nella maggior parte dei Paesi latino-americani vennero create le prime istituzioni archeologiche nazionali. Sovente anche grazie allo stimolo e all'appoggio dato da università, musei e ricercatori stranieri a studiosi locali, cominciarono a svilupparsi tradizioni nazionali di studi, che nel corso del XX secolo hanno portato ad una più ampia, coerente e approfondita conoscenza delle differenti realtà regionali. In Messico vanno ricordate le importanti figure di L. Batres (1852-1926), che nel 1905 realizzò i primi scavi a Teotihuacan ed esplorò numerosi siti del Veracruz e dell'Oaxaca, di M. Gamio, che condusse fondamentali ricerche nella Valle di Messico, di A. Caso (1896-1970), che negli anni Trenta scoprì la famosa Tomba 7 di Monte Albán e decine di altre ricche sepolture zapoteche e mixteche, di J. García Payón (1896-1977), che fu il primo ad intraprendere indagini scientifiche a El Tajín e in vari altri centri del Veracruz centrale, di J. Acosta Ruffier (1908-1975), che a partire dal 1940 diresse una serie di campagne di scavo a Tula, e di M. Covarrubias (1904-1957), pioniere degli studi sugli Olmechi. Insigni studiosi "messicani di adozione" furono il tedesco P. Kirchhoff (1900-1972), che fu fra i fondatori della Escuela Nacional de Antropología e Historia di Città di Messico ed elaborò il concetto di "Mesoamerica", e lo spagnolo P. Armillas (1914-1984), che condusse importanti ricerche sui sistemi agricoli preispanici e la nascita del fenomeno urbano nell'area. In Colombia i primi scavi scientifici nelle zone di San Agustín e di Tierradentro (Cauca) vennero effettuati nel 1937 da G. Hernández de Alba (1904-1973), che nel 1935 creò il Servicio Arqueológico Nacional e quindi nel 1941 l'Instituto Etnológico Nacional, mentre G. Reichel-Dolmatoff (1912-1994), lo studioso di origine austriaca considerato il vero fondatore degli studi antropologici e archeologici nel Paese, concentrò le sue indagini soprattutto sulla costa caraibica. In Ecuador l'era dell'archeologia nazionale venne inaugurata da J. Jijón y Caamaño (1881-1950), che compì accurate ricerche, con scavi stratigrafici e dettagliate classificazioni dei reperti, soprattutto nella province andine di Imbabura e di Chimborazo, ed elaborò la prima sintesi della preistoria del Paese. La sequenza di sviluppo delle antiche culture ecuadoriane sarebbe stata comunque stabilita solo più tardi da E. Estrada (1916-1961), che negli anni Cinquanta effettuò scavi in vari siti della costa, identificando fra l'altro la cultura Valdivia. In Perù, oltre al già menzionato Tello, fra gli iniziatori dell'archeologia locale va ricordato R. Larco Hoyle (1901-1966), fondatore del Museo Rafael Larco Herrera di Lima, il quale ricostruì con notevole precisione la sequenza culturale della costa settentrionale, definendo le culture Cupisnique e Salinar e suddividendo quella Moche in varie fasi stilistiche. Quanto all'archeologia cilena, questa ricevette nei primi decenni del secolo grande impulso dall'opera dello studioso di origine inglese R.E. Latcham (1869-1943), il quale pubblicò il primo trattato sulla preistoria dell'area e dal 1928 diresse il Museo Nacional de Historia Natural di Santiago, conducendo approfondite ricerche nella regione di Atacama. Infine, tra i padri fondatori dell'archeologia argentina vanno sicuramente annoverati J.B. Ambrosetti (1865-1917), che nel 1904 fu chiamato a dirigere il nascente Museo Etnográfico di Buenos Aires e compì ricognizioni e scavi soprattutto nel Nord-Ovest del Paese, e lo svedese E. Boman (1867-1924), autore della vasta e sistematica opera Antiquités de la région andine de la République Argentine et du désert d'Atacama (1908) e dal 1916 curatore della sezione archeologica del Museo Nacional de Historia Natural. Assai più tardi furono, invece, gli sviluppi dell'archeologia brasiliana (e dell'area delle Foreste Tropicali sudamericane in generale): per l'assenza di vestigia monumentali e di reperti tali da richiamare con immediatezza l'attenzione di studiosi stranieri e nazionali, essa stentò a lungo ad entrare in una fase pienamente scientifica. Tale fase si sarebbe inaugurata solo intorno alla metà del XX secolo con le ricerche degli statunitensi C. Evans (1920-1981) e B.J. Meggers nell'isola di Marajó, allo sbocco del Rio delle Amazzoni, e soprattutto con gli scavi sistematici dei sambaqui del litorale dello stato di São Paulo realizzati dai francesi J. Emperaire (1912-1958) e A. Laming- Emperaire (1917-1977). Quest'ultima avrebbe successivamente condotto varie campagne di scavo a Lagoa Santa e in altre parti del Paese e svolto un'importante opera di formazione di archeologi locali. Degli enormi progressi compiuti dall'archeologia americana nella prima metà del secolo è testimonianza la grande sintesi storico-culturale della preistoria del Nuovo Mondo proposta alla metà degli anni Cinquanta da G.R. Willey e Ph. Phillips. Sulla base della conoscenza ormai abbastanza definita delle differenti aree culturali e delle relative sequenze cronologiche, essi pervennero a elaborare una macrosequenza su scala continentale di cinque periodi-stadi evolutivi: Litico (o Paleoindiano, ossia la fase tardopleistocenica caratterizzata dalla caccia alla grossa selvaggina); Arcaico (caccia alla piccola selvaggina e raccolta intensiva); Formativo (sviluppo dell'agricoltura e della vita di villaggio); Classico (sviluppo di civiltà urbane); Postclassico (sviluppo di formazioni statali a carattere imperiale). A questi ultimi due stadi erano evidentemente giunte solo le civiltà di quella che lo stesso Willey denominò "America Nucleare" (ossia la Mesoamerica, le Ande Centrali e i territori intermedi), mentre la maggior parte delle culture delle restanti aree non aveva superato lo stadio del Formativo, ad eccezione delle società di cacciatori delle regioni più settentrionali e occidentali dell'America Settentrionale e dell'estremità meridionale dell'America Meridionale, con ancora, al momento del contatto con gli Europei, modi di vita propri dell'Arcaico. La validità scientifica ed euristica di tale sequenza-schema classificatorio delle culture americane, direttamente ispirato alle teorie e ai modelli evoluzionistici avanzati in quegli anni da J.H. Steward, è attestata dal fatto che esso, ad oltre quarant'anni dalla sua formulazione, mantiene piena attualità nel campo degli studi di archeologia del Nuovo Mondo. Ad esempio, Prehistory of the Americas (1992²) di S.J. Fiedel, uno dei più aggiornati e diffusi trattati sull'argomento, segue il medesimo schema evolutivo.
Nonostante l'orientamento generale decisamente storicista, già nella prima metà del secolo alcuni archeologi statunitensi avevano cominciato ad avvalersi nelle loro ricerche delle cosiddette "scienze esatte". Uno dei primi a sentire questa esigenza era stato Kidder, che nello scavo di complessi funerari a Pecos Pueblo era ricorso alla collaborazione in situ di un antropologo fisico e successivamente, come direttore della Division of Historical Research della Carnegie Institution, aveva promosso un ambizioso progetto interdisciplinare di studio della cultura Maya, al quale erano stati chiamati a partecipare genetisti, geologi e scienziati di varie altre discipline. Il maggiore contributo all'archeologia dalle scienze esatte, che rese possibile un decisivo balzo in avanti nella conoscenza della preistoria del continente americano (e del mondo intero), venne comunque da un chimico dell'Università di Chicago, W.F. Libby (1908-1980), il quale fra il 1948 e il 1949 mise a punto una rivoluzionaria tecnica di datazione assoluta: quella con il carbonio-14, applicabile alla maggior parte dei reperti di origine organica. Le datazioni con tale tecnica permisero nel corso degli anni Cinquanta di correggere (talora in modo anche sostanziale) e di rendere precisi i quadri cronologici regionali fino ad allora elaborati sulla base della stratigrafia e della seriazione. In genere, si scoprì che le varie sequenze culturali avevano un'estensione temporale maggiore di quanto si pensasse. In America Settentrionale venne finalmente provato che il continente era abitato da almeno 10.000 anni e si cominciò ad avere una visione più chiara e dettagliata dell'Arcaico (genericamente collocabile fra l'VIII-VII millennio e il II-I millennio a.C., ma con forti variazioni temporali da una regione all'altra). Nel Gran Bacino, in particolare, grazie alle datazioni dei vari livelli stratigrafici scavati nella Danger Cave (Utah), J.D. Jennings (1909-1997) fu in grado di ricostruire una sequenza di ben 10.000 anni, riconducibile ad un'unica grande tradizione culturale nomadica di lunghissima durata, da lui denominata "del Deserto". Da parte sua, J.B. Griffin (1905-1997) ridefinì la cronologia degli Stati Uniti orientali. In Mesoamerica venne definitivamente accertato che la civiltà olmeca aveva preceduto di molti secoli quella Maya, delineandosi così con chiarezza il ruolo di primaria rilevanza da questa svolto nel processo di formazione-sviluppo delle civiltà dell'area. Nelle Ande venne confermata la grande antichità della cultura Chavín, a suo tempo avanzata su basi stilistiche da Tello, così come ‒ grazie alle ricerche condotte a Huaca Prieta da J.B. Bird (1917-1982) ‒ l'esistenza di importanti tradizioni aceramiche precedenti. Dai laboratori di analisi fisico-chimica cominciarono inoltre a venire importanti informazioni sulla composizione dei manufatti in ceramica, in pietra e in metallo, che hanno permesso, soprattutto in anni più recenti, di individuare con assoluta precisione i luoghi di approvvigionamento delle materie prime e quelli di produzione, le reti di interscambio e le macro- e microaree di interazione socio-economica. Del resto, già verso la fine degli anni Quaranta era divenuto chiaro che se si voleva comprendere l'esatta natura e la funzione di un sito, questo non poteva essere oggetto di ricerche isolate, bensì doveva necessariamente essere studiato in relazione agli altri insediamenti del territorio e all'ambiente. In tal senso, determinante fu l'influenza di J.H. Steward, figura di spicco dell'antropologia statunitense, di orientamento neoevoluzionista (multilineare), curatore del fondamentale Handbook of South American Indians (I-VI, 1946-50) e autore di una serie di innovativi saggi, raccolti nel libro Theory of Culture Change (1955). Con la sua visione "ecologica" della cultura, Steward richiamò fortemente l'attenzione degli studiosi sull'importanza dei processi di adattamento all'ambiente nella formazione e nell'evoluzione dei sistemi socio-culturali. Attivamente impegnato, soprattutto agli inizi della carriera, anche nella ricerca archeologica, già nel 1937 Steward aveva pubblicato un articolo in cui, combinando dati archeologici e informazioni etnografiche sui tipi di insediamento, mostrava la decisa articolazione fra organizzazione sociale e ambiente nel Sud-Ovest americano, e l'anno seguente un saggio (scritto con F.M. Setzler), Function and Configuration in Archaeology, in cui invitava gli archeologi a superare un approccio puramente storico-antiquario per cercare assieme agli etnologi di comprendere, attraverso lo studio delle attività economiche, dell'habitat, dei modelli di insediamento e della densità di popolazione, i processi di mutamento culturale. Fu lo stesso Steward ad incoraggiare G.R. Willey ad occuparsi dell'analisi dei modelli di insediamento nell'ambito del Virú Valley Project, un progetto interdisciplinare promosso dall'Institute of Andean Research di New York, che nel 1946 concentrò in una piccola valle costiera del Perù settentrionale alcuni fra i maggiori archeologi statunitensi del tempo (Bird, Bennett, Collier, Evans, Ford, Strong). Come risultato, nel 1953 Willey pubblicava Prehistoric Settlement Patterns in the Virú Valley, Perú, in cui, in una prospettiva funzionalista, veniva mostrato come i modelli di insediamento rispecchiassero, oltre al rapporto fra gruppi umani, tecnologia e ambiente, le stesse istituzioni sociali e i loro processi evolutivi. Altri studiosi particolarmente interessati al rapporto cultura-ambiente furono in quegli anni W.R. Wedel, specialista dell'area delle Grandi Pianure, E.W. Haury (1904-1992), che nello studio di Ventana Cave, un sito stratificato dell'Arizona sudoccidentale con un'antichità di occupazione di oltre 11.000 anni, coinvolse geologi, botanici e zoologi in un intento di ricostruzione integrale del paleoambiente, e J.R. Caldwell (1916- 1973), che in Trend and Tradition in the Prehistory of the Eastern United States (1958) pose in relazione la scomparsa della grande selvaggina alla fine dell'ultima glaciazione con lo sviluppo di nuove strategie adattative e l'inizio del processo di sedentarizzazione nelle Foreste Orientali. L'"ecologia culturale", come lo stesso Steward definì il suo approccio antropologico, ebbe fra l'altro il merito di richiamare l'attenzione degli archeologi su una serie di materiali non-manufatti fino ad allora piuttosto trascurati ‒ ossa di animali, polline, semi carbonizzati e resti vegetali vari ‒ in grado di offrire un'importante messe qualitativa e quantitativa di informazioni sulle pratiche di sussistenza e sull'evoluzione dei sistemi economici. Nel corso degli anni Sessanta R.S. MacNeish realizzò nello stato di Puebla (Messico) una grande ricerca interdisciplinare, il Tehuacan Archaeological Botanical Project, al quale parteciparono specialisti delle più diverse branche delle scienze naturali: come risultato, grazie anche alle datazioni con il radiocarbonio, venne ricostruita, in una prospettiva già processuale, una sequenza ininterrotta di circa 12.000 anni e soprattutto furono individuate le differenti strategie di sussistenza messe in atto nei diversi periodi, con un progressivo quanto lento passaggio da un'economia di semplice cacciaraccolta ad una prevalentemente agricola. In particolare, MacNeish si interessò all'origine delle pratiche agricole e alla domesticazione del mais, che egli stabilì dovesse essere avvenuta nella fase da lui denominata Coxcatlan e all'epoca datata al 5200-3400 a.C. Il neoevoluzionismo ecologico di Steward e di un altro eminente antropologo suo contemporaneo, L.A. White, con la sua enfasi sia sugli aspetti materiali e funzionali della cultura, sia sui suoi processi di mutamento, congiuntamente con il crescente ricorso all'ausilio delle scienze statistiche, fisiche, chimiche, biologiche e sperimentali in genere, portò allo sviluppo di quell'indirizzo di studi conosciuto come New Archaeology o "archeologia processuale", che, affermatosi negli anni Sessanta, avrebbe marcato il corso dell'archeologia americana nei due decenni successivi. Suo principale rappresentante e teorizzatore è stato L. Binford, allievo di White all'Università di Chicago, il quale si propose di elevare definitivamente l'archeologia al rango di vera "scienza della cultura". La New Archaeology, con la sua visione ecosistemica delle culture e dei loro processi di mutamento, indusse gli archeologi ad ampliare notevolmente la loro sfera d'analisi: le ricerche incentrate unicamente sulle strutture maggiori (templi, necropoli) di singoli centri tesero così a cedere il passo all'analisi funzionale e dinamica, tanto dell'organizzazione globale interna di ogni complesso insediativo quanto dell'insieme dei siti dell'area oggetto di studio, con particolare attenzione alle unità abitative, ai luoghi di produzione, di immagazzinamento, di consumo e di scambio, ai rifugi stagionali, alle fattorie, alle piccole comunità rurali. Per quanto concerne l'analisi funzionale dei modelli di residenza, pionieristici studi vennero condotti verso la metà degli anni Sessanta in siti Pueblo del Sud-Ovest da W.A. Longacre e J.N. Hill, i quali cercarono di verificare archeologicamente, in base all'analisi statistica della distribuzione dei diversi tipi e stili ceramici, di altri manufatti e dei pollini presenti nelle differenti unità architettoniche di singoli insediamenti, l'esistenza in tempi preistorici di forme di organizzazione sociale, di divisione sessuale del lavoro e persino di regole di discendenza e di residenza analoghe a quelle registrate tra le moderne comunità Zuñi e Hopi dell'area. Nello stesso periodo, K.V. Flannery, uno dei maggiori esponenti di questa nuova archeologia processuale, si preoccupava di approfondire in termini dinamici l'analisi del rapporto fra strutture e modelli abitativi e sistemi socio-economici. Dopo aver lavorato a Tehuacán con MacNeish, Flannery condusse approfondite ricerche nella valle di Oaxaca, pervenendo, attraverso un'ampia ricognizione regionale, lo scavo di alcuni siti-tipo dell'epoca formativa (come San José Mogote) e l'analogia etnografica, a delucidare fondamentali aspetti relativi alle origini dell'agricoltura, all'evoluzione della vita sedentaria e alla formazione delle società complesse in Mesoamerica. Negli stessi anni un altro importante progetto veniva avviato nella Valle di Messico da W.T. Sanders, che, in collaborazione con J.R. Parson e R.S. Santley, effettuò la più vasta prospezione fino ad allora mai realizzata nelle Americhe: essa rivelò la grande variabilità dei modelli locali di sviluppo in ciascun periodo e la necessità di un loro studio sistemico. Così, ad esempio, risultò che la forte crescita demografica e urbana di Teotihuacan agli inizi dell'era volgare aveva avuto il suo contrappeso nel contemporaneo calo della popolazione nelle altre aree della Valle di Messico. In questa linea di ricerca, prendendo in esame su scala regionale i fattori ambientali, i processi produttivi e di evoluzione socio-politica e gli eventi storici, Sanders e i suoi collaboratori riuscirono a ricostruire la storia della regione, dal sorgere delle comunità agricole allo sviluppo dei centri cerimoniali, alla crescita e del primo grande centro urbano (Teotihuacan) e quindi al suo repentino declino, sino alla formazione dell'impero azteco. A loro volta, R.E. Blanton, S.A. Kowalewski, G.M. Feinman e L.M. Finsten, in uno studio sull'evoluzione culturale dell'antica Mesoamerica, hanno ulteriormente ampliato la sfera d'analisi, giungendo a sostenere che gli stessi processi evolutivi dell'intera Valle di Messico non possono essere pienamente compresi se non in relazione a quelli delle altre regioni della macroarea mesoamericana, data la forte interazione, di natura non solo economica, ma anche politica e cerimoniale, esistita fra le diverse élites locali sin dal Formativo. Nelle Ande studi sulle origini delle società complesse sono stati compiuti negli anni Settanta sia da M.E. Moseley, che pervenne a formulare la sua controversa tesi su The Maritime Foundations of Andean Civilizations (1975), sia da R.S MacNeish, Th.C. Patterson e D.L. Brown, che analizzarono il livello e le forme di interazione esistiti nelle e fra le differenti regioni del Perù centrale nei vari periodi preistorici: in particolare essi hanno posto in evidenza non solo le strette relazioni intercorse fra la costa, le valli montane e gli altopiani nelle più antiche fasi, ma soprattutto come il processo civilizzatore fosse stato decisamente favorito dall'interazione tra i diversi sistemi di sussistenza e di scambio affermatisi in un certo momento all'interno di ciascuna regione. T.N. D'Altroy, T.K. Earle, C.A. Hastorf e gli altri studiosi associati nell'Upper Mantaro Archaeological Research Project (1977-86) hanno invece cercato di comprendere le modalità di formazione delle società stratificate, la dinamica evolutiva dei domini (chiefdoms) e la natura degli antichi imperi, concentrando la loro attenzione sul processo storico di un singolo gruppo etnico della sierra centrale peruviana, quello dei Huanca: l'analisi dei modelli di insediamento e dei materiali associati alle differenti strutture, i dati paleobotanici e paleonutrizionali ottenuti mediante avanzati metodi di analisi di laboratorio, nonché le informazioni delle fonti storiche hanno permesso loro di cogliere sia gli sviluppi endogeni dell'organizzazione sociale e politica dei chiefdoms Huanca, fortemente condizionati dall'ambiente e dal modo di produzione agricolo, sia le forme di dominio esercitate sulla periferia da uno stato preindustriale ed espansionista quale fu quello Inca. Negli ultimi decenni del XX secolo gli studi di archeologia processuale si sono fatti dunque via via più articolati, cominciandosi a prendere in considerazione, come elementi importanti dei processi evolutivi, anche fatti di ordine non immediatamente ecologico ed economico, quali la lotta per il potere, le forme di competizione e di differenziazione sociale, le pratiche rituali, nonché i rapporti intersocietari. Per altro verso, un crescente numero di archeologi americani ha finito per rigettare del tutto o in parte l'approccio ecologico, economicista, neoevoluzionista e comparativista della New Archaeology, abbandonando la ricerca dei fattori e delle costanti dello sviluppo socio-culturale, per tornare a interessarsi precipuamente dei fatti particolari e contingenti di ciascuna cultura e della sua storia. Nell'ambito di questa archeologia "postprocessuale", attenta allo specifico contesto e all'originale significato dei fatti rivelati archeologicamente, è stata rivalutata una serie di aspetti non materialistici, o meglio "mentali", della cultura quali le espressioni simboliche, le costruzioni intellettuali, le rappresentazioni collettive e le concezioni ideologiche, come motori dello stesso sviluppo culturale. Ne sono testimonianza i numerosi, quanto eterogenei, contributi degli anni Ottanta e Novanta sulle manifestazioni artistiche, sulle credenze religiose, sulle conoscenze astronomiche e sulle cosmologie, come quelli di D.A. Freidel sul particolare ruolo giocato dalla diffusione di determinate concezioni religiose e morali ‒ desunte dall'iconografia, dall'architettura e dalle fonti storiche ‒ nella formazione della civiltà Maya delle basseterre. L'attenzione per i fatti religiosi e il loro contesto sociale ha inoltre portato ad una decisa intensificazione delle ricerche e degli studi sulle necropoli, sui grandi complessi tombali e sulle pratiche funerarie: per la regione andina lo attestano sia i sensazionali ritrovamenti nel Perù settentrionale delle fastose tombe dei signori di Sipán, di Sicán e di Kuntur Wasi, scavate rispettivamente da W. Alva, I. Shimada e Y. Onuki, sia la pubblicazione di una serie di opere che per la prima volta affrontano tali tematiche in modo specifico e globale, come Tombs for the Living: Andean Mortuary Practices (1995) a cura di T.D. Dillehay e Mummies and Mortuary Monuments: a Postprocessual Prehistory of Central Andean Social Organization (1997) di W.H. Isbell. Il rinnovato interesse per la storia culturale ha inoltre favorito, soprattutto fra gli studiosi nordamericani, l'incremento delle ricerche sui gruppi di cacciatori-raccoglitori, che hanno caratterizzato gran parte della preistoria del continente, e ha riportato in auge differenti problematiche di carattere diffusionistico. Ad esempio, negli ultimi anni sono stati oggetto di sempre più approfondite analisi i rapporti esistiti fra le società del Sud-Ovest (e in particolare quelle del Chaco Canyon, rivelatesi assai più complesse di quanto si pensasse) e le alte culture del Messico, uno specifico campo di studi di cui è stato pioniere C.C. Di Peso (1920-1982), con i suoi fondamentali lavori di "archeostoria" su Casas Grandes. Per altro verso sono pure ritornate sul tappeto annose questioni come l'origine della ceramica: la scoperta da parte di A.C. Roosevelt a Taperinha (Santarem), nel basso Rio delle Amazzoni, di vasellame datato a 7000 anni fa non solo dischiude nuove prospettive sugli inizi e sulla diffusione della tecnologia fittile, ma sembrerebbe confermare le teorie di D.W. Lathrap (1927- 1990) sull'assoluta priorità dello sviluppo di società complesse in Amazzonia rispetto alle altre regioni del Nuovo Mondo. Ma il dibattito più acceso è stato sicuramente quello sui tempi e sulle modalità del popolamento del continente. Al riguardo, la comunità scientifica appare nettamente divisa fra coloro, la maggioranza, che sono convinti che esso non debba risalire a più di 12.000 anni fa (cultura Clovis) e coloro che, come A.L. Bryan, R.S. MacNeish e T.D. Dillehay, propendono per una maggiore antichità. I primi adducono come prova decisiva il fatto che sinora in tutto il Nuovo Mondo non si sono incontrati resti umani, neppure un dente, datati oltre la barriera del 10.000 a.C.; i secondi fondano le loro conclusioni soprattutto su alcuni siti dell'America Meridionale, come Quereo-Los Vilos, Tagua- Tagua e Monte Verde in Cile e Los Toldos in Argentina, che l'associazione a fauna pleistocenica, la stratigrafia e/o le analisi fisico- chimiche collocano fra il 13.000 e l'11.500 dal presente. Il lungo periodo di tempo che i primi gruppi di cacciatori-raccoglitori passati per la Beringia dovettero necessariamente impiegare per raggiungere le Ande Meridionali e la Patagonia imporrebbe infatti di retrodatare il loro arrivo in America Settentrionale di svariate migliaia di anni. Inoltre, vi è una serie di giacimenti in differenti regioni del continente per i quali è stata proposta una ben più alta antichità. Uno dei meglio documentati è quello di Pedra Furada (Brasile), in cui secondo i suoi scavatori, N. Guidon e F. Parenti, vi sarebbero evidenze di attività antropica risalenti addirittura a 50.000 anni fa. Ma si tratta di rinvenimenti che evidentemente necessitano di ulteriori verifiche prima di poter essere accettati. L'archeologia americana, alla fine del XX secolo, ha continuato dunque a porsi alcuni degli interrogativi che furono propri dei suoi albori e che accompagnarono e stimolarono i suoi primi sviluppi scientifici. Ciò nondimeno essa può vantare enormi conquiste nella conoscenza della preistoria del Nuovo Mondo: sono state individuate tutte le principali culture e sono state definite le differenti aree culturali con le relative cronologie, si è pervenuti a stabilire una sequenza evolutiva di massima su scala continentale e si comincia ad avere una visione meno vaga del Paleoindiano e dei processi di sviluppo delle varie civiltà e dei loro rapporti reciproci. Al tempo stesso, ogni nuova scoperta e ogni avanzamento hanno invariabilmente posto più quesiti e suscitato più problematiche di quanti non ne abbiano risolti, così che di fatto la nostra attuale conoscenza del passato americano risulta per molti versi più lacunosa e limitata che mai; ma è lo scotto che si paga per qualsiasi progresso scientifico. Ad ogni modo, l'affermarsi di un ampio eclettismo negli studi, fondato sul riconoscimento della validità tanto delle istanze e dei metodi dell'approccio storico-culturale che di quelli dell'approccio processuale, visti ormai più come complementari che contrapposti (congiuntamente all'universale sviluppo di sempre più raffinate tecniche scientifiche d'indagine sui materiali e sofisticati metodi di registrazione e di elaborazione dei dati), induce a ritenere che nel prossimo futuro verranno compiuti ulteriori decisivi progressi nella ricostruzione della storia degli antichi abitanti delle Americhe e nella comprensione delle innumerevoli e diversificate forme di cultura e di civiltà alle quali essi diedero vita, in totale isolamento dal resto del mondo.
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