L'architettura: caratteri e modelli. Oceania
Lo studio archeologico dei complessi architettonici ha consentito di raccogliere dati preziosi sull'organizzazione delle società oceaniane e sulle trasformazioni cui esse furono soggette nelle fasi preistoriche più recenti e in quelle immediatamente posteriori alla colonizzazione europea. Le maggiori testimonianze del continente provengono dagli arcipelaghi polinesiani e micronesiani, in cui nel II millennio d.C. si affermarono società di tipo gerarchico (chiefdoms). In queste isole affiorano le rovine monumentali di templi, residenze e mausolei, che attestano il prestigio e l'autorità esercitata dai lignaggi dominanti su territori insulari anche di notevole ampiezza. Ricerche sistematiche sono state effettuate, fin dalla prima metà del XX secolo, nei complessi cerimoniali della Polinesia centrale e orientale; essi costituirono per un millennio circa (VIII-XVIII sec. d.C.) il punto focale delle attività religiose e pubbliche dei gruppi giunti in questa regione probabilmente già nei primi secoli della nostra era. Nelle Tonga, i resti di imponenti tumuli dove trovavano sepoltura i componenti delle classi aristocratiche esprimono simbolicamente la posizione egemonica delle dinastie regnanti su un "impero marittimo" che si estendeva oltre i limiti dell'arcipelago. Vestigia di rilievo si conservano anche in Micronesia, quali le abitazioni nobiliari Chamorro, sostenute da filari di colonne, o le cittadelle di Leluh e Nan Madol, nelle Caroline orientali.
W.N. Morgan, Prehistoric Architecture in Micronesia, Austin 1988; P.V. Kirch, Monumental Architecture and Power in Polynesian Chiefdoms: a Comparison of Tonga and Hawaii, in WorldA, 2 (1990), pp. 206-22; M.W. Graves - M. Sweeney, Ritual Behaviour and Ceremonial Structures in Eastern Polynesia: Changing Perspectives on Archaeological Variability, in M.W. Graves - R.C. Green (edd.), The Evolution and Organisation of Prehistoric Society in Polynesia, Auckland 1993, pp. 106-25.
Per l'edificazione dei maggiori centri cerimoniali e residenziali dell'Oceania (Polinesia, Micronesia) vennero diffusamente adoperate rocce magmatiche effusive (basalti, trachiti, lava), piroclastiche (bombe vulcaniche, tufi) e sedimentarie organogene (calcari corallini). Lastroni, blocchi e pietre di dimensioni e forme variabili si reperivano sui terreni limitrofi ai cantieri e, più raramente, in cave ubicate in corrispondenza dei principali affioramenti. Per la pavimentazione di terrazze abitative e piattaforme cerimoniali erano impiegati prevalentemente ciottoli e massi levigati a superficie piana o leggermente tondeggiante, raccolti nei letti fluviali o sulle coste. La costruzione dei numerosi ahu (templi), dei moai (statue antropomorfe monolitiche) e delle altre strutture disseminate nell'Isola di Pasqua, come le hare paenga (dimore con fondazioni in blocchi poligonali di basalto), richiese lo sfruttamento intensivo di aree estrattive da parte di manodopera specializzata. Tufo e basalto di ottima qualità erano reperiti nei crateri vulcanici di Rano Raraku e di Rano Kau; trachiti e scorie di lava provenivano rispettivamente dalla penisola di Poike e da Puna Pau. I materiali, lavorati sul posto, erano trasportati con l'ausilio di leve, corde e piani mobili su tronchi. Imponenti lastre calcaree, in alcuni casi lunghe oltre 7 m, rivestivano le facciate dei monumentali sepolcri delle Tonga, la cui lavorazione era affidata a una classe di scalpellini (tufunga ta maka). Le fonti orali hawaiane descrivono il trasporto occasionale di giganteschi blocchi da cave situate a una certa distanza dai cantieri in cui si erigevano gli heiau (templi). Materiali lapidei lavorati o sagomati provengono per ora unicamente da alcuni templi dell'isola di Hawaii. Il basalto utilizzato per i grandiosi complessi architettonici micronesiani (Leluh, isola di Kosrae; Nan Madol, isola di Pohnpei) appartiene a formazioni colonnari a prismi allungati, comuni in queste isole. Per il prelevamento dei blocchi si esponeva la roccia al fuoco, raffreddandola in seguito con acqua marina: una tecnica estrattiva documentata anche nelle Marianne. Assai meno numerose sono le informazioni disponibili riguardo ai tipi di legno utilizzati per i lavori di carpenteria. Alcuni dati provengono dalle ricerche condotte in siti neozelandesi. L'abitazione rinvenuta a Moikau (Palliser Bay, Isola del Nord), databile al XII sec. d.C., fu realizzata con pali e assi di totara (Podocarpus totara/hallii). Lo stesso tipo di legno, particolarmente richiesto per la sua solidità e adoperato frequentemente anche nella fabbricazione di piroghe, fu impiegato secoli dopo per le strutture portanti di alcuni alloggi a Pouerua e a Pa Bay (Isola del Nord). Le giunture tra le varie parti in legno erano rinforzate con legature di fibre ottenute dal lino della Nuova Zelanda (Phormium tenax). Le fonti etnografiche descrivono in dettaglio i materiali tradizionali utilizzati per una "casa delle riunioni" (pebaey) nel villaggio di Bechiyal, a Map (Isole Yap, Micronesia occidentale). I pali e le colonne che componevano l'armatura dell'edificio erano ricavati dai tronchi del mogano, dell'albero del pane, della mangrovia e di altri alberi, cui era asportata la corteccia. Il legno del mogano, una pianta arborea endemica, era assai ricercato per la sua robustezza, risultando resistente anche all'attacco delle termiti. Le travi e i pali di mogano, se protetti adeguatamente dall'umidità, potevano durare varie generazioni. La pavimentazione si componeva di assicelle e sezioni di tronco di palma o di Pandanus; per l'intelaiatura del tetto si adoperavano fusti di bambù. Le fibre vegetali utilizzate per le legature provenivano dal guscio della noce di cocco, che era lasciato immerso in acqua salata e, dopo tre giorni, battuto per separare i filamenti. Le fibre, una volta asciutte, erano piegate e ritorte a mano fino a raggiungere la consistenza richiesta.
Lo sviluppo delle tecniche edilizie è connesso con la nascita nel II millennio d.C. dei complessi abitativi e cerimoniali delle isole polinesiane e micronesiane. Strutture murarie, terrazze e piattaforme costituivano gli elementi architettonici di base dei centri religiosi (marae, ahu, tohua, heiau) e delle residenze delle aristocrazie polinesiane. Le facce esterne erano spesso rivestite con filari irregolari di pietre e blocchi (in alcuni casi sagomati) di rocce vulcaniche e coralline. Le opere murarie erano realizzate a secco, non essendo state rinvenute tracce di sostanze leganti. La loro stabilità veniva aumentata con l'inserimento di piccole pietre negli interstizi; in tal modo il peso era distribuito in maniera uniforme, minimizzando lo scivolamento dei blocchi più grandi. Molte costruzioni erano rastremate verso l'alto, permettendo così al lato frontale di poggiare sul nucleo interno. Non si conosce, al momento, l'uso di particolari accorgimenti o di strumenti per uniformare l'andamento di muri o piattaforme, che in molti casi esibivano angolazioni e lunghezze differenti. Il rivestimento lapideo sembra comunque essersi affermato come elemento architettonico solo nelle fasi tarde della preistoria polinesiana (XVII-XVIII sec. d.C.). È questo un fenomeno osservato nelle sequenze costruttive degli heiau dell'isola di Maui (Hawaii) o delle paepae (abitazioni con basamenti) delle Marchesi. I nuclei delle strutture erano formati, alla base, da blocchi di grandi dimensioni e, negli strati superiori, da ciottoli e pietre. Ghiaia e pietrisco erano costantemente aggiunti per compattare il riempimento, evitando così possibili cedimenti. Nelle Hawaii alcune costruzioni poggiavano direttamente su rocce affioranti dal terreno. Le pavimentazioni degli spazi cerimoniali, delle terrazze e delle piattaforme prevedevano la disposizione, secondo un disegno omogeneo, di ciottoli levigati o di lastroni di roccia a superficie piana. Tra il XVII e il XVIII sec. d.C. vennero edificati monumenti piramidali a gradoni mediante la sovrapposizione di piattaforme con rivestimenti lapidei. A questa tipologia appartengono le piattaforme con funzione di altare dei templi di Tahiti e Moorea, nelle Isole della Società, e il mausoleo reale di Mua (Tongatapu, Isole Tonga). Le grandiose cinte murarie di Leluh furono innalzate su una laguna dell'isola di Kosrae (Caroline) tra il 1400 e il 1600 d.C. Per l'edificazione dei maggiori complessi architettonici furono costruite fondazioni perimetrali con grandi blocchi basaltici. Il settore interno ai recinti murari fu colmato con materiali lapidei, fino a raggiungere l'altezza desiderata. Per la positura delle fondamenta vennero utilizzati piani inclinati con tronchi e massi, su cui vennero spinti o fatti rotolare, con corde e leve, gli elementi di maggior peso. Le opere murarie dell'antica cittadella mostrano cortine esterne con filari intersecantisi di blocchi prismatici di basalto e con riempimenti di pietrame corallino e vulcanico. I muri, rastremati verso l'alto, erano strettamente congiunti, sviluppando un'adeguata resistenza al taglio, minimizzando la curvatura ed eliminando la tensione interna. L'architettura dell'Oceania include solo rari esempi di strutture edilizie con ambienti chiusi. Le maggiori testimonianze provengono dai monumenti funerari delle Tonga e di Nan Madol (Pohnpei, Caroline). All'interno dei mausolei a pianta rettangolare di Nan Madol furono ricavate alcune cripte sovrapponendo filari di blocchi convergenti verso l'alto. Una tecnica simile fu adottata per costruire gli ambienti a pseudovolta del villaggio cerimoniale di Orongo (XVI sec. d.C., Isola di Pasqua) mediante il progressivo aggetto interno dei corsi di lastroni basaltici. Strati sovrapposti di terreno e zolle isolavano i vani dalle temperature esterne. Nonostante la scarsità dei dati archeologici, è possibile ricostruire con sufficiente dettaglio la tecnologia utilizzata nell'edificazione di strutture lignee grazie alle notizie contenute nelle cronache di viaggio del XVIII e XIX secolo. Particolarmente ricca di dati è la descrizione di una casa Maori a Spirits Bay (Bay of Islands, Isola del Nord, Nuova Zelanda) fatta dal luogotenente Roux durante la spedizione di M. Du Fresne del 1772. Le pareti erano costruite con pali leggermente distanziati e uniti, tramite legature incrociate, da assi orizzontali. Uno spesso strato di fango sostenuto da un'intelaiatura a graticcio ricopriva le pareti esterne. Il tetto a falde era sorretto da assi spesse 5-8 cm circa e da tre pali di maggiori dimensioni su cui poggiava la trave di colmo. La stabilità della dimora era garantita, oltre che dalle legature, dall'incastro di mortase e tenoni. Gli alloggi tipici dell'isola di Kosrae poggiavano su un basamento rettangolare, dove era eretta la struttura portante. Pali addizionali erano sistemati a distanze regolari lungo il perimetro e tenuti insieme da assi orizzontali fissate con legature. Le pareti erano rivestite con stuoie intrecciate e, internamente, con un reticolo di assicelle. Per il tetto a spioventi si impiegavano strati di rami con le estremità curvate verso l'alto, in corrispondenza dei frontoni. Va rilevata, infine, l'assenza di nodi nelle legature di fibre vegetali, così come di incavi o pioli a cui queste potessero essere assicurate.
E.N. Ferdon Jr., The Ceremonial Site of Orongo, in T. Heyerdahl - E.N. Ferdon (edd.), Reports of the Norwegian Archaeological Expedition to Easter Island and the East Pacific: Archaeology of Easter Island, I, Santa Fe 1961, pp. 221-56; N.J. Prickett, Prehistoric Occupation in the Moikau Valley, Palliser Bay, in B.F. Leach - H.M. Leach (edd.), Prehistoric Man in Palliser Bay, Wellington 1979, pp. 29-47; P.V. Kirch, The Evolution of the Polynesian Chiefdoms, Cambridge 1984, pp. 217-42; P. Bellwood, The Polynesians. Prehistory of an Island People, London 1987; J.M. Davidson, The Prehistory of New Zealand, Auckland 1987², p. 155; W.N. Morgan, Prehistoric Architecture in Micronesia, Austin 1988; P.V. Kirch, Monumental Architecture and Power in Polynesian Chiefdoms: a Comparison of Tonga and Hawaii, in WorldA, 2 (1990), pp. 206-22; P. Ottino, L'habitat des anciens Marquisiens: architecture des maisons, évolution et symbolisme des formes, in JSocOcean, 1 (1990), pp. 3-15; Y. Marshall, The Excavation of N15/507. Towards a Prehistory of the Northern Maori Semi-Subterranean House Form, in D.G. Sutton (ed.), The Archaeology of the Kainga. A Study of Precontact Maori Undefended Settlements at Pouerua, Northland, New Zealand, Auckland 1991, pp. 71-98; M.J. Kolb, Diachronic Design Changes in Heiau Temple Architecture on the Island of Maui, Hawaii, in AP, 1 (1992), pp. 9-38; R. Cordy, The Lelu Stone Ruins (Kosrae, Micronesia), Honolulu 1993; J.A. Van Tilburg, Easter Island, London 1994.
Il panorama archeologico dell'Oceania presenta una gamma molto ampia di modelli abitativi, che spaziano, per complessità e durata d'occupazione, dai ripari temporanei in corteccia degli aborigeni australiani alle residenze monumentali delle aristocrazie polinesiane e micronesiane. Problematico è il riconoscimento archeologico delle tracce lasciate dai ripari aborigeni. Tali strutture, osservate ancora in epoche storiche, erano costruite con strati di corteccia piegati ad arco e fissati nel terreno, oppure con piccoli tronchi e rami, o ancora, nel Nord tropicale, con piattaforme lignee rialzate. Indizi più consistenti provengono dal Sud-Ovest dello Stato di Victoria e dalla Tasmania, dove si conservano le fondazioni (tumuli di terra, circoli di pietre, depressioni artificiali) di alloggi temporanei o stagionali. Gli strati sommitali del sito di West Point Midden (IV-X sec. d.C.), sulla costa occidentale della Tasmania, erano tagliati da sette fosse circolari, profonde circa 50 cm e con diametri da 3 a 5 m. Queste depressioni alloggiavano con molta probabilità capanne di rami ricoperte da zolle e corteccia, non dissimili da quelle osservate in quest'area nel XIX secolo. Gli scavi effettuati nel sito all'aperto di Wañelek, negli altipiani di Papua Nuova Guinea (Melanesia), hanno posto in luce evidenze di strutture interpretate come abitazioni dai lati curvi, simili alle moderne dimore dei gruppi del luogo (Kalam). Le datazioni ottenute collocano cronologicamente queste tracce in un periodo risalente alle fasi terminali del Pleistocene. I ritrovamenti effettuati nei siti Lapita (3600-2000 anni fa), distribuiti dagli arcipelaghi della Melanesia occidentale alle isole polinesiane di Tonga, Samoa, Futuna e Uvea, attestano la costruzione di solide strutture occupate stabilmente per lunghi periodi. Dalle indagini compiute nelle Bismarck e nelle Salomone (Near Oceania) risulterebbe che le più antiche abitazioni Lapita sorgevano sugli specchi d'acqua corallini. Testimonianze probanti sono state rinvenute nei depositi saturi d'acqua di Talepakemalai (Mussau, Arcipelago di Bismarck), il maggiore degli insediamenti finora individuati (82.000 m² ca.), da cui provengono le componenti lignee di una palafitta rettangolare. Con il popolamento degli arcipelaghi ad est delle Salomone (Remote Oceania), nella Melanesia centro-orientale e nella Polinesia occidentale, le genti austronesiane Lapita edificarono i villaggi sulla terraferma, sulle spiagge o sulle terrazze marine emerse. L'analisi integrata dei dati archeologici ed etnografici e di quelli desunti da studi paleolinguistici ha fornito ulteriori informazioni sulla tipologia degli edifici delle antiche comunità oceaniane. È ragionevole supporre che i gruppi Lapita adottassero il termine proto-oceanico rumaq per designare i loro alloggi su palafitta, nei quali si sarebbero svolte anche attività collettive e cultuali. Tale termine non compare tuttavia nelle Figi, a Rotuma e negli arcipelaghi della Polinesia occidentale, dove viene sostituito da derivati del proto-oceanico pale (vale nelle Figi, fale nelle Samoa), con cui si indicavano case con i lati aperti. I nuovi lessemi potrebbero riflettere la diversa dislocazione degli abitati, dagli specchi d'acqua alla terraferma, e l'uso prevalentemente domestico degli ambienti suddetti, in seguito alla creazione di strutture e spazi cultuali separati. Numerose dimore degli arcipelaghi tropicali melanesiani e polinesiani, con piante ellittiche o circolari, poggiavano su piattaforme di terra e/o di rocce vulcaniche o coralline pavimentate con sabbia, ghiaia e/o ciottoli. Sentieri lastricati collegavano talvolta le strutture domestiche del nucleo familiare (Samoa Occidentali). Testimonianze rilevanti sull'architettura residenziale provengono dalle isole polinesiane più remote (Hawaii, Isola di Pasqua, Nuova Zelanda). Abitati per i ceti aristocratici sorsero nelle Hawaii tra la metà del XVII e la fine del XVIII secolo. Essi comprendevano vari ambienti differenziati in base al ceto degli occupanti e all'uso cui erano destinati (Kawela, Makakupaia, isola di Molokai). In ognuno di questi complessi ricorre una struttura maggiore provvista di un focolare e, non di rado, di alcune nicchie ricavate nei muri di fondazione, nelle quali erano esposti i simulacri delle divinità tutelari. L'edificazione delle hare paenga dell'Isola di Pasqua, ubicate per lo più nelle vicinanze dei centri di culto, risale alla fase di maggiore sviluppo della civiltà di Rapa Nui (Ahu Moai Phase II, 1000-1680 d.C.). Esse ospitavano verosimilmente sacerdoti o personalità di rango. Le fondazioni, la cui lunghezza poteva superare i 100 m, consistevano in blocchi sagomati di basalto allineati in trincee ellittiche profonde da 30 a 100 cm; sulle facce superiori dei blocchi erano praticati alcuni fori, in cui era fissata un'intelaiatura arcuata realizzata con legno di toromiro (Sophoro toromiro) e di altre piante arboree. Lo scheletro era poi ricoperto con fasci d'erba, stuoie di giunchi e foglie di canna da zucchero. Il disegno delle abitazioni Maori (whare puni) non sembra avere subito modifiche sostanziali per oltre 600-700 anni. Elementi peculiari di queste strutture, la più antica delle quali è stata riportata alla luce a Moikau (XII sec. d.C.), nell'estremità sud dell'isola settentrionale della Nuova Zelanda, sono la pianta rettangolare o subrettangolare, il portico sul lato d'accesso e un focolare interno. Alcune varianti sono costituite da case in fossa con gli spioventi del tetto poggiati sul terreno o con uno dei lati lunghi formato dalla parete di un banco di terra. La lavorazione dei componenti è testimoniata dai rinvenimenti di travetti lignei con tenoni e di pali con incavi nei depositi lacustri di Mangakaware, nell'Isola del Nord. Rovine di ambienti monumentali si conservano nelle Isole Marianne (Guam, Rota, Tinian, Saipan). Tra l'XI e il XII sec. d.C. le genti Chamorro stanziate in quest'arcipelago iniziarono a erigere residenze sopraelevate per la nobiltà, utilizzate con probabilità anche per funzioni pubbliche e religiose. Di esse rimangono solo i basamenti (latte), formati da colonne sormontate da grandi capitelli emisferici sostenenti il pavimento e gli alzati di legno. Le colonne, realizzate in calcare, arenaria o basalto, erano disposte in due file parallele (da 3 a 7 per ogni fila) distanziate da 3 a 5 m. Tra questi edifici spicca la grandiosa Dimora di Taga (isola di Tinian), la cui struttura portante raggiungeva presumibilmente i 5 m di altezza.
N.J. Prickett, An Archaeologists' Guide to the Maori Dwelling, in NewZealandJA, 4 (1982), pp. 111-47; P.V. Kirch, Feathered Gods and Fishhooks, Honolulu 1985, pp. 249-57; J.M. Davidson, The Prehistory of New Zealand, Auckland 1987², pp. 151-60; W.N. Morgan, Prehistoric Architecture in Micronesia, Austin 1988, pp. 116-49; S. Bulmer, Variation and Change in Stone Tools in the Highlands of Papua New Guinea. The Witness of Wañelek, in A. Pawley (ed.), Man and a Half. Essays in Honour of Ralph Bulmer, Auckland 1991, pp. 470-78; J.A. van Tilburg, Easter Island, London 1994; J. Flood, Archaeology of the Dreamtime, Sydney 1995³; P.V. Kirch, The Lapita Peoples, Oxford 1997, pp. 162-91; H. Lourandos, Continent of Hunter-Gatherers, Cambridge 1997; R.C. Green, From Proto-Oceanic *Rumaq to Proto-Polynesian *Fale. A Significant Reorganization in Austronesian Housing, in ANewZealand, 4 (1998), pp. 253-72.
L'utilizzo di edifici collettivi (meeting houses, men's houses) in Oceania è ampiamente documentato dalle fonti etnostoriche ed etnografiche; ardua rimane tuttavia la loro identificazione nei depositi archeologici. Indizi, spesso scarsi e di non facile lettura, sono costituiti in genere dalle dimensioni e dall'ubicazione degli ambienti nell'area abitativa e dal tipo e dalla quantità di tracce culturali trovate al loro interno. La presenza di architettura pubblica potrebbe essere già attestata negli insediamenti dei gruppi Lapita. Un ambiente rettangolare rinvenuto nel sito di Nenumbo (Isole del Reef ), datato a circa 3000 anni fa, è stato interpretato come una "casa degli uomini" o kamaliR (proto-oceanico): un'ipotesi che attende comunque maggiori conferme dallo scavo della struttura. Il termine kamaliR comparirebbe inizialmente tra gli Austronesiani delle isole del Sud-Est asiatico prima della loro espansione nel Pacifico, presso i quali esso indicava i locali per lo stoccaggio del riso (Filippine). Negli arcipelaghi oceaniani, tuttavia, la parola designa edifici d'uso collettivo. Esiste la possibilità, secondo gli studiosi, che le strutture d'immagazzinamento kamaliR fossero anche un luogo di ritrovo degli uomini e che quest'ultima destinazione sia divenuta predominante in Oceania con l'abbandono della coltura del riso e di altri cereali. È stato ipotizzato inoltre che l'origine delle club houses melanesiane sia da ricercare tra le comunità non austronesiane. Solo successivamente queste fecero la loro comparsa negli insediamenti delle genti austronesiane Lapita, entrate in contatto con i gruppi stanziati già da diversi millenni nell'estremo lembo occidentale di questa regione (Near Oceania). Più consistenti sono le testimonianze archeologiche relative a contesti polinesiani di questi ultimi secoli. Una men's house hawaiana, dove gli individui di sesso maschile si riunivano per consumare pasti, fabbricare manufatti e celebrare riti, è stata identificata nel sito di pescatori di Kawakiu Bay (isola di Molokai) e datata al 1750 d.C. Lo scavo della struttura, la più imponente di quelle rinvenute nell'area, ha riportato alla luce decine di ami e una vasta gamma di utensili e di tracce collegate alla loro lavorazione. Altre case degli uomini sarebbero state individuate negli abitati di Makolea Heiau (isola di Hawaii) e di Palauea (isola di Maui) datati tra il XVI e il XVII sec. d.C. A Palauea si conserva parte di un muro di fondazione che ingloba la base di un palo di legno. Il punto focale dei villaggi Maori è costituito tradizionalmente dal marae, uno spazio aperto per le assemblee e per le cerimonie, nel quale sorge la grande casa per le riunioni ornata con elaborate figure dipinte e scolpite nel legno. I termini assegnati a questi edifici riflettono diverse funzioni: whare tupuna ("casa degli antenati"), whare runanga ("casa per le assemblee"), whare hui ("casa per le riunioni"), whare puni (sleeping-house), whare manuhiri ("casa per gli ospiti"), whare wakairo ("casa scolpita"). La loro comparsa risalirebbe tuttavia al XIX secolo, quando la maggiore stabilità dei gruppi Maori e l'impiego di strumenti metallici consentirono l'innalzamento di solide costruzioni e lo sviluppo delle arti scultoree. Il disegno architettonico rispecchia, anche se su scala maggiore, quello delle tipiche dimore preistoriche, con la pianta rettangolare o subrettangolare, con tetti a doppio spiovente e con un portico frontale. È probabile che le meeting-houses neozelandesi derivino da edifici minori occupati dal capo della comunità e in cui si tenevano assemblee e si accoglievano gli ospiti. I mutamenti generati dall'arrivo degli Europei determinarono una distinzione tra dimore dei capi e ambienti collettivi. A questi ultimi veniva dato, non di rado, il nome di un progenitore realmente vissuto o divinizzato, il cui volto era riprodotto in una maschera fissata sul punto sommitale della facciata e il cui corpo era rappresentato dalle componenti strutturali: la trave di colmo era la spina dorsale, quelle trasversali le costole, le assi inclinate della facciata le braccia distese. Immagini antropomorfe di antenati erano scolpite negli architravi lignei, negli stipiti della porta, nei pannelli disposti lungo le pareti o nei pali sorreggenti lo scheletro dell'edificio. Le figure erano contornate da motivi ornamentali che trovano riferimenti nella mitologia: spirali, manaia (uomo-uccello), lucertole, ecc. Opere scultoree analoghe ornavano i magazzini delle derrate ed erano connesse con la fertilità dei terreni, con le colture e la conservazione dei viveri. Nei periodi di belligeranza i fregi erano smontati e accuratamente nascosti, al fine di salvaguardare l'identità del gruppo tramite il legame con i progenitori. Solo raramente i depositi archeologici hanno restituito esempi di tali lavori; inoltre l'assenza di datazioni sicure non permette di definire le origini o l'evolversi nelle fasi preistoriche dell'arte scultorea Maori. Tra i ritrovamenti di maggior rilievo si segnala la scultura lignea scoperta a Lake Tangonge, nei pressi di Kaitaia (Isola del Nord). L'opera, innalzata forse un tempo sulla sommità di un tetto, è composta da una figura umana centrale, fiancheggiata dai profili stilizzati di due lucertole e da disegni ornamentali. Evidenti sono le differenze stilistiche con i caratteristici prodotti artistici Maori; esse sono state attribuite in passato a una presunta antichità dell'oggetto e a una maggiore vicinanza agli stili della Polinesia orientale. L'attendibilità di questa tesi rimane tuttavia discutibile, non essendo possibile collocare l'opera in un preciso ambito cronologico. Nelle isole della Polinesia occidentale si osservano cospicui resti di monumenti che testimoniano il potere e il prestigio acquisiti dai vertici delle società gerarchiche insulari. Il paesaggio delle Tonga, delle Samoa e di Uvea è costellato da centinaia di tumuli di varie forme e dimensioni, costruiti con terra, ciottoli e blocchi di roccia corallina. Nelle Samoa queste strutture costituivano in larga maggioranza piattaforme per abitazioni; nelle Tonga furono eretti tumuli monumentali (langi, faitoka) per la sepoltura delle famiglie aristocratiche. In alcuni mounds delle zone interne e boscose di queste isole si sarebbero svolte, come riportato dalle fonti etnostoriche e confermato dalle indagini archeologiche, competizioni elitarie consistenti nella cattura di piccioni (Ducula pacifica). Lo status dominante delle classi nobiliari era periodicamente ridefinito nel corso di tali gare, attraverso l'accesso ad esse e il consumo di prede esotiche. Nelle Samoa alcuni mounds in terra (tia ave), con la superficie spianata e con i lati esterni rivestiti da filari di pietra, esibiscono una singolare forma stellata. I loro raggi, variabili da 4 a 11 m e arrotondati alle estremità, si estendono in media intorno ai 3-4 m di lunghezza e di larghezza. Le datazioni al radiocarbonio ottenute nel corso dei rari scavi li collocano in fasi posteriori al 1500 d.C. Secondo recenti studi, i mounds stellati rappresentano emblematicamente alcune creature del Pantheon samoano e la cattura dei piccioni riproporrebbe in forma rituale eventi del folclore indigeno collegati all'acquisizione di spose e alla guerra. Nelle Tonga pratiche analoghe si svolgevano su cumuli di terra (sia heu lupe) generalmente circolari, muniti talvolta di una depressione centrale e, negli esempi più elaborati, di muri di sostegno e rampe di accesso. Le loro dimensioni sono ragguardevoli e risultano comparabili con quelle dei mausolei di Mua a Tongatapu; nelle isole settentrionali del gruppo delle Ha'apai variavano dai 30 ai 50 m di diametro alla base e da 1 a circa 5 m di altezza. Sebbene non vi siano ancora dati cronologici certi, queste strutture sono verosimilmente databili alle fasi più recenti della preistoria dell'arcipelago. Un'altra categoria di tumuli (esi), dislocati di solito in punti dominanti del territorio, potrebbe essere stata utilizzata per la sosta e il riposo della nobiltà indigena. Sempre a Tonga, nel settore orientale dell'isola di Tongatapu (Hahake), si erge il monumento di Haamonga-a-Maui, unico nel suo genere in Oceania. Consiste in un trilite di arenaria corallina formato da due pilastri alti oltre 4 m che sostengono un architrave. Il peso di ciascun elemento è stato stimato tra 30 e 40 t. La faccia superiore dell'architrave presenta una cavità concava e alcune scanalature che, secondo alcune teorie, avrebbero permesso di registrare il fenomeno degli equinozi. Fonti tradizionali affermano che il trilite di Haamonga-a-Maui venne fatto erigere nel 1200 d.C. dall'undicesimo re di Tonga allo scopo di commemorare il legame che univa i suoi due figli. Nelle vicinanze furono collocati alcuni grandi ortostati in roccia corallina, la cui funzione non è stata a tutt'oggi chiarita.
P. Bellwood, Man's Conquest of the Pacific, Auckland 1978, p. 312; P.V. Kirch, Feathered Gods and Fishhooks, Honolulu 1985; J.M. Davidson, The Prehistory of New Zealand, Auckland 1987², pp. 151-60; P.V. Kirch, Monumental Architecture and Power in Polynesian Chiefdoms. A Comparison of Tonga and Hawaii, in WorldA, 2 (1990), pp. 206-22; D.J. Herdrich, Towards an Understanding of Samoan Star Mounds, in JPolynSoc, 4 (1991), pp. 381-435; T. van Meijl, Maori Meeting-houses in and over Time, in J.J. Fox (ed.), Inside Austronesian Houses, Canberra 1993, pp. 194-218; D.V. Burley, Sport, Status, and Field Monuments in the Polynesian Chiefdom of Tonga: the Pigeon Snaring Mounds of Northern Ha'apai, in JFieldA, 23 (1996), pp. 421-35; P.V. Kirch, The Lapita Peoples, Oxford 1997, pp. 185- 86; M. Spriggs, The Island Melanesians, Oxford 1997, pp. 133-34.
I templi polinesiani (marae nelle Isole della Società, Cook, Australi e Tuamotu; tohua, meae o ahu nelle Marchesi; heiau nelle Isole Hawaii; moai-ahu nell'Isola di Pasqua) sorgevano su un'area rettangolare, parzialmente o interamente pavimentata e in molti casi delimitata da muretti perimetrali o da rampe di terra. Su uno dei lati del piazzale cerimoniale era innalzata talvolta una piattaforma-altare (ahu) con uno o più gradoni, che poteva sostenere, come nell'Isola di Pasqua, imponenti statue (moai). Lo spazio cultuale poteva essere ripartito ulteriormente con piattaforme aggiuntive e terrazzi; al suo interno sono stati rinvenuti di frequente ortostati, buchi di palo riferibili a strutture sopraelevate, fosse per l'accumulo dei rifiuti e frammenti di corallo, esibiti probabilmente come offerte alle divinità tutelari. La valenza simbolica di questi complessi architettonici è desumibile anche dalla relazione che li legava a particolari caratteristiche del terreno (rocce di grandezze e forme inusuali, affioramenti, cambiamenti di pendenza) e ad aspetti del territorio, come l'oceano e gli astri, o dalla vicinanza ad altri centri religiosi. Nonostante l'architettura di molti templi polinesiani riveli evidenti analogie, numerose varianti possono essere osservate nella combinazione, nel numero e nelle dimensioni delle strutture menzionate, nell'orientamento e nella loro distribuzione sul territorio o anche nei materiali e nelle tecniche costruttive. I primi approfonditi studi sui luoghi di culto polinesiani risalgono alle ricerche effettuate negli anni Venti e Trenta del Novecento da K.P. Emory nelle Isole della Società, nelle Tuamotu e nelle Hawaii. Lo studioso distinse nelle isole sopravvento dell'Arcipelago della Società tre principali tipi di marae (costiero, dell'entroterra e intermedio) in base ai materiali impiegati, al perimetro di fondazione e alla disposizione degli elementi architettonici. Secondo Emory, l'edificazione dei marae dell'entroterra, architettonicamente meno elaborati, precedette quella dei centri religiosi costieri, contraddistinti dalla presenza di ahu con facciate rivestite da blocchi sagomati. Al secondo tipo appartiene il marae monumentale di Mahiatea visitato da J. Banks nel 1769. Il suo altare consisteva in una piramide di 10 gradoni alti ciascuno 1,2 m; la base misurava 81 m di lunghezza e 22 m di larghezza. Le facce esterne dei gradoni erano formate da filari di blocchi squadrati di rocce coralline e vulcaniche. La piramide di Mahiatea fu eretta su un lato di uno spiazzo rettangolare recintato da un muro lungo 115 m. Successive indagini hanno evidenziato come la tipologia individuata da Emory non includesse l'intera gamma di variabili espressa dai templi di Tahiti o dell'isola di Moorea. Marae ascrivibili al tipo costiero sarebbero infatti presenti anche nell'entroterra e viceversa. Inoltre la costruzione dei marae meno elaborati (dell'entroterra) si protrasse fino alle fasi preistoriche più recenti dell'arcipelago e il loro utilizzo è stato segnalato dai primi visitatori europei. Le ricerche pionieristiche di R.C. Green (1960-62) nella valle di Opunohu (Moorea) hanno rivelato che la distribuzione e l'organizzazione dei centri di culto, edificati a partire da circa 400-500 anni fa, riflettevano la struttura delle comunità insulari nelle fasi precedenti e successive al contatto con gli Europei. Secondo molti studiosi, la variabilità nelle dimensioni e nell'elaborazione dei marae rispecchia il livello di complessità del gruppo sociale o il prestigio delle figure di rango associate a questi centri. Significativi risultati sono stati ottenuti dalle indagini condotte nell'Isola di Pasqua e nelle Isole Hawaii grazie al supporto fornito dalle datazioni al radiocarbonio e dai dati stratigrafici. Gli studi effettuati sugli ahu di Rapa Nui hanno rivelato differenze notevoli nel tipo e nell'orientamento degli elementi architettonici, nell'erezione di rampe o di piattaforme aggettanti e nella positura dei moai. È stata documentata inoltre l'evoluzione artistica dei moai, che nel corso del tempo assunsero forme più stilizzate e dimensioni maggiori. Analogamente, le indagini di M.J. Kolb nell'isola di Maui (Hawaii) hanno evidenziato sostanziali modifiche nelle tecniche costruttive dei muri e delle fondazioni dei templi hawaiani, documentando lo sviluppo di modelli architettonici più complessi. I maggiori centri religiosi hawaiani (luakini o heiau pookanaka), che erano destinati al culto di Ku, dio della guerra, sono databili alle fasi più recenti della preistoria dell'arcipelago. Vi si svolgevano cerimonie pubbliche, durante le quali erano sacrificati uomini e grandi quantità di maiali. Le strutture rinvenute all'interno di tali templi comprendevano di solito una torre di legno, dove si raccoglievano in preghiera i sacerdoti, immagini di divinità disposte a semicerchio dinanzi a un altare e alcune capanne utilizzate per vari scopi. Le indagini compiute nel tempio di Kaneaki, ubicato nella valle di Makaha (isola di Oahu), hanno documentato sei fasi successive di ampliamento. La prima fase (XV sec. d.C.) è contrassegnata dalla costruzione di due terrazzi. Nei due secoli seguenti furono apportati diversi cambiamenti, culminati nel 1650 d.C. con l'annessione di un ampio recinto cerimoniale che portò la superficie complessiva del tempio da 400 a 1010 m². Le modifiche più recenti del tempio di Kaneaki sarebbero coincise con la sua consacrazione a Ku ad opera di un leader di Oahu.
K.P. Emory, Stone Remains in the Society Islands, Honolulu 1933; R.C. Green et al., Archaeology on the Island of Moorea, French Polynesia, in AnthrPAmMusNatHist, 51 (1967); P.V. Kirch, Feathered Gods and Fishhooks, Honolulu 1985, pp. 262-65; Id., Monumental Architecture and Power in Polynesian Chiefdoms. A Comparison of Tonga and Hawaii, in WorldA, 2 (1990), pp. 206-22; M.J. Kolb, Diachronic Design Changes in Heiau Temple Architecture on the Island of Maui, Hawaii, in AP, 31 (1992), pp. 9-38; M.W. Graves - M. Sweeney, Ritual Behaviour and Ceremonial Structures in Eastern Polynesia: Changing Perspectives on Archaeological Variability, in M.W. Graves - R.C. Green (edd.), The Evolution and Organisation of Prehistoric Society in Polynesia, Auckland 1993, pp. 106-25.
Importanti testimonianze sull'architettura funeraria del Pacifico provengono dalle Tonga; si tratta di tumuli sepolcrali edificati per l'aristocrazia dell'arcipelago. Secondo le tradizioni orali, le strutture più imponenti, ubicate nel centro cerimoniale di Mua (isola di Tongatapu), avrebbero ospitato le sepolture di sovrani vissuti nelle fasi preistoriche più recenti. Le datazioni ottenute nel corso dei rari scavi effettuati in questi monumenti confermerebbero tali fonti: la costruzione di queste strutture coincide infatti con l'affermarsi tra il 1200 e il 1750 d.C. di un apparato gerarchico fondato sulla supremazia di due stirpi dominanti (Tui Tonga e Hau). Il termine utilizzato per i mausolei di Tonga, langi, è associato a concetti come "cielo" e "paradiso" e sottolinea la relazione diretta tra il luogo di sepoltura dei sovrani e la dimora delle divinità. I tumuli, in genere a pianta rettangolare, avevano spesso dimensioni considerevoli e il loro volume poteva raggiungere i 3000 m³ di terra. Le facciate erano rivestite con lastre di calcare corallino, la cui lavorazione era affidata a scalpellini specializzati. Nell'area sepolcrale si svolgevano cerimonie pubbliche durante le quali era ridefinita la struttura verticale del chiefdom. Tra le cerimonie di maggior rilievo vi era il tributo annuale dei primi frutti, offerti al Tui Tonga dinanzi ai mausolei di Mua. Le famiglie di rango non direttamente imparentate con le dinastie regnanti erano seppellite in tumuli più piccoli (faitoka). La loro distribuzione nell'isola di Niuatoputapu sembra confermare una ripartizione del territorio in segmenti radiali, ognuno dei quali era posto sotto il controllo di un dignitario del luogo. Le variazioni riscontrate nelle dimensioni e nella complessità architettonica delle tombe dell'arcipelago sono inoltre direttamente connesse con l'autorità dei gruppi aristocratici cui queste appartenevano. Grandiosi monumenti funerari sono stati rinvenuti anche nelle isole micronesiane. Nel centro cerimoniale di Nan Madol (Pohnpei, Isole Caroline) si erge il mausoleo di Nandauwas in cui, secondo le fonti, fu sepolta la stirpe reale di Saudeleur e, in fasi successive, di Nahnmwarki. La tomba di Nandauwas è stata edificata con molta probabilità in epoca storica, sebbene lo stile architettonico non appaia risentire di influssi europei. Il complesso sepolcrale si erge su un podio di dimensioni ragguardevoli (60 × 65 m ca.; alt. 2 m ca.), su cui si sviluppa un primo recinto murario formato da filari di blocchi prismatici di basalto. Lungo il perimetro interno corre un ampio gradino sul quale in passato erano esposte le salme prima del seppellimento. Un secondo perimetro di mura, più interno, racchiude una tomba principesca che copre un'area di 96 m² circa e che comprende vari ambienti sotterranei scavati a una profondità di circa 3 m. Alla fine dell'Ottocento è stato riportato alla luce il ricco corredo di questa sepoltura, consistente in numerosi ornamenti e utensili di conchiglia.
P.V. Kirch, The Evolution of the Polynesian Chiefdoms, Cambridge 1984, pp. 312, 361-77; W.N. Morgan, Prehistoric Architecture in Micronesia, Austin 1988, pp. 68-70; P.V. Kirch, Monumental Architecture and Power in Polynesian Chiefdoms. A Comparison of Tonga and Hawaii, in WorldA, 2 (1990), pp. 206-22.