L'archeologia delle pratiche funerarie. Mondo etrusco-italico
di Giuseppe M. Della Fina
Delineare un quadro sintetico della struttura e dell'organizzazione delle aree funerarie dell'Italia preromana è una sintesi difficile da realizzare a fronte di una documentazione eccezionalmente ricca e articolata. Necessariamente pertanto ci si limiterà a presentare alcune linee di tendenza di fondo, che accomunavano i singoli popoli ed essi tra loro. Il primo aspetto da analizzare è la separazione fra gli abitati e le aree funerarie, una divisione che nuove indagini hanno in parte ridimensionato togliendole almeno l'aspetto di un tabu. Scavi recenti condotti a Cerveteri e a Tarquinia hanno portato alla luce tombe situate fra le capanne nella fase protourbana dei due importanti centri. Una situazione che si riscontra nella stessa Roma, dove gruppi di capanne si alternano a sepolcreti. Ciò è un portato del superamento della discussione intorno al reale significato dei grandi aggregati protourbani, ovvero se avessero avuto una fisionomia unitaria sin dall'inizio, o se si trattasse di un insieme di villaggi distinti e riunitisi solo in una seconda fase rispondendo a un processo di sinecismo. Studi di questi ultimi anni hanno evidenziato invece che la distribuzione del materiale pare indicare un'occupazione "a macchie di leopardo" del sito prescelto con gruppi di capanne alternate a spazi vuoti, secondo un modello insediativo suggerito nelle fonti letterarie, che, nel caso più noto di Roma, ricordano una distribuzione di terre ai patres familias nell'ambito delle aree scelte per l'insediamento. Inoltre, nel Lazio sono attestate sepolture di bambini all'interno degli abitati, un'usanza che è stata ricollegata all'esigenza dei gruppi familiari di definire e di ribadire il possesso dello spazio assegnato, o occupato all'interno degli insediamenti. Tale rituale segnala anche l'importanza attribuita alla linea di discendenza e la formazione di gruppi parentali. Un altro aspetto da analizzare è la divisione tra incinerazione e cremazione, che riflette la situazione complessa dell'Italia agli inizi dell'età del Ferro. Le tombe a incinerazione e quelle a inumazione riflettono ‒ come ha notato B. D'Agostino (1988) ‒ mentalità e orientamenti diversi, che si colgono già nel modo differente di porsi rispetto al cadavere. Nell'inumazione è evidente l'intenzione di rispettare e conservare il corpo del defunto, che viene sepolto con i suoi vestiti e i suoi ornamenti, segni distintivi dell'attività svolta in vita e del ruolo sociale occupato: un aspetto che veniva ribadito e, anzi, amplificato dalla presenza del corredo funerario. D'Agostino (1988) ha osservato che tale atteggiamento tende a stabilire fra il morto, nella sua estrema dimora, e la comunità di provenienza un "rapporto di omologia, [che] può spingersi fino a conferire alla tomba l'aspetto di una capanna, e alla necropoli l'aspetto di un vero e proprio villaggio". Una conferma di ciò, per quest'epoca, viene dalle necropoli protostoriche della valle del Sarno, dove, intorno a tombe a fossa di dimensioni superiori alla norma e ricoperte di ciottoli, era costruita una sorta di capanna, realizzata con una palizzata di forma circolare e dotata di un'apertura posta in asse con la tomba sottostante e in corrispondenza dei piedi del morto. Tali capanne erano disposte in file e si aprivano su stradine parallele, che dividevano la necropoli in settori e gli davano l'aspetto di un villaggio.Esempi simili, ma con un carattere di eccezionalità, si trovano anche a Pontecagnano. Lo stesso schema e, probabilmente, a monte un'ideologia simile, pur nel mutare dei tempi, si ritrovano in una necropoli di pieno VI sec. a.C., quella orvietana di Crocifisso del Tufo, che presenta un piano urbanistico particolarmente ben delineato ed appare suddivisa in lotti regolari. Questa volta sono le tombe a dado ad affacciarsi su stradine parallele e a ricollegarsi idealmente alle abitazioni della città-stato, che sorgeva sul pianoro immediatamente sovrastante. Una necropoli legata non a caso a ceti intermedi a vocazione commerciale o agricola, ma comunque molto attaccati alla scelta della cittàstato e che volevano anche nella città dei morti ricalcarne dettami urbanistici e caratteristiche. Il costume funerario maschile attestato nelle necropoli della valle del Sarno, ma che va ben oltre tale distretto territoriale, è improntato ai valori della duritia; nel IX e per gran parte del secolo successivo il corredo funerario è costituito infatti soprattutto da armi: la lunga lancia con la cuspide di ferro, l'asta, il giavellotto, la spada; sono presenti, inoltre, fibule da parata che fermano il vestito e un'olla per derrate alimentari collocata ai piedi del defunto. Nella prima età del Ferro è difficile riconoscere le tombe femminili, che non presentano segni particolari di connotazione, ma dalla metà dell'VIII sec. a.C. il costume funerario femminile inizia a distinguersi e si caratterizza per una notevole ricchezza. La testa della defunta è coperta da un'acconciatura, mentre sul suo petto si moltiplicano le fibule, le collane di pasta vitrea e di madreperla, i pendagli di bronzo. Lo stesso contrasto tra un costume funerario maschile austero, che continua a caratterizzarsi per la presenza di armi, e uno femminile sfarzoso si ritrova nelle necropoli indigene della valle dell'Agri in Basilicata. Nelle tombe maschili ‒ è il caso della tomba 31 nella necropoli di Valle Sorigliano a Tursi ‒ le armi sono affiancate da alcuni strumenti del lavoro agricolo e artigianale: il coltello ricurvo simile a una falce, l'ascia, la scure, lo scalpello. Un'unione che si riscontra in altre necropoli della Basilicata e della Sibaritide (Francavilla Marittima). La mentalità presente dietro alla cremazione è differente. Tale rito infatti enfatizza la cesura netta rappresentata dalla morte: il corpo attraverso il fuoco diviene altro e lo stesso corredo funerario assume un carattere più accentuatamente simbolico. Lo si nota bene nelle deposizioni laziali della fine dell'età del Bronzo, nelle quali spesso gli oggetti del corredo, prevalentemente armi e vasi, sono miniaturizzati anche se continuano a indicare il ruolo sociale del defunto. Sempre D'Agostino ha notato che in tali sepolture, come nelle tombe di epoca villanoviana di area etrusca, il rapporto "tra la dimora del morto e la capanna non viene negato, ma viene risolto attraverso una trasposizione simbolica: è l'ossuario stesso ad assumere la forma di una capanna". Il tentativo di restituire forma corporea al defunto è testimoniato talora dalla presenza, all'interno dell'urna a capanna, di una figurina schematica realizzata in terracotta. I due riti non individuano comunque mondi separati e privi di contatti fra loro: un esempio in proposito è particolarmente indicativo. La Campania costituisce un punto di osservazione privilegiato: nelle sue terre s'incontrarono Etruschi, venuti a seguito della cosiddetta "prima colonizzazione", e indigeni. I primi legati prevalentemente al rito della cremazione, i secondi che conoscevano soltanto l'inumazione. L'incontro fra le due genti ha portato a un'interazione tra i riti e conosciamo tombe a fossa con inumati e tombe a pozzetto con incinerati nelle stesse necropoli. Ciò non accade soltanto in aree di confine e "marginali", ma nella stessa Etruria propria, come a Caere, a Tarquinia e nel Lazio. I due riti coesistevano evidentemente all'interno della stessa comunità e devono rinviare a ruoli diversi occupati dal defunto all'interno del corpo sociale. Ma una risposta unitaria su quali fossero questi ruoli non può essere data ed è più utile esaminare caso per caso. In alcune necropoli di Pontecagnano, nella fase più antica (prima metà del IX sec. a.C.), sembra che l'incinerazione fosse preferita per gli adulti maschi e i personaggi più eminenti della comunità; invece l'inumazione, considerata quasi un rito subalterno, appare riservata alle donne. Si è cercato di comprendere le motivazioni di questa scelta e si è pensato che le donne fossero in prevalenza di estrazione indigena e quindi legate alla tradizione locale, ma nel corredo mancano segni in tale direzione. In ogni caso, con la seconda metà del secolo, la diversità di rito iniziò a scomparire e l'incinerazione cominciò ad affermarsi per uomini e donne arrivando, nella prima metà dell'VIII sec. a.C., ad essere di gran lunga prevalente. La metà del secolo segnò una nuova inversione: l'inumazione riprese quota e arrivò ad essere il rito esclusivo. Prima di scomparire l'incinerazione viene impiegata comunque in una pluralità di forme: s'incontrano tombe a fossa, destinate normalmente all'inumazione, che accolgono ossuari con le ceneri del defunto e tombe a cassa con ossa cremate sistemate sul piano di deposizione senza alcun contenitore secondo un'usanza greca. La scelta del rito si accompagna, nei primi tempi, a un atteggiamento diverso rispetto al corredo. Nelle tombe a incinerazione più antiche, secondo un'usanza risalente alla civiltà dei Campi d'Urne, il corredo è costituito solamente dall'ossuario chiuso da una scodella o da un elmo fittile, quest'ultimo riservato solo ad alcune deposizioni maschili; all'interno del contenitore delle ceneri venivano posti pochi oggetti di ornamento personale. Le tombe a fossa presentano invece corredi con qualche vaso, come se, in questi casi, venisse prestata un'attenzione maggiore alla sua composizione pure in un quadro di non particolare ricchezza. La divisione si attenuò in breve tempo e vasi cominciarono ad affiancare l'ossuario. Nell'insieme si ha l'impressione di una società di eguali, che iniziò ad articolarsi già alla metà del IX sec. a.C., quando in alcune tombe maschili appaiono le armi, in genere una lancia con la cuspide di bronzo. Nell'ambito di questo gruppo si distingue una élite di guerrieri, che si caratterizza per l'uso della spada. È particolarmente interessante notare la disposizione di queste tombe: intorno ad esse si raccolgono altre tombe a incinerazione e a inumazione maschili e femminili, segno di un ruolo egemone del personaggio caratterizzato come guerriero all'interno di un gruppo parentale. Incinerazione e cremazione si ritrovano nella necropoli di Osteria dell'Osa, che gravitava sull'abitato in formazione di Gabi. L'area cimiteriale, composta da circa 600 tombe, presentava, nella fase iniziale della prima età del Ferro gruppi di sepolture afferenti a due "lignaggi" distinti, come indica il ricorso a strutture sepolcrali e a corredi diversi. Le maggiori differenze riscontrate dagli scavatori sono legate al sesso e all'età dei defunti, ma, nei raggruppamenti più antichi (nord e sud), tombe a incinerazione maschili e ricche occupano una posizione centrale e, all'interno di ciascun raggruppamento, è presente una sola sepoltura di portatore di spada, ruolo suggerito dalla presenza di un modellino simbolico dell'arma miniaturizzata. Un altro raggruppamento di sepolture relative alla fase recente dell'età del Ferro ‒ caratterizzata dalla piena affermazione dell'inumazione ‒ si sviluppa intorno alla ricca tomba di una coppia e presenta la sovrapposizione intenzionale di alcune altre tombe. L'aspetto egualitario della società di IX sec. a.C. è stato corretto in parte dalla recente scoperta di un'importante necropoli a Tarquinia, in località Villa Falgari. Essa presentava 91 tombe, di cui 84 a incinerazione e 7 a inumazione, con una notevole densità di deposizioni: l'area scavata è pari infatti a 290 m². La stragrande maggioranza di esse è di IX sec. a.C., mentre 2 scendono nella prima metà dell'VIII e altre 2 all'inizio del VII sec. a.C. Il rito funerario di gran lunga più praticato risulta la cremazione, mentre in 7 casi soltanto il defunto era stato inumato. Due inumazioni sembrano risalire al IX sec. a.C. Colpisce la grande varietà strutturale delle tombe: a pozzetto unico, a pozzetto doppio, a pozzetto col contenitore delle ceneri collocato all'interno di custodie di nenfro o di macco di varia forma e di dimensioni ragguardevoli. In un caso la forma è rettangolare e la lunghezza supera il metro e mezzo. Ciò contrasta con l'immagine di una società di eguali, anche se le deposizioni meno monumentali sono accompagnate da un corredo più ricco quasi a voler riequilibrare la situazione. Elementi variabili sono stati osservati anche nel rituale funerario: in qualche caso, infatti, la ciotola di copertura del vaso cinerario non era rovesciata, come avviene di solito, e sembrava contenere resti di cibo; in altri esempi il cinerario era collocato in posizione orizzontale e non verticale come di norma. Talvolta esso era stato avvolto in un tessuto fermato da una fibula. Gli scavatori hanno osservato che nella necropoli erano presenti numerose coperture a forma di elmo in percentuale più alta di quella che è attestata generalmente. Nell'VIII secolo, soprattutto a seguito dell'incontro con il mondo greco, le differenziazioni divennero molto più significative, a suggerire una sempre maggiore complessità sociale. Anche, in questo caso, la testimonianza delle necropoli di Pontecagnano, indagate con grande rigore, è illuminante. In una di esse, presso il fiume Picentino, sono state riportate alla luce tombe di diversi tipi: a pozzo, a fossa delimitata da un muretto a secco di ciottoli, a fossa circoscritta da blocchi di tufo. Ci si trova di fronte a tombe maschili e femminili, per le quali si è fatto ricorso a riti diversi, ma tutte con un aspetto monumentale. È stato osservato (D'Agostino 1988) che le tombe si raccolgono intorno a una piattaforma a ferro di cavallo, al cui interno si trovavano alloggiamenti per quattro pali in grado di sostenere un elevato in materiale deperibile. La piattaforma era posta al di sopra della tomba a fossa di un guerriero incinerato, la cui cremazione doveva essere avvenuta sul posto: si tratta con tutta evidenza di un personaggio di rango nella comunità. Sembra che tombe di personaggi eminenti si accompagnino a un rituale eccezionale. Una conferma viene da un'altra deposizione di Pontecagnano: una tomba a cassa, nel cui corredo figuravano alcuni vasi di bronzo, due maschere equine, due lance e strumenti di ferro per il sacrificio. Le ossa incombuste del defunto erano state deposte, come se invece fossero state cremate, all'interno di un grande lebete e di una situla adiacente entrambi di bronzo. In tale rituale di deposizione si è voluto vedere un riferimento "a una pratica che, connessa in Grecia alla traslazione delle spoglie degli eroi, concorre nella società romana arcaica a definire un costume funerario eminente, per essere successivamente limitata ai casi di una bellicam peregrinamque mortem" (Cerchiai 1984). Si tratta di un rituale riscontrato anche nell'Etruria propria, nella necropoli di Monte Michele a Veio. Sempre a Pontecagnano si segnalano due tombe principesche, che appaiono divise in due zone funzionali: un recinto, nel quale sono collocati gli strumenti del focolare (alari, spiedi, pinza e paletta da fuoco, scure), il grande contenitore per il vino e altri oggetti legati all'offerta e al sacrificio, e una sorta di loculo, ricavato al centro del recinto, con il lebete che accoglieva le ossa combuste del defunto. Attorno al lebete erano deposti gli oggetti più preziosi. In tal caso nel modello di sepoltura adottato si è voluto riconoscere un riferimento a quello eroico di ascendenza omerica descritto, ad esempio, per i funerali di Patroclo. Un modello che esercitò un grande fascino sulle élites della Campania costiera, dell'Etruria propria e del Lazio e che dovrebbe essere stato trasmesso dal mondo euboico essendo giunto con ogni probabilità in Occidente insieme ai coloni, che fondarono Cuma. In questa ottica gli oggetti dei corredi divengono via via più eterogenei e preziosi e assumono il valore di agalmata, che, nella mentalità greca assimilata dalle popolazioni dell'Italia, si caricano della personalità e del destino di chi li possiede. Divengono oggetti da cui l'eroe non si può separare: in vita vengono conservati nel thalamos, in morte nel loculo sopra ricordato delle tombe principesche, che, come è stato notato, assolve alla funzione di ultimo thalamos. In questa sede si può accennare semplicemente, anche per la loro grande notorietà, ad alcuni complessi tombali che si contraddistinguono per aver restituito corredi di eccezionale ricchezza: si pensi alle tombe Bernardini e Barberini (secondo quarto del VII sec. a.C.) di Palestrina e alla Regolini-Galassi (650 a.C. ca.) di Cerveteri. Intorno alla metà del VII sec. a.C. si affermò in Etruria, nel Piceno, e, in genere, nell'Italia centro-meridionale il modello del "condottiero aristocratico", che si accompagnò all'acquisizione dell'armamento greco, integrato con quello tradizionale locale. Dalla ricchezza dei corredi s'intuisce che la figura del condottiero ha perduto la sua funzione prettamente militare e ha assunto i tratti della regalità. Gli esempi più significativi di questo modello sono stati individuati nelle tombe più importanti dell'Etruria settentrionale tirrenica e di quella centrale interna e, soprattutto, nella Tomba dei Flabelli di Bronzo a Populonia, che ha restituito, fra l'altro, tre elmi corinzi, uno di tipo illirico, tre coppie di schinieri e uno scudo. Un altro monumento funerario che va citato, per le sue notevoli implicazioni, è il tumulo scoperto a Borgorose, al confine tra il Lazio e l'Abruzzo, che presenta più fasi. Sopra a un tumulo di 11 m di diametro con una tomba della fase recente della prima età del Ferro, ne fu costruito un altro di dimensioni ragguardevoli (50 m di diametro) durante il VII sec. a.C., con sepolture prevalentemente di guerrieri. L'insieme fu reso ancora più monumentale nel secolo successivo e continuò ad essere utilizzato fino al III sec. a.C., a testimoniare l'autocelebrazione di una gens aristocratica. Un tumulo di complessità ancora maggiore e con diverse fasi edilizie è quello di Poggio Gaiella a Chiusi, ora oggetto di nuove indagini, nel quale si è voluto riconoscere lo stesso mausoleo di Porsenna (Rastrelli 2000). Molto interessante si presenta il caso del "Melone Secondo" di Cortona, che scavi realizzati tra il 1988 e il 1992 hanno consentito di conoscere più a fondo. Le nuove indagini hanno messo in luce un tamburo monumentale, ma soprattutto un grandioso "podio-altare" connesso al tumulo, che rappresenta un esempio unico in Etruria e rinvia a culti che dovevano essere praticati sul tetto del monumento funerario. Culti attestati anche per l'area delle necropoli rupestri, in un contesto culturale e cronologico comunque assai diverso. Un'articolazione della società è testimoniata per l'area abruzzese dalla necropoli di Campovalano, dove, soltanto a partire dalla fase recente della prima età del Ferro, iniziano ad emergere alcune sepolture rispetto alle altre, ma dove nel VII sec. a.C. già vengono costruiti tumuli con tombe ricche appartenute a capi guerrieri e alle loro donne. Il processo appare compiuto nel secolo successivo, quando i gruppi di tumuli risultano distanziati fra loro, quasi a suggerire una suddivisione della necropoli in lotti, di proprietà delle singole famiglie. La vitalità dell'ideologia della guerra eroica, che va esaurendosi nelle aree più avanzate, permane a lungo nelle aree periferiche sia in Etruria che nel territorio degli Umbri: sepolture principesche con carri da guerra da parata sono state rinvenute a Ischia di Castro, a Todi e a Monteleone di Spoleto ancora nella seconda metà del VI sec. a.C. Ciò che caratterizza, comunque, il VI secolo, sono le tendenze isonomiche, che si possono cogliere, con caratteri diversi, in varie regioni dell'Italia e che si accompagnano all'affermazione di nuovi ceti sociali. Le tombe di questa fase ubbidiscono, ad esempio in Etruria, a regole abbastanza ricorrenti in specie per quel che concerne le forme esteriori, che non devono essere eccessive, come nel caso dei tumuli principeschi dell'Orientalizzante, ma rifarsi a misure e a caratteristiche uniformi e più modeste. Nel Lazio tali tendenze isonomiche sono egualmente presenti, ma hanno carattere più radicale. L'austerità non investe solo l'architettura del monumento, ma lo stesso corredo fino quasi alla sua eliminazione. Le tombe a Roma, alla Rustica, a Ficana, alla Laurentina, al Torrino, a Crustumerium, qualunque sia la loro tipologia, sono prive del corredo, o presentano soltanto un vasetto miniaturistico, una fusaiola, un peso da telaio, uno o più vaghi di vetro, un aes rude, un alabastron, a volte uno specchio liscio: si tratta di offerte puramente simboliche e di grande modestia rispetto almeno ai canoni del secolo precedente. Esistono eccezioni, ma il quadro è chiaro e pressoché univoco. Un'eccezione è rappresentata da una sepoltura femminile di Fidene, che continuava a presentare una parure di ornamenti personali (orecchini, collana, dischetti, una fibula, ecc.), in maggioranza d'oro, e oggetti del mundus muliebris, ma senza ceramiche. La sua collocazione all'interno del perimetro dell'abitato ribadisce il ruolo privilegiato della donna, dovuto, oltre che al lignaggio, forse alla sua funzione sacerdotale: le Vestali a Roma erano sepolte entro il pomerio. Tale svolta in senso isonomico nel costume funerario laziale ha avuto con ogni probabilità il suo epicentro a Roma ed ha, alle sue spalle, una legislazione antisuntuaria, conosciuta, proprio a Roma, da una delle XII Tavole. Nella decima tavola, dedicata a questo tema, era fatto divieto di assegnare al defunto più di tre ricinia, o "mantelli", e una tunica corta di porpora, abiti che fungevano evidentemente da parametro per i beni sacrificabili nelle tombe. I fenomeni di acculturazione che abbiamo osservato durante l'VIII e il VII sec. a.C. non vennero meno nei secoli successivi, ma mutarono d'indirizzi a fronte di una società che andava cambiando rapidamente in tutta la penisola. Importante nel corredo funerario diviene (e lo resterà a lungo) il servizio da mensa per la centralità assunta dal simposio e dall'ideologia che lo accompagnava presso le classi aristocratiche. Esso qualche tempo dopo arriverà a conquistare le pareti delle tombe dipinte, che tuttavia nell'opulenta Tarquinia (il centro più indagato in proposito) rappresentano solo il 2% del totale. Si è parlato di un fenomeno di acculturazione subito dagli Etruschi, ma essi si mostrano in grado di selezionare i messaggi ricevuti riutilizzandoli solo in parte, o valorizzandone un aspetto ritenuto primario, rispetto ad altri valutati come secondari. Già si è ricordato, ad esempio, che il simposio assume in Etruria e, dietro suo stimolo, nella penisola italiana un carattere funerario insolito per il mondo greco, dove, durante il periodo arcaico e classico, raramente il cratere e gli altri vasi legati al simposio si trovano nei corredi tombali. Suggerimenti per un uso funerario del simposio potrebbero essere venuti semmai dal mondo greco-orientale, la cui influenza sulla società etrusca si avverte anche su base archeologica. Il simposio sembra rinviare a un'ideale di solidarietà aristocratica, che, di fronte a cambiamenti sociali importanti, sente evidentemente la necessità di essere ribadita e di trovare l'occasione per essere consolidata tanto all'interno del proprio gruppo sociale quanto verso le altre classi che la piena affermazione della città-stato, almeno in vaste zone della penisola, ha reso vitali e aggressive. Va segnalata la vitalità dell'iconografia, che copre un arco cronologico ampio con un'importante cesura negli anni tra il 480 e il 470 a.C., quando venne introdotto il simposio di tipo attico.N elle tombe dipinte di Tarquinia, ad esempio, il simposio di coppia, che aveva caratterizzato l'esperienza figurativa etrusca fino a quel momento, viene sostituito da quello di tipo attico, riservato agli uomini e ad appannaggio delle consorterie aristocratiche. Nella scena, con il IV sec. a.C., si avverte un'accentuazione e anzi una vera e propria enfatizzazione del lignaggio della famiglia per la quale veniva realizzata, in coincidenza significativa con una ripresa, ben testimoniata su altre basi, dell'aristocrazia dopo la "crisi" del V sec. a.C., che aveva interessato soprattutto i ceti, a vocazione artigianale e commerciale, emersi nel corso del VI sec. a.C. Particolarmente interessante in proposito è una nota tomba orvietana, la Golini I, rinvenuta significativamente non a ridosso della rupe, ma ad alcuni chilometri di distanza da essa nell'ambito di una piccola necropoli, in località Settecamini: l'aristocrazia locale sembra voler segnare anche così la propria distanza dalla vita e dalla lotta politica della città-stato. La tomba, datata intorno al 350 a.C., presenta un lungo dromos ed è divisa da un tramezzo in due settori; in quello di sinistra sono raffigurate scene relative alla preparazione del banchetto, mentre nell'altro è rappresentato il banchetto vero e proprio, che si immagina svolto nell'aldilà dove il defunto giunge sul carro. Ed è questo il settore più interessante: ad attendere il defunto sono, come di solito, gli antenati ed enfaticamente sulla parete di fronte all'ingresso è dipinto Vel Laθite, di cui una lunga iscrizione ricorda il prestigioso cursus honorum culminato nell'esercizio della praetura Etruriae, ma anche le stesse massime divinità degli Inferi, Ade e Persefone, disposte a sedersi a banchetto con i membri della famiglia Leinie, i proprietari della tomba. Un esempio illuminante della consapevolezza del proprio status da parte dell'aristocrazia etrusca di IV sec. a.C., che poteva arrivare ad immaginare di potersi sedere a tavola con gli dei. L'aldilà nelle tombe di questo periodo ricorre spesso e la sua evocazione è affidata frequentemente a figure mostruose tratte dalla mitologia greca, ma anche da saghe locali, che riusciamo a ricostruire con grande difficoltà. Segno di un mutato rapporto con la morte, che sembra divenuto più angoscioso: "l'aristocratico dell'età arcaica cancella il trapasso circondandosi dei suoi keimelia ed esaltando sulle pareti della tomba, sulle facce del cinerario, il dies festus che sancisce il proprio ruolo sociale e si perpetua nell'altra vita in un continuum senza soluzioni, l'aristocratico di età ellenistica vive quel trapasso avvertendo la dualità e l'opposizione tra le 'due vite', e invano facendo incontrare i mondi infero e supero", come ha osservato M. Torelli (1981). Un incontro destinato a ritornare numerose volte nelle raffigurazioni del III e II sec. a.C. dove cortei di demoni sono affiancati a cortei di magistrati.U n altro aspetto non nuovo, ma che, in età ellenistica, per quanto riguarda l'Etruria, viene esibito è la tradizione religiosa patria, di cui si mostrano i segni come i libri lintei raffigurati ripiegati, ma anche esibiti aperti, ad esempio, nel sarcofago tarquiniese di Laris Pulena. Tornando al tema del simposio e per ribadire il favore con cui venne accolto va ricordato che un'eco di esso va letta nelle figure recumbenti dei coperchi dei sarcofagi e delle urne, che ebbero una grande diffusione in età ellenistica, quando si ripropose con forza quella dicotomia tra inumazione e incinerazione mai risolta nell'Italia preromana. Un rapido esame sociologico delle testimonianze ellenistiche sembra indicare che, stavolta, l'inumazione è preferita dai ceti più abbienti, come il cursus honorum e le prestigiose genealogie ostentati sui sarcofagi tarquiniesi sembrano suggerire. Tuttavia, le raffinate urne di Volterra indicano che la cremazione non si può considerare solo prerogativa delle classi minori. Le differenze areali, le tradizioni locali, in un'Italia non romanizzata, ma sempre sotto il saldo controllo di Roma, continuano a manifestarsi.
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