L'archeologia delle pratiche cultuali. Mondo etrusco-italico
Il contributo che l'archeologia può offrire alla conoscenza delle pratiche cultuali e funerarie etrusco-italiche è sicuramente ampio. Si sposa infatti con tendenze della ricerca che, fin dai suoi albori, hanno accompagnato la nascita dello studio delle antichità etrusche e italiche. Le necropoli e i luoghi di culto sono sicuramente i due aspetti più noti dell'Italia preromana, mentre, sino ad anni recenti, sono rimaste in ombra piuttosto le aree di abitato e le strutture produttive. La quasi certezza della possibilità di rinvenire reperti di pregio sotto il profilo artistico e di notevole valore economico ‒ nei casi in cui questi entravano legalmente o illegalmente, a seconda dei tempi e dei luoghi, nel mercato di antichità ‒ in tombe e aree sacre ha spinto antiquari, scavatori e archeologi a concentrare i propri interessi su di esse. Non è quindi la documentazione che difetta. Il problema è che, assai spesso, tale documentazione è stata riportata alla luce con tecniche d'indagine più attente al recupero dell'oggetto in sé che al contesto funerario o sacrale in cui esso si trovava e magari ne era parte integrante. D'altro canto, un giudizio equilibrato su quelle ricerche pionieristiche deve prendere in considerazione il notevole sviluppo avuto dalle tecniche d'indagine a partire dai decenni finali dell'Ottocento. Un altro problema è costituito dal fatto che gli oggetti recuperati sono stati analizzati sotto il profilo dell'interesse antiquario o avendo come lente di lettura l'approccio storico-artistico. Sono mancati, sino a pochi decenni fa, approcci diversi legati alla storia delle religioni, all'antropologia e alla sociologia. Una necropoli, se correttamente scavata, può offrire informazioni preziose per quel che concerne l'articolazione sociale di una comunità, le sue relazioni culturali e commerciali, gli stadi del suo sviluppo. La selezione degli oggetti entrati nel singolo corredo funerario e le loro caratteristiche consentono di avvicinarsi all'immaginario sociale di quella comunità meglio di altri tipi di documentazione che possiamo avere la possibilità di analizzare, come ad esempio i materiali da abitato, quasi sempre meno utili in tal senso. Negli ultimi decenni, proprio questo tipo di approccio ha avuto un notevole incremento e si è indirizzato sull'analisi della documentazione pittorica tarquiniese, o su singoli reperti di eccezionale valore, come, ad esempio, il trono ligneo scolpito rinvenuto in una tomba di Verrucchio. Ci si è mossi, in genere, secondo il metodo di lettura iconologico elaborato dalla scuola di A. Warburg per l'arte medievale e rinascimentale e applicato per l'analisi del mondo classico dalla scuola francese di "psicologia della storia" (D'Agostino - Cerchiai 1999). Un'attenzione più ampia ha avuto un approccio di tipo storico e sociale teso a legare le conoscenze da abitato con i risultati del riesame di vecchi corredi, o dall'analisi dei dati di nuovi scavi in aree di necropoli per arrivare a determinare il grado di complessità sociale dell'Italia preromana tra Bronzo Finale ed età del Ferro. Un esempio è offerto dall'aver posto in connessione la tendenza "egualitaria" riscontrata nei corredi delle necropoli delle fasi iniziali, protovillanoviane e villanoviane, dei centri protourbani e la nascita degli stessi (Guidi 2000). Le aree sacre non hanno avuto meno interesse e si è prestata attenzione, da un lato, agli ex voto, come testimonianza di una religiosità diffusa che ha coinvolto strati alti e bassi della popolazione (con una preferenza data alla terracotta da parte di questi ultimi e al bronzo dai primi), dall'altro alla decorazione architettonica dei templi e, in particolare, di alcuni frontoni dove alcuni hanno voluto vedere programmi politici della comunità e altri li hanno negati. Esemplare, in proposito, è il tempio del Belvedere di Orvieto, dove F.-H. Pairault Massa (1985) ha riconosciuto intenti propagandistici finalizzati ad una politica antiromana secondo l'identità Greci - Etruschi e Troiani - Romani, mentre M. Cristofani (1985) vi ha visto l'evocazione di un mito connesso con una pratica mantica in unione con uno dei culti che si svolgevano negli spazi retrostanti del santuario. Di quel dibattito, al di là del merito della questione, resta l'insegnamento che "non è impresa facile ricostruire attraverso le sole evidenze figurative i valori simbolici che doveva proporsi l'immaginario collettivo nell'antichità... [allo stesso tempo] strutture mentali così profonde possono recuperarsi anche quando il significato dell'immagine superficiale, per mancanza d'informazioni, ci sfugge inesorabilmente. L'espressione figurata traduce infatti in termini apparentemente comprensibili determinati contenuti, i cui riferimenti concettuali possono misurarsi con le norme di comportamento e l'etica fissate dalla società cui essi appartengono solo se si tiene conto della sfera d'uso dei monumenti e degli oggetti provvisti di rappresentazioni" (Cristofani 1985). Sempre a Cristofani si deve l'attenzione per il rapporto fra produzione e consumo, quella dinamica sottesa ad ogni produzione artistica e/o artigianale di ambito sia sacro che funerario. Un altro concetto elaborato nel Novecento ‒ l'acculturazione ‒ è stato preso in esame nell'interpretare i fenomeni religiosi e funerari dell'Italia preromana: la progressiva ellenizzazione della cultura etrusca è stata letta, dagli studiosi più attenti, come un "atto di appropriazione attiva che implica una complessiva presa in carico e una ridefinizione autonoma dell'universo di esperienze, di modelli e di saperi" (D'Agostino - Cerchiai 1999). A tale riguardo è particolarmente esemplificativa una scena centrale nell'iconografia etrusca, quella del simposio e del komos, che rivela un'adesione notevole ai modelli culturali greci, ma, al contempo, se ne distacca operando una sovrapposizione tra la sfera del simposio e quella funeraria estranea al mondo greco, o, almeno, non comune in esso e inserendo, fra le protagoniste femminili del banchetto, donne libere, spose e dominae in luogo delle etere. Il confronto tra la tradizione letteraria antica e l'evidenza archeologica non è certo nuovo, ma la sua recuperata centralità nel dibattito scientifico nasce dalla riflessione critica portata avanti negli ultimi decenni su entrambi i tipi di documentazione. Occorre integrare i dati che scaturiscono dai due generi di evidenze per tentare di arrivare a comprendere fenomeni complessi e di difficile decifrazione quali culti e riti, che investono la sfera sovrastrutturale. Va, inoltre, tenuta presente la pressoché totale scomparsa della letteratura religiosa etrusca, di cui preziosi frustuli sono il liber linteus di Zagabria e la "tegola" di Capua, e, in generale, italica, per cui essa ci è nota soprattutto attraverso le informazioni tramandate da autori greci e latini, che costituiscono una testimonianza preziosa, ma non di prima mano e, con ogni verosimiglianza, non esente da condizionamenti e fraintendimenti. Per questi motivi, in area etrusca e italica, il confronto tra i testi traditi e le evidenze archeologiche, fonti meno raffinate ma dirette, risulta importante e, dovunque possibile, necessario. Né, comunque, anche in questo caso, si potrà fare a meno della documentazione letteraria ed epigrafica di fronte alla consapevolezza della "casualità" dei rinvenimenti archeologici dovuta alla storia delle ricerche, ma anche alle vicende stesse di una determinata regione o di una singola località, che possono avere contribuito alla conservazione della documentazione, o, viceversa, alla sua cancellazione. Resta da sottolineare la centralità della religione nelle società della tarda protostoria e del periodo arcaico, che costituisce un aspetto strutturale di esse e si presenta come una componente decisiva nella loro formazione e nell'elaborazione di una cultura propria. Al punto che la stessa distinzione fra sfera religiosa e politica è difficoltosa e fuorviante. Un ultimo aspetto preliminare da evidenziare è il modo di lettura della documentazione iconografica di carattere funerario, ovvero se essa possa essere letta o meno come una testimonianza diretta di culti e riti. Anche in questo il patrimonio della pittura tarquiniese è stato campo privilegiato di approcci metodologici diversi. Vi è stato chi ha sostenuto che le raffigurazioni tombali debbano rinviare direttamente al cerimoniale funebre ed ha confrontato le iconografie presenti in esse con il rituale funerario romano, a noi meglio noto (Torelli 1997), e chi, invece, non lo ha ritenuto corretto in quanto la correlazione diretta non riesce a "dare conto della complessità delle rappresentazioni figurate" e del loro valore simbolico, che si può leggere con difficoltà in una prospettiva di tipo realistico (D'Agostino - Cerchiai 1999). I sostenitori della seconda ipotesi sono arrivati a negare l'equazione immediata tomba - casa del morto - luogo di esposizione del cadavere osservando che la pittura tombale tarquiniese è "capace, per esempio, d'integrare all'interno della cornice architettonica, senza avvertirne la contraddizione, scene ambientate all'aria aperta" (D'Agostino - Cerchiai 1999). In via preliminare va definito ciò che gli Etruschi consideravano uno spazio sacro. Nella loro concezione i santuari erano "prima di tutto un lotto di terreno, che la comunità assegna al dio perché vi abiti" (Colonna 1985). Lo spazio è delimitato da confini ben visibili, costituiti di norma da un muro, innalzato facendo ricorso alla stessa tecnica edilizia del tempio, se questo esisteva (mattoni crudi, pietre a secco, opera poligonale, opera quadrata, opera cementizia). È molto probabile, comunque, che, in diversi casi, lo spazio sacro fosse segnato anche o soltanto da cippi. Un caso del genere, per l'area italica, appare attestato dal cippo Abellano, che reca incisa un'iscrizione in lingua osca attestante la proprietà di un santuario di Ercole e una doppia delimitazione. Un cippo consacrato a Selvans, il dio dei confini, proviene invece da Bolsena, dalle immediate vicinanze del tempio del Pozzarello. All'interno del recinto poteva trovarsi un tempio (o più di uno) con i suoi annessi, o semplicemente un altare, che poteva arrivare a identificarsi con un podio come, ad esempio, a Marzabotto (podi B e D). Tali podi erano realtà cultuali autosufficienti comprensive di altare, simulacro, pozzi, donari, ecc. G. Colonna ha osservato che in tale struttura sacra essenziale, costituita solamente da recinto e podio, è da riconoscere il sacellum, ovvero i loca dis sacrata sine tecto (Fest., p. 318 Lindsay) o il locus parvus, deo sacratus cum ara (Gell., VII, 12, 5). Si tratta del nucleo base di ogni santuario, la cui vetustà era ben chiara agli antichi: Varrone la faceva risalire a Foroneo e la datava ben prima della costruzione dei templi più antichi. Sempre G. Colonna ha notato che conosciamo in Etruria, in ambito funerario, un corrispettivo formale dei sacella del tipo a podio decorato, rappresentato dalle terrazze superiori delle tombe a dado nella zona delle necropoli rupestri. Tali terrazze erano accessibili e il culto che vi si praticava era indirizzato ai defunti simbolizzati da cippi aniconici; esse presentavano spesso un aspetto monumentale e una decorazione architettonica e scultorea non inferiore a quella dei podi dei santuari. Il punto focale di tutti i santuari, pure assai vari per concezione e dimensioni, era l'altare, il cuore dell'azione religiosa. Presso di esso si svolgeva infatti il sacrificio, un aspetto di particolare rilievo nella religiosità etrusca e delle popolazioni dell'Italia preromana. La varietà degli altari era ampia e dipendeva in gran parte dal rituale. Una distinzione di base consente di distinguere gli altari da fuoco, sui quali la vittima era bruciata, da altri sui quali la vittima era sgozzata; il sangue di essa veniva convogliato, mediante un canale ricavato all'interno dell'altare, in una cavità sottostante, o comunque nella terra. Gli altari del fuoco erano consacrati agli dei celesti, mentre gli altri a quelli ctoni. I primi erano in genere di forma quadrangolare ed erano modanati così da assumere un aspetto "a clessidra": la loro ideazione è attribuita all'area laziale, secondo una felice intuizione di F. Castagnoli (1959-60). I secondi, invece, presentavano forma circolare a sviluppo cilindrico o troncoconico ed erano decorati in maniera essenziale. Conosciamo anche altari monumentali, ma sulla base della nostra documentazione dovevano essere rari: esempi ne sono i due arcaici inglobati nel podio del tempio dell'Ara della Regina a Tarquinia e quello presente a Pieve a Socana. Una categoria a sé, riservata al culto privato, era quella dei piccoli altari per libagioni o offerte non cruente, sia mobili che fissi, posti presso o all'interno delle tombe. Nell'area falisca e latina la funzione di questi altarini era assolta da arule di terracotta, denominate forse acerrae. La presenza della divinità all'interno di un santuario era assicurata inizialmente da un simbolo aniconico: una pietra, un palo, un'arma, ecc. Successivamente, a partire dalla prima metà del VI sec. a.C., la divinità iniziò ad essere rappresentata da una statua, in coincidenza con l'affermazione della tendenza a rendere gli dei in forme antropomorfe che si verificò nella fase finale dell'Orientalizzante e durante l'età arcaica, contestualmente all'introduzione massiccia della mitologia greca e dei teonimi greci. Limitandoci all'area etrusca, dove il fenomeno è più evidente, si possono ricordare la statuetta femminile di gesso alabastrino dalla tomba di Iside di Vulci, che appartiene comunque con ogni probabilità alla sfera del culto domestico, e la cosiddetta Venere di Cannicella, una statua di dea nuda realizzata in marmo di Nasso, da identificare ‒ come ha dimostrato M. Cristofani (1987) ‒ con una divinità connessa con la fertilità. L'opera venne eseguita in area greco-orientale verso il 540-530 a.C. e costituisce la prima statua di culto pienamente riconoscibile in Etruria. Era collocata all'interno di un sacello presente nell'area sacra di Cannicella, che ‒ non si dimentichi ‒ era compresa all'interno di una necropoli, posta alle pendici della rupe orvietana. Di poco più tarda è l'immagine di una dea, sempre stante, raffigurata su una lastra dipinta da Caere. Altre statue sono registrate nelle fonti letterarie: Tito Livio ricorda la statua, forse di legno, di Giunone Regina da Veio, che avrebbe avallato miracolosamente la sua evocatio a Roma nel 396 a.C. (V, 22, 3-7), mentre Plinio il Vecchio cita il simulacro di Giove presente in un tempio di Populonia e scolpito curiosamente in un tronco di vite (Nat. hist., XIV, 1). Il tempio, nel mondo etrusco e italico, era considerato la casa della divinità (o delle divinità) che vi si venerava e l'accesso ad esso era di norma consentito soltanto ai sacerdoti. I santuari offrivano comunque ricoveri e "servizi" ai fedeli: portici, tettoie, pozzi e cisterne, che potevano essere in connessione diretta con il culto. Il celebre santuario di Pyrgi, riportato alla luce a partire dal 1957 dagli scavi promossi da M. Pallottino, accoglie 20 celle riservate, con ogni probabilità, alle prostitute sacre (forse le scorta Pyrgensia del poeta Lucilio, citate da Servio), che attestano verosimilmente la pratica nel luogo di un non comune culto di Astarte, che può trovare un confronto con un noto santuario di Erice situato nella parte della Sicilia posta sotto il controllo cartaginese. Testimonianza materiale della religiosità dei fedeli è offerta dagli ex voto; veniva donato di tutto, ma le preferenze andavano alle immagini delle divinità venerate, talora sostituite da un simbolo di esse, e a quelle dello stesso devoto. Molto frequenti, soprattutto nei culti salutari, erano parti e organi del corpo (presumibilmente quelle malate e di cui si chiedeva la guarigione). Altrettanto diffuse erano le riproduzioni di animali destinati al sacrificio. Si donavano anche prodotti della terra e porzioni di cibo, ma essi sono documentabili con grande difficoltà su base archeologica. Gli ex voto erano realizzati in diverse materie, ma quelle largamente più attestate sono il bronzo, di cui si apprezzava la capacità di durare a lungo, e la terracotta, di costo minore. Tuttavia al riguardo vanno presi in considerazione anche aspetti di carattere sociale e di differenziazione culturale, altrimenti non si spiega come nell'Etruria centrale e settentrionale interna (Orvieto, Chiusi, Volterra, Bologna) si preferisse il bronzo, mentre altrove prevalesse la terracotta, che poi conquistò tutta la penisola con la romanizzazione. Ognuna delle due aree aveva un ampio raggio d'influenza: l'area del bronzo arrivò a comprendere gli Umbri, i Veneti e i popoli dell'Adriatico e dell'Appennino, mentre quella della terracotta coinvolse Latini, Campani e Ausoni. Una tendenza, in voga soprattutto nei secoli iniziali del I millennio a.C., propendeva per la miniaturizzazione degli oggetti offerti, dovuta al valore simbolico che si attribuiva al dono, che diveniva una sostituzione del reale. Ciò è evidente nella riproduzione dei cibi, vista come magica continuazione del sacrificio. Le stesse statuette antropomorfe, molto diffuse, sono state interpretate come sostituti di sacrifici umani, attestati, su base letteraria, almeno per l'Etruria e per Roma. Da Erodoto (I, 165-167) sappiamo che prigionieri focesi vennero uccisi ritualmente a Caere dopo la battaglia di Alalia (540 a.C.). Tito Livio riferisce di prigionieri romani immolati nel foro di Tarquinia nel corso della guerra romano-tarquiniese del 358-351 a.C. e delle successive rappresaglie romane (VII, 12- 22). Un sacrificio umano è ora documentato, per quello che concerne l'Etruria, anche su base archeologica. Nel cuore del complesso monumentale a carattere sacro-istituzionale rinvenuto a Tarquinia, a 300 m circa dalla Porta Romanelli, in una cavità naturale, gli scavi dell'Università degli Studi di Milano, diretti da M. Bonghi Jovino, hanno portato alla luce lo scheletro di un uomo sepolto durante l'VIII sec. a.C. Il suo corredo funerario, estremamente esiguo, era costituito soltanto da un vaso euboico. Le analisi paleoantropologiche hanno indicato che si trattava di un uomo dal fisico robusto, che doveva avere vissuto a lungo in prossimità del mare o navigando su di esso e che probabilmente era di etnia greca. Fu ucciso dal colpo di un corpo contundente che provocò lo sfondamento del cranio; l'individuo era stato già ferito gravemente in precedenza ed era sopravvissuto per qualche tempo (forse un mese o poco più) al primo evento traumatico. Gli scopritori hanno ipotizzato che l'uomo sia stato sacrificato ritualmente e poi seppellito in un punto di grande valenza sacra e istituzionale: si tratterebbe del più antico caso di delitto religioso attestato in Etruria. Altre sepolture sono state rinvenute nella zona: quella di un bambino epilettico, risalente al IX sec. a.C., e quelle più tarde di tre neonati e di una donna rinvenuta di recente, la cui sepoltura, priva di corredo funebre, dovrebbe risalire all'età orientalizzante. Tornando ai reperti votivi, va ricordato che accanto a una produzione "minore" ne abbiamo conservata una "maggiore", quest'ultima prevalentemente di bronzo: è testimoniata da donari di alto livello quali la celeberrima Lupa Capitolina (450- 430 a.C.), il cosiddetto Marte di Todi (400 a.C. ca.), un'opera etrusca rinvenuta in area umbra, la ben nota Chimera di Arezzo (400-350 a.C.). Né può trascurarsi il passo di Metrodoro di Scepsi, riportato in Plinio (Nat. hist., XXXIV, 34), che ricorda le 2000 statue di bronzo che i Romani avrebbero asportato dai santuari di Velzna. Un costume diffuso era intestare al dio l'oggetto donato e, in età più antica, vi era stato quello di registrare il nome del dedicante su di esso, secondo la logica del dono e del controdono. Nei santuari, d'altronde, vere e proprie scuole di scrittura, vi era sempre chi sapeva scrivere ed era disponibile ad offrire i propri servizi ai fedeli: lo suggeriscono bene i ritrovamenti del tempio di Portonaccio a Veio e, ancor di più, quelli del santuario di Reitia ad Este. Gli scavi a Tarquinia hanno, sempre negli ultimi anni, documentato un altro tipo di culto attestato nell'Italia preromana, quello per l'ecista, per l'eroe eponimo della città. Stavolta le indicazioni provengono dal tempio dell'Ara della Regina. In una campagna di scavo (1999) si è dimostrato che l'altare α non è più antico, come si era supposto in precedenza sulla base dell'orientamento, ma contemporaneo alla fase del tempio caratterizzata dal noto altorilievo di terracotta coi cavalli alati e che si data agli inizi del IV sec. a.C. In precedenza esisteva una terrazza delimitata in parte da un muro arcaico di ottima fattura. Su questa terrazza si trovava quasi sicuramente un piccolo luogo di culto testimoniato dalla presenza di una cassa venuta alla luce al di sotto dell'altare α, che l'inglobava e di cui mantenne l'orientamento. Essendo l'Ara della Regina il tempio poliadico per eccellenza, è possibile che in esso si siano conservate antiche memorie e che vi sia un nesso tra la cassa e il luogo di deposizione dell'eroe eponimo della città, o meglio di colui che era ritenuto tale, ovvero quel Tarconte che ebbe un ruolo di primo piano nella formazione della "nazione" etrusca; nazione etrusca che annualmente s'incontrava presso il Fanum Voltumnae, il santuario federale, ricordato da Tito Livio e da un testo epigrafico molto più tardo, il Rescritto costantiniano di Hispellum, che menziona ancora lo svolgimento di culti comuni fra Etruschi e Umbri presso Volsinii. Testimonianza di un culto di tipo federale che ben conosciamo per i Latini ‒ è il caso del culto di Iuppiter Latiaris sul Monte Albano (Monte Cavo), la cui antichità è assicurata dal rituale che prevedeva offerte di latte e di cacio in luogo del vino ‒ e anche per altre popolazioni italiche: il santuario di Pietrabbondante (località Calcatello) era comune probabilmente all'intero nomen dei Sanniti Pentri, mentre quello di Cupra a Cupra Marittima ai Piceni, anche se lo sappiamo frequentato pure da Etruschi, Umbri, Dauni e Greci. Nell'ambito dei culti, un ruolo di primo piano, che le ricerche degli ultimi decenni stanno mettendo meglio in luce, era riservato a quello delle acque, che assumeva quasi sempre un carattere salutario. I santuari dove si praticava presentano in genere strutture modeste e quasi sempre sono posizionati in luoghi esterni agli abitati e talora isolati, ma in rapporto con particolarità naturali come i fenomeni termali; si caratterizzano soprattutto per la presenza di ricche stipi votive. Tali aree sacre, inoltre, affondano sovente le proprie origini nella preistoria e sono destinate spesso a una lunga fortuna talvolta almeno sino al Medioevo. Origini anteriori al I millennio a.C. hanno spesso anche i culti in grotta, che presentano talora caratteri di originalità: è il caso della Grotta della Poesia di Rocavecchia, dove la realizzazione di scritte diviene, a partire dal 350 a.C., l'atto devozionale principale, come suggeriscono i 400 m² di graffiti presenti sulle pareti. Una menzione va fatta per cerimonie rituali tarde, ma pur sempre italiche, che prevedevano la presenza di un teatro annesso al santuario: esemplare è il caso di Pietrabbondante nel Molise, ma testimonianze significative vengono anche dalla Sardegna (Cagliari) e dal Lazio (Palestrina e Tivoli).
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