L'architettura: caratteri e modelli. Africa
di Rodolfo Fattovich
L'architettura africana presenta una grande varietà di forme, che riflette sia la complessa storia delle popolazioni che abitano questo continente e il loro adattamento alle diverse condizioni ambientali delle singole regioni, sia la creatività e l'originalità di ciascuna popolazione. Si tratta di un'architettura caratterizzata soprattutto dall'uso di materiali leggeri (canne, legno, fango) e meno frequentemente della pietra. Gli edifici possono avere pianta circolare, quadrata o rettangolare, variando da semplici ripari emisferici di frasche, come le abitazioni delle popolazioni Khoisanidi (Boscimani), ai grandi palazzi conici di canne dei sovrani del Buganda e del Bunyoro (Africa orientale), con diametro di 10 m e altezza di 6-7 m, fino alle grandi moschee di fango del Sahel occidentale o di muratura della costa orientale. In genere le abitazioni possono essere isolate oppure circondate da un recinto che può racchiudere una o più capanne con granai e recinti per animali, formando così un compound. La loro organizzazione spaziale varia notevolmente in base allo stato sociale dei proprietari e al tipo di economia praticato. La consuetudine di decorare le abitazioni non è molto diffusa nell'architettura tradizionale africana; esempi di rilievo si hanno tuttavia nell'Africa occidentale, nella media valle del Nilo (Nubia) e nell'Africa australe. Si tratta prevalentemente di pitture murali a motivi geometrici. Spesso le pareti degli edifici sono decorate con rilievi dipinti. La documentazione archeologica conferma che capanne, in genere circolari, costruite con materiali leggeri erano in uso fin dalla tarda preistoria. Strutture di mattoni crudi e pietra sono attestate in epoca tardopreistorica e storica nelle regioni in cui si sono sviluppate forme di società complesse (valle del Nilo, Altopiano Etiopico, costa dell'Africa orientale, altopiano dello Zimbabwe). Le tracce di abitati attribuibili a cacciatori e raccoglitori non presentano evidenze precise di strutture, tranne eventuali focolari, confermando l'uso di semplici ripari di frasche. Con l'apparire di società agricole sedentarie si diffusero le capanne circolari con pareti sorrette da pali. Di esse restano numerose tracce, costituite da arrangiamenti circolari di buchi per pali con un diametro che può superare i 10 m. Non vi sono invece testimonianze evidenti delle tende usate dai nomadi, in quanto esse, costruite con intelaiature molto leggere, non lasciano tracce rilevabili con sicurezza sul terreno. Con l'emergere di società complesse, nella valle del Nilo apparvero strutture architettoniche in mattoni crudi, di cui restano imponenti vestigia in Egitto e in Nubia. Mattoni crudi furono usati in Egitto fin dalla fine del IV millennio a.C. sia per la costruzione delle tombe reali, sia per l'architettura civile e religiosa. A sud dell'Egitto i resti più antichi di strutture di mattoni crudi, databili alla metà del III millennio a.C., sono stati messi in luce nel sito di Mahal Teglinos, presso Kassala (Sudan orientale). Si tratta in ogni caso di strutture di piccole dimensioni, con funzione incerta. La pietra ebbe un uso più limitato, se si eccettua l'Egitto, dove si raggiunsero i massimi livelli nell'architettura funeraria e religiosa a partire dall'Antico Regno (III millennio a.C.). Costruzioni di pietra sono note anche in Nubia, in Etiopia, sulla costa dell'Africa orientale e nello Zimbabwe. In Nubia la pietra fu impiegata soprattutto per la costruzione di templi in età napatea e meroitica (ca. 900 a.C. - 300 d.C.). In Etiopia settentrionale e in Eritrea templi ed edifici civili in pietra sono attestati nei periodi cosiddetti "preaksumita" e "aksumita" (I millennio a.C. - I millennio d.C.). L'uso della pietra si diffuse lungo le coste dell'Africa orientale in epoca islamica, come attestano numerosi edifici della cultura Swahili (prima metà del II millennio d.C.). Nell'Africa meridionale le tracce più imponenti sono state segnalate sull'altopiano dello Zimbabwe: si tratta di grandi cinte murarie, talvolta con torri, a protezione degli abitati, databili alla prima metà del II millennio d.C. Costruzioni di terra battuta, costituite generalmente da semplici cinte murarie a protezione degli insediamenti, si riscontrano frequentemente nell'Africa occidentale e lungo la fascia saheliana occidentale. Data la deperibilità di gran parte dei materiali usati, le tracce di strutture architettoniche antiche non sono molto numerose in Africa, eccettuate le regioni in cui si svilupparono organizzazioni statali di rilievo. Tralasciando l'Egitto faraonico, resti di abitazioni e di edifici monumentali civili e di culto sono attestati in Sudan, Etiopia, Kenya, Tanzania, Zimbabwe e in varie regioni dell'Africa occidentale. I resti più antichi di possibili strutture architettoniche finora noti, risalenti al Paleolitico inferiore, sono stati segnalati in Etiopia (Melka Kunturé): si tratta di semplici allineamenti circolari di pietre che probabilmente sostenevano ripari costruiti con ramaglie. Le prime evidenze sicure di resti di capanne e di edifici di culto sono state scoperte in Egitto e risalgono al periodo predinastico (V-IV millennio a.C.). Esse sono state segnalate a Merimde, el-Omari, Hammamiya, Hierakonpolis e Madi. A Merimde e ad el-Omari, nel Delta meridionale del Nilo, sono state messe in luce capanne neolitiche in parte scavate nel terreno e rinforzate alla base con mura di blocchi di fango; la copertura era molto probabilmente costituita da una cupola di frasche o stuoie (V millennio a.C.). Ad Hammamiya e Hierakonpolis, nell'Alto Egitto, sono stati trovati resti di abitazioni del periodo Naqada I (inizi IV millennio a.C.): nel primo sito si tratta di strutture circolari del diametro di 1-2 m, con muri di fango mescolato a pietre e tappezzate internamente di stuoie, mentre a Hierakonpolis sono state rilevate capanne di fango, in parte scavate nel terreno, a pianta rettangolare. A Madi, presso Il Cairo, sono venute alla luce abitazioni rettangolari di fango databili alla seconda metà del IV millennio a.C. I resti più antichi di edifici di culto attualmente noti in Africa sono stati individuati a Hierakonpolis. Essi sono attribuibili a due centri cerimoniali, databili ai periodi Naqada II c-d (metà IV millennio a.C.) e presumibilmente Naqada III (fine IV millennio a.C.). Il primo consisteva in un recinto con un portale che circondava un pavimento di fango compatto (32×13 m) e un piccolo tempio. All'interno del recinto è stata raccolta una grande quantità di resti animali, tra cui bovini, caprini, pesci, tartarughe e coccodrilli. La seconda struttura era rappresentata da un basso rivestimento di blocchi di arenaria che coprivano un tumulo ovale di sabbia sterile portata dal deserto, con dimensioni di 48 × 42 m circa. Procedendo verso sud, in Sudan, resti di edifici risalenti al 2300-1500 a.C. circa sono stati scoperti a Kerma, capitale di un omonimo regno in contatto con l'Egitto, nella media valle del Nilo. Successivamente, resti architettonici imponenti sono stati documentati in Nubia per il periodo del regno di Kush (IX sec. a.C. - IV sec. d.C.), con capitali a Napata, presso la quarta cateratta del Nilo, e a Meroe, presso la sesta cateratta. Infine, chiese cristiane ed edifici e tombe islamici sono attestati fin dalla seconda metà del I millennio d.C. Sull'Altopiano Etiopico vestigia architettoniche di rilievo, comprendenti soprattutto resti di palazzi reali e di edifici di culto, risalgono al periodo preaksumita (I millennio a.C.), al periodo aksumita (fine I millennio a.C. - fine I millennio d.C.) e al periodo medievale (IX-XVII sec. d.C.). Nell'Africa orientale la documentazione più importante è costituita dall'architettura Swahili di età medievale. Si tratta di un'architettura di pietra, con largo uso di rocce coralline, sia staccate dalla barriera lungo la costa sia fossili; i blocchi erano commessi con calce. L'uso di mattoni cotti o crudi è praticamente assente. Le abitazioni rurali tuttavia erano semplici capanne di fango e canne, simili a quelle tuttora usate lungo la costa. L'architettura Swahili è attestata da numerosi insediamenti urbani sviluppatisi in seguito al contatto tra mercanti arabi e popolazioni africane locali lungo la costa della Somalia, del Kenya e della Tanzania a partire dagli inizi del II millennio d.C. La cultura Swahili raggiunse l'apogeo tra l'XI e il XIV secolo, quando furono fondate numerose città, tra cui Mogadiscio in Somalia e Kilwa, Gedi e Malindi in Kenya. Nell'Africa australe resti di architettura monumentale sono stati scoperti nel sito di Great Zimbabwe, che fu la capitale di un regno indigeno attribuibile al popolo Shona. Le vestigia di questa città, costruita e abitata tra il 1000 e il 1500 d.C., costituiscono il maggiore esempio di architettura tradizionale africana in pietra. Nell'Africa occidentale gli esempi più importanti di architettura tradizionale antica sono rappresentati dalle moschee di Timbuctù e Djenné lungo il Niger, risalenti al II millennio d.C.
J. Vandier, Manuel d'archéologie égyptienne, I, Paris 1953; P.S. Garlake, Great Zimbabwe, London 1973; N.H. Chittick, Kilwa, I-II, London 1974; R.W. Hull, African Cities and Towns before the European Conquest, New York 1976; W.Y. Adams, Nubia, Corridor to Africa, London 1977; G. Connah, African Civilizations. Precolonial Cities and States in Tropical Africa: an Archaeological Perspective, Cambridge 1987; F. Anfray, Les anciens Éthiopiens, Paris 1990.
di Giovanna Antongini, Tito Spini
Scelte e tecniche di utilizzo dei materiali da costruzione dipendono, oltre che dalle situazioni geofisiche e dalla fruizione di quanto è localmente disponibile, dal prevalere di uno o più fattori all'interno di un sistema di valori sociali, culturali, rituali ed economici. Nelle zone desertiche o sugli altipiani, caratterizzati da forti escursioni termiche, erano necessarie pareti e coperture a forte inerzia termica, mentre nelle aree forestali, dalla temperatura pressoché costante, le fibre vegetali garantivano un'adeguata ventilazione. Per popolazioni di cacciatori-raccoglitori (Boscimani, Pigmei), di pastori transumanti (Masai, Peul) o di agricoltori praticanti la rotazione periodica delle colture, l'uso di materiali che richiedessero complesse lavorazioni per abitazioni permanenti sarebbe equivalso a un inutile dispendio di risorse ed energie. Tuttavia, tra le innumerevoli tipologie di capanne di materiali vegetali (ramaglie, pali, canne, frasche, paglia, erba), di tende con intelaiatura lignea ricoperta di pelle, stuoie o tessuto e di abitazioni in legno, pietra, mattoni crudi o cotti, esistette un'ampia e diversificata gamma di abbinamenti e di tecniche di utilizzo dei materiali. L'esempio più noto e meglio conservato di costruzioni di pietra è certamente il complesso di Great Zimbabwe, abbandonato intorno al 1450; come ha osservato B. Davidson, esso non rappresenta comunque un'eccezione nell'Africa orientale, dove quasi ovunque sono visibili resti di edifici di pietra in città o villaggi abitati tra il XII e il XVI secolo. Engaruka, al confine tra Kenya e Tanzania, conserva le rovine di 7000 case risalenti al XVII secolo, costruite con tecniche rudimentali utilizzando un granito locale proveniente dalle colline circostanti; gli interstizi tra i blocchi di pietra disposti a secco sono colmati con scaglie di piccole dimensioni dello stesso materiale. A Inyanga (Zimbabwe) resti di abitazioni in pietra del XVI-XVIII secolo sono sparsi in un'area di 6500 km², e così a Kilwa (Tanzania), fondata nell'VIII secolo, dove alle prime abitazioni di legno e terra fecero seguito a partire dall'XI-XII secolo edifici di blocchi di pietra squadrati, commessi con malta di argilla. All'XI-XVI secolo risale lo straordinario complesso di chiese monolitiche di Lalibela (Etiopia), scavate nel vivo tufo vulcanico. Testimonianza della prevalenza, o della coesistenza, nei secoli dell'uno o dell'altro materiale è, ad esempio, Awdaghost (antica capitale dell'impero del Ghana, oggi parte della Mauritania), dove gli scavi in profondità hanno portato alla luce costruzioni di terra cruda dell'VIII-IX secolo, a cui vennero sovrapposti edifici di pietra (IX sec.), che successivamente costituirono le fondamenta per nuove case di terra. Il palazzo del sovrano a Kumbi Saleh, costruito nel 1116-1117, era di pietra, così come le abitazioni dei dignitari, mentre i servitori vivevano in capanne d'argilla e paglia. La terra cruda, sotto forma di mattoni modellati a mano o in casseforme e poi essiccati al sole, oppure come impasto plasmato direttamente, è il materiale da costruzione più antico e più diffuso in tutto il continente africano; si è sedimentata così una padronanza della tecnologia, prodotta da secoli di verifica empirica, che ha consentito di utilizzare questo fragile materiale per case essenziali o elaborate, grandi edifici collettivi, possenti cinte murarie e monumentali edifici di culto. Allo scopo di conferire alla terra una consistenza glutinosa per aumentarne elasticità e resistenza, venivano aggiunti e lasciati macerare diversi additivi, come pula di riso o miglio, erbe, foglie, sostanze grasse e sterco bovino od ovino. Gli scavi effettuati a Djenné-Djeno provano che l'uso dei caratteristici mattoni cilindrici arrotolati a mano (tuttora adoperati in questa zona) risale al VII-VIII secolo e che, come per l'area del Bornu, si tratta di una tecnica preislamica che ha resistito all'adozione della pietra, tipica dell'architettura musulmana. L'uso dei mattoni cotti sul fuoco è noto sin dal XIV secolo: con essi vennero realizzate le coperture a cupola di palazzi e templi, rivestite poi all'interno di stucchi decorati e colorati. In molte zone dell'Africa occidentale gli scavi hanno inoltre attestato l'utilizzo di orci di terracotta, del tutto identici ai recipienti domestici, come bocche d'aerazione, canalizzazioni di drenaggio dell'acqua piovana o latrine. Le materie vegetali (rami, pali, tronchi, canne, steli, foglie) hanno da sempre costituito la base per le abitazioni umane: dal semplice riparo di frasche dei Boscimani agli immensi palazzi dei sovrani del Congo, dalle capanne unifamiliari cupoliformi a tunnel o a botte alle case collettive dei Mangbetu (Zaire), costruite in tronchi di palma che misurano oltre 15 m in larghezza e 20 in lunghezza, alle sapienti architetture prefabbricate dei Bamileke del Camerun, formate da elementi modulari di canne e giunchi intrecciati. Si tratta di materiali fragili, deperibili, la cui storia è ricostruibile solo grazie alla continuità dei modelli o alle cronache di antichi viaggiatori, come le annotazioni di Ibn Battuta che, giunto a Taghaza d'Awlil, il 14 marzo 1352, rimase stupefatto nell'osservare che le case e la moschea di quella città erano costruite con lastre di sale e i tetti ricoperti da pelli di cammello.
L'architettura tradizionale africana, consolidatasi nei millenni attraverso perfezionamenti successivi delle tecniche edilizie, rappresenta un perfetto equilibrio tra possibilità e necessità della funzione. Forme e tecniche si sono adattate nel tempo alle variazioni culturali e ambientali; apporti o modelli esterni sono stati adottati o subiti per effetto di scambi o sudditanze. Tuttavia, prime discriminanti del livello più o meno sofisticato delle tecniche utilizzate per le costruzioni sono il grado di sviluppo, gli utensili disponibili, la strutturazione sociale e le relazioni con le vicine popolazioni. Dalla scheggiatura dei ciottoli gli uomini del Paleolitico medio ricavarono armi e utensili, ma anche pietre con cui delimitare i perimetri circolari delle loro capanne. Il passaggio alla sedentarietà favorì lo sviluppo di tecniche come la fabbricazione di cesti e tessuti: le pareti di fibre intrecciate sostituirono allora canne e rami e le coperture con paglia o stuoie presero il posto delle foglie di Marantacea usate dai Pigmei come tegole. Con l'affermarsi di una gerarchizzazione sociale, mentre le abitazioni di artigiani, servi e agricoltori conservarono strutture elementari, le tecniche edilizie per la costruzione dei palazzi di capi o sovrani, delle tombe e dei luoghi di culto si fecero più elaborate e complesse, in specie per quanto riguarda il numero e la dimensione degli ambienti e per i dettagli architettonici: portici, colonnati, porte scolpite. Secondo fonti del XVII secolo, il palazzo del sovrano del Benin (Nigeria) era il solo ad avere tavole di legno a copertura del tetto piramidale, mentre per tutte le altre abitazioni venivano adoperate foglie di palma intrecciate. La residenza regale apparve ai visitatori come un insieme di alti edifici rettangolari fiancheggiati da slanciate torrette sormontate da uccelli e serpenti di bronzo; intorno vi erano capanne di fango a pianta circolare o quadrata. Quanto affiora dagli scavi archeologici è dunque in genere il prodotto di tecniche "alte" riservate a edifici particolari, come, ad esempio, il modello di casa rettangolare con tetto a spioventi sostenuto da pilastri che appare su un recipiente in terracotta del XIV secolo, rinvenuto recentemente a Ife (Nigeria). Visitando Niani, capitale dell'impero del Mali, al-Umari (1301-1349) descrisse il modo di costruire i muri, simili a quelli dei giardini di Damasco: "Si costruisce con l'argilla su un'altezza di due terzi di cubito, poi si lascia seccare, in seguito si costruisce al di sopra di questa stessa altezza e si lascia seccare; e così di seguito sino al completamento. La maggior parte dei soffitti, con travi e rosoni, sono a cupola o volte a botte in forma di dorso di cammello. Il suolo è di terra mischiata a sabbia." (Cuoq 1975, p. 266). La debole portata dei muri di terra obbligava per lo più alla scelta di scaricare il peso della copertura non su questi, bensì su una serie di pilastri di legno a forca infissi nel suolo all'interno della costruzione; questa soluzione venne adottata anche laddove i muri erano di scaglie di pietra e malta di terra con rinforzi orizzontali in legno (Etiopia, Somalia, Mauritania, Kenya, Tanzania). Nelle città-stato degli Hausa (Niger) fondate prima dell'anno Mille, case e muri di cinta erano edificati esclusivamente con mattoni di argilla cruda e le facciate apparivano decorate da paraste, cornici, cordoli, merlature e disegni geometrici graffiti o dipinti. Dapprima provviste di coperture bombate poggianti su un pilastro centrale, che tuttavia costituiva un ingombro nello spazio interno, le strutture architettoniche adottarono in seguito volte a nervature che eliminavano le lunghe travi per sostituirle con archi composti di sottili rami legati e ricoperti di impasto d'argilla; tra le nervature erano poi inseriti a giuntura piccoli pezzi di legno disposti a lisca di pesce e sul tutto veniva stesa una stuoia poi ricoperta di intonaco. Questa tecnica costruttiva consentì una grande varietà di composizione e di dimensioni, i cui esiti sono visibili soprattutto nelle moschee, di cui quella di Zaria (Nigeria) è uno degli esempi più celebri. A cupola erano anche le coperture delle abitazioni degli altipiani nigeriani, modellate con impasto di fango e paglia; partendo dalla sommità delle pareti arrotondate costruite con mattoni crudi, esse proseguivano a strati fino all'apice. Sulla costa orientale, scavi archeologici hanno fornito testimonianze dell'abilità tecnica con cui già nel XII secolo si costruivano moschee con blocchi di pietra corallina e case di pietra dal tetto dello stesso materiale, poggiante su grossi pilastri squadrati di mangrovia. Scorrerie e guerre portarono a potenziare le strutture difensive; alcune evidenze archeologiche attestano come, almeno a partire dall'XI secolo, villaggi e città si fossero chiusi entro massicce mura, circondate da fossati irti di rovi dalle lunghe spine. La muraglia di Kano, costruita nel XII secolo con palle di fango misto a paglia, era rivestita da un intonaco di argilla, potassa e sostanze collanti estratte da alcune Leguminose che, oltre ad aumentare notevolmente la resistenza della superficie, consentivano di raggiungere un'altezza superiore a 15 m; le 13 porte che davano accesso alla città erano dissimulate dietro paraste e chiuse da battenti chiodati fissati su un'intelaiatura di canne di bambù. Non meno ricche di inventiva furono le soluzioni architettoniche delle capanne. La tecnica di base consisteva nell'infiggere nel terreno un certo numero di pali disposti a cerchio, che erano poi curvati sino a farli coincidere in un punto centrale; in altri casi l'intelaiatura era formata da una serie di archetti paralleli o poggiava su bastoni a forca e in seguito veniva ricoperta da steli, stuoie o pelli. Il tetto poteva giungere sino a terra, oppure poggiare su pareti di materie vegetali, muri di impasto di fango, mattoni crudi o cotti, pietra. In genere la forma del tetto si adattava a quella della pianta dell'abitazione: conica per capanne a base circolare, piramidale per case quadrate, a falde per quelle rettangolari. La scarsa varietà dei materiali da costruzione disponibili era compensata dall'infinita gamma di soluzioni tecniche che risolvevano, integrandole, necessità strutturali, estetiche e di manutenzione.
B. Davidson, Old Africa Rediscovered, Boston 1959; J.-M. Cuoq, Recueil des sources arabes concernant l'Afrique Occidentale du VIII au XVI siècle, Paris 1975.
di Giovanna Antongini, Tito Spini
Isolare la decorazione di un edificio dalla sua concezione architettonica equivale a scindere un'unità indivisibile, così come pressoché impossibile risulta rintracciarne la forma originaria, seguirne lo sviluppo nel tempo o distinguere le aggiunzioni plastiche e pittoriche da quelle tese a sottolinearne le soluzioni strutturali. Anche i graffiti e le pitture murali più antichi sono certamente da considerarsi decorazioni, che non escludono affatto piacere estetico né compiacimento per una dimostrazione di maestria tecnica, sebbene la scelta della loro collocazione (ripari e grotte di uso collettivo) suggerisca una funzione di repertoriazione quasi didattica, una sorta di sostegno alla percezione di uno spazio che, mediante la decorazione, si differenzia dalla neutralità di altri spazi: decorazione-segnale, dunque, che sottolinea e indica la specificità di un luogo. Così, i megaliti di granito alti da 80 cm a 1 m di Bouar (Repubblica Centrafricana), datati al 1500 a.C., che si ergono allineati al di sopra di camere ipogee destinate ad usi funerari, sono insieme decorazione architettonica e indicazione della sacralità del sito. Tra i ruderi della residenza del sultano Abd al-Karim (1635-1655), fondatore di Ouara (Ciad), è stato ritrovato un elaborato intreccio di figure geometriche incise su un mattone della parete che, partendo da un lungo e stretto corridoio, conduceva agli appartamenti delle spose regali; questo era un elemento ornamentale che aveva la probabile funzione di segnalare il limite a cui poteva accedere chi non fosse eunuco o sultano (Lebeuf - Immo Kirsch 1989). Una forma decorativa integrata e organica all'architettura è quella espressa nelle case di Wadan e di Tichitt (Mauritania), città sorte attorno al 900 d.C. lungo le rotte carovaniere che collegavano il Mediterraneo con l'interno dell'Africa subsahariana. Sotto l'influsso dell'espressione aniconica imposta dall'Islam, le massicce murature di pietra appaiono perforate da alveoli triangolari realizzati con mattoncini posti di taglio, che scandiscono ritmi geometrici alternando pieni e vuoti in contrapposizione al peso opaco della pietra grigia: soluzione strutturale, poiché alleggerisce il carico delle murature; funzionale, perché consente la ventilazione degli ambienti e al contempo scherma l'eccesso delle radiazioni solari; decorativa, in quanto proietta sulle pareti delle stanze le sagome geometriche utilizzando la luce come ornamento. Allo stesso modo, gli elaborati intrecci che decorano di rosoni, quadrati, losanghe e triangoli i soffitti delle moschee e dei palazzi Hausa (Nigeria) sono anche il diagramma di distribuzione delle forze che scaricano il peso della copertura sui muri portanti. Spesso è la struttura stessa a esaltarsi in elemento decorativo, come nelle moschee di terra dell'Africa occidentale, dove la fragilità dei materiali costruttivi obbliga a costole continue di controventatura, che assumono forme arrotondate e inventano suggestivi rimandi di luci e ombre. Tra gli esempi più notevoli vi sono la moschea di Djenné nel Mali, di Bobo Dioulasso in Burkina Faso o di Kawara in Costa d'Avorio. Anche i picchetti di legno infissi perpendicolarmente nei contrafforti, impalcature permanenti necessarie agli annuali rifacimenti degli intonaci, creano vibrazioni dinamiche nei volumi dando agli edifici preziosità e leggerezza. Nelle zone desertiche, la casa accompagna i nomadi nei loro spostamenti; strutture mobili ed essenziali, che tuttavia concentrano in pochi elementi l'universo culturale e storico dei suoi occupanti. Così, i nomadi del Marocco affidano alle decorazioni incise nei due ak ḥammār (pali di sostegno della tenda) la memoria della propria ascendenza, sorta di albero genealogico itinerante per fissare la propria identità. In modo analogo, i Bamileke del Camerun scolpiscono e dipingono a colori vivaci figure e simboli dei capi che si sono succeduti nel tempo sui pilastri portanti in legno delle loro abitazioni; poiché il mito d'origine afferma che il primo antenato è sorto dalla terra, la genealogia si legge dal basso in alto, cosicché, figurativamente oltre che simbolicamente, l'antenato fondatore "regge" il peso della casa. I bassorilievi che ornano Abomey, capitale dell'antico regno del Dahomey (XVII-XX sec.), oggi parte della Repubblica del Benin, e illustrano i simboli e le gesta dei diversi re, pur essendo formalmente elementi di decorazione di fatto hanno nei secoli istituzionalizzato e legittimato l'assoluto potere regale e ancora oggi, nei palazzi trasformati in museo, ad essi è affidato il tentativo di affermare e difendere il carattere storico-sacrale del sito. Attraverso le decorazioni è inoltre possibile riconoscere echi di antichi rapporti e commerci che hanno veicolato costumi e modelli, come nelle straordinarie città di Lamu e di Gedi (Kenya, tardo XIII sec.), dove le facciate degli edifici in pietra sono disegnate dai ritmi contrapposti delle nicchie polilobate, dal tratteggio delle griglie rettangolari e dalle fitte modanature che incorniciano vani quadrati ribassati: un vocabolario architettonico trasferito dalla Persia attraverso l'Oman e l'India. Nelle case di Walata (Mauritania, antico "porto" carovaniero già incluso nelle carte maiorchine del 1339), prive di aperture al piano terreno, l'isolamento femminile si apre su illusorie finestre e porte che le donne dipingono sulle pareti delle loro stanze, incorniciandole di preziosi arabeschi. Questi ultimi, mediante accorgimenti decorativi e cromatici, riproducono nella pittura murale gli effetti delle pareti in stucco, legno e ceramica delle ricche abitazioni marocchine. Innumerevoli altri esempi rintracciabili in ogni parte dell'Africa potrebbero essere identificati come decorazioni pure, indipendenti dalla struttura architettonica, avulse da finalità di repertoriazione o memorizzazione, motivate più dalla creatività individuale che da funzioni o modelli storici. In territorio Dogon, nei pressi di Sanga (Mali), all'interno di incavi della necropoli scavata nelle alte pareti rocciose sono stati ritrovati quaranta granai risalenti al III-II sec. a.C., realizzati con fasce d'impasto d'argilla sovrapposte. Sulle loro pareti sono visibili decorazioni tracciate con le dita o con oggetti appuntiti e tutt'intorno al perimetro, poco sopra l'apertura, corre una cordonatura a rilievo (Bédaux 1992). Se è impossibile tentare di risalire alle motivazioni degli antichi abitatori di questi luoghi, tuttavia, per un identico motivo ornamentale presente sugli attuali granai, i Dogon spiegano che si tratta di un serpente posto a difesa del raccolto. A riguardo delle decorazioni delle case Ndebele (Repubblica Sudafricana) o Kassena (Burkina Faso) non esiste alcun riferimento né cronaca che ne attesti l'antichità; nell'area attorno a Pretoria i disegni delle coperte e dei perizomi di perle vengono ripetuti dalle donne Ndebele sulle pareti delle loro capanne, dilatandone i motivi geometrici ed enfatizzandone il rilievo cromatico con contrasti di colore (ocra, nero, grigio, blu) su sfondo bianco gesso: un gesto pubblico, inteso ad affermare ed esaltare il lavoro femminile. I Kassena, tra le popolazioni disperse con il dissolversi dell'impero del Mali, sono giunti nei territori attualmente occupati tra il XV e il XVI secolo, portando con sé esperienze estetiche mutuate dalla cultura Mandingo e dalle imposizioni formali dell'Islam. Le decorazioni murali sono eseguite dalle donne, che ne hanno appreso la tecnica come parte del sapere tradizionale del mondo femminile e di questo mondo riferiscono i segni geometrici che rivestono le pareti interne ed esterne delle case. Composte da due elementi circolari intersecanti, le abitazioni delle donne assommano nella forma e nelle decorazioni l'insieme degli elementi legati alla fecondità, alla nascita e alla morte. Nella casa, assimilata al corpo femminile, la porta è la bocca-sesso, la prima stanza il ventre e la seconda le reni; le pareti interne (la pelle) sono solcate da incisioni che ricordano le scarificazioni dell'addome; all'esterno una cordonatura in argilla, cintura della casa, evoca la striscia di cuoio o perle che ogni donna porta attorno alla vita sin dalla nascita. Linee orizzontali continue di motivi geometrici costituiscono la veste della casa e insieme riproducono oggetti rituali, quali ad esempio i frammenti dei recipienti di zucca o degli orci che nel corso dei funerali di una donna vengono infranti e deposti in direzione del suo villaggio natale.
E.G. Waterlot, Les bas-reliefs des bâtiments royaux d'Abomey (Dahomey), Paris 1926; P. Oliver (ed.), Shelter in Africa, London 1971; J. Corral, Ciudades de las caravanas: alarifes del Islam en el desierto, Madrid 1985; J.-P. Lebeuf - J.H. Immo Kirsch, Ouara, ville perdue (Tchad), Paris 1989; R.M.A. Bédaux, Des Tellem aux Dogon: recherches archéologiques dans la boucle du Niger (Mali), in G. Pezzoli (ed.), Dall'archeologia all'arte africana, Milano 1992.
di Giovanna Antongini, Tito Spini
Far luce sull'architettura africana, costruita per lo più con materiali deperibili (terra, legno) e che raramente utilizza basamenti o fondazioni interrate, è un percorso conoscitivo che si affida a tenui tracce materiali, alla tradizione orale e alla persistenza dei modelli. Microambiente costruito o adattato per la residenza dell'uomo (e la protezione di animali, raccolti e utensili), l'architettura, attraverso la diversità di forme, tipologie e materiali, testimonia le opportunità e le difficoltà dell'ambiente naturale e sociale in cui essa si colloca. Oltre a un relativo determinismo geografico e all'universale bisogno dell'uomo di costruirsi un riparo, i vari modelli abitativi rappresentano una forma primaria di autonoma espressione culturale; così, in zone climatiche e pedologiche simili e dove le popolazioni hanno livelli tecnici equivalenti, soluzioni e tipologie possono differire notevolmente o, al contrario, essere identiche in ecosistemi del tutto diversi. Dai ripari di rami intrecciati alle dimore ipogee, dai palazzi fortificati alle capanne su palafitte, il linguaggio dell'architettura consente di leggere il sistema di rapporti di un gruppo al suo interno, con altri gruppi e con l'ambiente stesso; questo linguaggio è la risultante di una pluralità di fattori d'ordine economico, sociale, storico e simbolico. Il passaggio dalle soluzioni abitative più semplici a quelle più elaborate non è affatto cronologico e le minori o maggiori complessità non rappresentano necessariamente fasi evolutive. Poiché le campagne di scavi nel continente africano non hanno carattere di organicità né di sistematicità, procedimenti analitici praticabili sono l'individuazione delle diverse tipologie ancora esistenti e, laddove possibile, la comparazione con ritrovamenti archeologici. La forma più elementare delle attuali case trogloditiche è rintracciabile nelle grotte-caverne naturali o seminaturali che hanno offerto riparo all'Homo habilis, vissuto 1,8 milioni di anni fa nella Gola di Olduvai, in Tanzania. Come hanno dimostrato gli scavi di M. Leakey, l'uomo olduvaiano viveva di caccia, utilizzava rozzi strumenti in pietra (raschiatoi e percussori ottenuti per scheggiatura) e occupava anfratti naturali tra i massi granitici. Ancora oggi nell'intera Africa le grotte rappresentano la dimora estiva di pastori seminomadi; gli spazi interni vengono suddivisi con tramezzi di pietre o stuoie, così da ricreare ambienti analoghi a quelli delle architetture stabili. In altri casi, oltre a sfruttare le cavità naturali, l'uomo scavava grotte artificiali o camere ipogee (Tanzania, Etiopia, Kenya, ex Zaire, Camerun) o, come nella Tunisia meridionale, veri palazzi sotterranei con volte ogivali, corte interna su cui si affacciano camere e sale, gradini intagliati nella roccia o scale ricavate da grossi tronchi, condotti per la ventilazione e per lo scorrimento delle acque. Coevi alle architetture rupestri sono anche i ripari mobili e provvisori che l'uomo olduvaiano utilizzava nei suoi spostamenti per seguire la selvaggina e sfuggire a situazioni climatiche sfavorevoli. Sempre nella Gola di Olduvai sono stati rinvenuti piccoli cumuli di pietre disposti a cerchio, probabili basamenti per pali che reggevano una copertura di pelli o rami e che rappresentano l'ossatura di una dimora di circa 2 milioni di anni fa. A Melka Kunturé, nei pressi di Addis Abeba, in un terreno che per la quantità di utensili rinvenuti dimostra di essere stato un sito residenziale occupato circa 1,5 milioni di anni fa, J. Chavaillon ha scoperto una superficie circolare del diametro di 2,5 m, sopraelevata dal suolo di 30 cm, circondata da un canale scavato per lo scorrimento delle acque e da mucchi di pietre che avevano lo scopo di reggere strutture ricoperte di materiali vari. La mobilità delle popolazioni africane, dovuta a fattori climatici, economici e politici, ha fatto sì che modelli di case trasportabili siano ancora oggi molto diffusi soprattutto tra i gruppi dediti alla pastorizia, alla pesca e a un tipo di agricoltura che richiede frequenti rotazioni dei terreni coltivabili. Queste architetture, facilmente smontabili, vanno da semplici paraventi di frasche a strutture complesse che sfruttano archi intersecati di giunchi, canne o rami. Elaborati manufatti che richiedono grande abilità tecnica, i vari tipi di tende mobili o semimobili sono verosimilmente coevi alla domesticazione degli animali da soma (asini, dromedari, cavalli). L'organizzazione interna della tenda rispecchia l'ordinamento sociale del gruppo, gerarchie, divisioni culturali e di ruoli produttivi. Con l'affermarsi dell'agricoltura e della tendenza alla sedentarizzazione si diffusero le dimore stabili. Le strutture architettoniche aumentarono di dimensioni per ospitare famiglie più numerose; alle capanne con struttura semplice, ossia a "involucro" continuo (conico, ad alveare, cupoloide, piramidale) si affiancarono quelle a struttura composta (conica, troncoconica, a base rotonda o quadrata), con pareti verticali e tetto sovrapposto, la cui sporgenza, proteggendo le pareti, consentiva di praticarvi aperture-finestre. La capanna fu uniformemente diffusa nelle zone di savana arborea e nelle foreste e la sua costruzione raggiunse gradi di elevata maestria tecnica, testimoniata dalle audaci e sofisticate soluzioni statiche e strutturali. Forma, posizione sul terreno e decorazione identificavano ogni cellula abitativa in rapporto alle altre, riproponendo gerarchie e relazioni esistenti all'interno del gruppo. A partire dal XVI sec. a.C., dall'Egitto verso sud (Meroe, Nubia, Napata) si ebbe un movimento di conoscenza-conquista che determinò confronti e scambi di modelli abitativi. Negli ultimi decenni del I sec. a.C. Roma impose concetti ed esempi di cultura urbana in tutta la fascia dell'Africa settentrionale sino (e forse oltre) ai limiti del Sahara, dove già nel II sec. d.C. la civiltà di Nok (Nigeria) costruì città di pietra e argilla e, dal IX secolo, i Sao (Ciad, Camerun) edificarono palazzi fortificati dai muri trapezoidali. Attorno al Mille dal Marocco gli Almoravidi recarono, insieme al credo islamico, modelli di architettura che si fusero con quelli del fiorente impero del Ghana e, in seguito, del Mali (Kumbi Saleh, Awdaghost, Niani). La casa araba, di muratura intonacata con tetto piatto o a botte, separava nettamente gli spazi femminili da quelli maschili. Lungo gli assi commerciali che solcavano l'Africa sorsero città fortificate di pietra e città-mercato; clamoroso esempio delle prime è il vasto complesso di Great Zimbabwe, formato da oltre 500 costruzioni di dimensioni diverse, la cui dominante strutturale e stilistica è l'andamento curvilineo dei muri, caratteristica tipica delle costruzioni subsahariane non sottomesse alle regole dell'intersezione perpendicolare delle dimore islamiche. Splendide case di pietra traforata a uno o più piani, con pavimenti di sabbia nel cortile centrale ad impluvium su cui affacciano le camere, dove gli intonaci colorati tracciano complessi arabeschi attorno a porte e finestre, sono le architetture di Wadan, Chinguetti, Tichitt e Walata in Mauritania e quelle di Timbuctù e Gao nel Mali.
A. Rapoport, House Form and Culture, New York 1969; P. Oliver, Shelter in Africa, London 1971; E. Guidoni, Architettura primitiva, Milano 1975; J. Rykwert, The Idea of a Town, Princeton 1976 (trad. it. L'idea di città: antropologia della forma urbana nel mondo antico, Torino 1981), passim; K.B. Andersen, African Traditional Architecture, Oxford 1978;T. Faegre, Tents. Architecture of the Nomads, London 1979; J. Ki-Zerbo (ed.), Histoire générale de l'Afrique, I. Méthodologie et préhistoire africaine, Strombeek 1980 (trad. it. Storia generale dell'Africa, I. Preistoria, Milano 1987), passim; N. Charneau - J.C. Trebbi, Maisons creusées / Maisons enterrées, Paris 1981; F. Paul-Lévy - M. Segaud, Anthropologie de l'espace, Paris 1983; S. Preston- Blier, The Anatomy of Architecture, Cambridge 1987.
di Rodolfo Fattovich
Nell'Africa subsahariana una distinzione netta tra architettura pubblica e religiosa non è sempre possibile: strutture architettoniche ad uso collettivo, come il foro, il circo, il teatro o le terme del mondo romano, sono infatti del tutto assenti nel contesto culturale africano, anche nelle regioni più esposte a contatti con il mondo classico, quali la Nubia, l'Eritrea e l'Etiopia. Fanno ovviamente eccezione i centri urbani di origine classica nell'Africa mediterranea, ma questi rientrano nell'ambito della cultura greco-romana.
L'edilizia pubblica africana si manifesta generalmente con la costruzione di centri cerimoniali, con templi in contesti pagani, chiese in ambiente cristiano e moschee in quello musulmano. I palazzi reali, presenti in tutte le società africane che svilupparono forme di gerarchia sociale con potere centralizzato, potrebbero tuttavia essere considerati come una forma particolare di architettura pubblica, dato il loro carattere fortemente simbolico nel sistema cognitivo delle singole comunità. Le tracce più antiche di un possibile palazzo reale, fuori dall'Egitto, sono state individuate a Kerma, in Nubia. Si tratta di un edificio a pianta circolare con diametro di circa 14 m, con pareti di fango sostenute da pali e con un tetto conico sporgente sorretto da pali di legno sia all'interno sia all'esterno della struttura. L'edificio era circondato su tre lati da un muro di cinta quadrangolare di fango, mentre sul quarto era protetto da una palizzata di legno; al suo interno era suddiviso in alcuni vani disposti lungo la parete. Questa struttura presenta diverse fasi di costruzione e rifacimento, databili tra la fine del III e la metà del II millennio a.C. Il suo significato è incerto, in quanto è simile come pianta ad altre abitazioni messe in luce in questo sito, ma le dimensioni e l'altezza (almeno 7 m) suggeriscono una sua maggiore importanza. A Kerma le abitazioni erano infatti a pianta circolare o rettangolare: la prima tipologia era costituita da capanne (diam. 4,3-4,7 m) con tetto conico sostenuto da pali, mentre la seconda comprendeva edifici alti non più di 2,5 m e collegati tra loro, con muri in mattoni crudi o semplicemente di fango e copertura verosimilmente di paglia, racchiusi entro un muro di cinta che delimitava un cortile in cui erano collocati i granai in fango. Per i periodi successivi, palazzi reali sono noti in Nubia nel periodo del regno di Napata e Meroe. I più antichi sono stati messi in luce presso Gebel Barkal, tuttavia la loro struttura è ancora poco chiara. Uno dei palazzi meglio conservati è quello scavato a Wad Ben Naqa, a sud della sesta cateratta, e attribuito in base ad un'iscrizione alla regina Amanishakheto (fine I sec. a.C.); esso ha pianta quadrata con lati lunghi 61 m. L'edificio era suddiviso in diversi vani rettangolari e quadrangolari raggruppati in quattro blocchi; l'ingresso era posto sul lato meridionale, da cui si accedeva a una sala con colonne e da questa ai locali interni. La presenza di scale e di elementi architettonici non ricollegabili ai locali posti al livello del suolo ha suggerito l'esistenza di almeno un piano rialzato. In alcuni casi, inoltre, questi palazzi erano eretti su un podio alto circa 2 m. Nel complesso, comunque, l'architettura del periodo napateo-meroitico riflette quella egiziana di età faraonica. Le abitazioni rurali consistevano in capanne cilindriche di canne a tetto conico. Palazzi reali attribuibili al regno di Aksum (I millennio d.C.) sono stati individuati nel sito omonimo (Etiopia); essi presentano lo stesso modello delle dimore usate dai nobili e probabilmente riproducono prototipi di origine sudarabica del I millennio a.C. Gli edifici erano sempre eretti su un podio con mura perimetrali a sporgenze e rientranze ed erano costruiti in pietre a secco con una tecnica detta "a teste di scimmia". Questa tecnica consisteva nell'innalzare le mura rinforzandole a intervalli regolari di circa 50 cm con travi longitudinali trattenute da pali trasversali sporgenti esternamente, con effetto al tempo stesso funzionale e decorativo. Sia i palazzi reali, sia le dimore signorili consistevano in un edificio centrale a pianta quadrangolare con lati lunghi fino a 50 m e circondato da una serie di locali annessi che formavano una cinta esterna. La presenza di resti di scale interne indica l'esistenza di uno o più piani superiori, il cui pavimento era sorretto al livello del suolo da pilastri di pietra. In base alla riproduzione schematica dei palazzi reali sulle grandi stele funerarie si può ipotizzare che questi edifici avessero almeno due piani rialzati. Essi si distinguevano nettamente dalle abitazioni urbane e rurali. Le abitazioni urbane, sempre costruite in muratura, avevano pianta quadrangolare a più vani. Le abitazioni rurali erano sia semplici case rettangolari a due vani in pietra, sia capanne circolari a tetto conico. L'esempio più rappresentativo di un palazzo reale aksumita è il Palazzo di Taakha Maryam ad Aksum. Esso consisteva in un edificio centrale quadrangolare di 25 m di lato, con almeno due piani elevati, all'interno di una cinta rettangolare di ambienti esterni di 120 × 85 m di lato che delimitava un vasto cortile interno, diviso in due sezioni da una serie di locali disposti trasversalmente a sud dell'edificio centrale e con due edifici interni (25 × 15 m) eretti rispettivamente agli angoli nord-ovest e nord-est del cortile. L'età di questo palazzo è incerta, ma molto probabilmente risale ad epoca cristiana (V-VI sec. d.C.). In Etiopia vanno anche ricordati i cosiddetti "castelli" di Gondar a nord del Lago Tana. Questi edifici, infatti, pur risalendo ad epoca pienamente storica, quando l'Etiopia cristiana aveva ormai ripreso contatti regolari con l'Europa mediterranea, rappresentano uno degli aspetti più interessanti dell'architettura tradizionale nella regione. Si tratta di residenze reali che risalgono al XVII e XVIII sec. d.C. e che, pur variando nella loro articolazione, presentano una struttura simile: sono costruzioni massicce di muratura, merlate, a pianta quadrata o rettangolare, con torri circolari e una copertura a cupola agli angoli. All'interno esse si articolavano in una sala principale per assemblee e udienze e in una serie di stanze adibite a uffici e residenze e ad uso del corpo di guardia, formando un complesso organico, delimitato da mura di cinta. Lo stile architettonico di questi edifici si discosta da quello tradizionale e potrebbe riflettere un influsso portoghese. A Gondar è anche attestato uno dei pochissimi esempi di edilizia pubblica nell'Africa subsahariana: la cosiddetta Piscina di Fasilides (inizi XVII sec.), un complesso costituito da un padiglione, originariamente eretto dal re Fasilides per presenziare alle parate militari e successivamente ampliato con una grande vasca artificiale per le abluzioni collettive durante la cerimonia dell'Epifania. In area Swahili va ricordata la cosiddetta Grande Casa messa in luce a Kilwa e datata al XIV-XVI secolo. Questa struttura, che subì numerosi rifacimenti nel corso del tempo, consisteva in tre edifici a pianta rettangolare, che formavano un vasto complesso di circa 45 × 35 m con cortili interni. Tali edifici comprendevano a loro volta sia aree di rappresentanza, sia aree domestiche. Tutto il complesso si articolava attorno a una struttura centrale costruita su un terrapieno, alla quale si accedeva mediante scalinate. Costruzioni in pietra di notevoli dimensioni, attribuibili a residenze reali, sono attestate anche a Great Zimbabwe, nell'Africa australe. Originariamente questo insediamento comprendeva soltanto abitazioni di materiali leggeri; le prime strutture in pietra, costituite da semplici cinte e piattaforme destinate a sostenere capanne costruite con pali e fango, iniziarono ad essere erette dal 1250 d.C. Le costruzioni più imponenti vennero realizzate, con una tecnica relativamente semplice, tra il XIV e il XV secolo: esse consistevano per lo più in cinte murarie di pietre a secco, alte fino a 10 m e spesse da 1,5 a 3 m, che racchiudevano capanne di materiali leggeri unite da altri muri in pietra. Tali cinte erano erette sia sulla sommità di massi facilmente difendibili, sia in aperta campagna. Non vi erano cupole o archi. Le entrate erano strette e presentavano architravi su cui poggiavano direttamente gli ordini superiori di pietre, disposti senza alcuna interruzione. Le strutture interne erano intonacate con fango essiccato al sole. Costruzioni simili sono state identificate anche in altre regioni dell'Africa sud-orientale: esse rappresentano pertanto una delle maggiori espressioni di architettura tradizionale africana.
Evidenze di edifici di culto sono state rilevate in numerose regioni dell'Africa subsahariana, soprattutto in Nubia, nel Corno d'Africa, nell'Africa orientale e nell'Africa occidentale. Esse comprendono resti di templi dedicati a divinità indigene, chiese cristiane e moschee islamiche. Le testimonianze più antiche sono attestate a Kerma e sono note col nome di Deffufa orientale e occidentale. Si tratta in entrambi i casi di costruzioni massicce in mattoni crudi, con dimensioni rispettivamente di 30-40 × 6,55 × 9 m e 52,2 × 20,9 × 18-20 m. Entrambi i monumenti inglobavano originariamente una struttura con abside a nord. Nell'insieme essi evocavano l'aspetto di un tempio egiziano con piloni. Cappelle rettangolari a uno o più vani erano inoltre utilizzate per il culto funerario. L'architettura religiosa nubiana del periodo napateo e meroitico riproduce sostanzialmente quella egiziana di età faraonica. I templi dedicati a divinità di origine egiziana erano costituiti da un'entrata con due piloni, da cui si accedeva a una corte esterna con colonne e da questa a una sala ipostila che portava, attraverso un vestibolo, al santuario fiancheggiato da alcuni locali di sevizio. Da questo modello si discostano tuttavia il cosiddetto Tempio del Sole a Meroe e i templi dedicati a divinità indigene (in particolare il dio dinastico con aspetto di leone, Apedamak), quale ad esempio il Tempio del Leone a Musawwarat es-Safra. Il Tempio del Sole (ca. 235-221 a.C.) era eretto su un podio con un colonnato lungo le pareti esterne che circondava il santuario, anch'esso su un podio con due piloni all'entrata e un sacello interno isolato da un corridoio. Il Tempio del Leone era un piccolo edificio a pianta rettangolare con due piloni d'entrata e sei colonne interne. In altri casi i templi di Apedamak potevano presentare due o tre locali interni. In epoca cristiana (VI-XV sec. d.C.) le chiese nubiane mostrano una chiara evoluzione da una pianta di tipo basilicale a una rettangolare molto semplificata. Le chiese più antiche avevano un nartece all'entrata, un'aula a tre o cinque navate e un'abside semicircolare con due vani laterali. Successivamente il nartece venne diviso in tre vani, l'aula fu notevolmente ridotta con quattro pilastri centrali e l'abside venne separata dalla parete perimetrale da un corridoio che congiungeva i due locali laterali. Infine, nelle forme più tarde, il nartece scomparve, l'aula presentava soltanto due pilastri centrali e l'abside si trasformò in un vano rettangolare. L'architettura nubiana del periodo islamico antico è ancora mal conosciuta e non si hanno evidenze certe di moschee. Sull'Altopiano Etiopico edifici di culto sono attestati a partire dal I millennio a.C. Le testimonianze più antiche risalgono al cosiddetto "periodo preaksumita" (ca. 700-400 a.C.) nel Tigrè (Etiopia settentrionale ed Eritrea): si tratta di templi di tipo sudarabico, che attestano un chiaro influsso sabeo sulla regione intorno alla metà del I millennio a.C. Il complesso monumentale più importante di questo periodo è Yeha (Tigrè occidentale), dove sono visibili i resti di un tempio a pianta rettangolare, costruito su un podio e originariamente diviso in un'aula con quattro pilastri centrali e un santuario con tre vani. Nello stesso sito sono stati anche messi in luce i resti di un portico a grandi pilastri quadrangolari, attribuibili a un edificio monumentale che potrebbe ricordare il tempio ovale di Marib nello Yemen. In età aksumita cristiana, dopo il IV secolo, vennero costruite chiese a pianta di tipo basilicale con nartece, aula a tre navate e abside circolare o quadrangolare con due vani laterali. Talvolta un edificio a pianta basilicale sormontava tombe ipogee con scala d'accesso e camera rettangolare, come nel caso delle tombe di Enda Kaleb e Gabra Mascal ad Aksum. I complessi monumentali più importanti di questo periodo sono attestati ad Aksum e Debra Damo (Tigrè) e a Matara nell'Akkelè Guzai (Eritrea). L'architettura etiopica cristiana di epoca medievale era caratterizzata da chiese rupestri databili tra il X e il XV secolo. Il complesso monumentale più imponente di tali chiese è localizzato a Lalibela nel Lasta (Wollo), dove sorgeva la capitale dei re Zaguè (XII-XIII sec.). Tali chiese erano di tre tipi: semirupestri, con la parte interna scavata nel fianco di una collina e quella esterna costruita in muratura; ipogee, interamente scavate nella roccia sul fianco di una collina; monolitiche, scavate e scolpite in un unico blocco di roccia isolato mediante una profonda trincea. L'architettura religiosa Swahili è caratterizzata dalla costruzione di moschee. Uno degli esempi più importanti è la cosiddetta Grande Moschea di Kilwa, costruita tra il XII e il XIV secolo e ristrutturata più volte nel corso del tempo. Nella sua fase finale essa inglobava due moschee: la moschea settentrionale, lunga 12,16 m e larga 7,85 m, e la moschea meridionale, lunga circa 21,5 m e larga circa 16 m. Entrambe erano edifici rettangolari con miḥrāb semicircolare sul lato nord. La moschea settentrionale presentava originariamente un tetto di pietra sorretto da 9 colonne; la moschea meridionale aveva invece una copertura a cupole sorrette da 24 pilastri esagonali. Nell'Africa occidentale ci sono rimasti soltanto esempi di edifici di culto di età islamica. In particolare, va infine ricordata la Moschea Antica di Timbuctù, costruita tra il XIII e il XV secolo e rimaneggiata in epoca posteriore. Essa rappresenta uno dei maggiori esempi di architettura islamica in mattoni crudi. Si tratta di un vasto edificio a cielo aperto, con mura perimetrali rinforzate esternamente da contrafforti conici disposti regolarmente a gruppi di tre. Elemento caratteristico è l'uso di travi orizzontali sporgenti dalle mura, che danno all'edificio un aspetto a "riccio". La stessa tecnica costruttiva si ritrova anche nelle moschee di Djenné, nel Mali.
Ch. Bonnet, Kerma, royaume de Nubie, Genève 1990; D.A. Wellsley, The Kingdom of Kush, London 1996; D.W. Phillipson (ed.), The Monuments of Aksum, London 1997.
di Giovanna Antongini, Tito Spini
Evidenze archeologiche attestano che in Africa già i primi gruppi di cacciatori-raccoglitori deposero intenzionalmente i propri morti. I siti di inumazione, talvolta vere e proprie sepolture, dimostrano così l'elaborazione di un pensiero rivolto a un aldilà e la volontà di marcare e rendere riconoscibili questi luoghi mediante specifici interventi, quali fossati o tumuli ricoperti da rami o pietre; inoltre, la posizione del cadavere, flessa come nel sonno, e il ritrovamento di oggetti offerti e di cibo confermano l'idea che al defunto veniva riconosciuta un'esistenza postuma a immagine di quella terrestre. Tra le più antiche forme di architettura funeraria vi sono le sepolture monumentali di Iwelen (Niger); le campagne archeologiche condotte in questa regione dell'Air nord-orientale hanno permesso di dimostrare e di datare l'associazione tra un tipo di sepoltura (i tumuli a cratere), un habitat e un insieme di disegni rupestri libico-berberi del cosiddetto "periodo dei carri". Grazie allo scavo di oltre 60 monumenti funerari è stato possibile seguire l'evoluzione dai riti mortuari antichi (fine del Neolitico, 3500 a.C. ca., periodo a cui risalgono le più antiche tombe di Iwelen) sino al loro abbandono dovuto all'avvento dell'Islam, impostosi in questa regione attorno al 700-800 d.C. Alcune cosiddette "tombe solari" e reperti litici, anch'essi d'epoca preislamica, sono stati rinvenuti nella zona ovest del Tassili n'Ajjer (Algeria). Tra le tombe solari, così definite per la loro funzione rituale connessa con il culto solare (dette anche "a chiavistello" in ragione della loro forma), la più imponente presenta la particolarità di avere sulla tangente dell'ellisse esterna un piccolo tumulo, ubicato in posizione periferica rispetto a quello centrale, quasi a indicare una sudditanza gerarchica tra i due defunti. Le forme di sepoltura non presentano una distribuzione omogenea né in senso geografico, né in senso culturale; sovente forme diverse coesistono in una medesima regione. Tra le tipologie più diffuse a partire dalla fine del Neolitico possiamo distinguere: i tumuli semplici, con ammassi di terra o pietre a forma troncoconica; i tumuli a cratere, simili ai primi ma di dimensioni più importanti, sulla cui sommità è scavata una fossa a forma circolare; i tumuli a piattaforma, sprovvisti della cavità superiore; i tumuli a mezzaluna o a disco, formati da pietre disposte a cerchio la cui superficie si presenta leggermente concava; le sepolture a piattaforma cilindrica, delimitate da un muretto circolare formato da blocchi o lastre di pietre sovrapposte, la cui superficie appare ricoperta di ghiaia. I resti ossei ritrovati dimostrano che questo tipo di tombe venne utilizzato per sepolture sia singole, sia multiple, coeve o di epoche successive. Altra forma di architettura funeraria risalente al VII-VIII sec. d.C. è quella megalitica, di cui esistevano celebri esempi a Tondidarou (Mali), costituiti da notevoli complessi di monumenti tombali in pietra a forma fallica, oggi quasi del tutto scomparsi. Lungo il fiume Gambia (Senegal e Zambia) è stato ritrovato un gran numero di megaliti del VII secolo, isolati o disposti in cerchio, identificati come monumenti funerari; di particolare rilevanza è il complesso denominato Tomba del Re, sito a Tiekène Boussora (Senegal). Una prospezione lungo le rive del Bani tra Mopti e Djenné (Mali), dove gli argini del fiume apparivano artificialmente rialzati e rafforzati, ha consentito l'identificazione di un sito funerario con sepolture in giare di terracotta disposte in fosse scavate nel terreno. L'esame al ¹⁴C degli elementi organici ritrovati ha indicato una datazione tra 990 e 500 anni B.P. Le giare, sigillate da coperchi, erano sia inumazioni secondarie, ossia depositi di ossa riesumate, sia sepolture primarie singole o collettive (analoghe forme di sepoltura sono state ritrovate tra i Kamberi della Nigeria e i Sao del Ciad). Ulteriori indagini archeologiche nella stessa zona hanno individuato due diverse tipologie di sepoltura di epoca coeva: un'architettura composta da una o più camere ipogee ricoperte da un tumulo di pietre, al cui interno il defunto riposava su un letto di frasche, e altre sepolture "allungate", ossia fosse orizzontali scavate negli strati superiori degli argini fluviali. A poco più di 300 km dalle rovine di Great Zimbabwe, sulle colline di Mapungubwe, tra gli anfratti delle pareti rocciose è stata scoperta una vasta area tombale, identificata come terreno di inumazione regale per la ricchezza degli arredi e dei numerosi ornamenti in oro. L'analisi al radiocarbonio ha datato questo insediamento al 990 d.C., facendo del sito la più antica necropoli dell'Africa meridionale a tutt'oggi nota. Nel Madagascar l'intero territorio è segnato dalle tombe dei sovrani succedutisi nei secoli, ornate da sculture lignee, ricoperte da corna di zebù a testimonianza della grandezza del defunto e istoriate da graffiti e dipinti. Il più antico monumento funerario Sakalava, attribuito al re Andriamisara vissuto nel XVII secolo, è un esempio dell'abilità scultorea dei Malgasci e, insieme, dell'importanza del culto rivolto agli antenati: la tomba è al contempo fondamento dell'organizzazione sociale, identità del gruppo di parentela, marchio e delimitazione del territorio di un lignaggio. Un'usanza, diffusa nella gran parte del continente africano, stabiliva che il monumento funerario del capofamiglia dovesse essere la sua stessa abitazione e, più esattamente, la camera da lui abitata. L'avvento dell'Islam prima e le leggi imposte dai colonizzatori più tardi hanno quasi ovunque soppresso questa tradizione: le spoglie dei defunti furono allora sostituite da simulacri, come ad esempio le famose teste in terracotta o bronzo raffiguranti i sovrani di Ife (Nigeria), seppellite nel bosco sacro di Olokun, dove avevano luogo i rituali in onore dei sovrani stessi, mentre i corpi venivano smembrati e i vari pezzi interrati in punti diversi, cosicché nessuno potesse conoscerne il luogo di inumazione. L'avvento dell'Islam ha fortemente modificato l'aspetto dell'architettura funeraria per quanto riguarda sia i monumenti singoli, sia l'assetto delle necropoli. Ne sono esempio Tadmekka, una delle maggiori città del Sahara (Mali) o Teduk, nel Niger, la cui origine è anteriore al XVI secolo. Nella zona ovest di Teduk, all'interno di una struttura complessa costituita da anguste trincee, si ergono lastre e pietre orientate verso est, secondo una tipologia di architettura funeraria di tradizione locale d'epoca islamica. Al centro, una vasta necropoli sita su una duna fossile e recinta da alte lastre di pietra con un miḥrāb epigrafato accoglie le tombe dei notabili della città; poco lontano si trova una serie di sepolture più semplici di forma quadrangolare, destinate alla gente comune. Il disegno urbanistico riproduce la divisione della struttura sociale dell'epoca in questo sito d'occupazione temporanea, nodo di movimenti religiosi e di commerci delle popolazioni dell'Adrar des Ifoghas e dell'Air alla fine del Medioevo. Luogo privilegiato di sepoltura delle autorità religiose musulmane o dei sovrani locali convertiti all'Islam era l'interno del recinto della moschea principale; spesso sulla tomba veniva in seguito eretto un mausoleo, insieme sede di culto e legittimazione di potere. La tomba degli Askia (Gao, Mali), massiccia costruzione in mattoni d'argilla cruda a forma di piramide tronca, sorge infatti sull'area dove nel 1320 l'imperatore Kankan Musa fece erigere una moschea e dove nel 1525 venne sepolto Mohamed Touri, primo re della dinastia Askia.
J.-P. Lebeuf, Archéologie tchadienne, Paris 1962; R. Bédaux, Tellem, Berg en Dal 1977; M. Baistrocchi, Antiche civiltà del Sahara, Milano 1986; F. Paris, Les sépultures monumentales d'Iwelen (Niger), in JSocAfr, 1 (1990), pp. 47-75; M. Cornevin, Archéologie africaine, Paris 1993; G. Faleschini, Nell'Ovest del Tassili N'Ajjer, in Archeologia africana, Milano 1998, pp. 23-31.