L'architettura: caratteri e modelli. Estremo Oriente
di Roberto Ciarla
Nella vasta porzione del continente eurasiatico nota come Estremo Oriente le diversità delle condizioni climatiche e orografiche, assieme alla maggiore o minore disponibilità di determinate materie prime e alle prevalenti condizioni economiche regionali, hanno contribuito allo sviluppo di tradizioni architettoniche distinte tra loro. Alla luce dei dati archeologici, storici ed etnografici è possibile identificare tre grandi gruppi, ciascuno caratterizzato da particolari tecniche e materiali per la costruzione. Il primo, che comprende parte del Giappone e della Siberia, la Corea, l'estremo Nord-Est della Cina, la Mongolia e il Tibet, si caratterizza per l'uso di strutture, prevalentemente abitative o di difesa, di legno e pietra (sia naturale che lavorata, con o senza intonaci in fango o impasti di fango) nelle zone montane e boschive, a cui si affiancano, nelle praterie e steppe predesertiche, strutture mobili di legno e pelle. Il secondo gruppo, che include gli altopiani e le valli della Cina sud-occidentale, la Cina sud-orientale, il Sud-Est asiatico ed il Giappone, è caratterizzato dall'uso di strutture di legno su pali (abitative, civili e religiose) più o meno rialzate rispetto al piano di campagna. Nel terzo gruppo, infine, corrispondente alla Cina centrosettentrionale lungo le valli del Weishui e del Fiume Giallo, prevale l'uso della terra con strutture in legno ricoperto di fango o impasti fangosi o scavate nel fianco dei terrazzi loessici o, in epoca storica, con strutture abitative, religiose, civili e militari in scheletro ligneo su piattaforme in terra battuta e con tramezzi e tamponature di adobe, mattoni o legno. In quest'ultima tradizione, ma dal I millennio a.C., si coagularono elementi stilistici e tecnici, locali e di origine diversa, che esercitarono un'influenza profonda e duratura sulle tradizioni dell'architettura monumentale civile e religiosa dell'Estremo Oriente; tuttavia, per la preferenza data ai materiali leggeri o deperibili, se si eccettuano le piattaforme ‒ spesso monumentali ‒ di terra battuta, scarse sono le loro testimonianze archeologiche.
Tibet:
R.A. Stein, La civiltà tibetana, Torino 1962 (1986²); P. Mortari Vergara Caffarelli - G. Beguin, Dimore umane, santuari divini. Origini, sviluppo e diffusione dell'architettura tibetana, Roma - Parigi 1987.
Mongolia:
A. Pozdneev, Mongolija i Mongoly [La Mongolia e i Mongoli], Sankt- Peterburg 1896-98.
Cina:
W. Watson, Arte cinese, Firenze 1963, pp. 876-97; R.G. Knapp, The Chinese House, Hong Kong 1990, pp. 26-49. Corea: S.M. Nelson, The Archaeology of Korea, Cambridge 1993.
Giappone:
E. Kidder, Ancient Japan, Oxford 1977.
di Marialaura Di Mattia
Il Tibet all'epoca della monarchia - Il più antico edificio tibetano conosciuto è il castello di Yumbu Lhakhang (Yum.bu.lha.khang). Tale castello, situato nella valle dello Yarlung (Yar.lung; Tibet centro-meridionale), è da considerarsi, verosimilmente, il palazzo dei primi re del Tibet. Nella valle dello Yarlung, infatti, sulla montagna sacra di Yarla Shampo (Yar.la.sham.po), secondo quanto tramandato dalla leggenda, discese dalle sfere paradisiache il primo re tibetano, Nyatri Tsenpo (gNya'.khri bTsan.po). Seppur restaurato più volte nel corso dei secoli, lo Yumbu Lhakhang nella sua struttura portante può essere ascritto ai secoli VII-VIII; il suo carattere imponente di palazzo fortificato costruito in pietra e arroccato su un'altura contiene in nuce le caratteristiche principali dell'architettura tibetana: l'andamento rastremato della massiccia muratura, la libera e asimmetrica composizione di solidi blocchi imbiancati da uno spesso strato d'argilla e, infine, le facciate scandite da finestrature i cui contorni sono evidenziati da mostre lignee aggettanti. L'insieme architettonico sembra così prolungare le linee delle formazioni rocciose dalle quali emergono le strutture, integrate con il paesaggio ed essenzialmente eco-compatibili. Seguendo l'andamento irregolare del terreno, il castello offre visioni prospettiche mutevoli da ogni lato, ma convergenti in una somma di spinte verticali enfatizzate dalla torre a pianta quadrata nella quale esso culmina. Una peculiarità della prima architettura tibetana sono i pilastri in pietra, doring (rdo.ring), eretti anche presso le tombe. I doring devono principalmente la loro importanza alle iscrizioni sul fusto, tramandando così le prime forme letterarie della lingua tibetana (Pilastro di Shol, Zhol rdo.ring, 767 d.C.). Monoliti a sezione rettangolare che si assottigliano leggermente verso l'alto, emergenti da piedistalli a volte nella forma del fiore di loto, abbelliti dal repertorio ornamentale dei simboli buddhistici (śaṅkha, svastika, vajra), sormontati da coperture a quattro spioventi dagli angoli ricurvi, i pilastri costituiscono una preziosa fonte di informazioni sulla storia e la società del Tibet monarchico. La prima diffusione del buddhismo in Tibet, conosciuta come Tenpa Ngardar (bsTan.pa sNgar.dar), risale all'epoca del re Songtsen Gampo (Srong.btsan.sgam.po, 609-650 d.C.), e il più antico centro spirituale del Tibet, ancora oggi meta di pellegrinaggi, è il Jokhang (Jo.khang), un tempio dinastico situato nel cuore di Lhasa, fondato, secondo la tradizione, dallo stesso re nel VII secolo. Il Jokhang appare oggi come un complesso di edifici frutto di ingrandimenti e abbellimenti che si sono succeduti nei secoli ad opera prima dei re e poi del clero, circondato dal Barkhor (bar.'khor), il percorso circumdeambulatorio. Al centro di questa vera e propria galleria della storia religiosa del Tibet si trova il Jowo Lhakhang ( Jo.bo lha.khang), la "dimora del Buddha". L'insieme architettonico è conosciuto come Tsuglag Khang (gTsug.lag.khang) e, secondo quella che diverrà una consuetudine, le fonti tibetane indicano un modello architettonico indiano, in questo caso di periodo Gupta (IV-VI sec. d.C.), confermando così l'ipotesi di datazione all'inizio dell'epoca monarchica. Il Jokhang si eleva per tre piani, sormontato da una copertura piana sulla quale si ergono elaborate tettoie dorate, quest'ultime aggiunte posteriori, in corrispondenza delle cappelle principali. Lungo i quattro lati del tempio, attorno ad una corte pilastrata parzialmente scoperta, si sviluppa una fila continua di cappelle dedicate ciascuna a una divinità o a un personaggio della storia del Tibet. La pianta è scandita da cinque cappelle maggiori, di cui due si aprono rispettivamente nel mezzo dei lati settentrionale e meridionale e tre sul lato orientale. La sequenza delle celle è interrotta a metà del lato occidentale, dove si apre l'ingresso principale: un portale ligneo scolpito che immette in un vestibolo con due nicchie laterali dipinte, varcato il quale si accede nella corte. Sebbene una parte delle sculture sia stata distrutta e alcune delle opere siano rifacimenti moderni, restano ancora alcune porzioni originali nel Jokhang, tra cui la più sacra, il Lhakhang del Jowo Shakyamuni. In asse con l'ingresso, il tempietto si apre al centro del lato orientale e ospita al suo interno la statua del Buddha. La planimetria del Jokhang è chiaramente riconducibile ai vihāra scavati nella roccia del Deccan occidentale (India) dove, similmente, le cappelle e le celle per i monaci sono allineate lungo i lati di sale ipostile e il santuario si apre sul fondo della grotta in asse con l'ingresso. Subito a destra del tempio del Jowo, si apre il portale ligneo del Champa Lhakhang (Byams.pa lha.khang), la cappella dedicata a Maitreya, incorniciato da una serie di mostre concentriche fittamente scolpite con motivi fitomorfi e animali. Sempre di epoca monarchica è il Ramoche (Ra.mo.che), a Lhasa, fondato tra il 641 e il 649; il tempio è andato in gran parte distrutto e l'attuale costruzione a tre piani è frutto di un restauro su larga scala iniziato nel 1985. L'ultimo, non certo per importanza, dei principali siti di epoca monarchica è il monastero di Samye (bSam.yas), dove vennero ordinati i primi monaci buddhisti tibetani. Situato nell'Ü (dBus), in pieno Tibet centrale, lungo la riva settentrionale dello Tsangpo, Samye è stato fondato nel 779 dal re Trisong Detsen (Khri.srong.lde.btsan, 742-797 d.C.) e la letteratura tibetana indica nel mahāvihāra di Odantapuri (Bihar, India) il prototipo architettonico di questo edificio. L'architettura religiosa tibetana sembra evolversi quasi parallelamente a quella dell'India buddhista: mentre il Jokhang presenta delle analogie con i vihāra di Ajanta (Maharastra, India centrale, fine V sec. d.C.) o di Nalanda (Bihar, VI-VII sec. d.C.), Samye si sviluppa come una grande piramide a gradoni sul tipo di Somapura (Paharpur, Bihar), Vikramashila (Antichak, Bihar) o Salban (Mainamati, Bangladesh) rispecchiando, quindi, prototipi di periodo Pala (VIII-XI sec. d.C.). Proprio come un maṇḍala tridimensionale, la pianta e l'alzato di Samye rappresentano il palazzo divino del Buddha. Il complesso degli edifici è circoscritto da una barriera circolare che divide idealmente il territorio sacro da quello profano; all'interno della cinta, tra tempietti e strutture abitative spiccavano quattro grandi chörten (mchod.rten), la versione tibetana dello stūpa indiano, posti ai punti cardinali e dipinti ognuno dei diversi colori del maṇḍala (bianco, rosso, blu scuro, verde). L'edificio al centro dell'area sacra, l'Utse (dBu.rtse), è racchiuso da una cinta muraria quadrangolare che ha quattro sporgenze in corrispondenza delle principali direzioni dello spazio, ognuna al centro di un lato. Analogamente ai maṇḍala dipinti, la pianta di Samye è un susseguirsi di moduli concentrici culminanti nel quadrato inscritto nel cerchio. Viene creata così una rappresentazione archetipica dell'universo simboleggiato da una figura geometrica: una struttura a pianta quadrata con quattro portali (toraṇa) indicanti i punti cardinali che si proiettano dal centro del mondo. L'ingresso monumentale si apre ad oriente, secondo l'impostazione classica dei maṇḍala, al cui itinerario meditativo si accede sempre da est. Il tempio centrale si innalza da una pianta di tipo cruciforme, rappresentando in termini architettonici il monte Meru, asse dell'universo (axis mundi) dell'antica cosmologia indiana. I testi tibetani narrano come ogni piano di Samye sia costruito in uno stile diverso: i primi due piani sono in stile tibetano con muratura massiccia dall'andamento rastremato, piccole aperture con mostre dipinte e rivestimento in argilla bianchissima; un terzo piano ha le coperture dorate in stile cinese ed un ultimo piano in stile indiano è sormontato da un āmalaka, un elemento architettonico dalla forma rotonda e schiacciata con nervature verticali).
Il Tibet occidentale - La morte dell'ultimo re tibetano, Langdarma (bLang.dar.ma, 803-842), diede avvio al crollo della monarchia. Kyilde Nyimagon (sKyid.lde Nyi.ma.mgon), discendente di Langdarma, iniziò una costante migrazione verso gli altopiani dell'Himalaya occidentale, i territori dell'antico Shangshung (Zhang.zhung) dove, tra il 923 e il 950, fondò un nuovo regno conosciuto come Tod Ngari (sTod mNga'.ris, "il Dominio Occidentale" o "l'Alto Dominio"). Si assiste dunque ad una sorta di trasferimento della dinastia di Yarlung verso l'area del monte Kailasa. Il dominio di Kyilde Nyimagon venne poi suddiviso fra i suoi tre figli, dando luogo a una confederazione di tre regni (conosciuta come Ngari Korsum - mNga'.ris sKor.gsum): Maryul (Mar.yul ), che corrisponde alle regioni del Ladakh e dello Zangskar, oggi parte dello Stato indiano del Jammu e Kashmir; Guge (Gu.ge), la cui estensione occidentale corrisponde al Kinnaur e allo Spiti, nello Stato indiano dell'Himachal Pradesh; Purang (Pu.rang), nella Tibetan Autonomous Region (T.A.R., Cina). Il trasferimento politico della dinastia verso i territori dell'Himalaya occidentale è accompagnato da un fenomeno religioso di grande portata, detto Seconda Diffusione del buddhismo (Tenpa Chyidar - bsTan.pa Phyi.dar), a cui è riconducibile la costruzione di numerosi templi isolati, complessi templari e chörten, che ancora oggi connotano i territori del Tibet occidentale, marcando e contrassegnando l'area dove si estendeva il potere e il patrocinio della confederazione. Il fenomeno di interazione culturale con l'India avvenne principalmente con le scuole Gupta, Vakataka (V-VI sec. d.C.) e Pala (VIII-XI sec. d.C.), ma la confederazione dialogò anche con le scuole che si erano sviluppate in Kashmir tra il VII e l'XI secolo, e comunque fino al 1339. Le principali caratteristiche e gli elementi di riconoscimento dei templi e dei complessi templari più antichi (X-XIV sec. d.C.) dello Ngari Korsum sono: 1) localizzazione in zone pianeggianti, che consentivano scelte planimetriche tipologicamente simili a quelle dei mahāvihāra dell'India settentrionale; 2) ricerca di una disposizione simmetrica degli edifici e della simbologia del maṇḍala nelle piante; 3) complessi costituiti da edifici cubici non imponenti solitamente ad un solo piano; 4) soffitti molto alti; 5) delimitazione dell'area sacra tramite una cinta muraria, il chagri (lcags.ri) sul modello delle vedikā indiane; 6) elementi architettonici in legno scolpito (colonne, capitelli, mensole, trabeazione, mostre dei portali); 7) interazione tra scultura e architettura; 8) sculture in argilla dipinta inscritte in elaborate cornici architettoniche; 9) estese pitture murali. Di norma, i palazzi tibetani si sviluppano da solide fondamenta in pietra, hanno la muratura in terra cruda o adobe intonacata da argilla bianca e impiegano il legno per i pilastri, la trabeazione, le mostre di porte e finestre; le proporzioni nell'utilizzo e nell'assemblaggio di tali materiali sono determinate da fattori geo-climatici oltre che culturali. L'architettura tibetana è comunque immediatamente riconoscibile: il profilo degli edifici è rastremato, i tetti piatti, i volumi sobri e lineari ricoperti da argilla bianca (che ha anche la funzione di cementare e impermeabilizzare la muratura), le facciate sono scandite da una serie di aperture evidenziate da cornici trapezoidali dipinte in nero, che ripropongono e moltiplicano il profilo dell'intero edificio, conferendo unità plastica all'insieme. L'architettura tibetana, nel corso della sua storia evolutiva, ha sempre teso alla creazione di strutture durature che rispondano alle problematiche del risparmio energetico nelle severe condizioni climatiche di un territorio ove i centri abitati sono collocati ad un'altitudine media oscillante tra i 3000 e i 4500 m s.l.m. Essenziale per la sopravvivenza, dunque, è la conservazione del calore, ottenuta attraverso l'impiego di materiali naturali fortemente isolanti, di finestre di dimensioni ridotte ai piani bassi, che hanno la doppia funzione di mantenere la temperatura costante e di non indebolire la forza e la stabilità delle mura. L'impatto visivo è determinato dalla ripetizione e composizione di moduli cubici e trapezoidali, i quali si raggruppano, di preferenza, nei pressi di un tempio o un monastero. Intorno o nelle immediate prossimità del villaggio e del centro religioso si sviluppano le oasi, costituite da coltivazioni a terrazza irrigate mediante l'uso di canali. Tra i principali siti che possono essere ascritti all'inizio della Seconda Diffusione nel Tibet occidentale sono da menzionare il complesso semidistrutto di Tholing (Tho.ling, X-XI sec. d.C.) nella T.A.R., il complesso templare di Nako (Nang.sgo, XI-XII sec. d.C.) nell'alto Kinnaur, il complesso di Tabo (Ta.pho) nello Spiti (fondato nel 996 per poi essere rinnovato nel 1042) e quello di Alchi (A.lci) nel Ladakh (fondato tra l'XI e il XIII sec. d.C.). Nel chökhor (chos.'Khor) di Alchi, cinque templi si susseguono secondo una planimetria riconducibile al prototipo indiano di Nalanda. I templi affacciano a sud-est e sono circondati da un chagri rettangolare indicante il pradakṣiṇāpatha esterno (percorso deambulatorio). L'edificio architettonicamente più interessante del complesso è il Sum Tsek (gSum.brtsegs), il Tempio a Tre Livelli. La pianta cruciforme, formata da tre proiezioni corrispondenti alle tre grandi nicchie interne e dal portico frontale, suggerisce il simbolismo direzionale, con i volumi delle braccia della croce che si estendono verso i quattro punti cardinali emanandosi da un punto centrale, a cui corrisponde, nell'alzato, il livello più alto. Il profilo scalare ricorda una piramide tronca a gradoni mentre il centro della sala è marcato da un chörten. In generale il chörten tibetano mostra un'accentuata verticalizzazione delle forme rispetto allo stūpa indiano: la cupola viene sostituita da un elemento svasato le cui linee di contorno si aprono verso l'alto, mentre i volumi della cupola dello stūpa indiano sembrano aprirsi verso la terra. Nella classica concezione tibetana del territorio, i chörten possono trovarsi isolati, generando lo spazio esterno per le circumdeambulazioni, o in fila, come pietre miliari, segnalando il percorso per raggiungere un sito sacro. Una variante molto frequente nel Tibet occidentale è il kakani chörten (ka.ka.ni mchod.rten), il cosiddetto "chörten-porta" o sottopassante. Si tratta di un portale sormontato da un chörten che segna l'ingresso o l'avvicinamento ai templi, ai monasteri e ai villaggi. Alla base del chörten corrisponde, sotto l'arcatura della porta, un soffitto "a lanterna", risultante dalla sovrapposizione di una serie di quadrati, ognuno dei quali posto diagonalmente rispetto al precedente, di dimensioni decrescenti verso il centro, recante la rappresentazione pittorica di un maṇḍala.
Il Tibet dal X al XIV secolo - I tre siti principali fondati nel Tibet centrale all'inizio della Seconda Diffusione sono Yemar (g.Ye.dmar), Kyangbu (rKyang.bu) a Samada e Drathang (Grwa.thang), oggi purtroppo distrutti o in cattivo stato di conservazione. Yemar (o Iwang, XI sec. d.C.) fu fondato nel Tibet centro-meridionale da Lharje Chojang (Lhar.je Chos.byang), medico e maestro buddhista. Il muro di cinta, quadrangolare, è incoronato da una sequenza regolare di merli e si apre sul lato sud; all'interno della corte delimitata dal chagri si erge il piccolo tempio, composto da tre cappelle e circondato da un percorso circumdeambulatorio interno. Kyangbu, a sud di Yemar, è stato completamente distrutto e le informazioni provengono esclusivamente dalle ricerche effettuate da G. Tucci negli anni Quaranta del Novecento. Drathang fu fondato nel 1081 da Drapa Ngonshe (Grwa.pa mNgon.shes, 1012-1090) e completato da due suoi nipoti nel 1093; situato nella valle dello Yarlung, una volta era circondato da una tripla barriera muraria concentrica. Tra i molti altri siti ascrivibili a questa fase storica va segnalato Sakya (Sa.skya), nello Tsang (gTsang), sulla carovaniera che congiungeva Shigatse (gZhis.ka.rtse) al Nepal. Fondato nel 1073 da Koncho Gyalpo (dKon.mchogrGyal.po), Sakya è uno dei più grandi complessi monastici del Tibet e preannuncia la fase delle cittadelle plurifunzionali. Il complesso ha continuato ad espandersi nel corso dei secoli: i due principali interventi architettonici avvennero nel XIII secolo, quando furono aggiunte le fortificazioni, e nel XIV secolo, quando fu ulteriormente ingrandito e restaurato. Sakya è diviso in due parti: la porzione settentrionale, più antica, e quella meridionale, fondata nel 1268 da Phagpa ('Phags.pa, 1235-1280), maestro spirituale dell'imperatore mongolo Khubilai Khan. Una delle peculiarità di questo insediamento è quella di dipingere gli edifici con bande verticali di colore bianco, rosso e blu scuro. La porzione settentrionale, dove risiedevano circa 3000 monaci, è oggi irreparabilmente distrutta: sulle rovine si erge un piccolo tempio e un chörten, ricostruiti recentemente dalla popolazione locale. Nella porzione meridionale il tempio principale, e più antico, è il Lhakhang Chenpo, che fu poi circondato da mura fortificate, cappelle, edifici residenziali e amministrativi. Shalu (Zhwa.lu), nello Tsang, fu fondato nel 1027, ma acquistò importanza dopo il restauro del XIV secolo. Sotto il patrocinio della dinastia mongola degli Yuan (1279-1368), a partire dal 1306, artisti provenienti da ogni parte dell'impero mongolo contribuirono all'ingrandimento di Shalu. L'architettura di questo monastero esprime una sintesi tra elementi indiani, che erano stati ormai assorbiti in anni di interscambi, ed elementi cinesi, la cui penetrazione era stata favorita dalla corte Yuan. I diversi apporti stilistici vennero amalgamati con quelli più propriamente tibetani (la muratura massiccia, i profili rastremati, l'alternarsi di pieni e vuoti nella facciata e nei portici) e reinterpretati nei materiali classici dell'architettura himalayana, in un lessico artistico originale e unico. La fase di stabilità politica e religiosa instauratasi dal XIV secolo fu accompagnata da una fiorente attività edilizia: i 2.500.000 km² del Paese delle Nevi vennero costellati da grandi monasteri, non distanti da nuovi centri urbani che si erano sviluppati parallelamente e nei dintorni dei siti religiosi, mentre lunghe fila di chörten conducevano il viaggiatore alle sacre cittadelle: Gyantse (rGyal.rtse), nello Tsang, con la cittadella monastica di Pelkhor Chode o Pelkhor Dechen (dPal.'khor.chos.sde, dPal.'khor.bde.chen) e il Kumbum chörten (sKu.'bum, "lo stūpa dalle centomila immagini"), le grandi città-università monastiche di Riwo Ganden (Ri.bo dGa'.ldan, "la Gioiosa Montagna"), oggi distrutta, Drepung ('bras.spungs), Sera (Se.ra), tutte nelle vicinanze di Lhasa e Tashilhunpo (bKra.shis.lhun.po). La distruzione sistematica del patrimonio artistico tibetano è avvenuta principalmente durante gli anni della Rivoluzione Culturale (1966-76). Nel XIV secolo l'architettura tibetana ha ormai raggiunto la sua fase "classica": tutte le influenze assorbite precedentemente dalle aree buddhiste circostanti, come l'India, l'Asia Centrale, il Nepal e la Cina, vengono perfettamente amalgamate in un linguaggio che è esclusivamente tibetano e che influenzerà a sua volta una serie di regioni oltre i confini storici, quali il Bhutan, il Sikkim, il Mustang e il Dolpo, spingendosi fino nell'Asia settentrionale, in Mongolia, in Manciuria, nei territori dei Buriati intorno al Lago Baikal e dei Calmucchi a nord-est del Mar Caspio.
A.H. Franke, Antiquities of Indian Tibet, I-II, Calcutta 1914-26; G. Tucci, Indo-Tibetica II: Rin c'en bzan po e la rinascita del Buddhismo nel Tibet intorno al Mille, Roma 1933; Id., Indo-Tibetica III: the Temples of Western Tibet and their Artistic Symbolism. The Monasteries of Spiti and Kunavar, New Delhi 1935 (1988²); Id., Indo-Tibetica IV. 1: Gyantse and its Monasteries- General Description of the Temples, New Delhi 1941 (1989²); Id., Indo- Tibetica IV. 3: Gyantse and its Monasteries. Plates, New Delhi 1941 (1989²); R.A. Stein, La civiltà tibetana, Torino 1962 (1986²); P. Denwood, The Tibetan Temple-Art in its Architectural Setting, inMahayanist Art after A.D. 900. Colloquies on Art and Archaeology of Asia, 2 (1971), pp. 47-55; M Bussagli, Architettura orientale, Venezia 1973; G. Tucci, Tibet, Ginevra 1975; P. Mortari Vergara Caffarelli, Il linguaggio architettonico del Tibet e la sua diffusione nell'Asia orientale. I, Caratteristiche permanenti e storia evolutiva, in RStOr, 50, 1-2 (1976), pp. 197-240; L. Petech, The Kingdom of Ladakh: c. 950-1842 A.D., Roma 1977; R. Khosla, Buddhist Monasteries in Western Himalaya, Kathmandu 1979; D.L. Snellgrove - T. Skorupski, The Cultural Heritage of Ladakh I: Central Ladakh, Warminster 1979; D. Klimburg (ed.), The Silk Route and the Diamond Path: Esoteric Buddhist Art on the Trans- Himalayan Trade Routes, Los Angeles 1982; D.L. Snellgrove - H. Richardson, A Cultural History of Tibet, Boston - London 1986; D. Blamont - G. Toffin, Architecture, milieu et société en Himalaya, Paris 1987; R. Vitali, Early Temples of Central Tibet, London 1990; E. Lo Bue - F. Ricca, The Great Stūpa of Gyantse, London 1993; A. Chayet, Art et archéologie du Tibet, Paris 1994; O.C. Handa, Tabo Monastery and Buddhism in the Trans-Himalaya: Thousand Years of Existence of the Tabo Chos-Khor, New Delhi 1994; E. Stutchbury, Perception of Landscape in Karzha: "Sacred" Geography and the Tibetan System of Geomancy, in The Tibet Journal, 19, 4 (1994), pp. 59- 102; M. Di Mattia, A Historical Profile of Ladakhi Religious Architecture, ibid., 21, 2 (1996), pp. 90-127; D. Klimburg-Salter, Tabo: a Lamp for the Kingdom. Early Indo-Tibetan Buddhist Art in the Western Himalaya, Milan 1997; M. Di Mattia, Il complesso templare di Nako nell'alto Kinnaur: un esempio dello stile indo-tibetano dei secoli X-XII, in RStOr, 71, 1-4 (1998), pp. 185-238.
di Oscar Nalesini
In Mongolia (Mongolia interna e Transbaikalia) l'importanza della pastorizia e, dal II-I millennio a.C., l'egemonia politica dei nomadi hanno favorito lo sviluppo dell'architettura mobile a discapito di quella permanente. È storicamente documentata la varietà di strutture smontabili e trasportabili comuni a tutte le steppe euroasiatiche: la telega (in mongolo tereg), una tenda di feltro costruita su un carro a 2 o 4 ruote, venne descritta già da Sima Qian e da Erodoto. L'altro tipo principale è la iurta (in mongolo gér), una tenda cilindrica di feltro con la copertura a cupola o a cono, che sostituì completamente la telega nel XVI secolo. La loro evidenza archeologica è limitata alle incisioni rupestri; una rappresentazione completa di un villaggio di iurte (II-I sec. a.C.) è incisa su roccia a Bojar, sul medio Ienissei. L'uomo ha così affidato soprattutto ai monumenti funebri il compito di indicare permanentemente il proprio rapporto con il territorio. È probabile che i tumuli di pietre con recinto quadrangolare (khereksür), eretti per il culto degli antenati a partire dal I millennio a.C., e le stele decorate con immagini di cervo o di renna in corsa (pietre-cervo) che spesso li affiancano siano un'evoluzione delle tombe a cista di pietra e dei megaliti preistorici. L'aristocrazia dei nomadi adottò in seguito le tombe a tumulo di terra e pietra (kurgan) con una camera funeraria ipogea di tronchi d'albero. In Mongolia gli esempi meglio noti di tali strutture sono i kurgan degli Xiongnu a Noin Ula (I sec. d.C.). Nel periodo paleoturco le stele divengono antropomorfe, rappresentando l'antenato con una coppa in mano (balbal ), e vengono erette al centro di un quadrato di lastre di pietra infisse a coltello nel suolo. Questi monumenti potevano divenire più complessi, come il monumento per Kul-Tegin (morto nel 731) a Khöšöö Cajdam. Al centro di un'area rettangolare delimitata da un muro si ergeva, su una piattaforma di terra con i lati inclinati, un tempio quadrato (3,2 × 3,2 m) coperto con tegole. Il viale tra l'ingresso del recinto e il tempio era fiancheggiato da balbal. Benché militarmente egemoniche, le tribù nomadi non erano gli unici abitanti della Mongolia e la formazione di imperi territorialmente estesi necessitava anche di insediamenti permanenti per gli artigiani e i mercanti. Gli Xiongnu fondarono un insediamento fortificato da una quadruplice cinta rettangolare di mura in terra ad Ivolga. Le case, con stufa di tipo cinese, erano costruite in terra e legno. Il pavimento si trovava a 1,1 m sotto la superficie, mentre la copertura era verosimilmente a spiovente. Un edificio maggiore (13 × 11,5 m) ospitava probabilmente gli artigiani. Le fonti ricordano inoltre Qara Balyasun, centro costruito dai Turchi Uiguri nella Mongolia centrale (IX sec. d.C.). Nella stessa regione venne costruita Qaraqorum, capitale dell'impero di Gengis Khan. La città era cinta da mura e, secondo le fonti dell'epoca, era abitata da mercanti stranieri e da artigiani; ospitava anche templi di svariate religioni oltre ad un certo numero di palazzi ad uso dei governanti, eretti in stile cinese. La popolazione mongola e turca preferiva invece accamparsi fuori le mura. Lo stesso valeva per Kondui, fondata nel XIV secolo. Altre città soggette alle tribù turco-mongole furono costruite lungo le carovaniere verso la Cina a sud del Gobi, come Khara Koto nel regno Xixia (X-XIII sec. d.C.) e Olon Sume, capitale degli Öngüt. Qui vi sono le rovine di una chiesa nestoriana in stile cinese e, fuori le mura, della chiesa cattolica eretta da Giovanni da Montecorvino nel 1298. Un'architettura religiosa vera e propria ebbe inizio solo dopo la conversione dei Mongoli al buddhismo Vajrayana (1577); allora si costruirono templi lamaisti adattando gli stili coevi e la disposizione degli edifici dei monasteri tibetani e cinesi.
S.V. Kiselev, Arheologičeskaja poezdka v Mongoliju [Spedizione archeologica in Mongolia], Moskva - Leningrad 1947; N. Egami, Olon-Sume et la découverte de l'église catholique romaine de Jean de Montecorvino, in JAs, 240 (1952), pp. 155-67; L. Jisl, Vorbericht über die archäologischen Erforschung des Kül-Tegin. Jahres 1958, in UralAltJb, 31 (1960), pp. 45- 52; S.I. Rudenko, Kul'tura Hunnov i NoinUlinskie kurgany [La cultura degli Unni e i kurgan di Noin Ula], Moskva - Leningrad 1962; S.V. Kiselev, Drevnie mongolskie goroda [L'antica città mongola], Moskva 1965; S. Dars, L'architecture mongole ancienne, in EtMong, 3 (1972), pp. 159-225; Kh. Peerle, Erdenizuu süm-muzej [Il tempio-museo di Erdenizuu], Ulaanbaatar 1972; M.A. Devlet, Bol'saja Bojarskaja pisanica [Il grande complesso rupestre di Bojar], Moskva 1976; D. Majdar - L. Dar'surén, Gér [La iurta], Ulaanbaatar 1976; E. Alexandre, Erdeni-zuu, un monastère du XVIe siècle en Mongolie, in EtMong, 10 (1979), pp. 7-32; A.V. Davydova, Ivolginskij kompleks/gorodišče i mogil'nik. Pamjatnik Hunnu v Zabaikal'e [Il complesso di Ivolga: cittadella e necropoli. Un monumento degli Unni in Transbaikalia], Leningrad 1985.
di Roberto Ciarla
Le più antiche evidenze architettoniche, di uso abitativo, sono databili dal VII millennio a.C. e possono essere riferite al gruppo culturale neolitico Cishan-Peiligang della Cina settentrionale e dell'alta valle dello Hanshui. Si tratta di resti di capanne a pianta quadrangolare o circolare (diam. 2-3 m), con focolare posto centralmente, il cui catino di base con pavimento intonacato può essere più o meno profondamente infossato nel terreno loessico. Lo spazio interno non presenta apparentemente alcuna differenziazione funzionale e i sistemi di costruzione delle strutture portanti sembrerebbero poco diversificati. In uno degli esempi meglio conservati, la capanna circolare F2 nel sito di Egou (cultura Cishan), lungo il perimetro esterno sono presenti sei buche di palo, di cui due ai lati dell'ingresso formato da un piccolo avancorpo rettangolare a rampa con scalino e le altre quattro in posizione all'incirca simmetrica, arretrate rispetto alle prime. Tali buche sono l'evidenza dell'uso di pali verticali collegati all'apice da tronchi orizzontali a sostegno di un sistema di copertura semplice, verosimilmente formato da tronchi e ramaglie poggianti lungo il perimetro della struttura e riuniti centralmente a costituire un tetto conico o piramidale ricoperto da un impasto di paglia e fango. Nel sito di Dadiwan sono state, però, rinvenute capanne con piano pavimentale non infossato. Una più articolata organizzazione dello spazio architettonico è riscontrabile nei moduli abitativi tipici della cultura Yangshao della Cina settentrionale (5000-3000 a.C. ca.), dove all'interno delle capanne, a pianta circolare o quadrangolare e con bacino più o meno infossato, compaiono partizioni formate da bassi tramezzi in fango con scheletro in legno e banchi in terra battuta che sfruttano la geometria determinata dai pilastri di sostegno del tetto. Questi ultimi, in numero variabile da uno a sei, assumendo una dislocazione più regolare ed essendo spesso più vicini al focolare centrale, permettono un maggiore sfruttamento dello spazio. In ambito Yangshao, in ben definite aree dell'abitato, la presenza di strutture con particolari dimensioni e caratteristiche costruttive (ad es., partizioni interne fornite di focolare, banconi perimetrali), in rapporto planimetrico con le capanne dell'abitato, evidenzia una funzione specializzata di tipo rituale e/o comunitario. Una matura concezione dello spazio e delle possibilità di crescita modulare della struttura architettonica è riscontrabile nelle abitazioni, da uno a quattro vani, messe in luce nel sito di Dahecun (Prov. di Henan), riferibili ad una tarda fase Yangshao della seconda metà del IV millennio a.C. La tecnica di costruzione riscontrata a Dahecun, ancora interamente basata sullo scheletro ad assi in legno foderato di fango, denuncia una chiara scelta di più sofisticate soluzioni edilizie che hanno come obiettivo l'isolamento termico e la protezione dall'umidità: ad esempio, pavimenti in strati alternati di sabbia e fango mescolato a paglia, colmati da uno strato di argilla ad impasto sabbioso o la cottura, interna ed esterna, degli intonaci di rivestimento di tutte le strutture murarie e di copertura. Il sistema di copertura del tetto, sorretto da pilastri all'interno dello spazio abitativo o lungo il suo perimetro, prefigura la principale caratteristica dell'architettura cinese tradizionale: la funzione portante della copertura o di qualsiasi tipo di piano sopraelevato è svolta da travi orizzontali che scaricano su pilastri o su colonne in legno, mentre i muri hanno soltanto la funzione di chiusura o partizione dello spazio. Inoltre i due tipi di modello architettonico, a vano seminterrato o a vani modulari quadrangolari a livello del suolo, prefigurano gli sviluppi dell'architettura domestica tradizionale nella Cina settentrionale in epoca protostorica e storica: strutture scavate orizzontalmente nelle pareti dei terrazzi loessici nella Cina nord-occidentale e strutture a livello del piano di campagna, con pianta rettangolare e tetto a spiovente doppio o quadruplo, prevalenti nella Grande Pianura Centrale fino alla Cina nord-orientale. Nella Cina centrale e meridionale i modelli architettonici riscontrabili dal V millennio a.C., come ad esempio quelli messi in luce nel sito di Hemudu, si basano quasi esclusivamente sull'uso di strutture lignee, montate con il solo metodo della mortasa e tenone, per la realizzazione di moduli abitativi su piattaforme in legno più o meno rialzate dal terreno. Su tali piattaforme erano costruite abitazioni in legno e bambù a pianta rettangolare, tetto a doppio spiovente e ingresso aperto sulla veranda del lato più lungo che può raggiungere i 23 m. Il modello architettonico su pilastri ebbe vasta diffusione e continuità in tutta l'Asia monsonica, fino ai giorni nostri. Nella stessa regione del basso Yangtze, la cultura Majiabang del Lago Taihu (5500/5000-4000 a.C. ca.) presenta invece insediamenti su rilievi in prossimità di corsi d'acqua con capanne fornite di piano di calpestio pavimentato con conchiglie e creta, pareti in canne e fango e tetti coperti di bambù. Nella Cina settentrionale ai modelli neolitici Yangshao relativamente standardizzati vennero sostituendosi, nel corso del III millennio a.C. nell'ambito della cultura Longshan, modelli maggiormente diversificati. Sono infatti attestate strutture di uso abitativo che si differenziano sia per le tecniche di costruzione, sia per il tipo e l'estensione della pianta. A Wangchenggang è stata rinvenuta una decina di basamenti in strati di terra battuta (hangtu), con una superficie variabile da 70 a 150 m², per abitazioni a pianta rettangolare di cui non si conosce tuttavia la tecnica di costruzione. Quest'ultima è nota però a Pingliangtai, dove sono stati scavati resti di strutture con mura in adobes (piastre o "mattoni" di argilla seccata al sole); le più grandi di tali strutture, costruite su basamenti in strati di terra battuta, erano provviste di partizioni dello spazio interno. Le 68 capanne rinvenute a Dinggong, invece, non presentano particolari innovazioni o differenziazioni architettoniche altro che nella pianta, quadrangolare o circolare, e nell'uso di un alzato perimetrale in terra con o senza canaletta di fondazione di terra battuta. Diverso è il caso di Hougang, dove 37 capanne a pianta circolare presentano l'alzato in fango applicato su scheletro ligneo, di adobe o di strati di terra mista a paglia, mentre nel caso delle strutture seminterrate "l'alzato" è costituito dalle pareti della fossa a cui veniva aggiunto, lungo il perimetro, un bancone di terra fino all'altezza desiderata. Tali differenze nell'estensione delle piante, come nella complessità delle tecniche di costruzione, rifletterebbero una crescente differenziazione sia nella funzione dell'architettura (abitativa o cerimoniale-amministrativa) sia nei fruitori della stessa (élites/gente comune), verificatasi nel corso di un processo di crescita della complessità sociopolitica che si manifesterà pienamente, anche a livello architettonico, nel millennio successivo. La dicotomia caratteristica tra architettura vernacolare e architettura monumentale della tradizione cinese diventa chiaramente riconoscibile nel corso del primo quarto del II millennio a.C.: in particolare, l'architettura monumentale assume come suo principale mezzo di espressione il padiglione (dian o ting), perlopiù a pianta rettangolare, costruito in posizione artificialmente elevata sulla sommità di piattaforme in strati di terra battuta. Collegate a strutture sicuramente di tipo cerimoniale sono le due piattaforme monumentali (n. 1: 108 × 100 m; n. 2: 58 × 72,8 m), in strati di terra battuta (hangtu), del livello III nel sito di Erlitou, databile entro il primo quarto del II millennio a.C. Nel caso della Piattaforma n. 1, i resti di un ampio vano a pianta rettangolare, su basso basamento in hangtu (36 × 25 m), sono stati rinvenuti sul lato nord della piattaforma, lungo il cui perimetro buche di palo ad intervalli regolari e resti di muro in terra evidenziano la presenza di un porticato. Del vano rettangolare si sono conservate le sole buche di palo per la sostruzione del tetto, spesso provviste di un ciottolo per l'isolamento della base dei pilastri; la loro posizione eccentrica rispetto al perimetro del basamento fa pensare che il vano fosse fornito di tetto a doppio spiovente con falda più lunga sul lato sud a formare una sorta di veranda. Più articolati sono i resti architettonici messi in luce sulla Piattaforma n. 2: il perimetro è infatti sottolineato da uno spesso muro in hangtu sui lati ovest, nord ed est (dove si aprono quattro stretti passaggi), mentre sul lato sud è presente un muro in fango su scheletro ligneo, nel quale si apre una porta "monumentale" fiancheggiata da due vani rettangolari, secondo alcuni da ritenere prototipo delle porte turrite di epoca storica. Al muro perimetrale si appoggia internamente un porticato sui lati ovest ed est che, sul lato sud, appare anche lungo parte della parete esterna del muro. Spostata verso il lato nord della piattaforma si ergeva una struttura su basamento in hangtu (32 × 12 m) a pianta rettangolare, interamente coperta da un tetto a doppio spiovente evidenziato dalla presenza di 24 buche di palo per pilastri, poste ad una distanza regolare di 3,5 m e accompagnate da un ciottolo lungo il perimetro del basamento. Internamente, a 2 m circa dal bordo del basamento, era presente un padiglione a pianta rettangolare in fango su scheletro ligneo ripartito in tre vani. Non è difficile ravvisare nella planimetria di ambedue le piattaforme, con un edificio a pianta rettangolare o quadrangolare in posizione eccentrica rispetto allo spazio definito da un muro perimetrale, lo schema sia delle strutture palaziali e templari, sia di quelle civili di uso abitativo di epoca storica. Le prime, infatti, essenzialmente si articolano nella crescita modulare, sull'asse nord-sud, di cortili e padiglioni di diversa tipologia; le seconde si articolano nella creazione di vani su tre lati di un cortile interno, in cui l'abitazione del membro eminente della famiglia si trova preferibilmente al centro del lato settentrionale del cortile. La regolarità della distanza tra i pilastri dell'edificio sulla Piattaforma n. 2, inoltre, sembra evidenziare una matura utilizzazione dell'unità spaziale che governerà, in epoca storica, gli sviluppi architettonici della Cina e delle aree da essa direttamente o indirettamente influenzate. Tale unità o modulo spaziale è il jian (lett. "spazio tra") che può essere inteso sia in senso lineare come lo spazio compreso tra una colonna e l'altra, sia in senso volumetrico come lo spazio compreso tra il pavimento, le quattro colonne angolari e le travi orizzontali poggianti sulle colonne stesse. Il modulo base appena definito (modulo ad 1 jian) può essere ripetuto fino a formare una griglia geometrica, la cui grandezza e sontuosità dipenderanno solo dallo status sociale del possessore e quindi dalla qualità del legno utilizzato. Il jian, pertanto, sebbene in tarda epoca storica si attesti tra i 3 e i 5 m, non ha in linea di massima valore come standard di misura lineare, ma costituisce un riferimento, o modello planimetrico, passibile di essere moltiplicato a piacere sia in orizzontale sia in verticale, anche in assenza di vere e proprie indicazioni grafiche progettuali. L'uso in tal senso del jian, semplice, doppio e triplo, è riscontrabile nelle dieci strutture messe in luce nel sito di epoca Shang (XVI-XI sec. a.C. ca.) rinvenuto a Daixi (Prov. di Hebei). Nella stessa epoca gli elementi strutturali tipici dell'architettura cinese tradizionale, come è anche testimoniato dalle aree palaziali e residenziali messe in luce nell'area di Yin, presso Anyang, l'ultima capitale Shang, sono giunti a piena maturazione, fatta eccezione per i sistemi di copertura basati sull'uso di impasto di paglia e fango o ramaglie ricoperte di löss. Il superamento di tali sistemi, come testimoniato ad esempio nei complessi cerimoniali e palaziali messi in luce a Fengchu presso il monte Qishan e a Zhaochen presso Fufeng (Prov. di Shaanxi), è databile dall'inizio dell'epoca dei Zhou Occidentali (ca. 1050 - 770 a.C.) con la comparsa di tegole emicilindriche o piatte in ceramica cordata, lievemente rastremate all'apice rivolto verso l'esterno del tetto. Le tegole di copertura erano solitamente provviste di un occhiello, posto centralmente sulla faccia superiore, e di un peduncolo all'apice interno della faccia inferiore, che veniva così ad inserirsi nell'occhiello della tegola sottostante assicurandone l'ancoraggio. Le tegole di gronda erano invece provviste di un'antefissa semicircolare o tonda, solitamente decorata, ed erano fissate alla sottostante trave in legno con un chiodo in ceramica a capocchia, anch'essa decorata. Nei due siti citati, in prossimità e sotto le piattaforme in terra battuta, al fine di assicurarne la stabilità, è testimoniato il maturo uso di complessi sistemi di drenaggio formati da piani di ciottoli, da canalette foderate di ciottoli e da tubature di scolo di ceramica, queste ultime già in uso dall'epoca Longshan per il drenaggio delle acque piovane all'interno dei villaggi cinti da mura di hangtu. Inoltre, a Fengchu come a Zhaochen, i resti di muri di terra battuta, di adobe o di mattoni seccati al sole recano tracce di rasatura eseguita a coltello e di intonaco, spesso decorato con inserzioni in madreperla. Ancora nell'area di Fufeng, il sito di Yuntang (epoca Zhou Occidentali) ha restituito la più antica evidenza dell'uso di mattoni di rivestimento in ceramica (36 × 25 × 2,5 cm). La più originale creazione dell'architettura cinese antica probabilmente è da riconoscere nel sistema di sgravio a terra del peso della struttura del tetto. Di tale sistema, ricordando che le strutture murarie hanno la sola funzione di partizione dello spazio, non si hanno testimonianze archeologiche dirette, trattandosi, quest'ultime, di strutture in materiali deperibili. Alcuni motivi decorativi su vasellame in bronzo di epoca Zhou e, soprattutto, modellini architettonici in ceramica di epoca Han (206 a.C. - 220 d.C.), insieme alle planimetrie ricostruibili dai resti archeologici a partire dall'epoca neolitica, permettono però di asserire che elemento fondamentale delle strutture architettoniche in legno è lo scheletro (su basamenti di fondazione, più o meno rialzati, di terra battuta) a pilastri (a partire dall'epoca Shang poggianti perlopiù su basi in pietra) e travature. Nell'ambito di tale sistema un elemento di ulteriore originalità risulta la struttura di travatura del tetto formata da arcarecci che, partendo dalla longarina di colmo, scaricano direttamente sui membri orizzontali della travatura del tetto nel punto in cui questi si uniscono ortogonalmente ad incastro con i pilastri. È da questo sistema (noto come "a pilastri e travi trasversali di collegamento" o chuandou), che richiede un notevole numero di membri verticali, che sul finire del I millennio a.C. pensiamo si sia sviluppato il sistema tailiang (pilastri e travetti). Tale struttura, che ripete in scala minore la struttura a pilastro e trave della travatura principale, consiste nella sua forma più semplice nella sovrapposizione digradante di coppie di pilastrini, ciascuna delle quali sostenente una traversa sempre più corta, a partire dalla trave che risiede su una coppia di pilastri della travatura principale fino ad arrivare alla longarina di colmo, eventualmente sostenuta da un monaco. Sulla serie digradante di traverse, nel punto in cui queste si uniscono ai pilastrini, vengono a poggiare i longaroni del tetto sui quali, a partire dalla longarina di colmo e nel punto in cui i logaroni stessi poggiano sui gradini della capriata, vengono sistemati corti arcarecci; questi ultimi, seguendo la gradinata formata dalla sommità di pilastrini e monaci, possono dare alla linea del tetto il tipico andamento curvilineo con un aggetto più o meno pronunciato della gronda.
W. Watson, Arte cinese, Firenze 1963, pp. 876-97; Zhongguo Shihui Kexueyuan Kaogu Yanjiusuo, Xin Zhongguo de Kaogu faxian he yanjiu [Ricerche e scoperte archeologiche nella Nuova Cina], Beijing 1984, pp. 36-69, 248-43; Teng Mingdao, Zhongguo Gudai Jianzhu [L'architettura cinese antica], Beijing 1985; Cho-Yun Hsu - K.M. Linduff, Western Zhou Civilization, New Haven - London 1988, pp. 289-311; R.G. Knapp, The Chinese House, Hong Kong 1990, pp. 26-49; Henansheng Wenwu Yanjiusuo, Henan Kaogu sishi nian (1952-1992) [Quaranta anni di archeologia nello Henan: 1952-1992], Zhengzhou 1994, pp. 117-74.
di Roberto Ciarla
Scarse sono le informazioni disponibili per la dettagliata ricostruzione dei sistemi architettonici in uso nella Penisola Coreana in età neolitica (cultura Chulmun, 6000-2000 a.C. ca.). In generale, è possibile asserire che i modelli prevalenti, con diverse varianti locali, fossero costituiti da capanne a pianta circolare o subrettangolare con focolare centrale leggermente infossato e nella maggior parte dei casi foderato con ciottoli fluviali. L'entrata era per lo più rivolta a sud-est e, come per le capanne di epoca Yangshao in Cina, il piano pavimentale dell'abitazione, coperto da un intonaco d'argilla indurita e a cui si accedeva attraverso una rampa o gradini, poteva essere più o meno infossato nel terreno. Nel sito di Sopohang, ad esempio, il pavimento di una capanna subrettangolare era a 2,7 m dalla superficie, mentre nel sito di Chitamni la profondità dei piani pavimentali variava da 0,5 a 0,7 m. Per quanto è possibile ricostruire dalle piante delle strutture messe in luce, il tetto era sostenuto da pilastri perimetrali e interni allo spazio abitativo, come nel caso di quelle cinesi. Nel periodo successivo, della cultura Mumun (2000-500 a.C. ca.), che dopo il 1000 a.C. vide la diffusione del bronzo verosimilmente dalla valle del fiume Liao, i modelli architettonici riscontrati sono prevalentemente a pianta rettangolare con struttura lignea di sostruzione del tetto interna allo spazio abitativo; pavimento e muri, sempre con funzione di tamponamento, sono in terra battuta e talvolta intonacati, similmente a quelli noti per la cultura Longshan. Come nella valle del Fiume Giallo, inoltre, sono presenti moduli abitativi seminterrati a pianta circolare, rettangolare o irregolare. A partire dalla metà del I millennio a.C., mentre si fanno più marcate alcune caratteristiche regionali, si evidenzia anche un'adesione crescente a modelli architettonici di provenienza cinese, soprattutto per gli aspetti strutturali, nelle aree che a partire dall'epoca della dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.) furono sotto il diretto controllo cinese o in stretti rapporti commerciali con l'impero Han. Meglio noti sono i modelli architettonici del Giappone a partire dall'epoca della cultura neolitica del medio Jomon (4500-3500 anni fa ca.), che però non differiscono nel tipo di pianta e nelle tecniche di costruzione da quelli neolitici cinesi e coreani, tranne forse per un minore uso dell'impianto seminterrato. Numerosi sono anche i rinvenimenti di strutture architettoniche a pianta subrettangolare riferibili all'epoca Yayoi (350 a.C. - 300 d.C.); particolarmente note sono quelle dei villaggi di Toro e di Otsuka, la cui caratteristica più evidente è l'uso di strutture a pilastri per le travature del tetto interne allo spazio abitativo. È attestato anche l'impiego di strutture su piattaforme poggianti su pilastri lignei, simili a quelle della Cina meridionale, con ogni probabilità da ritenere granai o magazzini. Inoltre, mentre per l'epoca Kofun (300- 700 d.C.) è chiaramente riscontrabile un forte influsso proveniente dalle culture coeve della Corea, a partire dall'inizio dell'età storica, con l'arrivo del buddhismo (metà del VI sec. d.C. ca.), piena fu l'adesione dell'architettura monumentale e religiosa ai modelli cinesi della dinastia Tang, continuando, soprattutto nelle aree rurali, la tradizionale concezione architettonica basata su materiali poveri, in particolare il legno, la roccia e la carta, pienamente aderente a concezioni filosofiche tese ad esaltare il rapporto armonico tra l'uomo e la natura e rispondente alle esigenze di flessibilità e leggerezza richieste da un territorio fortemente sismico.
Corea:
S.M. Nelson, The Archaeology of Korea, Cambridge 1993, pp. 63, 88-89, 101-103, 139-44, 193.
Giappone:
E. Kidder, Ancient Japan, Oxford 1977, pp. 35-37, 49, 61-66, 73-77, 93-102, 109-16; C.M. Aikens - H. Takayasu, Prehistory of Japan, New York 1982, pp. 137-56, 217, 226- 37, 293-98; S. Kato, The Jomon Culture, in K. Tsuboi (ed.), Recent Archaeological Discoveries in Japan, Paris - Tokyo 1987, pp. 33-34.
di Adolfo Tamburello
Erede di una carpenteria in legno applicata ad un'edilizia capannicola da epoche preistoriche e protostoriche, l'architettura giapponese si è continuativamente basata sul principio della struttura portante costituita da pilastro e trave con pareti in funzione di cortine. Le giunzioni hanno tradizionalmente privilegiato incastri, incassi, legamenti, riducendo al minimo indispensabile chiodature, perni, staffe, fazzoletti metallici, al fine di evitare le diverse capacità di resistenza di legno e ferro e l'eccessivo bloccaggio del legno, ma anche per favorire lo smontaggio ed il successivo rimontaggio delle strutture o il recupero di loro parti in caso di danni agli edifici. Intervenivano anche ragioni d'ordine estetico, trattandosi sempre di elementi in vista. Predisposte fuori opera, le singole parti strutturali rispondevano a standardizzazioni di dimensioni e volumi che introducevano sistemi di prefabbricato e concezioni modulari. I progetti di costruzione si basavano sulla pianta del pianterreno, dove erano segnate la collocazione dei pilastri e l'articolazione degli ambienti interni con pareti e divisori. L'edificazione aveva inizio con la messa in opera delle piattaforme sopraelevate dal livello del suolo che potevano essere di pietra, terra battuta e tavolato ligneo, sulle quali erano impiantati i pilastri a sezione circolare o quadrata. Le trabeazioni completavano l'impalcatura che sorreggeva i tetti; si procedeva con l'allestimento delle pareti e dei divisori e col montaggio di porte e finestre, per lo più a veranda e in genere scorrevoli. Lo schema costruttivo variava a seconda dell'aggetto e del displuvio dei tetti, che potevano prevedere supporti di capitelli e mensole inseriti tra pilastri e architravi. Cornicioni prominenti e gronde variamente ricurve poggiavano su bracci di leva inclinati diagonalmente ed incassati su travi e pilastri. A seconda della superficie e dell'altezza degli edifici, erano calcolati i diametri dei pilastri e le distanze fra di essi, variabili in generale fra 1,8 e 3 m circa. In seguito all'introduzione del tatami, stuoia di dimensioni standard (0,918 × 1,837 m), la distanza tra i pilastri diventava fissa, pur variando quella tra i loro centri, relativa al diametro dei pilastri stessi. Nonostante la lunga tradizione di un'architettura megalitica e di fortificazione, l'edilizia di pietra non sostenne fino all'età moderna lo sviluppo di un'architettura muraria di pietra o di mattoni basata sui principi della muratura portante, privilegiandosi sempre la concezione pilastro-trave con le pareti in funzione di cortine. La composizione lignea delle strutture architettoniche, comportando rapida deteriorabilità dei materiali esposti (pilastri, travi, assiti), incoraggiò l'aggetto dei tetti a grandi falde e ad inclinazioni variamente sagomate. Per curvature e volte erano ricercate le linee curve di materiali elastici (bambù, corde) piuttosto che gli archi di circonferenza della tradizione europea. In luogo di compassi e squadre, il carpentiere giapponese faceva uso di assicelle flessibili (tawami- jaku, shinai-jaku) che, a seconda delle pressioni che si esercitavano su di esse, disegnavano curve di varia ondulazione. Sviluppatasi come carpenteria edile, l'architettura giapponese faceva massimo impiego di legno e di altri materiali vegetali. Le vaste risorse forestali assicuravano abbondanti approvvigionamenti di legnami di pregio, mentre altre fibre vegetali, tra le quali la paglia di riso, la canapa e gli steli di altre piante, erano un derivato dell'agricoltura impiantata nel Paese dai secoli a cavallo dell'era cristiana. Favoriti dapprima legni teneri più facilmente lavorabili, come la varietà dei cedri, dei pini e dei cipressi, e tra questi ultimi l'hinoki (Chamaecyparis obtusa), lo sviluppo delle tecniche di carpenteria e di ebanistica, perfezionate dal XIV-XV sec. d.C. con nuovi attrezzi e utensili conosciuti dalla Corea e dalla Cina, permetteva la lavorazione di varietà di legni più duri, come quelli della Zelkova, della quercia e del ciliegio. Il laterizio esordiva con tegole, antefisse e acroteri, ma non si estendeva al mattone, così come le malte, usate solo per il rivestimento, non erano utilizzate, se non raramente, per opere murarie. Inoltre, l'uso moderato che si faceva persino nell'architettura monumentale sia d'intonaci, sia di tegole di terracotta, queste ultime poi largamente sostituite da tegole lignee, non ne estendeva l'impiego all'edilizia d'abitazione. Solo a partire dal XVII-XVIII sec. d.C., per la protezione dagli incendi nelle città erano emanate le prime disposizioni, intese a sostituire le coperture di paglia, di corteccia e di tegole lignee della maggioranza degli edifici con tetti di tegole di terracotta o di lastre ininfiammabili e a trattare con materiali a prova di fuoco pilastri e travi, assiti o tralicci di legno e di bambù e rivestimenti straminei. La pietra, pur abbondando l'arcipelago di rocce ignee, sedimentarie e metamorfiche, ebbe uso più che contenuto, nonostante il trapianto della tradizione megalitica euroasiatica dall'area mancese-coreana dal III-IV sec. d.C. Riservata ad opere sepolcrali (dolmen, tombe a camera) e a fortificazioni (kogoishi), in murature a secco di tipo anche ciclopico, ebbe dal VI-VII sec. d.C. applicazione crescente per basamenti, per rivestimenti di piattaforme di edifici, per muraglie e per bastioni di castelli e soprattutto nell'ingegneria civile per opere di terrazzamento, per argini, per dighe e per pilastri di ponti. Di più largo uso erano granito, andesite, arenaria, tufo e ossidiana, mentre era rarissimo il marmo per la scarsità di giacimenti. Edifici o piccole costruzioni in pietra erano pressoché solo i kura, depositi, magazzini o forzieri a prova di fuoco; un'edilizia in pietra d'uso abitativo non prese piede neppure fra il XVIXVII sec. d.C. sotto l'influenza europea e all'apogeo dell'architettura locale dei castelli, le cui strutture in elevazione rimanevano anch'esse a gabbie prevalentemente lignee. L'architettura dei castelli, dopo l'introduzione delle armi da fuoco nel XVI sec. d.C., adottò travature in ferro e rivestimenti di laminati metallici. L'uso del metallo rimase tuttavia molto circoscritto, se si eccettuano gli accessori per lo più decorativi di dimore signorili, di templi e di mausolei. Limitate ne restarono persino le applicazioni per grondaie e per tubature, che trovarono idonei materiali alternativi nel bambù o nel legno, quest'ultimo protetto già in tempi antichi da vernici ad alta resistenza. Il vetro, sebbene pervenuto all'arcipelago dall'Asia occidentale attraverso la Cina e la Corea fin dai secoli successivi all'era cristiana, non attivò un'industria vetraria per lavorazioni in lastre; per finestre e porte si generalizzò infatti l'uso della carta, conosciuta dalla Cina attraverso la Corea, dal VI-VII sec. d.C.
Sui materiali:
S. Yajima - M. Sekino, Nihon kagaku gijutsu-shi [Storia della tecnologia giapponese], Tokyo 1962; H. Engel, The Japanese House: a Tradition for Contemporary Architecture, Rutland - Tokyo 1964; H. Ota (ed.), Japanese Architecture and Gardens, Tokyo 1966.
Sulle tecniche:
Ch. Ito - K. Inui - Y. Okuma (edd.), Meiji-zen Nihon kenchiku gijutsu-shi [Storia delle tecniche edili del Giappone pre-Meiji], Tokyo 1961; M.N. Parent, The Roof in Japanese Buddhist Architecture, New York - Tokyo 1983; Y. Watanabe, Essenza dell'architettura giapponese mediante alcune considerazioni sulla "linea", in Pianeta Giappone - Immagini dall'impero dei segni, Ravenna 1983, pp. 47-63; S.A. Brown, The Genius of Japanese Carpentry: an Account of a Temple's Construction, Tokyo - New York 1989.
di Paola Mortari Vergara Caffarelli
Nell'ambito dell'architettura monumentale ciascuna delle principali civiltà dell'Estremo Oriente presenta alcune strutture architettoniche tipiche, anche se sono frequenti prestiti o interscambi. Inoltre numerose architetture vernacolari, relative soprattutto a minoranze etniche, conservano spesso elementi attardati o del tutto autonomi rispetto ai complessi monumentali. Gli elementi costruttivi dell'architettura classica cinese sono i più diffusi nell'area estremo-orientale; si ritrovano non solo in tutto il territorio dell'immensa nazione, ma a partire dal II-I sec. a.C. in Corea, in Mongolia, successivamente in Asia Centrale e nel Vietnam e, dal VII-VIII sec. d.C., nel Giappone e nel Tibet. Si tratta delle strutture del modulo (il padiglione, detto dian o ting): podio (jie-ji), struttura portante lignea con colonne (zhu) che sorreggono il sistema mensolare (dougong) e travature che sopportano la copertura a tegole. Sono strutture già standardizzate in epoca Tang (618-907 d.C.) e tenute insieme ad incastro. Tale sistema permette ampia libertà e flessibilità nel posizionamento delle aperture e dei tramezzi, dato che le mura, anche perimetrali, sono esclusivamente di tamponamento. Il sistema di misura, perfettamente modulare, è dato dal jian (un quadrato o un rettangolo, di lato fino a 10 m, formato da quattro intercolumni adiacenti). Probabilmente già utilizzato nell'epoca Shang (XVI-XI sec. a.C.), esso consente una standardizzazione delle misure di ogni elemento costruttivo dell'intero edificio in rapporto ai jian prescelti. Esistono ampi manuali sulla carpenteria cinese e sulle sue caratteristiche modulari; il più antico tra quelli che sono giunti fino a noi è lo Yingcao Fa Shi, del 1100. La navata centrale può essere più ampia e più alta sia in senso longitudinale che trasversale; la facciata nei padiglioni a classico impianto rettangolare è sempre sul lato lungo. In certi dian monumentali le colonne del porticato perimetrale sono più corte al centro, per creare un effetto ottico armonico. In alcuni edifici dell'epoca delle dinastie del Sud e del Nord (420- 589 d.C.) e dei Tang è stata riscontrata anche la presenza dell'entasi. Ma è difficile dire se si tratta di soluzioni autonome o di lontani suggerimenti classici, mediati dall'architettura buddhista. L'intelaiatura della copertura, costituita da una successione di arcarecci sorretti da pilastrini e disposti a gradoni decrescenti, permette la caratteristica curvatura del tetto in tegole, che si accentua dopo i Tang, probabilmente per influenza degli stili meridionali. Esistono quattro tipologie fondamentali di coperture: a due spioventi (ren-zi), a quattro spioventi (fu-dian), a quattro spioventi con frontoni (xie-shan) e a tettoia perimetrale (lu-ding), utilizzata quest'ultima soprattutto come marcapiano negli edifici multipiano o per enfatizzare la copertura dei padiglioni più importanti. Le coperture coniche o piramidali (cuan-jian) per edifici a pianta centrale appartengono soprattutto all'architettura dei giardini e ad alcuni edifici sacri. Il sistema mensolare, già presente in nuce nei tardi Zhou, ma sistematizzato in epoca Han (206 a.C. - 220 d.C.), costituisce il necessario supporto delle gronde del tetto, che nelle costruzioni importanti divengono molto sporgenti. Può essere considerato il corrispondente dei capitelli greco-romani e subisce una netta variazione nel tempo, che consente l'immediata datazione di un edificio. Infatti da un periodo di sperimentazione, in cui troviamo accanto al canonico elemento cubico (dou), su cui poggia il sostegno battelliforme (gong), fantasiose mensole a protomi di animali a forma ondulata di influenza indiana (periodo Han e delle dinastie del Sud e del Nord), si arriva alla classica armonia del dougong dei Tang, il cui aggetto viene aumentato con l'inserimento di un braccio di leva sporgente (ang). Frequentemente il dougong viene intercalato da un elemento a V rovesciata (ren-zi). Successivamente ai Tang, l'elemento a V rovesciata scomparirà per essere sostituito dal moltiplicarsi e dal sovrapporsi di bracci mensolari nella forma a grappolo, mentre a partire dai Liao (916-1125 d.C.) e dai Song (960-1279 d.C.) assumerà sempre maggiori proporzioni il supporto a incastro tra colonna e architrave (que-ti), che prenderà un profilo ondulato cosiddetto "a nuvola". Il que-ti scolpito e colorato sarà sempre più evidente nelle strutture delle ultime dinastie (Ming e Qing, 1368-1911), mentre il dougong e il braccio ang, di piccole dimensioni e ridotti a una serie fittissima di grappoli vivacemente dipinti, perderanno quasi ogni funzione portante per divenire una mera decorazione. Analoga evoluzione è riscontrabile nelle varie civiltà in cui le strutture architettoniche lignee cinesi si sono diffuse, anche se in Corea e in Giappone si riscontra una lunga permanenza della classica e possente armonia Tang e dell'amore per il materiale allo stato naturale. Queste "architetture monumentali nazionali" presentano anche elementi locali, che appartengono all'antica tradizione autoctona e che spesso riemergono dopo il periodo di acculturazione cinese (ad es., il sistema a palafitte e la copertura in paglia o in corteccia di albero in Giappone). Oltre alle costruzioni lignee sono presenti in Cina strutture architettoniche portanti di mattoni, più frequentemente cotti, di pietra o di terra pressata (pisé ), ma vengono utilizzate soprattutto per fortificazioni, ponti, porte, camere funerarie ipogee e pagode. È conosciuto l'arco fin dall'epoca Han (tombe), presente anche nei ponti e successivamente nelle pagode e nelle porte monumentali. La preminenza delle strutture lignee è dimostrata anche dal fatto che, negli edifici in muratura portante, esse sono spesso presenti come decorazione scolpita e dipinta. A partire dall'epoca Yuan (1279-1368 d.C.) si riscontra in Cina e in Mongolia una maggiore presenza di costruzioni in muratura portante, forse per influenza dell'architettura del Tibet, che si afferma nel territorio grazie alla diffusione del lamaismo. Tale stile architettonico appartiene, infatti, dal punto di vista costruttivo, all'area centro-occidentale dell'Asia; esso consta di spesse mura portanti multipiano di pietra, adobe o pisé, con colonne e strutture lignee utilizzate per supporto ai solai e alla copertura piana, per protiri, tettoie, verande e porticati che circondano i cortili interni.
M. Kitao, Shoin Shosai Zutsu [Gli elementi strutturali dello Shoin-zukuri], Tokyo 1955; Liu Zhiping, Building Types and Construction of Chinese Architecture, Beijing 1957; W. Willetts, Chinese Art, II, London 1958; W. Alex, L'architettura giapponese, Milano 1963; J. Needham, Science and Civilization in China, IV, 3, Cambridge 1973; Chon In-Kook, The Style and Structure of Korean Architecture, Seul 1974; N. Shatzman Steinhards, Chinese Traditional Architecture, New York 1984; L.G. Liu, Chinese Architecture, Hong Kong 1985.
di Paola Mortari Vergara Caffarelli
Le tipologie delle decorazioni architettoniche nell'area estremo- orientale, pur assumendo in epoca storica chiare valenze estetiche, hanno una genesi meramente costruttiva o legata a significati magico-religiosi. Gli scavi degli archeologi cinesi negli ultimi decenni del Novecento hanno largamente contribuito alla definizione della linea evolutiva delle decorazioni architettoniche siniche. Si è ipotizzato che all'epoca delle prime dinastie Xia e Shang (inizi II millennio a.C. - XI sec. a.C.) le mura di adobe o di pisé e alcune strutture lignee potessero essere decorate dagli stessi elementi geometrizzanti (spirali, losanghe, greche) uniti a figurazioni animalistiche, spesso fantastiche o stilizzate (tao-tie, uccelli mitici, draghi, larve di cicala), presenti con significati simbolici e totemici nelle decorazioni dei manufatti in bronzo, in ceramica bianca e in osso. Statue, di cui sono stati rinvenuti scarsissimi esemplari di modeste dimensioni a Yin, già decoravano i complessi architettonici dell'epoca Shang dinastica (XIV-XI sec. a.C.). Con la dinastia Zhou (1050/1045-221 a.C.) e soprattutto nell'ultimo periodo, detto degli Stati Combattenti (475-221 a.C.), assistiamo a una vera e propria rivoluzione tecnologica dei materiali e quindi a un differenziarsi e a un arricchirsi dell'ornamentazione. Negli scavi sono state ritrovate antefisse in ceramica, decorate con motivi simbolici, geometrici e vegetali con funzione apotropaica; ad esempio quelle rinvenute presso i resti di strutture palaziali nella capitale del regno di Yan, Yandu (Prov. di Hebei), o presso quella del regno di Qin, Xianyang (Prov. di Shaanxi). Una stessa funzione avevano gli acroteri, a forma di tridente o di animali di notevoli proporzioni, posti sulla linea di colmo, come documentano alcune figurazioni sui bronzi dell'epoca, che presentano anche decorazioni a motivi geometrici sulle colonne e sulle trabeazioni. Una funzione decorativa, con chiara valenza simbolica, sembra avessero gli elementi di bronzo a forma di grande tridente, rinvenuti nella capitale del regno di Zhongshan (Prov. di Hebei), durante l'epoca degli Stati Combattenti, forse posti a decorare il frontone di un palazzo. L'uso del bronzo come materiale per le decorazioni architettoniche è però già attestato dall'epoca delle Primavere e Autunni (770-476 a.C.); diversi tipi di elementi di raccordo per travature lignee, decorati sulle facce a vista da draghi e da serpenti intrecciati, infatti, sono stati rinvenuti nel sito di Fengxiang (Prov. di Shaanxi), una delle antiche capitali del regno di Qin. Ma è in epoca Han (206 a.C. - 220 d.C.) che gli elementi apotropaici e simbolici, pur conservando il loro significato, assumono anche una precisa valenza estetica. Nelle camere ipogee delle tombe (necropoli del Sichuan e dello Shandong) si trovano ampi campionari delle decorazioni architettoniche, che dovevano ornare anche le dimore dei vivi. Alcuni elementi ornamentali, come il colore delle tegole e delle porte a borchie dorate, contraddistinguono il grado sociale del proprietario. Talvolta gli elementi costruttivi assumono contemporaneamente funzioni decorative, come le mensole a corpo di drago o a profilo ondulato, le ornamentazioni dei cassettoni nei soffitti, anche con funzione simbolica (rappresentazioni cosmologiche) e i chiodi trasformati in borchie dorate, generalmente cesellate. I modellini di edifici trovati nelle tombe testimoniano una fantasiosa ricchezza di tipologie nelle decorazioni delle aperture, delle grate, delle balconate, delle balaustre e dei podi e un gusto per il colorismo conservato fino ad oggi. Le antefisse rinvenute negli scavi e datate a partire dall'epoca Qin (221-206 a.C.) presentano iscrizioni augurali, animali fantastici o realistici e decorazioni geometriche o fitomorfe; si tratta degli stessi motivi che ornano gli acroteri e le linee di displuvio, spesso fortemente rilevate in funzione anche decorativa. Alcuni rilievi che rappresentano edifici mostrano ornamentazioni a mattonelle invetriate sulle pareti esterne; sappiamo inoltre dalle fonti che numerose pitture murali, che raffiguravano soprattutto personaggi, scene di genere o animali mitici, erano situate all'interno dei palazzi. La stessa ricchezza decorativa si ritrova espressa con analoghe tematiche in Corea nella colonia di Lolang, presso Pyongyang (108 a.C. -313 d.C.). La diffusione del buddhismo all'epoca delle dinastie del Sud e del Nord (420-589 d.C.) porterà ad un ingresso di elementi decorativi, costruttivi e simbolici provenienti dall'India (arco a cuspide, elementi lotiformi e viticci, foglie d'acanto e palmette, soffitti a Laternendecke, colonne decorate con nicchie e divinità, capitelli a protomi di animali). Oltre alla classica cuspide dello stūpa, sono già perfettamente delineati, in alcune raffigurazioni di padiglioni (Maijishan, Grotta n. 30), gli acroteri a coda di civetta posti ai due lati della linea di colmo che tanta fortuna avranno nell'architettura successiva, trasformandosi in teste di mostri e di dragoni, rappresentanti l'elemento acqua e quindi con funzione di protezione contro gli incendi. È nell'epoca Tang (618-907 d.C.) che l'ornamentazione architettonica cinese assumerà il suo aspetto più classico e misurato, di cui, grazie anche alla diffusione in Corea e in Giappone, abbiamo le prime testimonianze dirette nei complessi templari buddhisti sopravvissuti fino ad oggi (Foguangsi sul monte Tai Shan; Horyuji e Toshodaiji a Nara). Appare evidente come sia difficile scindere nell'architettura cinese matura l'elemento costruttivo dalla decorazione. Il sistema mensolare (dougong) di supporto alle gronde costituisce anche un motivo decorativo molto lineare ed elegante. All'interno, alle strutture architettoniche a vista, si aggiungono spesso splendide pitture murali e statue di divinità. Gli edifici Tang rappresentano un momento di classico equilibrio e l'ornamentazione architettonica non disgrega l'unità costruttiva dell'edificio diventando troppo sovrabbondante ed evidenziata, come avviene nelle ultime dinastie. Tale eredità dei Tang verrà conservata molto più a lungo in Corea e in Giappone che nella madrepatria, dove invece soprattutto le dinastie di origine straniera (Liao, Jin, Yuan, 907-1368 d.C.) porteranno un forte gusto per i contrasti volumetrici e coloristici. Le coperture accentueranno la loro curvatura, mentre la linea di colmo e quella di displuvio saranno evidenziate da alte costolature in legno scolpito e sovrastate da fitti acroteri di ceramica smaltata, con figure umane e animali, spesso in funzione apotropaica, o con i simboli del buddhismo (stūpa, vaso dell'abbondanza, ruota della legge, gioiello), come ad esempio quelli visibili nel Padiglione Daxiongbao, nel monastero Huayuansi, dell'anno 1140 (dinastia Jin) o nel Padiglione dei Tre Puri, nel tempio Yonghegong, dell'anno 1262 (dinastia Yuan), ambedue nella Provincia di Shanxi. In Giappone e in Corea la ridondanza decorativa delle ultime dinastie cinesi (Yuan, Ming, Qing) verrà in parte smorzata dal tipico gusto locale per il materiale allo stato naturale, dall'amore per la semplicità e dalla persistenza dei misurati stilemi dei Tang. Ad esempio i castelli feudali di epoca Muromachi, Momoyama ed Edo (1333-1867 d.C.), con le bianche mura esterne ornate solo dalle molteplici coperture a tegole scure e con gli interni a pareti scorrevoli e scaffalature in materiali naturali (stile shoin), rappresentano il culmine della raffinatezza e della semplicità giapponese, a cui contribuisce anche l'atteggiamento estetico del buddhismo Zen. All'elegante asimmetria volumetrica dei castelli dei Daimyo giapponesi può aver contribuito anche la suggestione dei palazzi fortificati multipiano dell'area tibetana, che presentano analoghe mura bianche ad andamento a scarpa all'esterno, sottolineate solo da fasce scure alla sommità e intorno alle aperture. In Tibet tali cornicioni (pempe, penchen, penchung), a cui sono spesso sovrapposti dischi con formule e segni augurali, risultano frequentemente costituiti da ramoscelli di ginepro disposti a spazzola, simbolicamente ricollegabili a valori di protezione e di ricchezza. Si ispirano infatti alla serie di fascine conservate sulle coperture delle case per il riscaldamento invernale. L'esterno delle costruzioni tibetane è perciò molto spoglio, poiché solo l'ordine Sakya prevede una serie di strisce verticali colorate sulle mura perimetrali. Alcuni edifici sacri più importanti possono avere lucernai (silkhang) con tetti alla cinese (gyaphib), originariamente con tegole, e poi, a partire dal XIV sec. d.C., di metallo dorato (serthog) per influenza nepalese. Nei periodi più antichi, VII-XII sec. d.C., le strutture architettoniche lignee, e di conseguenza la loro decorazione scolpita e dipinta, sono frequentemente d'ispirazione indiana (apsaras, protomi di leoni atlanti, mostre di porta con cornici concentriche, motivi a viticci, palmette, foglie d'acanto, mensole a profilo ondulato). Successivamente saranno più diffusi gli stilemi ornamentali sinici (sistema mensolare, motivi a nuvola, fiamme, draghi) che, già presenti all'epoca della monarchia (pilastro di Chongye, VIII sec. d.C.), sembrano essere stati all'inizio meno usati nei templi. Anche gli acroteri simbolico-religiosi (chödze) in metallo dorato, in legno e in pelo di yak ( gyeltsen, gandzira, thug) si ispirano a modelli indiani (āmalaka, kalaśa, stendardo della vittoria, gazzelle e ruota della legge, stūpika). È molto forte il contrasto, a cui si può dare un valore simbolico, tra la semplicità degli esterni e l'interno letteralmente coperto da pitture murali e da sculture, con le strutture lignee intagliate e dipinte a vivaci colori. L'esterno degli edifici corrisponderebbe all'involucro materiale e corporeo transeunte, mentre l'interno rappresenterebbe la ricchezza e la luminosità del mondo dello spirito. Le concezioni decorative del Tibet si sono diffuse nell'area sino-mongolica soprattutto a partire dal XIII sec. d.C., in seguito all'espansione del lamaismo.
W. Willetts, Chinese Art, I-II, London 1958; M. Fujioka, Nihon no Shiro [Castelli in Giappone], Shibundo 1960; Chon in-Kook, The Style and Structure of Korean Architecture, Seul 1974; M. Medley (ed.), Chinese Painting and the Decorative Style, London 1976; J. Rawson, Chinese Ornament, the Lotus and the Dragon, London 1984; N. Shatzman Steinhardt (ed.), Chinese Traditional Architecture, New York 1984; Historic Chinese Architecture, Bejing 1985; P. Mortari Vergara Caffarelli - G. Beguin, Dimore umane, santuari divini. Origini, sviluppo e diffusione dell'architettura tibetana, Roma 1987; Chinese Traditional Building Ornament, Hong Kong 1992; P. Mortari Vergara Caffarelli, L'architecture mongole et ses modèles tibétains. Asies, II, Paris 1993.
di Roberto Ciarla
Un'architettura abitativa diversa dalle tre principali tradizioni costruttive della capanna neolitica (uso della terra o löss a nord, strutture di legno su pilastro a sud e sud-ovest, strutture di pietra nelle zone montuose della Mongolia e della fascia circumhimalayana) inizia a delinearsi solo nella prima età del Bronzo (dal 2000 a.C. ca.), allorché i dati archeologici rivelano l'instaurarsi di una netta dicotomia tra le abitazioni comuni e quelle aristocratiche. Mentre le prime continuano ‒ soprattutto nelle zone loessiche ‒ la tradizione delle strutture seminterrate e ipogee, le seconde assumono un carattere decisamente palaziale con costruzioni, pur sempre basate sull'uso di materiali leggeri, elevate su terrazze o basamenti di terra battuta. Da quanto è possibile ricostruire attraverso la documentazione archeologica, mentre le abitazioni aristocratiche, in particolare dall'epoca dell'unificazione operata nel 221 a.C. da Qin Shihuangdi, tendono ad uniformarsi ai modelli planimetrici, costruttivi e simbolici elaborati nella valle del Fiume Giallo nel II e nel I millennio a.C., le abitazioni non aristocratiche tendono a sviluppare (o a mantenere) tradizioni architettoniche locali che hanno dato vita, nel corso dei secoli, ad una tipologicamente vastissima e variegata architettura vernacolare, anche arricchita dall'apporto dei modelli abitativi propri alle etnie non-Han che si formarono nel territorio dell'odierna Cina o che, in tempi e con modi diversi, si stabilirono entro i suoi confini. Esemplari di tale diversificazione tipologica regionale sono alcuni modellini di abitazione che sono stati rinvenuti in contesti funerari riferibili alla fine del I millennio a.C. ed ai primi secoli del millennio successivo. Un sarcofago di bronzo rinvenuto nella necropoli di Dapona presso Xiangyun (Prov. di Yunnan), ad esempio, raffigura un'abitazione a pianta rettangolare con piano pavimentale rialzato su pilastrini; la copertura perimetrale come anche il tetto a doppio spiovente, leggermente arcuato al centro del colmo, suggerirebbero l'uso di stuoie su scheletro ligneo. La datazione del sarcofago è riferibile alla seconda metà del I millennio a.C. Un secondo modellino in bronzo è stato rinvenuto in una sepoltura di epoca Han Occidentali (206 a.C. - 23 d.C.) a Wangniuling presso Hepu (Prov. di Guangxi) e raffigura, ancora una volta, una struttura a pianta rettangolare su bassi pilastri con scheletro ligneo e tamponatura in materiale leggero; il tetto è però coperto da quelli che sembrano essere tegoloni. La porta dell'abitazione è in questo caso chiaramente posta sul lato lungo ed è preceduta da un porticato. Il modello di tali strutture da una parte sembra ricollegarsi a quello delle fondazioni messe in luce nel sito neolitico di Hemudu, dall'altra riecheggia il modello delle long-houses ancora in uso presso alcuni gruppi etnici della Cina meridionale e dell'Asia sud-orientale. Una struttura diversa è, invece, quella che riproducono i modelli in bronzo rinvenuti nel contesto di arredi funerari della cultura Dian (IV-I sec. a.C. ca.) nell'area lacustre dello Yunnan. In questo caso il piano pavimentale di legno dell'abitazione, a pianta rettangolare nella maggior parte dei casi, è notevolmente rialzato dal suolo su solidi pilastri sui quali grava anche la struttura del tetto, a due spioventi, formato da materiali straminei assicurati da serie di coppie di assi lignee che si incrociano ad X sul colmo e sono, a loro volta, fermate da due file di assi orizzontali (probabilmente di bambù) poste sugli spioventi. È questo un tipo di copertura attestato sia nel Sud-Est asiatico continentale e insulare fino ai nostri giorni, sia in Giappone, dove compare in alcuni modellini rituali di terracotta (haniwa) posti presso i tumuli funerari del periodo dei Kofun (300- 700 d.C. ca.) e in alcuni edifici di stile tradizionale. La scansione verticale determinata dall'altezza del piano pavimentale dell'abitazione, come chiaramente testimoniato dai modellini di Dian, determina una concezione dello spazio abitativo che riserva alla parte inferiore l'impianto della stalla e la conduzione di alcune attività produttive, a quella superiore la custodia delle derrate e l'uso residenziale. Nella Cina settentrionale, e in genere in tutte le aree di espansione Han, i modelli dell'architettura domestica sono abbondantemente testimoniati nei corredi funerari da elementi in ceramica, perlopiù invetriata, che raffigurano l'intera tipologia dei moduli residenziali, di svago e di servizio tipici del paesaggio rurale ed urbano di epoca Han (206 a.C. - 220 d.C.). Degni di nota sono i modelli di edifici a più piani: nella maggior parte dei casi si tratta di edifici residenziali sia singoli, sia multipli ‒ talvolta uniti ai piani alti da passaggi a corridoio ‒ aggregati intorno a uno o più cortili a formare un agglomerato cinto da mura in terra. Questa struttura, formata da un nucleo cintato con un edificio principale servito da elementi residenziali minori e di servizio aggregati intorno a cortili interni, è il tipico modello abitativo Han, che resterà sostanzialmente invariato fino all'età moderna. Nel caso di modelli che riproducono ricche strutture rurali (concettualmente vicine alla villa), sono anche presenti edifici a due o tre piani riconoscibili come silos. Diverso è il caso di edifici a più piani digradanti che si sovrappongono a formare torri e che diversi indizi ci inducono a riconoscere da una parte come i precursori della pagoda buddhista (ta) di origine indiana, dall'altra come i prototipi di quel particolare tipo di struttura che è il jian lou dell'architettura classica, ovvero il padiglione (noto in Occidente, erroneamente, come "pagoda") usato dall'aristocrazia durante gli otia per godere dell'osservazione della natura.
Nelle regioni della Penisola Coreana ‒ tra loro diverse per fisiografia e clima ‒ sebbene non sia attestata un'unica tradizione architettonica neolitica, tuttavia è possibile parlare di una comune tendenza all'uso di strutture a pianta circolare o subrettangolare con focolare centrale e pavimento intonacato e abbassato, nella maggior parte dei casi lievemente, rispetto al piano di campagna. Le dimensioni di tali strutture tendono ad una certa standardizzazione ‒ 4,5-6 m circa di diametro le piante circolari, 4-7 m circa di lato quelle subrettangolari ‒ e lasciano supporre che esse possano essere state utilizzate come moduli residenziali per famiglie nucleari. I modelli che si percepiscono dai dati archeologici ancora relativamente scarsi sono avvicinabili ‒ per la similarità sia delle tipologie planimetriche e di diversi altri indicatori archeologici, sia dei modelli di sussistenza ‒ ai meglio noti modelli dell'arcipelago giapponese. A partire dal 2000 a.C. circa, in concomitanza con un generale cambiamento dei modelli insediamentali, si osserva un progressivo incremento dei moduli abitativi, sia nelle dimensioni delle planimetrie, sia nel numero di singole unità. Nel sito di Hunamni, ad esempio, sono state messe in luce 14 abitazioni sul fianco di una collina che sovrasta la confluenza di un piccolo torrente con il Fiume Han: si tratta di strutture rettangolari lievemente infossate, il cui lato maggiore ha costantemente una lunghezza doppia rispetto a quello minore. La presenza in molti casi di più focolari all'interno dell'abitazione ha fatto supporre che possa trattarsi di moduli abitativi per famiglie allargate. Un deciso discostamento dai modelli abitativi neolitici a pavimento ribassato si osserva, però, solamente in concomitanza con la diffusione e la produzione di utensili di ferro, intorno al 400 a.C., con la comparsa nella regione nord-occidentale dell'elemento più tipico dell'architettura abitativa coreana, noto come "pavimento ondol ", ovvero un sistema di condotti scavati a livello del pavimento, coperto di assi lignee, che distribuiscono il calore del focolare (o della stufa) centrale all'intero ambiente abitato. L'uso dell'ondol, tuttavia, sebbene sia stato comprovato da A.P. Okladnikov in almeno due siti siberiani (di cui uno datato al 99 a.C.), non fu immediatamente ed universalmente accettato, come dimostra il rinvenimento nel sito di Naksuri (Cholla Nam Do, Corea) di diverse file di abitazioni, riferibili alla fine del I millennio a.C., con pavimento ribassato e pianta prevalentemente rettangolare con partizioni interne, spesso arricchita da un porticato e da canalette di drenaggio all'esterno.
L'uso di strutture abitative caratterizzate da pianta circolare o subrettangolare con piano pavimentale più o meno ribassato e sistemi di copertura perimetrali e del tetto ‒ a doppio spiovente ‒ di materiali straminei su scheletro ligneo è attestato, con diverse varianti regionali, nell'arcipelago giapponese durante tutto il lungo periodo neolitico Jomon (ca. 12.000-2400 anni fa). Una delle innovazioni più significative nell'architettura della capanna Jomon ‒ mediamente di dimensioni sufficienti per l'alloggiamento di una famiglia nucleare ‒ sembra doversi riconoscere nel trasferimento, verificatosi all'inizio del periodo Jomon antico (ca. 6000-4500 anni fa) del focolare dall'esterno, in prossimità dell'ingresso, all'interno dello spazio abitativo. I modelli di tale architettura abitativa sembrano subire un progressivo mutamento (soprattutto in termini di complessità sia delle strutture di sostegno, sia degli accessori di servizio all'interno) con l'affermarsi di una piena e stabile economia risicola nell'epoca Yayoi (ca. 350 a.C. - 350 d.C.). Esemplificative dell'architettura domestica del medio-tardo Yayoi sono le capanne messe in luce nel sito di Toro presso Shizuoka (150 km ca. a sud-ovest di Tokyo): si tratta di strutture a pianta rettangolare con angoli fortemente arrotondati, costruite a livello del piano di campagna. La pianta, che in media ha un'asse di 6-7,5 m, è organizzata intorno al focolare centrale con quattro grosse buche di palo poste in posizione equidistante. Tali alveoli indicano la presenza di poderosi pali di sostegno delle travature del tetto conico, la cui falda scendeva a coprire un muro perimetrale in terra (alto 30 cm ca. e spesso 1 m ca.), foderato internamente ed esternamente da piccole palanche in legno tenute da pioli; tale muro fungeva sia da isolante, sia da bancone di appoggio interno. La struttura del tetto stramineo sembra fosse sostenuta da un sistema di travicelli convergenti dal perimetro esterno sui quattro pali di appoggio posti centralmente; l'ingresso, rivolto a sud, era spesso rinforzato da un gradino di legno. Accanto a tali abitazioni, che sostanzialmente continuano la tradizione neolitica, sono state messe in luce strutture non abitative che però presentano un elemento che sarà in seguito acquisito dall'architettura abitativa tradizionale: tali strutture, riconosciute come ambienti per immagazzinaggio, sono, infatti, rialzate dal piano di campagna su quattro grossi pilastri angolari in legno. Strutture abitative di materiali leggeri, a pianta rettangolare e poste su pilastri lignei, sono quelle messe in luce nel sito di epoca Kofun (300-700 d.C.) ad Ozono (Prefettura di Osaka), probabilmente da riconoscere come una delle prime evidenze di architettura "padronale" del Giappone antico.
Yunnan sheng Wenwu Gongzuodui, Yunnan Yangyun Dapona muguo tongguang mu qingli baogao [Rapporto di scavo di una tomba con sarcofago in bronzo e camera in legno a Dapona presso Yangyun-Yunnan], in Kaogu, 2 (1964), pp. 607-14; Guangxi Zhuangzu Zizhichu Wenwu Kaogu Xiezuo Xiaozu, Guangxi Hepu Xi Han muguo mu [Una sepoltura a camera lignea di epoca Han Occidentali a Hepu - Guangxi], ibid., 5 (1972), pp. 20-30; C.M. Aikens -T. Higuchi, Prehistory of Japan, New York - London 1982; L. Lanciotti - R. Ciarla (edd.), I bronzi del regno di Dian, Roma 1986, pp. 46-47, 66-67; Zhan Yuhan et al., History and Development of Ancient Chinese Architecture, Beijing 1986; Tsude Hiroshi, The Kofun Period, in Tsuboi Kiyotari (ed.), Recent Archaeological Discoveries in Japan, Paris - Tokyo 1987, pp. 55-71; S.M. Nelson, The Archaeology of Korea, Cambridge 1995.
di Filippo Salviati
Gli elementi che maggiormente caratterizzano l'architettura palaziale cinese, vale a dire planimetrie cosiddette "a cortile" e vasti ambienti (o padiglioni dian e ting) edificati sulla sommità di piattaforme rialzate, si delineano con chiarezza dagli inizi dell'età del Bronzo, in concomitanza con l'emergere delle prime forme protostatali. Nel sito di Erlitou (Yanshi, Prov. di Henan, 1900-1500 a.C.) sono stati riportati alla luce i resti di due complessi a pianta quadrangolare dall'aspetto di un'ampia corte, chiusa sui quattro lati da un porticato con ingresso a meridione, all'interno della quale risalta un basamento rettangolare in terra battuta utilizzato come supporto per una struttura lignea di grandi dimensioni. Analoghe piattaforme sono venute alla luce nei siti urbani Shang di Zhengzhou (Prov. di Henan, XVI-XIV sec. a.C.) e Yinxu (Anyang, Prov. di Henan, XIII-XI sec. a.C.): si ritiene che esse, riunite in gruppi omogenei e distinte dalle altre aree delle città, formassero il nucleo dei complessi palaziali con funzione politica, amministrativa e cultuale. Si deve a tali raggruppamenti di alte piattaforme che si stagliano nel paesaggio pianeggiante l'identificazione archeologica, nei siti del periodo Zhou Orientali (770-221 a.C.), delle aree palaziali all'interno di centri urbani quali Lucheng (Prov. di Shandong), dove il palazzo e il tempio ancestrale erano localizzati nella parte centrale della città, o Xuecheng, sempre nello Shandong, dove l'andamento pianeggiante del terreno è interrotto soltanto da un basamento di terra battuta noto come Huangdiangang ("Collina del Padiglione Reale"). La pianta completa di un complesso palaziale con struttura a cortile risalente al tardo II millennio a.C., periodo iniziale dei Zhou Occidentali, è stata riportata alla luce nel sito di Fengchu (Qishan, Prov. di Shaanxi): delimitata da una serie di ambienti perimetrali contigui, presenta un grande spiazzo antistante un basamento rialzato fornito di tre brevi scalinate di accesso e dietro il quale sono due corti più piccole. I resti delle fondazioni di un piccolo muro di fronte al portone d'ingresso, inoltre, suggerirebbero l'uso di uno degli elementi più tipici dell'architettura tradizionale cinese: ovvero, quel muro che, nelle residenze più ricche coperto da complesse decorazioni, protegge l'interno del complesso abitativo da sguardi indiscreti o malevoli. Durante il periodo compreso tra l'VIII e il III sec. a.C. si va affermando una nuova tipologia di architettura palaziale orientata verso un maggiore sviluppo in verticale degli edifici, articolati in una serie di strutture lignee distribuite su più livelli e costruite attorno e al di sopra di nuclei solidi formati da terrapieni. Anche se l'esempio più antico ci proviene da un contesto funerario ‒ il complesso degli edifici del mausoleo del re Cuo dello Stato di Zhongshan (Pingshan, Prov. di Hebei, IV sec. a.C.) ‒ non mancano evidenze della presenza di queste strutture in siti urbani quali Xiadu (Yixian, Prov. di Hebei), Handan (Prov. di Hebei), Linzi e Qufu (Prov. di Shandong), dove i terrapieni a gradoni identificati all'interno dei perimetri urbani sono interpretati come i basamenti sui quali si ergevano le strutture palaziali in legno. Uno degli esempi meglio conservati di questa tipologia architettonica è costituito dai terrapieni che si trovano ad est dell'attuale Xianyang (Prov. di Shaanxi) e che sono stati identificati come i resti del monumentale Palazzo Jique, costruito quando il regno Qin stabilì la propria capitale in questo sito durante l'ultima fase del periodo Stati Combattenti (475-221 a.C.). Il complesso architettonico sembra fosse in origine costituito da due gruppi di edifici identici e simmetrici costruiti su alti basamenti in terra battuta (45 × 60 m ca.), oggi rimasti a testimonianza del palazzo unitamente ad elementi decorativi architettonici quali mattoni incisi, formelle a stampo di terracotta e tracce di pitture murali. Il palazzo simboleggiava inoltre il centro del potere Qin con sede a Xianyang, capitale di un impero che si andava formando con la progressiva conquista degli altri "Stati Combattenti": ogni qualvolta uno di essi veniva debellato e la capitale rasa al suolo, la copia fedele del palazzo appartenuto al re nemico era riedificata a Xianyang. Con la sconfitta dell'ultimo regno nel 221 a.C., la capitale della dinastia Qin (221-207 a.C.), Xianyang, ed i suoi dintorni, apparivano ‒ come sappiamo dai testi ‒ un unico vasto complesso di palazzi distribuito sul territorio, vera e propria sintesi simbolica dell'impero appena creato. Anche il primo imperatore della successiva dinastia degli Han (206 a.C. - 220 d.C.), Gaozu, decise di stabilire la capitale, Chang'an, a Xianyang, utilizzando quanto restava di una parte dei complessi palaziali Qin nota come Palazzo Xingle, a sud del Fiume Wei. Successivamente si procedette alla costruzione di un nuovo complesso denominato Weiyang, anch'esso basato sul principio del terrapieno sovrastato da strutture lignee. Il sito è stato oggetto di estensive indagini, a partire dagli inizi degli anni Ottanta, che hanno chiarito come l'impianto della vastissima area palaziale sia da considerare il modello a cui si sarebbe ispirata l'architettura palaziale sia delle successive epoche sia dei Paesi sui quali la cultura cinese avrebbe esteso la propria influenza. Il Weiyang Gong, infatti, presenta una pianta quadrangolare con un perimetro di 8800m ed è situato nell'angolo sud-ovest della capitale, a ridosso delle mura che, successive al palazzo, correvano per 25.700 m circa. L'area palaziale ‒ compresa entro un muro fornito di quattro porte assiali e di torri di guardia quadrangolari, come risulta dai resti di quella sud-occidentale (31,5 m nord-sud × 67,7 m est-ovest) ‒ era formata da gruppi distinti di edifici su basamenti in hangtu. Il più importante era il Complesso della Sala Anteriore, su un basamento di 200 m da est ad ovest e di 400 m da sud a nord, asse lungo il quale la piattaforma cresceva gradualmente in altezza fino a 15 m. L'edificio principale, a pianta rettangolare, sulla piattaforma era quello centrale (8289 m²), preceduto e seguito da due padiglioni (o sale) minori (rispettivamente 3476 m² e 4230 m²); ai lati di questo complesso sorgevano diversi ambienti di servizio sia di carattere civile che militare. A nord del Complesso della Sala Anteriore, verosimilmente da identificare come il luogo in cui l'imperatore svolgeva alcune delle sue funzioni ufficiali, è stato messo in luce un secondo complesso, che gli archeologi identificano come formato da strutture residenziali riservate all'imperatrice; l'impianto dei padiglioni di tale complesso ‒ servito da canali e da un profondo pozzo foderato in mattoni ‒ significativamente si discosta dalla rigida assialità della Sala Anteriore e la pianta rettangolare delle strutture (tra cui la principale, Sala 1, misura 57,7 m da est ad ovest) evidenziata da pavimenti e dalle basi delle colonne lignee, si arricchisce di vani accessori, forse porticati o vani minori. I 6 padiglioni messi in luce in tale complesso erano serviti da almeno 17 ambienti minori (forse d'uso abitativo, immagazzinaggio, ecc.), che erano collegati tra loro e con i padiglioni da vialetti pavimentati. Dell'alzato di tali strutture, intimamente legate alla rappresentazione del potere imperiale Han, oltre alle piante non restano che labili tracce: mattoni in ceramica grigia per i piani pavimentali o, di forma rettangolare o quadrata e decorati a motivi impressi geometrici o floreali, per la base dei muri perimetrali o divisori e le tegole di gronda con faccia circolare decorata da un'ampia variazione tipologica di un unico tema: il sole raggiato, simbolo della nuova dinastia Han. La stretta relazione tra potere imperiale Han e gestione del potere è stata messa in evidenza dal rinvenimento di alcune strutture amministrative ad ovest e nord-ovest del Complesso della Sala Anteriore. Nel primo caso, quello del Complesso del Zhongyang Guang, probabilmente successivo alla fondazione di Gao Zu ma comunque in uso fino all'inizio dell'epoca di Wang Mang (9 d.C.), si tratta di un'area cintata con due cortili interni comunicanti e delimitati, a nord e a sud, da una fila di vani a pianta rettangolare con ingresso rivolto a sud. Da una di tali stanze provengono 50.000 iscrizioni su osso (prevalentemente di bovino), tutte di carattere amministrativo. Molto più articolato è l'impianto del secondo complesso amministrativo, riconosciuto come la sede dello Shao Fu (o anche "ufficio subordinato"), che consta di due padiglioni principali, sull'asse nord-sud, a pianta rettangolare scandita da possenti basi per pilastri lignei, circondati da vani minori per lo più a pianta quadrata e con piano pavimentale in legno. La pianta di questo complesso, che presenta una fase d'uso successiva al 9 d.C., non è stata ancora totalmente messa in luce, ma è già possibile asserire che esso rappresenta una delle più antiche e articolate strutture di carattere pubblico-amministrativo fino ad oggi rinvenute in Asia orientale. Trattandosi di una residenza imperiale, nel Weiyang Gong un ruolo di primo piano deve aver giocato l'architettura dei giardini, come dimostrano i resti di un lago artificiale ‒ il Lago Canchi ‒, coevo al palazzo, che occupa un'area di 196.000 m² a sud del Complesso della Sala Anteriore. Al centro del lago, alimentato da un canale proveniente dal Fiume Wei, si ergeva una collinetta artificiale ad imitazione di un'isola. Anche questo elemento dell'architettura palaziale servirà da modello sia in Cina, sia in Corea e in Giappone. Da segnalare, inoltre, il rinvenimento effettuato nei primi anni Ottanta a 130 km circa da Chang'an di una serie di strutture, all'interno di una cinta muraria di 784.000 m², riconosciute come lo Jing Shi Cang, ovvero il granaio governativo centrale, probabilmente fondato in epoca Qin e ristrutturato e ampliato nel 129 a.C. Delle strutture messe in luce è di particolare rilievo la n. 1, a pianta rettangolare (1662 m² ca.) suddivisa in tre ambienti a navata con piano pavimentale in assito ligneo rialzato e porte, sul lato corto rivolto ad est, fornite di porticato: delle tre "navate" quella mediana, delimitata da mura in terra battuta spesse 5 m, presentava una fila centrale di basi in pietra per pilastro di 2,5 m di diametro. La presenza di porte sul lato corto della struttura e la suddivisione tripartita dello spazio interno lasciano supporre che questa avesse funzioni di immagazzinaggio per granaglie stabili. Vero e proprio silos per granaglie in fermentazione era, invece, la struttura semisotterranea n. 2 (144 m² ca.), anch'essa a pianta rettangolare ripartita sull'asse lungo in due ambienti, con pareti rinforzate e impermeabilizzate da successivi stati di argilla pressata su uno scheletro ligneo. La Chang'an di epoca Sui e Tang mantenne lo stesso impianto urbano della capitale Han, tuttavia alcuni significativi mutamenti furono apportati in epoca Tang all'interno dell'area palaziale: tra questi, la costruzione ‒ nel 662 d.C. ‒ del Padiglione Hanyuan, forse il più monumentale tra tutti gli edifici costruiti sotto i Tang. Il Padiglione Hanyuan, il cui aspetto è stato ricostruito dagli archeologi, riuniva insieme gran parte della tradizione architettonica palaziale cinese: la sala Hanyuan stessa, di circa 68 m × 30 m di profondità, si ergeva sopra un'alta piattaforma in terra battuta con la pianta a tenaglia alta 10 m circa. Alla sommità della piattaforma si accedeva tramite una lunga rampa di scale posta centralmente rispetto al padiglione; le estremità della piattaforma erano dominate da due alti padiglioni in legno raccordati alla sala centrale mediante corridoi coperti. Sulla base delle informazioni testuali, sappiamo che il Padiglione Hanyuan veniva utilizzato in occasione delle cerimonie per il nuovo anno ed il solstizio d'inverno, l'investitura di un nuovo imperatore, l'ispezione delle truppe e la presentazione di prigionieri di guerra. Di non minore rilievo, tra i molti impianti palaziali messi in luce nella capitale Tang negli anni recenti, è il Padiglione n. 37 di un complesso palaziale conosciuto in epoca Sui come Renshou Gong ed in epoca Tang come Jincheng Gong e noto sia per diversi episodi storici avvenuti al suo interno, sia per essere stato celebrato per la sua bellezza e l'amenità del paesaggio da poeti di epoca Tang. Di tale padiglione non resta che il piano pavimentale, che però evidenzia una esemplare struttura dalla pianta rettangolare scandita dalle basi dei colonnati tipica delle proporzioni e dei canoni volumetrici della più pura architettura Tang.
Una vera e propria architettura palaziale è attestata in Corea solo con il periodo dei Tre Regni (300-668 d.C.). Dei molti palazzi che le fonti ‒ quali il Samguk sagi ("Storia dei Tre Regni") ‒ ricordano, oggi non rimane nulla, se si esclude il tracciato di un laghetto artificiale individuato dagli archeologi nel sito di Kungnamji. La presenza di architetture palaziali derivate da modelli Han è, però, indirettamente testimoniata sia da pitture parietali rinvenute in contesti sepolcrali ‒ ad esempio nella tomba n.12 di Pyongan Nam Do raffigurante una nobile coppia di Koguryo all'interno del palazzo ‒ sia da strutture architettoniche funerarie che rispecchiano modelli dell'architettura civile, come ad esempio la tomba n. 3 di Anak, che presenta diversi ambienti scanditi da colonne che, tramite il sistema dei bracci a mensola (o dougong) apicali, sostengono una complessa struttura di travi su cui grava una copertura a tetto incorbellato del tipo Laternendecke. La presenza del laghetto artificiale come elemento dell'architettura palaziale è ulteriore conferma dell'assunzione di modelli cinesi Han. L'esempio maggiormente studiato dagli archeologi coreani è quello, risalente al periodo del regno Silla Unificato (668-935 d.C.), messo in luce presso la capitale Silla, Kyongju. Si tratta del lago artificiale di Anapchi, sito ad est del cimitero reale, fatto costruire nel 674 d.C. dal sovrano Munmu (661-681 d.C.) all'interno del proprio complesso palaziale noto come Tonggung. La bonifica dello specchio d'acqua, effettuata nel 1975 come fase iniziale delle ricerche archeologiche mirate alla valorizzazione del sito, portò alla luce le opere in muratura originarie che delimitavano lo specchio d'acqua artificiale, il sistema idraulico di afflusso e regolamentazione delle acque, insieme ad una serie di reperti appartenuti agli edifici che si affacciavano sul lago poggiando su solidi basamenti quadrangolari in pietra messi in luce sul lato occidentale del complesso. Secondo una delle interpretazioni più diffuse (Kim Wan-yong 1983), il profilo del lago e le isolette artificiali che si trovano in esso costituirebbero una rappresentazione simbolica della Penisola Coreana, della costa cinese, del Giappone e dell'isola di Tsushima.
Probabilmente le più antiche evidenze di architettura palaziale in Giappone sono quelle rinvenute nel sito di Ozono (Prefettura di Osaka) riferibili al tardo V sec. d.C.: in un insediamento, cinto da fossato, che copre un'area di 50 m circa di lato sono stati messi in luce i resti di alcune strutture con piano rialzato su pilastri, di cui una a pianta rettangolare di 8 × 5 m, con perimetro scandito da una ventina di fosse di palo, si distingue per la grandezza dell'impianto e per la vicinanza ad una struttura, anch'essa a pianta rettangolare ma rinforzata da una fila di pali lungo l'asse centrale, riconoscibile come un ampio magazzino. La monumentalità della struttura e di quelle, di minor superficie, che ad essa si affiancano risulta più che dalle dimensioni o dalla sontuosità delle strutture (di cui per altro nulla si è conservato), dall'assenza di resti di abitazioni seminterrate ancora in uso nell'epoca Kofun. Vere e proprie strutture palaziali sono, invece, quelle che, dagli anni Trenta del Novecento, si vanno indagando nella piana di Nara nei siti dei palazzi di Fujiwara e di Heijo, che furono sedi del potere regale del primo Stato giapponese, rispettivamente, tra il 694 e il 710 e tra il 710 e il 794 d.C. In ambedue i casi le piante dei complessi palaziali e delle strutture urbane che li circondavano furono disegnate sul modello della Chang'an di epoca Sui-Tang, come testimoniato dalle fonti storiche e confermato dai rinvenimenti archeologici. A Fujiwara, ad esempio, l'area palaziale era situata nella porzione nord della città-capitale (Fujiwara-kyo), entro un'area cintata da un muro di terra battuta di 925,4 m da est ad ovest e 906,8 m da nord a sud. All'interno delle mura, con tre porte su ciascun lato, sull'asse nord-sud erano i padiglioni (o sale) monumentali: a sud il complesso del Chodoin (uffici del governo), nel mezzo il grande padiglione (45 × 20 m) del Daigokuden (grande sala delle udienze), a nord il complesso di edifici del Dairi, la residenza dell'imperatore e della sua famiglia. Mentre il modello architettonico dei palazzi Tang sembra essere fedelmente seguito nella pianta e nella struttura degli edifici ufficiali, il Chodoin e il Daigokuden (assialità, alternanza di cortili e padiglioni su basamenti rialzati in terra battuta, colonne su basi in pietra, tetti a tegole), nella struttura degli edifici privati, quelli del Dairi, l'evidenza archeologica ha messo in luce il persistere di un gusto squisitamente locale nell'uso sia di colonne lignee (in media diam. 30 cm) alloggiate in buche di palo prive di pietra di isolamento, sia di coperture del tetto in travi di legno o in tegole di corteccia di cedro.
Kim Wan-yong, Archaeological Discoveries in the Republic of Korea, Tokyo 1983; N. Shatzman Steinhardt, Hanyuan Hall, in N. Shatzman Steinhardt (ed.), Chinese Traditional Architecture, New York 1984, pp. 91- 99; R.L. Thorp, The Architectural Heritage of the Bronze Age, ibid., pp. 59-67; Shaanxi Sheng Kaogu Yanjiusuo, Xi Han Jin Shi Cang [Il granaio Jin Shi degli Han Occidentali], Beijing 1990; Kiyotari Tsuboi - Migaku Tanaka, The Historic City of Nara: an Archaeological Approach, Paris - Tokyo 1991; Wu Hung, Monumentality in Early Chinese Art and Architecture, Stanford 1995, pp. 149-56; Zhongguo Shihui Kexueyuan Kaogu Yanjiusuo Xian Tangcheng Gongzuodui, Sui Renshou Gong Tang Jiucheng Gong 37 hao dianzhi de fajue [Scavo del sito del Padiglione n. 37 del Palazzo Renshou dei Sui-Jiucheng dei Tang], in Kaogu, 12 (1995), pp. 1083-1099; Zhongguo Shihui Kexueyuan Kaogu Yanjiusuo, Han Chang'an Weiyang Gong: 1980-1989 nian kaogu fa jue Baogao [Il Palazzo Weiyang nella Chang'an di epoca Han: rapporto degli scavi archeologici 1980- 1989], I-II, Beijing 1996.
di Filippo Salviati
CINA Le più antiche strutture cultuali interpretabili come architettura religiosa, con una articolazione organica dello spazio sacralizzato, in Cina, sono state portate alla luce in siti delle culture tardoneolitiche di Liangzhu (3500-2000 a.C. ca.), nella regione orientale, e di Hongshan (3500-2500 a.C. ca.), in quella nord-orientale. Alla prima risalgono altari di terra battuta, a pianta quadrangolare, costruiti in prossimità o sulla cima di tumuli sepolcrali destinati alle sepolture della élite. Gli esempi più noti sono quelli rinvenuti nei siti di Yaoshan (Yuhang, Prov. di Zhejiang) e Fuquanshan (Qingpu, Shanghai). Entrambi presentano evidenze di continuate attività cerimoniali; l'esistenza di buche di palo, sul tumulo di Fuquanshan, potrebbe indicare l'originaria presenza di strutture lignee. Ancora altari, a pianta circolare, costituiscono il fulcro intorno al quale si articolano i complessi cultuali della cultura Hongshan, ad esempio a Dongshanzui (Kazuo, Prov. di Liaoning). A Niuheliang (Jianping, Prov. di Liaoning) è stata scavata una struttura semisotterranea articolata in un corridoio di accesso, due ambienti laterali ed un sacello: qui sono stati rinvenuti frammenti di statue antropomorfe di terracotta, dalle fattezze femminili e a grandezza naturale. Si tratta di un ritrovamento unico, che però non ha chiarito le modalità della utilizzazione cerimoniale del sito: la struttura non rappresenta comunque una tipologia che avrà seguito nei periodi successivi, contrariamente agli altari, che rimarranno un elemento costante dei complessi architettonici religiosi fino agli esiti più tardi. L'edificio rituale che, nella Cina antica, più di ogni altro esprimeva e condensava in una forma architettonica la simbologia del cerchio e del quadrato è il Mingtang ("Padiglione della Luce"), cui fanno cenno diversi testi a partire dalla tarda epoca Zhou (XI-III sec. a.C.). Il suo reale aspetto è per larga parte congetturale, anche se scavi condotti nel 1956-57 nell'area corrispondente ai sobborghi meridionali di Chang'an, capitale della dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.), hanno riportato alla luce le fondamenta di una serie di grandi strutture architettoniche rituali. Si tratta di edifici, fatti costruire da Wang Mang durante il suo breve periodo di regno (dinastia Xin, 9-23 d.C.), che includevano anche un Mingtang, riconoscibile nella planimetria di uno dei complessi architettonici messi in luce: è formato da un vasto complesso articolato attorno ad edificio principale con pianta a croce greca posto al centro di uno spazio quadrato orientato e delimitato da una recinzione; il tutto inscritto in un grande cerchio con un fossato come circonferenza. Centrale nella religiosità cinese è il culto degli antenati. I primi templi di cui si ha testimonianza testuale sono quelli ancestrali; l'importanza di tali strutture era tale, nell'età del Bronzo, che al momento della fondazione di una città essi erano i primi ad essere stabiliti. Le evidenze circa la loro forma architettonica sono tuttavia elusive, anche se si suppone che il tempio ancestrale non fosse altro che un edificio entro il quale trovavano posto i vasi rituali di bronzo per le offerte e le tavolette con i nomi degli avi oggetto delle offerte stesse. In virtù della stretta associazione tra il potere religioso e l'autorità politica, è stata avanzata l'ipotesi che tali templi potessero trovarsi all'interno di strutture descritte solitamente come palaziali, quali quelle della prima età del Bronzo rinvenute ad Erlitou (Yanshi, Prov. di Henan, XIX-XVI sec. a.C.) o nel sito, datato al periodo iniziale dei Zhou Occidentali (fine II millennio a.C.), di Fengchu (Qishan, Prov. di Shaanxi). Il rinvenimento qui effettuato di ossa oracolari conforterebbe l'ipotesi che quello di Fengchu fosse un tempio-palazzo, il cui impianto planimetrico a cortile (successione di edifici su basi rialzate, alternati a cortili entro un perimetro chiuso e con ingresso generalmente sul lato meridionale) caratterizzerà, nei periodi successivi, sia i complessi architettonici palaziali che quelli religiosi. Non tanto una particolare tipologia architettonica determinava la destinazione d'uso degli edifici, quanto elementi accessori, quali oggetti liturgici, accessori funzionali, iscrizioni, motivi decorativi, colori, dimensioni. Rilevante è invece, soprattutto nei templi, la scansione in orizzontale dello spazio, il percorso seguito per giungere dal primo degli ingressi all'edificio di culto principale: la lunghezza di tale percorso è solitamente proporzionale alla importanza del luogo. Un caso esemplare è costituito dal tempio di Confucio (Kong Miao) a Qufu, nello Shandong, città natale del filosofo. Secondo informazioni testuali, un primo tempio venne costruito nel 475 a.C. e consisteva in un semplice edificio con tre ambienti ove si conservavano gli oggetti appartenuti a Confucio (abiti, strumenti musicali, libri). Dal 539 d.C. il tempio ha subito numerosi rimaneggiamenti e ricostruzioni fino ad assumere l'aspetto attuale: un complesso orientato sull'asse nord-sud, per una lunghezza di 1 km circa, costituito da una serie di cortili e padiglioni ai quali si accede al termine di una successione di ingressi monumentali. Il fulcro dell'intero complesso è il grande Padiglione Dacheng, del 1724, alto 31 m e posto sopra un alto basamento in marmo.
L'architettura religiosa coreana, quasi esclusivamente buddhista, risalente ai periodi più antichi ci è nota non solo attraverso i monumenti superstiti, ma anche grazie ad una serie di ritrovamenti archeologici. Gli scavi condotti tra il 1936 ed il 1938 nei siti di Chongam-ri, Wono-ri e Sango-ri hanno messo in luce i siti ove furono edificati alcuni tra i più antichi templi buddhisti nei dintorni di Pyongyang, capitale del regno Koguryo durante il periodo dei Tre Regni (300-668 d.C.). Gli scavi hanno dimostrato che tali templi erano edificati secondo il cosiddetto "stile del periodo Koguryo", la cui planimetria, probabilmente adottata anche nella coeva architettura palaziale, prevedeva la disposizione di tre padiglioni o edifici di culto a est, ovest e nord di una pagoda centrale: al complesso si accedeva attraverso un portale collocato a sud. L'architettura religiosa del regno Paekche (metà III sec. d.C. - 638 d.C. ca.) è nota invece grazie agli scavi condotti nei primi anni Ottanta, che hanno messo in luce resti del più grande dei templi Paekche a Miruksa (Iksan, Prov. di Chollabuk-do), dove si trova anche una delle due più antiche pagode in mattoni esistenti in Corea, prototipo per le successive architetture di questo tipo. L'altra pagoda, eretta nel VII secolo, si trova a Chongnim-sa, dove nel 1982 sono stati condotti scavi che hanno permesso di verificare la planimetria tipica dei templi edificati nel regno di Paekche: edifici allineati su un unico asse, al centro del quale si trova la pagoda, fulcro dell'intero complesso. A Chongnim-sa sono state scavate le fondamenta di due edifici rettangolari allineati in successione, identificati come la Taungjon ("Grande Sala") e la Sala dell'Insegnamento, ove si studiavano le sacre scritture buddhistiche: entrambi si trovano a nord della pagoda, mentre a sud di essa sono stati messi in luce i resti di un portale mediano, di quello principale e di un laghetto artificiale, che aveva la simbolica funzione di separare il complesso dal resto del mondo, secondo una pratica diffusa nei templi coreani buddhisti dei periodi successivi. Dal portale mediano fino alla Sala dell'Insegnamento si dipartivano, ad est ed ovest della pagoda, porticati laterali coperti che chiudevano così il complesso sui lati: un analogo impianto è stato messo in luce nei siti di Kunsu-ri e Kumgang-sa, anche se in quest'ultimo gli edifici sono allineati lungo l'asse est-ovest. Gli scavi condotti nel 1976 nel sito di Hwangyong-sa hanno messo in luce i resti di uno dei templi più antichi del regno Silla (III sec. d.C. - 668 d.C. ca.), esteso su un'area di oltre 20.000 m². Il tempio ospitava, all'interno del padiglione principale, una grande statua del Buddha, della quale è stato ritrovato il basamento su cui in origine essa poggiava.
Evidenze di strutture architettoniche associate alla forma di religiosità autoctona del Giappone, lo shintoismo, non sono attestate prima del periodo Asuka (600-710 d.C.): esse variano da semplici sacelli destinati ad ospitare una forma tangibile della divinità ‒ una pietra, uno specchio, una tavoletta con iscrizione ‒ ad edifici veri e propri, quali il santuario di Izumo, nella prefettura di Shimane, dedicato a Okuni-nushi no mikoto ("Signore del Grande Paese"). Anche se l'edificio attuale si presenta nella ricostruzione del 1744, esso conserva elementi architettonici e dell'impianto assai più antichi, quali il grosso pilastro centrale di sostegno, la pianta quadrata e la scala di accesso posta su un lato della facciata. Uno dei principali santuari shintoisti è quello dedicato alla dea Ise, nella Prefettura Mie. La sua prima edificazione risale al III sec. d.C., mentre la struttura attuale ripropone fedelmente quella della fine del VII secolo, nel periodo Asuka, in virtù della disposizione imperiale del 685 d.C. che ordinava la ricostruzione del santuario, con sostituzione di tutti gli elementi, ogni venti anni. Il complesso è composto di due edifici principali: il naiku, o "interno", dedicato ad Amaterasu, la divinità ancestrale della famiglia imperiale, e il geku, o "esterno", intitolato a Uke-mochi, la dea del cibo. Ad entrambi si accede varcando un portale di ingresso, il torii, uno degli elementi caratterizzanti l'architettura religiosa giapponese che, analogamente ad altri portali monumentali diffusi in Asia, svolge la funzione di separatore simbolico dello spazio sacro.
N. Shatzman Steinhardt, The Han Ritual Hall, in N. Shatzman Steinhardt (ed.), Chinese Traditional Architecture, New York 1984, pp. 70- 77; Ead., Altar to Heaven Complex, ibid., pp. 140-49; Wu Hung, Monumentality in Early Chinese Art and Architecture, Stanford 1995, pp. 77-88.
di Paola Mortari Vergara Caffarelli
Nell'Estremo Oriente il buddhismo arrivò, a partire dalla dinastia Han (206 a.C. -220 d.C.), nel momento in cui l'impero cinese ebbe la sua prima grande espansione in Asia Centrale. Le testimonianze sono però soprattutto testuali e in parte leggendarie. Si parla del Tempio del Cavallo Bianco (Baima Si), fondato a Loyang nel 67 d.C. utilizzando forse un complesso preesistente, ma con uno stūpa in stile indiano. Un bassorilievo della cappella funeraria di Wu Liang nello Shandong (II sec. d.C.) è stato recentemente segnalato dall'archeologo Wu Hung come la più antica raffigurazione di stūpa trovata in Cina. Ma solo dopo la caduta degli Han, nell'epoca dei Sedici Regni (304-439 d.C.), e delle dinastie del Sud e del Nord (420-589 d.C.), il buddhismo ebbe una reale affermazione dottrinaria e politica. Furono soprattutto le dinastie "barbare" del Nord, che poterono ricevere una legittimazione solo da una dottrina anch'essa straniera, a farne una religione di Stato. Sotto i Wei Settentrionali (386-534 d.C.) di stirpe Toba le fondazioni buddhiste nel loro territorio raggiunsero il numero di 30.000. Di questa produzione architettonica sono giunte poche testimonianze archeologiche, ma è documentata la presenza di tutte le principali tipologie architettoniche del buddhismo indiano: templi costruiti, templi in grotta, monasteri e stūpa, che costituirono il modello per le successive costruzioni cultuali dell'Estremo Oriente. Dagli scavi archeologici (Yongning Si, a Luoyang, del 516 d.C.) e dalle fonti si desume che i templi costruiti hanno in massima parte utilizzato l'impianto a cortile dell'architettura monumentale cinese, in cui l'edificio più importante, la sala del Buddha (Fo dian), assume l'analoga posizione del padiglione di ricevimento, sito sulla parte centrale dell'asse nord-sud. Solo lo stūpa, o per meglio dire la pagoda (ta), si inserisce come elemento nuovo nel complesso, precedendo la sala del Buddha o disponendosi in due esemplari (pagode gemelle) ai lati dell'asse, ricordando così anche le classiche torri laterali di epoca Han. Lo stūpa, pur conservando tutti i suoi significati simbolici e cosmologici e la sua tipica cuspide, assume infatti, già sotto le dinastie del Sud e del Nord, le tre principali tipologie e le due modalità costruttive (a muratura portante o a struttura lignea) che saranno costanti nell'Estremo Oriente. La pagoda più antica, simile ai prototipi indiani a profilo cupoliforme (modellini di stūpa votivi dei Liang settentrionali), non avrà una grande diffusione e sarà ricollegabile, a partire dai Tang (618-907 d.C.), alla corrente Vajrayana, ripresa soprattutto dalle dinastie di origine straniera (Liao, 907-1125; Yuan, 1279-1368; Qing, 1644-1911) anche per la mediazione del buddhismo tibetano. Il secondo tipo, quello cubico monopiano, sormontato da una copertura (Simen Ta dello Shentong Si, 544 d.C.) o da una struttura cupoliforme (modellini scolpiti sulla pagoda del Songyue Si sul monte Fang, VI sec. d.C.), è ispirato alla tipologia gandharica del tempietto che accoglie lo stūpa, trasformato poi in stūpa esso stesso, e continuerà ad avere una larga diffusione fino ai Tang, soprattutto come pagoda funeraria (Yunqu Si sul monte Fang, VIII sec. d.C.). Il secondo tipo esisteva ancora in Mongolia, tra il XVI e il XIX secolo, per suggerimento del buddhismo tibetano. La terza tipologia a piani digradanti, preferibilmente a pianta quadrata od ottagonale (pilastri centrali e rilievi delle grotte di Yonggang e di Longmen, VI-VII sec.), è più diffusa, anche se a partire dai Song (420- 479 d.C.) sarà sempre meno utilizzata all'interno dei complessi templari, ma molto più presente in forma isolata, divenendo parte integrante di paesaggi e parchi. Ispirata ai modelli gandharici a torre (stūpa di Kanishka) e alle loro imitazioni centro-asiatiche, utilizza però in modo preponderante tipologie e caratteristiche costruttive tipiche delle torri di epoca Han (que, tai) con le classiche coperture marcapiano a tegole sorrette dal sistema mensolare (dougong), mentre con singolare eclettismo nicchie e arcate ripropongono l'arco indiano a caitya. I templi in grotta sono sconosciuti nell'Estremo Oriente prebuddhista. Sorti nell'India, si diffusero nell'Asia Centrale all'inizio della nostra era ed ebbero grande espansione in Cina sotto le dinastie del Sud e del Nord nei secoli V-VI, iniziando il loro declino a partire dal XIV secolo. Come i prototipi indiani, scavati nei fianchi delle colline, spesso in precedenza rifugio di santi asceti, sono ricchi di pitture murali e di sculture. Presentano piante a sala templare (caitya), con pilastro centrale, o a monastero (vihāra), con ambienti o nicchie sui lati e con la cappella maggiore in asse all'entrata. Soprattutto nei più antichi templi in grotta (Yonggang, Longmen, Dunhuang) sono scolpiti e dipinti elementi architettonici indiani (archi a caitya, capitelli compositi, colonne mistilinee, soffitti a Laternendecke), uniti però alle classiche strutture cinesi (sistema mensolare, coperture a tegole, trabeazioni) presenti già nelle camere ipogee delle tombe di epoca Han. COREA In Corea il buddhismo penetrò all'epoca dei Tre Regni (300- 668 d.C.) attraverso la Cina; furono quindi mutuate le tipologie architettoniche che questo Paese, considerato come modello, veniva elaborando. Nel complesso templare di Chongnimsa del regno di Paekche è stata rilevata la pianificazione cinese più antica, con la pagoda (tap) che precede sull'asse sud-nord la sala del Buddha. Essa ripropone il modello a torre delle ta cinesi in muratura a pianta quadrata, con l'imitazione scolpita delle strutture lignee. Ma fu all'epoca del Grande Regno Silla (668-935 d.C.) che il buddhismo divenne religione di Stato e i suoi santuari costituirono una delle realizzazioni più importanti del cosiddetto "stile panasiatico orientale", che ebbe il suo centro nella Cina dei Tang. Le pagode del cosiddetto "tipo Silla", a pianta quadrata a tre piani digradanti su un piedistallo a due gradoni, sono un elegante esito delle monumentali pagode Tang e spesso accompagnano i complessi templari nelle planimetrie cosiddette "a pagode gemelle" (Kamcumsa a Wulssong kun). Esistono anche pagode cupoliformi (pudo), spesso di piccole dimensioni, e pagode cubiche monopiano con elaborate sovrastrutture (Tabo di Kyongju). Vengono anche imitati, sia pure in modo poco diffuso, i santuari in grotta come quello di Sokkulam.
Il buddhismo arrivò in Giappone nel VI sec. d.C. circa, dapprima attraverso la mediazione della Corea e poi direttamente dalla Cina. Si trova così ancora conservato in Giappone il complesso buddhista a strutture lignee più antico di tutto l'Estremo Oriente: l'Horyuji, vicino a Nara, del 607 d.C. A imitazione dei prototipi cinesi, esso presenta una pianta a cortile rettangolare chiostrata con portale principale (nandaimon) a sud, la pagoda (to) a cinque piani e la sala principale (kondo) affiancate e site ai lati dell'asse sud-nord. Più canonica la pianta dello Shitennoji, sempre del periodo Asuka (600-710 d.C.), che presenta sull'asse prima la pagoda e poi il kondo. Nell'epoca Nara (710-794 d.C.) i rapporti con la Cina, più diretti e continui, porteranno alla maggiore diffusione dei complessi templari a pagode gemelle, come nel monumentale Toshodaiji, o del tutto privi di pagode a torre, parallelamente all'analoga evoluzione che si andava compiendo sul continente. Infatti, in epoca Kamakura (1185-1353 d.C.) la pagoda spesso sorge isolata, fuori dal recinto templare, mentre certi padiglioni ripropongono alcuni antichi elementi architettonici locali (palafitte, tetti di paglia o di cortecce d'albero) anche per suggestione della corrente Zen, che persegue un'estrema semplicità. I complessi templari giapponesi conserveranno infatti più a lungo che in Cina l'armonia e la classica purezza dello stile panasiatico orientale di epoca Tang, mentre nel continente l'evoluzione stilistica porterà gli edifici a sovraccaricarsi di ornamenti scolpiti e dipinti. È presente in Giappone, in parallelo con gli esempi cinesi, qualche pagoda con parte terminale cupoliforme (Tahoto dello Ishiyamadera, 1194) ricollegabile, come in Cina, alla corrente Vajrayana. Si verifica infatti in Asia orientale (a partire dal XIII e soprattutto nel XVII-XIX secolo, grazie alla diffusione del buddhismo tibetano, erede e continuatore dei prototipi indiani in alcune tipologie architettoniche, come stūpa e impianti mandalici) una reviviscenza di antichi modelli del Subcontinente, quali lo stūpa cupoliforme, le tipologie a quinconce, gli impianti cruciformi.
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di Marialaura Di Mattia
Secondo la tradizione dall'ottavo re, Drigum (Gri.gum, Dri.gum), i monarchi del Tibet iniziarono ad essere sepolti a Chongye ('Phyong.rgyas), la necropoli reale più importante dell'area, situata nella valle dello Yarlung. Qui vennero elevati una decina di tumuli, identificabili come le tombe di otto re e di due principesse che morirono tra il 650 e l'815 d.C. Il sito, che si estende per più di 2 km², è cosparso da grandi tumuli a pianta quadrangolare alti fino a 30 m che possono raggiungere anche i 200 m per lato. La tomba del primo re storico Songtsen Gampo (Srong.btsan.sgam.po, 609-650 d.C.), è costituita da una grande camera funeraria a pianta quadrata in pietra, legno e terra cruda, suddivisa in nove moduli di identiche dimensioni, con il sarcofago reale posto nella cappella centrale. Tutta la costruzione è sormontata dal tumulo (alt. 13,4 m; largh. 129 m) al cui centro si erge il tempio. È interessante osservare come la pianta di questa tomba ricordi lo schema del maṇḍala e la collocazione delle spoglie del re, assieme ai suoi tesori, sia nel quadrato centrale, solitamente dimora del Buddha: ciò potrebbe essere l'indicazione di un processo di divinizzazione della figura del re, peculiare del periodo pre-buddhista, conservatosi anche in ambito buddhista. Con il radicarsi del buddhismo in tutto l'altopiano tibetano si diffuse l'uso di cremare le spoglie degli individui più importanti e di conservarne le reliquie all'interno di appositi chörten (mchod.rten).
R.A. Stein, La civiltà tibetana, Torino 1962 (1986²); M. Bussagli, Architettura orientale, Venezia 1973; G. Tucci, Tibet, Ginevra 1975; D.L. Snellgrove - H. Richardson, A Cultural History of Tibet, Boston - London 1986; D. Blamont - G. Toffin, Architecture, milieu et société en Himalaya, Paris 1987; P. Mortari Vergara Caffarelli - G. Beguin, Dimore umane, santuari divini. Origini, sviluppo e diffusione dell'architettura tibetana, Roma 1987; V. Chan, Tibet Handbook: a Pilgrimage Guide, Chico 1994; M. Di Mattia, A Historical Profile of Ladakhi Religious Architecture, in The Tibet Journal, 21, 2 (1996), pp. 90-127; A. Heller Dulan, Some Preliminary Remarks on the Architecture and Artefacts of the Tibetan Empire, in Circle of Inner Asian Art, in BSOAS, 8 (1998), pp. 52-54.
di Filippo Salviati
La graduale evoluzione della complessità rituale e strutturale del monumento funerario nella Cina antica può essere seguita nei suoi passaggi principali dalle più o meno grandi sepolture in fossa a pianta rettangolare delle élites delle prime società gerarchizzate del Neolitico tardo fino alle monumentali tombe imperiali delle dinastie di età storica. La crescente enfasi, anche architettonica, conferita alle sepolture dei membri delle classi alte si deve sia a fattori religiosi ‒ primo fra i quali il culto degli antenati, che si manifesta anche attraverso una ritualità strettamente associata alle aree cimiteriali ‒, sia alla volontà di sottolineare lo status del defunto e la sua posizione nella scala sociale attraverso l'edificazione di sepolture monumentali: a partire dal IV sec. a.C. le tombe si configurano come veri e propri palazzi funerari, sia nelle strutture di culto visibili in superficie, sia nella struttura ipogea della tomba. È da questo periodo, inoltre, che i siti delle sepolture nobiliari cominciano a essere contrassegnati da tumuli funerari monumentali che, secondo alcuni, potrebbe essere derivata dai kurgan centroasiatici. Le sepolture delle élites del tardo Neolitico, nelle quali già si prefigurano alcuni elementi rituali funerari di epoche successive, si caratterizzano in generale per la ricchezza del corredo funerario, per particolari accorgimenti adottati nella loro costruzione, nonché per la loro collocazione in aree specifiche scelte in base a pronostici geomantici. Tali pratiche si evincono nelle tombe della élite dell'ambito culturale Liangzhu (3500- 2000 a.C. ca.), disposte regolarmente sulla sommità di tumuli artificiali ed associate ad evidenze di attività rituali, quali, ad esempio, i sacrifici umani; è attestato, inoltre, l'uso di sarcofagi lignei laccati, mentre nei corredi funerari numerosi sono gli ornamenti, emblemi di stato e oggetti rituali di giada, presenti anche nelle tombe della cultura tardoneolitica di Hongshan (3500-2500 a.C. ca.), caratterizzate dall'impiego di lastre di pietra e di ciottoli di fiume a copertura delle sepolture, segnalate da bassi tumuli in terra. Nella fase tarda della dinastia Shang (XIV-XI sec. a.C.), le tombe nobiliari raggiungono una dimensione monumentale, come evidente dal gruppo di grandi sepolture a pianta cruciforme rinvenute nel cimitero reale ad Yinxu (Anyang, Henan). La monumentalità di queste sepolture non si manifesta tuttavia in elementi segnaletici di superficie, fatta eccezione per quella di Fu Hao (1250 a.C. ca.), una delle consorti del re Wu Ding, sulla sommità della quale sono stati rinvenuti basamenti di pietra ed evidenze di alloggiamenti per pali destinati a sostenere una modesta struttura lignea, forse un tempietto funerario. È nelle dimensioni e negli aspetti costruttivi che le tombe reali Shang si rivelano monumentali, con la loro forma a piramide rovesciata discendente in profondità nel terreno fino alla fossa contenente la camera funeraria di legno laccato, accompagnata da sacrifici umani ed animali e dagli oggetti del corredo funerario. Significativi mutamenti nell'aspetto e nella struttura dei monumenti funerari si registrano a partire dal periodo degli Stati Combattenti (475-221 a.C.), al quale datano i primi tumuli funerari, realizzati con la tradizionale tecnica della terra battuta (hangtu), come ad esempio quelli delle sepolture reali degli Stati settentrionali Yan e Zhao. Diverse sono invece le caratteristiche delle contemporanee sepolture realizzate nei regni della Cina meridionale, la cui tipologia prosegue quella della tomba a fossa di tipo Shang. Nel Sud, però, la camera funeraria si articola intorno al vano principale contenente il sarcofago, con più ambienti contigui nei quali vengono collocati gli oggetti del corredo: ad esempio, nella tomba del Marchese Yi dello Stato di Zeng (433 a.C. ca.), rinvenuta nel 1977 a Leigudun (Suixian, Prov. di Hubei). Quest'ultima è caratterizzata da un elemento costruttivo molto particolare, comune a numerose sepolture dell'aristocrazia Chu, il principale tra i regni della Cina meridionale durante il periodo Stati Combattenti: il pavimento della camera funeraria e gli spazi tra le strutture lignee e le pareti della fossa venivano infatti ricoperti e riempiti con grassa argilla bianca, materiale che ha favorito la diminuzione del differenziale di pressione tra l'interno della tomba e il suolo circostante, creando così un ambiente con scarsa ossigenazione che ha permesso la conservazione di materiali facilmente deperibili come seta, lacca, o il corpo stesso del defunto. In queste sepolture la suddivisione in ambienti della camera funeraria, come anche la tipologia degli oggetti di accompagnamento, evidenziano la volontà di riprodurre idealmente l'ambiente palaziale: è solo nelle tombe nobiliari della Cina centrale e settentrionale, però, che questo progetto architettonico e rituale giunse a maturazione con la creazione di complessi impianti articolati in strutture ipogee e a vista che hanno come dichiarato intento quello di creare la residenza funebre del defunto, tanto sontuosa quanto lo fu quella di cui egli godette in vita, corredata degli ambienti accessibili ai viventi per la celebrazione dei riti funerari e la perpetuazione del suo nome e della sua fama. Eccezionale testimonianza archeologica di tale disegno architettonico e rituale è la sepoltura del re Cuo dello Stato di Zhongshan (Pingshan, Prov. di Hebei, IV sec. a.C.), mai terminata a causa della prematura morte del sovrano, che ha restituito una eccezionale lastra di bronzo (94 × 48 cm) sulla quale è incisa la planimetria dell'intero mausoleo, un vero e proprio progetto con indicata la disposizione degli edifici di culto che dovevano sorgere sulle tombe, le loro dimensioni, le misure in dettaglio del monumento sepolcrale e di tutti i suoi componenti. Secondo questo piano costruttivo, il complesso doveva constare di cinque sepolture allineate: al centro quella del re, affiancata dalle tombe delle regine e da quelle di due concubine poste alle estremità laterali. Ciascuna sepoltura doveva essere contraddistinta da un monumentale edificio ligneo a più livelli, poggiante su una piattaforma rialzata e costruito attorno ad un nucleo solido in terra battuta: il tutto, compreso entro una doppia recinzione rettangolare che conferiva al mausoleo l'aspetto di una imponente struttura architettonica, fa modello, forse, del palazzo del sovrano. Una planimetria analoga a quella del mausoleo del re Cuo, con tre sole sepolture allineate, è attestata nel sito di Guweicun (Huixian, Henan), anche se in questo caso sono assenti i tumuli, mentre sono presenti i resti di strutture architettoniche lignee di superficie che segnalavano la presenza delle sottostanti sepolture, analogamente alla tomba Shang di Fu Hao, ad Anyang, di circa 800 anni più antica. La piena maturazione dell'architettura funeraria monumentale del tardo I millennio a.C. è testimoniata nella sepoltura di Qin Shihuangdi della dinastia Qin (221-206 a.C.) a Lintong, nei pressi di Xi'an (Prov. di Shaanxi). Il complesso si incentra sul grande tumulo funerario, in origine a forma di piramide troncoconica, compreso in posizione eccentrica entro una doppia recinzione rettangolare di terra battuta orientata sull'asse nord-sud: di fronte al tumulo sono state individuate le fondamenta di edifici di considerevoli dimensioni, destinati al culto ancestrale. Circa 1,5 km ad est si trovano le fosse dell'Esercito di Terracotta: tra queste ed il tumulo sono state scavate 19 sepolture di alti ufficiali e membri della famiglia reale, non lontane da ambienti ipogei identificati come le "stalle imperiali" grazie ad iscrizioni e alla presenza di numerosi scheletri di cavallo. Ad ovest del complesso un ulteriore gruppo di sepolture accoglie le spoglie delle vittime sacrificate al momento della inumazione del Primo Imperatore, insieme ad altre fosse contenenti modelli di carri di bronzo, animali selvatici e statuine di ancelle e servi. Sul piano simbolico, le due recinzioni delimitano lo spazio privato dell'imperatore, la sua "città proibita", al cui esterno sono rappresentati i territori di caccia, l'impero sul quale Qin Shihuangdi regnava, i sudditi, la corte e l'esercito. L'architettura funeraria delle sepolture imperiali della successiva dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.) non sembra discostarsi dai modelli elaborati tra la fine dell'epoca degli Stati Combattenti e la dinastia Qin, come stanno testimoniando le indagini in corso presso i mausolei degli imperatori della dinastia Han Occidentali presso Xi'an, e che continueranno, pressoché invariati, con ovvie mutazioni stilistiche, rituali e, a volte, di scala, fino ai mausolei imperiali dell'ultima dinastia Qing. Importanti innovazioni si verificano, però, proprio in epoca Han nell'architettura funeraria nobiliare e degli strati sociali emergenti (funzionari civili e militari, proprietari terrieri) che persegue la ricreazione, in scala ridotta, delle architetture palaziali in ambiente ipogeo. Tali innovazioni sono legate all'adozione, all'epoca degli Han Occidentali, di grosse lastre in pietra o grossi mattoni cavi di ceramica che rivestono gli ambienti sotterranei a sviluppo orizzontale e che, nella faccia a vista, riproducono incisi o dipinti gli elementi architettonici dell'abitazione civile: pilastri con bracci che sostengono il soffitto a doppio spiovente, nicchie ad imitazione di finestre, scale, architravi, porte, ecc. Dal medio periodo degli Han Occidentali, accanto alla camera funeraria principale a pianta rettangolare bi- o tripartita, foderata di lastre o grossi mattoni cavi, compaiono vani minori di servizio ‒ di solito in avancorpo laterale con pianta rettangolare o a L ‒ rivestiti di piccoli mattoni piani che permettono la realizzazione di volte a botte, come ad esempio a Luoyang nella tomba di Bu Qiangqiu (metà I sec. a.C.) o nella tomba M61 (tardo I sec. a.C.). Sul finire della dinastia Han Occidentali, ma soprattutto nel corso di quella Han Orientali (25-220 d.C.), mentre i grossi mattoni cavi o le lastre in pietra mantengono la funzione di imitare le mura di tamponamento e di fornire il supporto di decorazioni dipinte e incise, il piccolo mattone pieno verrà utilizzato per l'imitazione di strutture portanti di legno consentendo, nell'ambito di piante sempre più articolate che moltiplicano il modulo del vano a pianta rettangolare cui si accede da un corridoio a rampa, di realizzare sia ampie volte a botte, come ad esempio in una tomba scavata a Mixian (Prov. di Henan) del tardo II sec. d.C., sia false cupole, come nella tomba M3 di Jiayuguan (Prov. del Gansu), anch'essa del II sec. d.C. Tra i complessi funerari nobiliari che meglio esemplificano la tendenza alla ricreazione del fasto di cui il defunto aveva goduto in vita attraverso la realizzazione del "palazzo sotterraneo" è la sepoltura messa in luce a Beidongshan (Xuzhou, Prov. di Shandong, 175-128 a.C.), estesa su un'area di 350 m², suddivisa in 19 ambienti ipogei distribuiti su 2 livelli, con pareti rivestite di lastre di pietra e mattoni o intonacate. Controparte architettonica di superficie delle strutture sotterranee era il tempio ancestrale, al quale si andarono gradualmente aggiungendo altri elementi, quali stele commemorative ed elaborati pilastri (que) di pietra o di mattoni. Questi ultimi segnavano l'ingresso all'area sepolcrale ed al viale di accesso rettilineo che conduceva prima al tempio per il culto del defunto e quindi al tumulo funerario. Ai lati del viale di accesso, a partire dall'epoca degli Han Orientali, compaiono, in coppia, statue di pietra con funzione apotropaica raffiguranti esseri mitici noti come bixie. Il prototipo del viale di accesso, detto Shendao (Via degli Spiriti), fiancheggiato da sculture di pietra, può essere ravvisato nel gruppo di sculture associate alla sepoltura del generale Huo Quping (morto nel 117 a.C.) presso Xi'an, sebbene il soggetto rappresentato nei grandi massi scolpiti di questa tomba suggerisca un intento celebrativo della figura del conquistatore dell'Asia Centrale, piuttosto che un valore apotropaico. L'ipertrofia dei vani ipogei di molte sepolture dell'epoca degli Han Orientali rappresenta un evento particolare più che un canone rituale e architettonico; la regola seguita dalla maggior parte delle tombe Han e di quelle edificate nelle epoche successive è infatti quella della pianta ripartita in tre zone funzionalmente e ritualmente differenziate: il corridoio di accesso, o rampa, con o senza nicchie laterali per gli oggetti di corredo; un'anticamera a pianta quadrata o rettangolare, in cui parte del corredo può essere deposto e che simboleggia la Sala Anteriore o sala di ricevimento delle architetture civili; la camera funeraria, contenente di regola un sarcofago, che rappresenta lo spazio del defunto e simboleggia i padiglioni privati delle strutture abitative. L'elemento che maggiormente contraddistingue il rango in tali architetture, oltre alla ricchezza del corredo, è la scala della costruzione, come chiaramente riscontrabile nelle ciclopiche tombe delle necropoli imperiali Tang presso Xi'an. L'architettura interna di tali sepolture, come ad esempio nella tomba di Li Zhongrun, principe Yi De (682-701 d.C.), facente parte delle necropoli Qianling dell'imperatore Taizong e dell'imperatrice Wu Zitian, riflette lo stile sobrio, basato sull'equilibrio dei volumi piuttosto che sulla ricchezza degli elementi architettonici, tipico dei canoni architettonici Tang. Al contrario, a partire dall'epoca della successiva dinastia Song (960-1279 d.C.), prevale la ricchezza degli elementi architettonici, associati spesso ad ambienti con piante circolari o poligonali che riproducono nei minimi dettagli le complesse e oltremodo ricche strutture delle architetture civili di legno, come appare, ad esempio, nelle tombe aristocratiche dell'XI secolo messe in luce a Baisha (Prov. di Henan). Alla diffusione di tale gusto barocco, tutto teso, però, alla rappresentazione del reale, anche con il costante supporto della decorazione pittorica, non furono estranei apporti provenienti dalle aristocrazie nomadiche che avevano stabilito, prima con la dinastia Liao (907-1125 d.C.) e poi con quella Jin (1115-1234 d.C.), i loro domini in vaste regioni della Cina settentrionale.
Le più antiche evidenze di architettura funeraria coreana sono costituite da dolmen, noti come koindol e chisokmyo, associati a sepolture. Tipologicamente queste strutture, databili dal 1500 circa al III sec. a.C. circa, sono suddivisibili in due categorie principali: sepoltura a livello del suolo delimitata da quattro lastre di pietra inserite verticalmente nel terreno sulle quali poggia un lastrone di dimensioni maggiori; oppure tomba a cista interrata ricoperta da un unico megalite a contatto diretto con il suolo. Riservate ai membri dell'élite, tali sepolture possono presentarsi sia isolate, come più frequentemente ricorre nel Nord del Paese, che raggruppate ed allineate, come nel caso dei dolmen della Corea meridionale. In generale, ciascun dolmen contiene una unica sepoltura, anche se occasionalmente sono attestate sepolture a cista affiancate, segnalate da un unico dolmen. A partire dal periodo dei Tre Regni (300-668 d.C.), con il formarsi di un'aristocrazia nobiliare in ciascuno degli Stati in cui era suddivisa la Corea del tempo, l'architettura funeraria acquisisce una monumentalità che si riflette, con varianti regionali, nei tumuli funerari. Le sepolture a tumulo più antiche sono attestate a Koguryo, il più settentrionale dei regni, e trovano diretti antecedenti in quelle tipologicamente affini rinvenute nelle province cinesi nord-orientali di Liaoning e Jilin: la camera funeraria, realizzata perlopiù con lastre di pietra, può trovarsi interrata in profondità o a livello del suolo, con accesso quindi alla camera funeraria sia verticale che orizzontale, ricoperta da ciottoli di fiume o lastre di pietra; il tumulo può assumere varie forme, inclusa quella di una piramide a gradoni formata da grossi blocchi di granito. È questo il caso della sepoltura a Taewang-nung, presso l'odierna Ji'an, la Chiban capitale del regno Koguryo, da identificare molto probabilmente con quella del re Hot'ae-wang sulla base di riscontri epigrafici e databile quindi al 421 d.C. Un'ampia recinzione racchiude lo spazio entro cui si trova il tumulo a pianta rettangolare insieme a resti di altre strutture, forse tempietti funerari, che sappiamo essere associati alle tombe: un esempio è fornito dal tempietto posto di fronte all'ingresso della sepoltura reale a Changgunch'ong, edificata sulla cima di una collina. Anche le tombe a tumulo del regno Paekche possono essere localizzate sia su terreni piatti che sulle pendici di rilievi ed in generale non presentano grandi diversificazioni tipologiche rispetto a quelle Koguryo. L'interno è suddiviso in più ambienti e le pareti possono presentare pitture murali, tradizione questa attestata in Corea a partire dal V sec. d.C.: a seguito dell'influenza della religione buddhista, nelle sepolture Paekche del VI secolo si attesta la pratica dell'incinerazione con conseguente riduzione delle dimensioni delle sepolture. Le tombe dei sovrani Silla, come quelle degli altri regni edificate presso la capitale ed in aree cimiteriali ben delineate, evolvono verso una monumentalità più accentuata e più ricchi corredi funerari con l'accrescersi della potenza di questo regno: la sepoltura regale a Hwangnam-dong della seconda metà del V secolo è costituita da un doppio tumulo ‒ per un diametro complessivo di 80 m e 20 m di altezza ‒ che ospita le spoglie di un sovrano e della sua consorte, sepolti entro sarcofagi di legno incassati in strutture di pietra. La costruzione di tombe a tumulo declina dopo il VII secolo quando le sepolture, per influenza del buddhismo, vengono sostituite da più modesti tempietti commemorativi. Una eccezione è offerta dal mausoleo del sovrano Muyol (661 d.C.), un grande tumulo alto 13 m che si richiama esplicitamente per le dimensioni e la struttura a quelli coevi della Cina Tang, alleata dello Stato Silla nella sconfitta di Paekche e nella unificazione della Corea (Silla Unificato, 668-935 d.C.).
La differenziazione regionale delle pratiche funerarie durante il periodo tra circa il 300 a.C. e il 300 d.C. riflette una certa diversità culturale, legata in parte alla diffusione della cultura Yayoi nelle isole dell'arcipelago nipponico. Negli stanziamenti messi in luce nel Sud-Ovest del Paese, come a Otsuka, Seto, le aree cimiteriali, solitamente protette da un fossato e poste sulla sommità di rilievi artificiali, esemplificano i modi più tipici dell'architettura funeraria Yayoi: le tombe possono essere o a fossa, jar-burial (anche con l'uso di sarcofagi lignei), o sepolture in giara. Nell'isola di Kyushu prevalgono le sepolture in giara capaci di accogliere l'intero corpo del defunto. È documentato anche l'uso di tombe a cista segnalate da dolmen su probabile influenza delle pratiche funerarie coreane. A partire dalla fine del periodo Yayoi, in seguito alla graduale gerarchizzazione della società, si affermano le tombe monumentali a tumulo riservate ai membri dell'élite. L'esempio più antico è quello offerto dal sito di Yoshinogari, Kyushu, con sepolture in giare poste all'interno di un tumulo artificiale circondato da un doppio fossato. Questa tipologia architettonica prende forma più articolata nel successivo periodo Kofun, cioè degli "antichi tumuli", che inizia a cavallo tra il III e il IV sec. d.C. per protrarsi fino alla fine del VII secolo. Le sepolture più antiche, destinate ai membri dell'aristocrazia militare, sorgono su terreni pianeggianti o sulle pendici di colline ed hanno tipologia variabile, con piante circolari, quadrangolari o a toppa di serratura (zempokoen): la camera funeraria è realizzata in lastre di pietra e con pietrame murato a secco. Nelle dimensioni del monumento funerario si riflette lo status politico e militare del defunto, come nel caso delle sepolture reali degli "imperatori" Ojin e Nintoku che, misurando rispettivamente 415 e 475 m di lunghezza alla base, costituiscono le più grandi tombe a tumulo realizzate nell'Asia orientale del V secolo: il kofun di Nintoku, ad Osaka, è inoltre cinto da un triplice fossato che lo separa dall'ambiente circostante. La tipologia architettonica delle tombe aristocratiche coreane influenza, a partire dal V secolo, le sepolture giapponesi a tumulo, quando la camera funeraria viene edificata a livello del suolo e provvista di un corridoio di accesso orizzontale con ingresso su un fianco del tumulo, le cui dimensioni diminuiscono sensibilmente per non gravare eccessivamente sulla sottostante camera funeraria. Quest'ultima, costruita con grandi lastre di pietra, non è più la sepoltura di un singolo, ma si articola in diversi ambienti in modo da ospitare vari membri di una stessa famiglia. Nel VII secolo, per influenza della religione buddhista e con la conseguente adozione della cremazione nelle pratiche funerarie, cessa la realizzazione di tombe a tumulo: l'ultima grande sepoltura di questa tipologia fu quella dell'imperatore Tenmu.
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