L'architettura: caratteri e modelli. Periodo tardoantico e medievale
di Richard Hodges
La storia dell'architettura nel periodo compreso tra il V e il XII secolo può essere suddivisa in tre fasi: tardoantica, altomedievale, romanica. L'architettura tardoantica presenta una sostanziale continuità con la precedente tradizione classica; al contrario, tra il VI e l'VIII secolo, la tecnica di realizzazione della malta di calce venne dimenticata in gran parte dell'Europa occidentale. Tra la fine dell'VIII e il IX secolo l'influsso della rinascenza carolingia e il rinnovato vigore del potere bizantino portarono a definire una nuova tradizione architettonica, che al volgere del millennio si era ormai consolidata a cominciare dai contesti sociali elitari ed ecclesiastici. Un aspetto fondamentale di tale passaggio verso nuove espressioni architettoniche fu la riscoperta di alcune tecniche costruttive (in particolare l'uso della malta di calce invece delle malte a base di argilla) e di criteri di progettazione classici, compresi alcuni principi di ingegneria, come quelli alla base della costruzione delle volte. L'architettura ecclesiastica costituì il nuovo, principale apporto al repertorio dell'architettura classica; la sua genesi si può individuare nella lunga evoluzione tecnico-progettuale antica e non sorprende che gli architetti imperiali abbiano ottenuto brillanti risultati nella nuova architettura paleocristiana. Dopo la pace della Chiesa (313) l'architettura acquisì un carattere di particolare grandiosità nelle basiliche costantiniane di S. Pietro (323-326, completata attorno al 400) e di S. Paolo fuori le Mura (386-423), a Roma. Questi nuovi complessi si distinguevano per la presenza di un ingresso turrito che conduceva dapprima ad un atrio e quindi portava ad un secondo ambiente definito da una navata centrale e da navate laterali, chiuso da un'abside. Spesso vi era un transetto, talvolta con sacrestie adiacenti; la copertura era costituita da un semplice tetto ligneo. Tali soluzioni dettero origine ad un tipo edilizio caratterizzato da un solido corpo di fabbrica e da un impianto articolato, funzionale alla liturgia. Il transetto era un elemento nuovo, progettato per offrire una maggiore capienza ai fedeli attorno all'altare; ben presto questo spazio venne reclamato dalle confraternite di devoti e si avvertì la necessità di ingressi al transetto separati. La pianta a T che ne risultò era ben distinta da quella di altre costruzioni, soprattutto da quella dei santuari pagani a pianta cruciforme, planimetria non adeguata alle necessità delle assemblee dei fedeli. Edifici di questo tipo vennero costruiti in tutto l'Impero e vennero addirittura emulati, anche se in forma più modesta, nelle ville coeve, come a Saint-Aubin-sur-Mer (Calvados) e a Montcaret (Dordogna). Il mondo cristiano orientale seppe mantenere la tradizione romana dell'architettura a volta, sebbene fortemente condizionato da influssi orientali. Gli architetti costantinopolitani dettero prova di considerevole abilità nell'applicazione sperimentale dei principi architettonici sasanidi, come la tecnica muraria impiegata nella costruzione della cupola di età giustinianea. L'esito più rilevante di questa tradizione fu S. Sofia, una chiesa che costituì il modello non solo per le basiliche metropolitane, come S. Giovanni a Efeso, ma anche per numerose chiese protobizantine dell'Egitto e dei Balcani. Già nel VI secolo le torri erano divenute importanti elementi ausiliari dell'architettura ecclesiastica. La loro origine probabilmente deriva dai bastioni e dalle torri usati per potenziare le fortificazioni e le fortezze urbane dal III secolo in poi. Tale soluzione architettonica venne ripresa nei contesti rurali domestici del III e del IV secolo. In ville come quella di Stonea (Lincolnshire) o nelle fattorie locali della Tripolitania, le torri sostituirono spesso gli ambienti principali di ricevimento. Dal V secolo la presenza di una torre centrale divenne la norma nella maggior parte delle più importanti ville, come a Nador (Algeria), Tabarca (Tunisia) e San Vincenzo al Volturno (Italia). A partire da questa data basse torri vennero poste generalmente ai lati dei portici delle basiliche paleocristiane. L'architettura popolare acquistò nel corso del IV secolo caratteri più marcatamente regionali. Nel V secolo emersero due tendenze principali: la minore cura posta nella realizzazione degli edifici in pietra e la prevalenza delle costruzioni in legno. Le abitazioni in pietra, soprattutto in contesti urbani, erano realizzate per lo più con materiale di spoglio proveniente da più antichi edifici di età classica; sembra che in questo periodo l'uso di pietra da cava fosse meno diffuso. Tale prassi dette luogo a edifici dall'apparenza più modesta, sebbene, come nel caso delle ben conservate abitazioni urbane di Efeso, del V secolo, i materiali riutilizzati venissero coperti da pitture di alta qualità. La grande differenza, comunque, tra l'epoca classica e la Tarda Antichità è senza dubbio nell'uso comune del legno in costruzione. In Italia era usuale che strutture lignee prendessero il posto di costruzioni residenziali in pietra in contesti urbani, come è evidente negli scavi di Brescia, Cosa e Luni. Si sarebbe tentati di attribuire la nuova architettura alla tradizione germanica, ma nella Gran Bretagna meridionale e nei Paesi Bassi, dove gli studi sugli impianti edilizi in legno tardoromani sono più avanzati, appare evidente che le strutture lignee ripresero tecniche locali romanizzate e che, poiché più facili e più economiche, soppiantarono le costruzioni in pietra. Alle migrazioni germaniche si deve l'introduzione di alcune semplici forme architettoniche, soprattutto le capanne seminterrate (Grubenhaus). Comunque in Gran Bretagna, in Francia e in Italia, nei periodi tardoantico ed altomedievale, questa tipologia architettonica venne normalmente utilizzata sia per abitazioni che per botteghe artigianali, come è stato evidenziato negli scavi di Mucking (Essex) e West Stow (Suffolk) in Inghilterra, di Brebières (Pas-de-Calais) e Saint-Denis in Francia. A causa della completa scomparsa della produzione di serie nel VII secolo, sono ben poche le costruzioni risalenti a questo periodo. Con la fine dell'estrazione della pietra, la crisi dell'industria laterizia e della produzione di malte di calce in molte regioni, non sorprende che siano scarsi i monumenti architettonici risalenti a tale epoca giunti fino a noi. Nella stessa Roma poche chiese vennero costruite tra l'inizio del VII e la fine dell'VIII secolo e la tendenza era piuttosto quella di restaurare le costruzioni esistenti; la maggior parte delle chiese erano piccole costruzioni in pietra, poco più di una cappella. Forse i migliori esempi sono costituiti dal tempietto del Clitunno, di VIII secolo, dal tempietto di S. Maria in Valle a Cividale, dalla prima cattedrale dei Sassoni Occidentali a Winchester (648 ca.) e dalla piccola cappella di Escomb (contea di Durham). La tradizione basilicale non scomparve completamente; le chiese in laterizio dell'inizio del VII secolo, edificate durante la missione di s. Agostino presso gli Anglosassoni a Canterbury, a Bradwell (Essex) e a Reculver, testimoniano la continuità con la tradizione classica. Le prime chiese monastiche a Jarrow e a Wearmouth (contea di Durham), costruite da artigiani franchi alla fine del VII secolo, dimostrano che il mondo cristiano poteva ancora contare su architetti provvisti della competenza richiesta da questo tipo di impianti. Anche in diversi monasteri europei, alla metà dell'VIII secolo, si conservavano ancora le necessarie conoscenze tecniche e di ingegneria. Gli scavi a Saint-Denis, presso Parigi, hanno dimostrato che la grande chiesa abbaziale, costruita dall'abate Fulrad tra il 754 e il 775, era una costruzione basilicale che già prefigurava le chiese carolinge. Analogie costruttive consentono di attribuire la ben conservata chiesa basilicale di S. Salvatore a Brescia alla metà dell'VIII secolo. La chiesa cattedrale di S. Sofia a Benevento, fondata dal duca Gisulfo II e completata dal duca Arechi II nel 762, appartiene a questo periodo di sperimentazioni; l'ampio e articolato impianto circolare richiama immediatamente la grande chiesa giustinianea di Costantinopoli e prefigura la Cappella Palatina di Carlo Magno ad Aquisgrana. L'architettura relativa alle residenze del potere in questo periodo di transizione è scarsamente documentata. Si è tentati di immaginare i sovrani occupare, senza però risiedervi stabilmente, i palazzi in pietra costruiti nella Tarda Antichità in alcuni centri, come Pavia o Ravenna. A nord delle Alpi, gli Anglosassoni e i Franchi costruirono nuovi palazzi in legno, spesso fortificati all'interno da palizzate; nel VII secolo il palazzo di Yeavering (Northumbria) comprendeva, oltre ad una bella sala circondata da edifici residenziali, anche un cuneus in legno per le assemblee, che sembra essere stato costruito sopra un antico teatro. L'alto livello della carpenteria, evidente in questi insediamenti elitari a nord delle Alpi, può essere riconosciuto anche nei coevi insediamenti mercantili ed agricoli. Invece a sud delle Alpi, nella posa in opera di pali o di travi a sostegno dei muri, le abitazioni rurali hanno ben poco della precisione che è usuale nei territori anglosassoni e franchi. La rinascenza carolingia deve molto alla riscoperta delle arti classiche. Tra i molti trattati classici copiati in questa epoca sono i dieci libri sull'architettura di Vitruvio, oggetto della corrispondenza tra il biografo di Carlo Magno, Eginardo, ed un certo Wussin, a testimonianza dell'influenza degli autori antichi sugli intellettuali della corte carolingia. Gli strumenti per gli impasti di malta di calce e i forni per la calce (come documentato dai rinvenimenti della Crypta Balbi a Roma) continuarono ad essere impiegati nei cantieri per la realizzazione di forme architettoniche tardoantiche, che dunque venivano ancora prese a modello. Le più importanti costruzioni di questo periodo vennero edificate dalla corte carolingia. Eginardo venne incaricato della costruzione del nuovo palazzo e della Cappella Palatina di Carlo Magno ad Aquisgrana, tra il 792 e l'805; il complesso fu progettato da Ottone di Metz per enfatizzare le processioni cerimoniali dal palazzo alla cappella. Il palazzo era assimilabile ad un triclinio di impianto romano rivisitato attraverso il triclinio papale del palazzo del Laterano; la cappella, con il rango di cattedrale, venne edificata con materiali di spoglio provenienti dall'Italia ed evoca intenzionalmente la grande cappella giustinianea di S. Vitale a Ravenna. Un ingresso monumentale introduceva, attraverso un atrio esterno, in un alto ambiente ottagonale coperto a volta, con gallerie su differenti livelli. L'importanza attribuita alle processioni è uno degli elementi principali della filosofia costruttiva delle nuove, enormi basiliche a Colonia, Centula (St.-Riquier) e a Fulda, considerata la S. Pietro del Nord, di oltre 100 m di lunghezza. In tutta la cristianità, dall'Inghilterra anglosassone al ducato longobardo di Benevento, vennero edificate nuove chiese basilicali in sostituzione delle più piccole cappelle di VII ed VIII secolo; molte includevano cripte anulari, nelle quali veniva conferito risalto all'accesso dei pellegrini e dei fedeli alle reliquie. Il segno di questa nuova epoca è dato dal paesaggio urbano di Roma, trasformato dalle nuove costruzioni all'inizio del IX secolo. Un'altra caratteristica di questo periodo è la definizione di una pianta espressamente dedicata agli impianti monastici: la prima forma di chiostro venne probabilmente introdotta nella chiesa di S. Pietro ad Altenmünster (Germania) dal vescovo Chrodegano, suo primo abate, nel 760-764. Dall'800 circa il concetto venne universalmente adottato nella cristianità come soluzione più idonea, in linea con la riforma di s. Benedetto di Aniane. L'impianto monastico comprendeva ambienti per gli ospiti, il palazzo dell'abate, altre chiese e, nel caso dei monasteri più grandi, come quelli di Saint-Denis o di San Vincenzo al Volturno, un quartiere per le attività artigianali ed un vicus per mercati periodici. Il grande disegno della complessa pianta di San Gallo (820 ca.), composto da ben cinque tavole distinte (ciascuna delle quali misura 0,77 × 1,12 m), è stato a lungo ritenuto un progetto paradigmatico dell'architettura monastica riformata di questo periodo. Alla luce di recenti dibattiti, è oggi considerato una pianta per l'abbazia di San Gallo redatta dall'abate Haito dopo i sinodi di Aquisgrana dell'816 e dell'817. Fino all'800 circa il palazzo del Laterano comprese una sala oblunga con tre absidi, due delle quali situate una di fronte all'altra a metà della sala. La nuova aula leonina era larga circa il triplo ed aveva undici absidi (una delle quali decorata con un mosaico). I muri erano affrescati da pitture raffiguranti gli apostoli che predicano ai gentili, il pavimento era rivestito da un mosaico in opus sectile ed al centro della sala si trovava una fontana. Non è affatto chiaro se tali importanti sviluppi dell'architettura monumentale riguardarono anche l'edilizia comune. Resta l'impressione che le costruzioni in legno abbiano seguito le formule tradizionali, sebbene dal IX secolo siano divenuti preminenti gli ambienti di servizio destinati all'immagazzinamento. È possibile che la disponibilità di utensili in ferro, come la sega e i chiodi, realizzati dai fabbri presso gli emergenti centri monastici e nelle nuove città, consentisse di apportare modifiche progettuali. Una delle nuove forme architettoniche introdotte in questo periodo costituì il prototipo del castello. Si tratta di fortificazioni private costruite in legno in Renania e alla foce del Reno dalla metà del IX secolo; questi complessi comprendevano sempre una sala con annessi ambienti di servizio ed erano circondati da una solida recinzione in terra o in legno. Tale struttura architettonica venne realizzata in pietra per la prima volta verso la fine del IX secolo nel palazzo reale tardocarolingio di Broich. L'architettura romanica tra il X e il XII secolo fu, in effetti, il frutto dell'evoluzione delle tecniche carolinge. La concezione strutturale delle costruzioni romaniche era più matura, caratterizzata da coperture a volte e da più ricche decorazioni plastiche esterne, ma essenzialmente non era differente nella concezione dall'architettura carolingia. Un'ulteriore distinzione fra le costruzioni di questi due periodi è rappresentata dalla diffusione della pietra di cava nell'XI secolo, in contrasto con l'uso preponderante della pietra non lavorata e dei materiali di spoglio impiegati in età carolingia. Le costruzioni in conci di pietra del tardo Romanico anglosassone, borgognone, catalano o lombardo riflettono l'evoluzione dell'opera degli scalpellini. La stesse capacità tecniche sono riscontrabili nella coeva architettura civile. Le fortificazioni private, in legno nel IX secolo, compresero invariabilmente, nel corso del X e dell'XI secolo, le case-torri in pietra. La Torre del Cavaliere scavata a Portchester (Hampshire) costituisce uno dei migliori esempi superstiti di questi nuovi canoni architettonici. Altre torri sono state rinvenute a Goltho (Lincolnshire), a Fécamp, nel castello dei duchi di Normandia, e a Husterknupp (Germania). In genere, lo scavo di queste abitazioni signorili romaniche in pietra ha dimostrato come esse abbiano sostituito strutture analoghe in legno. Le casetorri dell'Italia meridionale costituirono dapprima il tratto distintivo dei nuovi castelli d'altura dell'XI secolo; inizialmente, come nel Nord Europa, erano piccole costruzioni slanciate, ciascuna alta due o tre piani, abbastanza simili alle torri campanarie legate alle chiese abbaziali dell'epoca. Erano inoltre le abitazioni dell'élite rurale emergente in Campania, nel Lazio e in Toscana. In Toscana, in villaggi più ricchi come l'insediamento minerario pisano di Rocca San Silvestro, le abitazioni contadine in pietra sostituirono le precedenti costruzioni lignee; tali nuove abitazioni rurali tentarono di emulare le case-torri nella struttura architettonica e nei dettagli.
In generale: si vedano gli atti dei colloqui internazionali di Château- Gaillard del Centre de Recherches Archéologiques Médiévales, I-XVIII, 1962-98.
In particolare:
D. Wilson (ed.), The Archaeology of Anglo-Saxon England, London 1976; J.K. Conant, Carolingian and Romanesque Architecture, 800 to 1200, Harmondsworth 1978; W. Horn - E. Born, The Plan of St. Gall, Berkeley 1979; R. Krautheimer, Early Christian and Byzantine Architecture, Harmondsworth 1986⁴; W. Jacobsen, Der Klosterplan von St. Gallen und die karolingische Architektur, Berlin 1992.
di Günter P. Fehring
Già nell'antichità si utilizzavano piante con indicazioni di misure; dall'Alto Medioevo si diffusero disegni architettonici, non necessariamente elaborati dalle maestranze, utilizzati sia come documentazione delle strutture, sia come materiale di studio, sia infine come documenti per contratti. Tra questi si segnala la pianta del monastero di San Gallo, dell'820 circa. Si tratta di una pianta generale che, grazie alle annotazioni relative alle misure, poteva servire anche per il rilevamento del terreno da edificare. Veri e propri disegni tecnici di cantiere venivano invece elaborati dallo scalpellino-capomastro; essi, con l'ausilio di strumenti geometrici, consentivano, secondo la tradizione antica, la trasposizione nella scala originale. Progetti costruttivi di questo tipo sono attestati a partire dall'inizio del XIII secolo, evidentemente in concomitanza con l'avvio della lavorazione in serie della pietra squadrata. Il recupero delle conoscenze geometriche basate sulla Geometria di Boezio (anteriore al 507), a sua volta fondata su Vitruvio, permise di tornare all'uso della riga e del compasso, facilitando il rilievo degli edifici sul tavolo da disegno e la realizzazione di angoli retti, superfici piane e linee diritte. Tali conoscenze trovano ampia diffusione nei taccuini di disegni, come ad esempio quello di Villard de Honnecourt (XIII sec.). Gli strumenti più importanti per il rilevamento dell'edificio di cui si disponeva nel cantiere medievale erano la pertica e i picchetti di demarcazione, il cordino per misurare e la fune per tracciare, il regolo e la squadra, il compasso da terreno e il balaustrino a punte fisse. Con questi venivano definite la pianta e la proiezione in alzato dell'edificio. Riguardo agli attrezzi impiegati, si hanno inoltre notizie sull'uso nel cantiere della scala a pioli e a libro, di lettighe, conche, cesti a spalla, carriole e carrelli, montacarichi e gru, mantici, tenaglie a gola di lupo e pinze, così come è anche conosciuta la struttura delle impalcature. Attraverso le fonti scritte e iconografiche si hanno inoltre informazioni sull'approvvigionamento dei materiali e sul loro trasporto fino al cantiere sia per via di terra che per via d'acqua.
L'uso dei diversi materiali da costruzione dipende dalle materie prime disponibili, dal livello di sviluppo tecnologico, dalla funzione che devono assolvere e in rapporto all'eventuale ruolo di rappresentanza svolto dalla struttura architettonica stessa. Il livello delle conoscenze a tale riguardo è diverso a seconda dei luoghi e dei tempi, in ragione della conservazione dei dati materiali e della disponibilità di fonti iconografiche e scritte. Notevoli sono le lacune della tradizione, soprattutto per l'epoca delle migrazioni germaniche, tra il periodo tardoantico e l'età carolingia.
La pietra - La pietra naturale è il materiale dominante soprattutto nelle strutture a carattere difensivo e nei grandi edifici di rappresentanza. In età tardoantica ciò vale quasi esclusivamente nell'ambito dell'Impero romano. Dopo la consistente perdita di importanza della pietra durante l'epoca delle migrazioni, l'uso di tale materiale ricompare nei centri principali dei regni germanici, ma in forma molto limitata; solo in seguito aumenterà anche nella costruzione delle chiese e si ritroverà nuovamente nelle città emergenti. Le indagini mineralogiche e geologiche consentono di determinare la provenienza della pietra e rendono così possibile localizzare le antiche cave di pietra. Sia nell'antichità che nel Medioevo la pietra era estratta già ridotta alle dimensioni necessarie: il blocco veniva distaccato lateralmente mediante solchi e poi liberato alla base praticando fenditure con cunei. I singoli elementi architettonici potevano prendere forma già nella cava, come mostrano alcuni resti abbandonati sul posto (ad es., a Heunesaulen presso Miltenberg sul Meno). La maggior parte delle pietre da costruzione conosciute non si prestava ad una lavorazione più accurata ad opera degli scalpellini; veniva quindi usata in primo luogo come "pezzame" per la fabbricazione della massa muraria. È il caso della quarzite, dell'argilloscisto e della grovacca, che talvolta trovavano impiego anche per le strutture in pietra più semplici. A questi vanno aggiunti lo gneiss, il granito e, tra le pietre vulcaniche effusive, il porfido e il basalto; lo stesso vale per la trachite, il tufo e la pomice. Per la maggior parte delle costruzioni in muratura la materia prima fondamentale è costituita invece dalle pietre arenarie e dai calcari. Le rocce detritiche o i massi erratici, provenienti per lo più dalle morene dell'era glaciale, presentano superfici irregolari e non consentono una messa in opera in filari regolari. Talvolta però gli allettamenti in piano venivano ottenuti mediante il taglio di queste pietre, che trovavano impiego nei muri delle fortificazioni e delle chiese, ma anche nelle fondamenta delle strutture di legno e mattoni. Le pietre estratte dalle cave, approssimativamente lavorate con il martello, hanno di norma due "piani di posa" all'incirca paralleli, che consentono un allettamento stratificato della struttura muraria. Dopo essere stati squadrati, i blocchi, che dopo l'antichità dominarono l'architettura di prestigio soprattutto nell'Alto e poi di nuovo nel Basso Medioevo, acquisivano la loro forma regolare nel cantiere o nella bottega mediante l'uso degli utensili da scalpellino. La sbozzatura e la modellatura avvenivano con la punta o lo scalpello, usati assieme al mazzuolo. Con l'aiuto del regolo, della squadra di ferro ed eventualmente di modelli per la sagomatura, si poteva ottenere una maggiore precisione e finitura mediante una gamma di attrezzi che nel corso del tempo subì mutamenti e arricchimenti: sono noti vari tipi di scalpelli, martelli, nonché asce con tagliente a punta, largo, o dentato; dal periodo gotico martelline e gradine, pettini e bocciarde; dal Basso Medioevo in poi scalpelli a punta larga. I marchi degli scalpellini, che conoscono un'ampia diffusione tra l'XI e il XII secolo e continuano ad essere utilizzati fino al XVII secolo, erano rappresentati da contrassegni geometrici scolpiti. I diversi tipi di opere murarie già adottati in epoca romana, permangono o si diffondono nuovamente nel Medioevo. Ciò vale per le costruzioni in pietra (opus italicum), in mattoni (opus latericium), in pietra da taglio (opus romanum), in pezzame lapideo (opus antiquum, opus incertum o opus rusticum), in muratura mista (opus mixtum), in muratura in conglomerato di malta e pietrame (opus caementicium, opus fusile), in muratura a sacco (opus implextum), come anche per la muratura con pietre legate da grappe metalliche (opus recinctum). Inoltre, rispetto alle parti in alzato, spesso le fondazioni avevano una struttura più larga, ottenuta mediante una risega, e meno curata dal punto di vista estetico, talvolta priva di legante di malta come la muratura a secco. Questa varietà di apparecchi murari era in realtà già presente in età romana fuori dall'Urbe, nonostante la forte standardizzazione degli edifici pubblici.
Il legno - Il legno ha qualità costruttive equilibrate, può essere lavorato con facilità ed è inalterabile nell'acqua e resistente all'azione dell'umidità del terreno. Il legno trovò dunque molteplici impieghi nell'architettura, a partire dall'antichità, per edifici, pareti e coperture di tetti (assi e scandole), per strutture difensive, sostruzioni (graticci) e altri dispositivi tecnici. Sia nell'età romana che in quella medievale si lavorava il legno ancora verde. Nelle regioni dell'Europa in cui dominava il legno di latifoglie, per l'edilizia veniva impiegato in primo luogo il legno di quercia, che raggiungeva i 160-200 anni di età, i 40 m di altezza e i 2 m di larghezza. È un legno durevole e resistente alle intemperie, facilmente lavorabile e si deteriora poco. Nelle regioni in cui dominavano le conifere, prevaleva l'uso del legno dolce, a fibra allungata ed elastica dell'abete rosso e dell'abete bianco ed anche del pino, del larice e del cipresso. Le rappresentazioni iconografiche dimostrano che la lavorazione del legno e gli attrezzi del carpentiere non hanno subito modifiche sostanziali nel passaggio dall'età romana a quella moderna. Gli alberi venivano abbattuti con l'ascia a manico lungo. I tronchi venivano spaccati con l'ascia e il mazzuolo, poi sezionati con la sega e sgrossati con la scure; il colpo di scure seguiva l'andamento della fibra. Con la sega a telaio o con quella per sfogliare, più tardi anche con la sega lunga o con il segone per il taglio longitudinale, le travi venivano tagliate in tavole, con la sega a telaio venivano segate tavole ed assi e con il saracco, il gattuccio o il foretto venivano lavorate le giunzioni. Con l'ascia trasversale oppure con l'ascia semplice, lo scalpello e il martello si creavano profili e mortase, con la sgorbia gli intagli per i chiodi di legno. Per la rifinitura occorrevano la pialla, la lima, la pietra arenaria. La punta per tracciare, il regolo, il balaustrino a punte fisse, il metro pieghevole, il cordino avvolgibile con la cassetta dei colori contribuivano alla precisione dimensionale. Un fondamentale aspetto tecnico del costruire in legno è rappresentato dalla realizzazione delle giunture. In carpenteria queste servono all'assemblaggio di legni mediante il prolungamento (giunto, lamina), l'allargamento (giunzione a maschio e femmina, scanalatura e linguetta), l'ispessimento (incavigliare, dentare, immorsare), per la giunzione ad angolo in piano (giunto ad angolo, lamina, tenone, giunto ad angolo a dente, giunzione a coda di rondine) e per la giunzione ad angolo non in piano (incastro a pettine, tenoni laterali, incastro a denti). Dal punto di vista costruttivo si può fare una distinzione tra la costruzione piena e quella a traliccio (costruzione a telaio). Nella costruzione a legno pieno, detta a pan de bois, gli elementi in legno orizzontali (squadrati e non) vengono disposti a strati, fino a costituire pareti portanti; negli angoli questi sono legati tra loro, in primo luogo con giunto a mezzo legno, e sono aggettanti. L'uso di tronchi è attestato nelle zone di conifere delle regioni alpine e balcaniche dall'epoca preistorica, nell'Europa nord-orientale a partire dall'età romana e in Scandinavia dal VII secolo. Nella costruzione a traliccio (o a telaio), soluzione prevalente nelle zone in cui è diffuso il legno di latifoglie, l'impalcatura portante è costituita da legni verticali, orizzontali e obliqui collegati tra loro. Una soluzione comune già in epoca preistorica e abbondantemente documentata dall'archeologia è la costruzione su pali montanti infissi nel terreno. Nelle aree costiere del Mare del Nord prevale l'abitazione del tipo Hallenhaus a tre navate, nella quale due file mediane di sostegni reggono arcarecci di supporto per un tetto a capriata. Infine, nell'area continentale, al più tardi nell'Alto Medioevo, sono frequenti grandi costruzioni a navata unica con contrafforti esterni obliqui; in queste è già evidente la presenza di un'innovazione: il tetto a capriata semplice. La costruzione a traliccio subì poi un'evoluzione, consistente nella sostituzione dei pali montanti, facilmente deteriorabili, con una struttura suddivisa in piani orizzontali, poggiante al suolo o su una base. Tale evoluzione rese tuttavia necessari rinforzi addizionali. A questo riguardo si introdussero travi principali d'incavallatura o di ancoraggio, necessarie specialmente per la zona sommitale negli edifici di grandi dimensioni, da coprire con assi, acquistando così la funzione di solaio intermedio per l'allestimento di un piano superiore. A partire dalla fine dell'Alto Medioevo, ciò ha determinato l'affermarsi nelle città medievali dell'Europa centrale e orientale dello sviluppo della costruzione a traliccio a più piani. In questo tipo di costruzione la coesione strutturale dell'edificio è ancora garantita dai pilastri continui fino alla trave di colmo, mentre il coronamento di chiusura inferiore e superiore, con travi orizzontali e cornici in ogni livello della costruzione a più piani, costituisce un'unità strutturale e rappresenta l'ultimo stadio dell'evoluzione della struttura a traliccio. Soprattutto dal Tardo Medioevo in poi, la costruzione a telaio o a traliccio diede origine a numerose varianti nazionali e regionali. L'intera struttura veniva fabbricata nel laboratorio del carpentiere, dove venivano apposti anche i marchi funzionali al montaggio. Per i pannelli di riempimento, che dal punto di vista costruttivo devono essere considerati come subordinati alle strutture reticolari a telaio, furono impiegati diversi materiali: tavoloni orizzontali, tavole verticali (negli edifici civili e nelle chiese), canne intrecciate e rivestite con argilla (parete a graticcio); muratura in pietra naturale, blocchetti di argilla e mattoni, con o senza intonaco. La struttura del tetto - Sulla struttura e il rivestimento del tetto hanno influenza rilevante la luce che si deve coprire e il clima, cosicché, ad esempio, nelle regioni mediterranee il semplice solaio pieno di una struttura in pietra poteva costituire anche la copertura di un edificio. Presso i Romani il tetto massiccio, e quindi piano, era sostenuto da arcarecci di notevole spessore. Sopra di esso giaceva uno spesso reticolo di travicelli connessi con tavole e letto d'argilla per le tegole. Nella copertura di luci maggiori si rendevano necessarie catene nel tetto come base per il monaco. Da questa tradizione costruttiva sono derivate le opere di copertura nell'Italia post romana. A nord delle Alpi, nonostante la disparità di livello della ricerca nelle diverse aree e periodi, si può tuttavia affermare che i tetti per la maggior parte possono essere ricondotti a due diversi tipi di strutture, che coesistono uno accanto all'altro nel Medioevo. Il primo è rappresentato dal tetto primitivo ad arcarecci o a travicelli risalente ai primi edifici abitativi, comune nelle regioni nordiche dell'Impero romano; a causa dei travicelli legati al colmareccio o disposti su più arcarecci, questo viene indicato anche come tetto piano. Il secondo consiste nel tetto a capriata semplice, che compare accanto al precedente al più tardi nell'Alto Medioevo: dopo le fasi iniziali, molto presto viene adottata una coppia di puntoni inclinati ancorati a una catena, che costituisce una struttura triangolare come tetto verticale; nella copertura di grandi luci i puntoni vengono sostenuti al centro da controcatene orizzontali, motivo per cui si parla anche di tetto a controcatene. Nel caso di luci di grandi dimensioni sono presenti l'armatura verticale e, nel Tardo Medioevo, l'armatura orizzontale come struttura di sostegno supplementare; servono inoltre saettoni e controcatena per il puntellamento trasversale e longitudinale.
Elementi di terracotta e mattoni crudi - Nell'Impero romano, dopo un uso iniziale di laterizi crudi, la fabbricazione di mattoni raggiunse un alto livello tecnico e trovò impiego in primo luogo negli edifici di servizio, che venivano però intonacati e rivestiti. Ravenna, nel V e VI secolo, sviluppò invece uno stile in cui il laterizio era concepito a vista (Mausoleo di Galla Placidia, S. Vitale, S. Apollinare in Classe). Successivamente, nel tardo VIII e agli inizi del IX secolo una ripresa sporadica di tale tecnica si ebbe a nord delle Alpi con la rinascenza carolingia (Lorsch, Aquisgrana, Steinbach, Seligenstadt), prima ancora che negli insediamenti poveri di pietra naturale della Lombardia, dove si sviluppò dal X all'XI secolo. A partire dal XII secolo una nuova fioritura nell'impiego dei mattoni si ebbe con lo stile gotico, in relazione con il prosperare delle realtà urbane nella Germania settentrionale e nelle regioni baltiche, in Danimarca e nei Paesi Bassi, in Baviera e nella Francia meridionale. La preparazione e la stagionatura, talvolta pluriennale, dell'argilla, magra allo stato naturale o per l'aggiunta di degrassanti, avvengono, come descritto già da Vitruvio o anche in più tarde disposizioni tecniche, ad uso delle fornaci di mattoni; la pressatura e la depurazione manuale sono ancora eseguite con la stecca di legno, il coltello o con il setaccio in casseforme squadrate di legno. Differenze qualitative e calo di qualità consentono di identificare i mattoni della produzione in serie tardomedievale. Talvolta solo dopo anni di lenta stagionatura all'aria seguiva la cottura a circa 800-1000 °C in apposite fornaci, documentate anche dall'archeologia. In età romana queste fornaci erano gestite anche dalle guarnigioni militari, mentre nel Medioevo da officine ecclesiastiche o comunali. Rispetto alla tradizione romana di definire il profilo del mattone durante l'asciugamento all'aria, presto furono introdotte forme per modellare i mattoni e per le decorazioni a rilievo. A partire dal tardo XII secolo, la riscoperta della vetrina piombifera come elemento decorativo cromatico consente la produzione di mattoni in verde e bruno. Per quel che riguarda le dimensioni dei mattoni, fino all'Alto Medioevo questi si mantengono bassi, in molti casi con solo 3 cm di spessore, continuando quindi la tradizione romana. A differenza di questi, i lunghi mattoni che circolavano certamente nel Nord Europa nel Tardo Medioevo, comunemente indicati come Klosterformat, avevano misure di 25-36 × 10-18 × 6-10 cm. A seconda delle regioni, questo tipo presenta misure diverse, che evidentemente dipendevano dalle misure locali del piede. Per lo più la proporzione tra spessore, larghezza e lunghezza nel rapporto di 1:2:4 costituiva la premessa ottimale per l'apparecchiatura a croce. L'evoluzione di tali caratteri ha talvolta significato cronologico. Il colore del mattone, dal giallo pallido al bruno rossiccio, dipende sia dalla composizione dell'argilla ‒ in primo luogo dalla quantità di ferro presente ‒ sia dai processi di ossidazione o riduzione dovuti alla temperatura e alla ossigenazione in cottura. I laterizi di copertura derivati dalla tegula romana e tecnicamente affini al mattone trovarono però un impiego consistente e continuato anche nelle costruzioni in pietra e in quelle a telaio, come documentano sia i ritrovamenti di laterizi e di fornaci, sia le fonti iconografiche. In età altomedievale le tegole con alette laterali erano usate in associazione a coppi. In età romana, su tali materiali vi erano i cosiddetti "bolli legionari", cioè della guarnigione che li produceva; questa tradizione continuò almeno fino a verso il Mille, come attesta il bollo cosiddetto Bernward del vescovo Bernoardo di Hildesheim. Nel Nord Europa si usavano soltanto tegole a coda di castoro; nell'Alto Medioevo si diffusero, probabilmente dall'Italia, per la copertura in uso nei monasteri, coppi abbinati tra loro con incastro maschio e femmina. Dal periodo tardoantico, sembra attestarsi rapidamente anche nel Nord Europa una produzione destinata ai rivestimenti pavimentali, per i quali già nel X secolo sono documentate anche piastrelle invetriate (Praga Vecchia). Piastrelle con decorazioni a carattere ornamentale o figurativo ebbero una grande diffusione a partire dal XII secolo, soprattutto in ambiente ecclesiastico.
Malta e altri leganti - La malta è costituita in genere da un legante, per lo più calce, ma anche gesso, e da un materiale inerte, principalmente sabbia quarzosa. Le pietre calcaree venivano cotte nella calcara alla temperatura di circa 900-1000 °C, ottenendo così la calce viva, che nel calcinaio veniva poi trasformata chimicamente in calce spenta mediante l'aggiunta di acqua. Sono documentati archeologicamente sia calcare (ad es., Münstereifel e Ivenheim in Renania) che calcinai con residui di calce spenta. La malta si ottiene dall'aggiunta di sabbia ed acqua e solidifica per l'assorbimento dell'anidride carbonica presente nell'aria e per la perdita di acqua. La fase dell'impasto della malta è testimoniata in archeologia sotto forma di lenti. La malta di calce è stata, dall'antichità in poi, il legante privilegiato sia per le costruzioni in pietra che per quelle in mattoni, nonché per le preparazioni pavimentali e l'intonaco parietale. Mediante l'addizione di sostanze finemente triturate con proprietà idrauliche (igroscopiche), come la pozzolana, il Trass o laterizi macinati, acquisiva una particolare solidità e resistenza all'acqua. Questo era il presupposto per la preparazione dell'opera cementizia romana, con un conglomerato di malta e schegge lapidee come elementi di base per il calcestruzzo. Benché dopo l'antichità la conoscenza dell'opera cementizia sia spesso andata perduta, anche nel Medioevo si incontra talvolta l'uso dei laterizi macinati come additivo. L'impiego della malta nella costruzione avveniva ad opera dei muratori, che come attrezzi usavano la cazzuola, il mazzuolo, il filo a piombo, la livella e la zappa per mescolare la malta (marra). Mentre la malta di calce dominava la costruzione in muratura piena, la malta argillosa era il legante prevalente e serviva come intonaco della massa delle strutture secondarie e per le strutture estranee alla tradizione costruttiva antica. È il caso, in primo luogo, dei numerosi edifici in legno e soprattutto di quelli con pareti intrecciate. Come materiale da costruzione va infine menzionata la terra; questa non serviva soltanto come riempimento delle murature a secco, in particolare nelle fosse di fondazione e nelle murature di rinforzo, ma anche per i terrapieni.
Altri materiali - Alcuni materiali, benché secondari in termini quantitativi, ebbero un peso rilevante nell'edilizia. Tra i metalli, sia nell'Alto che nel Basso Medioevo, svolsero un ruolo crescente gli ancoraggi di ferro e il piombo fuso, impiegati per la coesione delle pietre squadrate. La copertura del tetto con il piombo è documentata negli edifici di prestigio romani, bizantini e carolingi, fino al Basso Medioevo, quando ebbe un uso crescente anche il rame. Paglia e canne erano invece il materiale più diffuso nel Nord Europa, impiegate nel rivestimento del tetto della maggior parte degli altri edifici; la stessa situazione si riscontra anche nelle città bassomedievali e, non di rado, negli edifici monastici ed ecclesiastici. Il vetro per finestre, spesso colorato, è presente già nel IV secolo, soprattutto negli edifici sacri; l'uso si propagò ai Paesi nordici a partire dal IX secolo e raggiunse poi la massima fioritura nel Gotico. La produzione del vetro nel Medioevo è legata principalmente all'ambiente ecclesiastico ed è attestata da numerose fornaci rinvenute in scavi archeologici, mentre la tecnologia è descritta attorno al 1100 nell'opera del monaco Teofilo, in cui si fa riferimento anche alla produzione di vetrate.
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di Stefano Gizzi
Uno dei principali problemi perduranti dal periodo tardoantico all'epoca bizantino-giustinianea è la questione del contrasto da offrire alle pressioni prodotte da un sistema statico spingente (archi, grandi volte o cupole in muratura) attraverso un insieme di controbilanciamento che garantisca il riequilibrio della struttura, il cui funzionamento veniva assicurato generalmente da robusti setti murari. Il sistema più elementare è quello di grandi membrature murarie, come quelle di età imperiale (ad es., nelle aule dei Mercati Traianei), reinterpretate e perfezionate nel Tardoantico (ad es., nella Basilica di Massenzio a Roma, del 310-313 d.C., o a S. Giovanni a Efeso, completata in epoca giustinianea) e nel mondo bizantino (ad es., a S. Sofia a Costantinopoli, 532-537 d.C.): il setto murario, con aperture (come nella Basilica di Massenzio) o senza, non è più mero elemento strutturale, ma diviene fattore compositivo. Lo stesso ragionamento vale per il cosiddetto Tempio di Minerva Medica a Roma (260 d.C. ca.), a cui vengono successivamente aggiunti due grandi setti per contrastare le incipienti condizioni di instabilità. La forte connessione esistente in età classica tra schema strutturale, ordine architettonico e figura architettonico-formale viene messa in crisi nel Tardoantico attraverso una trasformazione dei canoni classici costruttivi e compositivi. Tale mutamento era già iniziato in molte architetture di Nerva (trabeazione non continua nel Foro Transitorio), di Traiano (alternanza di elementi mistilinei nei mercati) e di Adriano ("licenze" nel tempio di Venere e Roma, nella Biblioteca di Atene, negli edifici di Villa Adriana). Cambia così il significato dell'ordine architettonico, non valendo più come tale lo schema statico colonnatrabeazione: ciò è evidente nel palazzo di Diocleziano a Spalato, sia nel fronte mare, sia in alcune delle porte monumentali, dove le colonne non partono più da terra né fungono più da sostegno, ma sono sorrette da mensole sporgenti a metà altezza e sui relativi capitelli si innesta direttamente un sistema archivoltato. L'intera compagine perde dunque la funzione statica originaria per assumere quella di "gioco"; lo stesso dicasi per la presenza del tipo di arco detto "siriaco", sempre nel palazzo di Diocleziano, sia nel peristilio, sia nelle porte. È anche vero, tuttavia, che anticipazioni di tale tipologia dell'arco sono già riscontrabili in epoca imperiale classica (tempio di Adriano ad Efeso). Il tema della colonna che si eleva su mensole sospese è pure presente in varie realizzazioni o "restauri" massenziani (cortile interno del tempio di Venere e Roma). Anche nel cosiddetto Palazzo di Teodorico a Ravenna (526 ca.) si possono notare le colonnine che si elevano direttamente dalle mensole del secondo ordine, rimanendo così prive del loro significato statico originario. Nell'architettura paleocristiana, oltre al ricorso normale all'ordine nelle grandi basiliche, è di un certo interesse il sistema di colonne binate che sorreggono dei setti su archi, come nella primitiva S. Croce in Gerusalemme a Roma (terzo decennio del IV sec.). Da un punto di vista costruttivo, il passaggio evolutivo più significativo si ha nel trapasso da edifici con grandi masse murarie di base, timidamente scavati da nicchie e absidiole (mausolei di Elena, a Roma, e di Albenga, V sec.), a soluzioni molto più libere e leggere. Un notevole scatto si registra con il mausoleo di S. Costanza (350 d.C. ca.), nel rapporto tra ambulacro radiale voltato a botte anulare e vano centrale a cupola: il mutamento è offerto da coppie di colonne binate, sui cui capitelli insistono piccoli elementi di trabeazione che, a loro volta, corrispondono ad archi disposti in senso ortogonale. Un'interessante introduzione del pulvino quale "piramide tronca capovolta" si rinviene in varie architetture dell'Italia meridionale a partire dal V secolo (Basilica Severiana e S. Giovanni in Fonte a Napoli). Una trasformazione sempre più complessa dell'ordine si rinviene nei sistemi arcuati impostati su piccoli tratti di architrave, proseguendo lo schema evolutivo del Tardoantico: si pensi, in questo senso, alla porta settentrionale monumentale di Resafa o alla struttura arcuata del propileo di S. Lorenzo a Milano (378 d.C. ca.), impostata direttamente su capitelli corinzi, congiunta ai due lati a trabeazioni continue, secondo il linguaggio tipico del Tardoantico. Un'ulteriore continuità col mondo romano, frutto di un'evoluzione lenta, si ritrova nel sistema costruttivo bizantino, o meglio giustinianeo, di cupole alleggerite con anfore o con tubi fittili ‒ disposti sempre nel senso dei paralleli (Battistero degli Ortodossi, Ravenna) ‒ o addirittura edificate interamente con tale espediente, come nel celebre caso del S. Vitale, sempre a Ravenna (546-548). Qui, elementi cilindrici vuoti di terracotta, inseriti l'uno nell'altro, disposti ad anelli concentrici sovrapposti, permettono di incanalare gli sforzi lungo l'intera superficie esterna dei tubi medesimi, superficie che risulta molto più ampia di quella di una cupola normale: è un tentativo di risoluzione, in maniera empirica, del problema del cosiddetto "modulo di resistenza". Tale chiesa è stata spesso paragonata, con analisi comparativo-tipologica, alla successiva Cappella Palatina di Aquisgrana (fine VIII sec.), ma si tratta, dal punto di vista strutturale, di costruzioni molto diverse, l'una estremamente leggera, in laterizio, l'altra molto pesante, in pietra. L'alleggerimento di cupole o di volte mediante materiale fittile, com'è noto, già si compiva nel mondo romano; perciò si può senz'altro parlare di continuità della tradizione costruttiva dall'età tardoromana: si pensi ad esempi quali il mausoleo di Tor Pignattara o la cosiddetta Sedia del Diavolo sulla via Nomentana, a Roma. Un episodio architettonico curioso è quello del Mausoleo di Teodorico a Ravenna (526 ca.), coperto con un unico enorme monolite in pietra in forma di pseudocupola. Una delle principali preoccupazioni strutturali, che ha origine in epoca romana, è quella del raccordo delle superfici di base poligonali alle volte o alle cupole. Sviluppi importanti di tale sistema, attraverso l'introduzione dei pennacchi sferici, si manifestano a Costantinopoli non soltanto in S. Sofia, ma anche nella coeva S. Irene (simile come soluzione per la cupola, ma non per i contrafforti). Il pennacchio sferico risolve perfettamente il problema geometrico della congiunzione tra cupola e impianto quadrato o poligonale sottostante; il raccordo è infatti ottenuto per il tramite di una porzione di semisfera circoscritta alla base poligonale di appoggio, secata da piani verticali che passano per i lati del poligono di base. Tuttavia, anche successivamente al rinvenimento, con S. Sofia a Costantinopoli, della soluzione più consona, nella medesima area geografica proseguono raccordi a trombe, anche in epoca molto più tarda (Grande Moschea di Mileto, 1400 ca.). I tipi di raccordo continuano ad essere i più disparati, da quelli a dadi angolari, alle trombe di varia tipologia, ai fazzoletti. Anche nelle chiese bizantine di area greca si utilizzano più le soluzioni a tromba che non quelle a pennacchi: così nella basilica di Dafni (1080 ca.), ove la cupola è unita all'imposta per il tramite di trombe in laterizio dalla tessitura molto ricercata. Tra il VII e il IX secolo il ritorno ad un uso sparso di certuni elementi, senza un preciso ordine e senza una vera congruità, induce a congetturare un'architettura di semplice "elenco", in cui i vari elementi vengono liberamente accostati o semplicemente "citati". Nel campo delle strutture architettoniche, come riuso o elenco paratattico, possono citarsi i casi di S. Donato a Zara (inizi del IX sec.), ove i pezzi di recupero migliori vengono disposti verso l'abside, per esaltarne il significato, con volontà ben definita, o di alcune chiese romane che subirono trasformazioni significative tra il VI e l'VIII secolo: a Roma, S. Giorgio al Velabro e S. Maria in Cosmedin. La prima rappresenta un notevole esempio di "ricomposizione asintattica" e di riutilizzazione di un edificio preesistente; l'originaria cappella dedicata a S. Giorgio fu successivamente ampliata e ripartita in tre navate divise da due colonnati non paralleli, convergenti esageratamente verso l'abside, non per una volizione progettuale, ma per circostanze casuali, proprie del tipo di architettura "di elenco". La seconda riadopera elementi romani e li ricolloca in maniera non coordinata, nelle fasi di ampliamento dal VI all'VIII secolo, offrendoci un'ulteriore esemplificazione di architetture "di elenco". Un tentativo di riconnessione sintattica inizia a manifestarsi in un gruppo omogeneo di architetture religiose asturiane, nel Nord della Spagna, ove i singoli "pezzi" vengono riutilizzati in un nuovo ordine logico: così nell'accostamento sapiente di volte a crociera a quelle a botte (Santullano, IX sec.), nell'impiego dei contrafforti esterni, nell'apparire e nello svelarsi esterno della crociera (S. Miguel de Liño, presso Oviedo, 842-850) o della botte a tutto sesto (S. Cristina de Lena, 905-910) come elemento aggregante delle altre parti dell'edificio, o nell'unione organica di elementi strutturali (contrafforti, colonne, archi doppi e crociere nervate visibili a S. Maria de Naranco, 848). Simile al problema della nascita di una nuova grammatica nelle chiese asturiane è quello di alcune rinascenze in epoca largamente successiva: anche in questo caso si tratta della ricomposizione in termini nuovi di elementi isolati, non costruiti ad hoc, ma ripresi e riutilizzati dal mondo antico e riconnessi in edifici nuovi, con una disposizione particolare, tale da indurre a qualificarli come rinascenze, anche se isolate, ma pur in qualche modo precorritrici del Rinascimento. È questo il caso, ad esempio, della celebre Casa dei Crescenzi a Roma (XII sec.), dove segmenti di cornici di edicole romane di età repubblicana e settori di altri archi di recupero vengono inseriti come archivolti del portale e delle finestre sul fronte principale, lacunari di soffitto formano parte del parapetto delle finestre, così che ogni singolo pezzo, riutilizzato secondo un'ottica progettuale nuova, perde il proprio significato statico e costruttivo originario. Un ritorno ad una riorganizzazione di tipo modulare (ad quadratum) avviene con l'architettura ottoniana. L'elemento cubico si rinviene sia nel proporzionamento generale degli spazi, regolato da precisi rapporti matematici ed enfatizzato da una simmetria biassiale, sia nei singoli elementi costruttivi (ad es., a S. Michele a Hildesheim, 1015-1186). Nasce un particolare tipo di capitello, detto "cubico", che facilita le connessioni verticali; considerato finora come una semplificazione, accordandosi appunto a tale modulazione ad quadratum dell'architettura ottoniana, è da leggersi invece come soluzione strutturale e formale del rovesciamento di una volta a vela in miniatura. Anche per strutture successive (St.-Étienne a Vignory), forme semplificate di capitelli analoghi a quelli ottoniani fanno presupporre un'influenza diretta dello schema "cubico". L'uso dei capitelli cubici si rinviene ancora con l'affermazione della tipologia delle cripte, appunto in epoca ottoniana, quale ulteriore standardizzazione di un modello linguistico. Il periodo carolingio offre un interessante elemento compositivo- strutturale, il Westwerk ("corpo occidentale"), costituito da tre parti turriformi (triturrium), quella centrale a più piani e due scalari ad esso contigue; esso, oltre a svolgere una funzione spaziale definita, assolve anche un compito statico di contraffortatura.
Lo studio di migliori soluzioni statico-strutturali degli edifici, soprattutto a carattere religioso, prosegue in epoca romanica. Si sperimentano, anche associati l'uno all'altro, sistemi di copertura a capriate lignee (chiesa di Vignory, 1040-1057; S. Abbondio a Como, 1013-1095; S. Miniato a Firenze, 1018- 1063; duomo di Monreale, 1172-1176), costruttivamente simili a un tetto ‒ da sempre impiegate ‒ ma, da un punto di vista tipologico, di derivazione romana e paleocristiana, che trasmettono solo carichi verticali, oppure spingenti nel caso più frequente in cui vengano adoperate volte (generalmente a tutto sesto). Nella maggior parte dei casi, il sistema voltato (secondo le esperienze già condotte nel gruppo di chiese asturiane su menzionato) sostituisce la copertura lignea, facilmente incendiabile: tale organismo viene bilanciato all'esterno da contrafforti; la costante evoluzione di questo sistema rappresenta una ininterrotta ricerca dell'architettura romanica. Lo schema statico, inoltre, varia a seconda che l'altezza della navata centrale sia maggiore o uguale a quella delle laterali. Prosegue, contemporaneamente, il recupero della tradizione costruttiva romana, come è ancora evidente a Pisa, ove nel duomo (1063-1092) i raccordi con la cupola ovale (posteriore di alcuni anni), attuati con cuffie successive, fanno presupporre più un ideale riallacciarsi a soluzioni romane di età imperiale (con raccordi in cui ci si sforza di rinvenire una soluzione, pur senza riuscirci appieno) che non una continuità col mondo orientale, pur essendo trascorsi cinque secoli dall'"invenzione" dei pennacchi sferici di S. Sofia. Numerosi sono gli esempi, anche nel XII secolo, di ricerca di superfici di raccordo differenti dai pennacchi sferici, in sintonia con l'architettura antica: a Piacenza (cattedrale) tali raccordi avvengono con trombe successive, a Palermo (S. Cataldo) con alternanza di archi e di absidi, a Cagliari (S. Saturno) con fazzoletti, presso Ancona (S. Vittore delle Chiuse) con trombe.
Trattando di strutture architettoniche medievali, non si può tralasciare l'altro problema concernente l'esistenza o meno dell'ordine architettonico nei periodi romanico e gotico; tuttavia solo per alcuni casi particolari è possibile rispondere in termini affermativi. Così, nella chiesa abbaziale di Fulda (fine VIII sec., poi distrutta) si aveva la presenza di uno pseudo-ordine, essendo l'abbazia medesima modellata sullo schema della basilica costantiniana di S. Pietro, che mostrava un sistema continuo, ai lati della navata centrale, di colonne architravate. Ancora a Fulda, S. Michele presenta un sistema canonico "colonna-tratto di trabeazione-archivolto". In altri casi (porta trionfale dell'abbazia di Lorsch) invece non si può parlare di una vera e propria sovrapposizione di ordini. Tuttavia, concettualmente, una sorta di sistema, di ordine, perdura, sia pure con molte trasformazioni. Per l'architettura romanica si può citare la sovrapposizione di fusti, capitelli e trabeazione in S. Miniato al Monte a Firenze e nella collegiata di Empoli, a simulare un ordine corinzio molto raffinato, o l'uso di uno pseudo-ordine che inquadra un arco a Reims o nella chiesa abbaziale di St. Michel o nella cripta di St. Viperti a Quedlinburg, o una successione anche verticale di pseudo-ordini a Paray-le- Monial (basilica del Sacro Cuore). La volontà di enfatizzare certi richiami al passato (più per l'interno che per l'esterno) con una serie di fasce architravate è evidente per il battistero di Firenze. Anche per alcuni esempi dell'esperienza arnolfiana ‒ i due cibori romani ‒ potrebbe parlarsi di un ritorno o di una sovrapposizione di ordini architettonici (il cd. "sintagma arnolfiano"). Una certa semplificazione formale e strutturale si attua nell'architettura degli ordini mendicanti. Forme semplici, masse murarie impostate su grosse contraffortature di base, come quelle presenti nella chiesa inferiore di S. Francesco o in S. Chiara ad Assisi, richiamano alcune soluzioni romane risalenti al periodo classico. Occorre liberarsi da taluni luoghi comuni o dal rischio del cosiddetto "ontologismo degli stili", che hanno riconosciuto il Gotico prevalentemente riassumibile nell'utilizzazione di elementi linguistici quali l'arco acuto e i contrafforti, che, pur sicuramente "significanti", esistevano, in realtà, già precedentemente. Un più interessante espediente strutturale dell'architettura gotica è fornito dall'impiego delle costolonature nei sistemi a volte; ciò costituisce un altro elemento di continuità col mondo classico o tardoantico, desunto dalle costolonature romane, ove però apparivano in forma embrionale o erano annegate nel calcestruzzo (grande crociera delle Terme di Caracalla). Costruttivamente la nervatura ‒ quasi sempre in pietra da taglio ‒ assolve la piena funzione statica, mentre la parte rimanente della volta ha una funzione secondaria, essendo in teoria "portata" dalla prima. Se i primi esempi si hanno con l'architettura romana, gli sviluppi successivi avvengono soprattutto nel periodo romanico, giacché con le costolonature si risparmierebbe, secondo taluni autori, l'uso delle centine; in corrispondenza delle diagonali delle crociere si collocano due ogive incrociantisi, ma il tema è discusso. I primi esempi sono nel Romanico normanno-inglese (Durham, 1093- 1133) e nel Romanico lombardo (S. Ambrogio a Milano, VIIIIX sec.), con perfezionamenti col Gotico francese e inglese (cattedrale di York, 1225-1470).
In generale:
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Sulle strutture architettoniche paleocristiane:
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Sul periodo romanico:
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Sul periodo gotico:
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Sulla metodologia:
T. Mannoni, Metodi di datazione dell'edilizia storica, in AMediev, 11 (1984), pp. 396-403; R. Parenti, La lettura stratigrafica delle murature in contesti archeologici e di restauro archetettonico, in Restauro e Città, 1 (1985), pp. 55-68; G. Zander, Storia della scienza e della tecnica edilizia, Roma 1991, p. 24.
di Éliane Vergnolle
Il tratto più caratteristico riguardante le decorazioni architettoniche di età tardoantica e medievale è la generalizzazione dei reimpieghi. Nel IV secolo questi costituirono un uso corrente nelle grandi basiliche romane (S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, S. Paolo). Certamente, non si interruppe, soprattutto a Costantinopoli e a Ravenna, la fabbricazione di colonne, di basi e di capitelli per alcune costruzioni, ma gli architetti altomedievali attinsero ampiamente a tutto ciò che poterono recuperare delle rovine antiche. Tale pratica si prolungò nel pieno Medioevo. Si trovano ancora nell'Italia centrale chiese di XIII secolo le cui colonne ed i cui capitelli sono elementi antichi o bizantini riutilizzati. Di contro, in Gallia e in Spagna la penuria di marmi antichi si fece sentire rapidamente: nei territori dell'impero carolingio era diventato, nel IX secolo, pressoché impossibile procurarsi tali materiali, salvo organizzare lontane spedizioni in Italia o in Provenza (come dimostrano i casi di Aquisgrana e St.-Germain d'Auxerre). Parallelamente, si andava sviluppando un tipo di decorazione poco oneroso, fabbricato in serie: le lastre di terracotta stampata, ottenuta per calco. Il loro impiego, ben attestato sia nell'Africa del Nord che in Gallia, è poco noto nel dettaglio, poiché la maggior parte dei pezzi che ci sono pervenuti è erratica. Si può tuttavia supporre che questi elementi di decorazione seriale fossero utilizzati sia per ornare soffitti che per decorare pavimenti e facciate. Fra i reperti conservati al Musée Dobrée di Nantes si trovano alcuni conci figurati e numerose antefisse che attestano la sopravvivenza di una soluzione di tradizione classica. È difficile determinare la durata di tale impiego della terracotta architettonica, che peraltro sembra essere stata abbandonata intorno all'epoca carolingia. La produzione di capitelli scolpiti nell'Alto Medioevo è poco abbondante. Si tratta il più delle volte del completamento di insiemi di reimpiego insufficienti, sia mediante la realizzazione di pastiche come ad Aquisgrana, sia con l'esecuzione di variazioni più libere sul tema corinzio. Molto vari, tali motivi sono generalmente stilizzati, sia per quanto concerne gli elementi vegetali che per la composizione. L'architettura romanica delle origini è caratterizzata da profondi mutamenti nella concezione della decorazione monumentale, all'interno della quale la scultura doveva apparire soprattutto come un indispensabile complemento; inoltre l'adozione di un nuovo taglio della pietra costituisce di per sé una novità significativa. Esso va di pari passo con una nuova concezione dell'articolazione delle strutture murarie che si traduce, in una vasta zona comprendente l'Italia del Nord, la Catalogna e la Renania, nell'impiego, all'esterno degli edifici, di un sistema di arcatelle ricadenti su lesene che ritmano le pareti e modulano i volumi, catturando delicatamente la luce. Questa decorazione non ha alcun valore strutturale (l'aggetto delle lesene supera raramente i 20 cm) ed è forse ispirata dalle grandi arcate piatte che ornano i muri di alcune costruzioni tardoantiche a Ravenna, Milano o Treviri. Essa dovette gradatamente cadere in disuso, più o meno verso la fine del IX secolo, per lasciare spazio alle soluzioni strutturali già impiegate altrove (muri scanditi da contrafforti e cornici sostenute da modiglioni) o ad interpretazioni più ricche, con l'intervento della scultura. È in primo luogo nei capitelli che si afferma l'originalità della scultura romanica. Apparsa in momenti molto diversi a seconda delle regioni, essa illustra il ritorno all'arte del rilievo, più o meno abbandonata dalla fine dell'antichità. Conserva tuttavia il ricordo delle abitudini che si erano instaurate nel corso dell'Alto Medioevo nella giustapposizione di capitelli uno diverso dall'altro. La varietà è ulteriormente accresciuta dall'ampliamento del repertorio ornamentale: capitelli vegetali, geometrici, figurati ed istoriati si mescolano in effetti ovunque, spesso senza alcun rispetto per la continuità dei temi narrativi. Anche i portali istoriati costituiscono una importante creazione della scultura romanica. Dopo qualche saggio isolato nel Rossiglione (architrave di St.-Genis-des-Fontaines), il reale sviluppo cominciò all'inizio del XII secolo nei luoghi e nelle forme più svariati (grandi lastre disposte da una parte e dall'altra dei portali nella facciata della cattedrale di Modena, timpano ed architrave del portale occidentale di St.-Fortunat-de-Charlieu). L'apogeo viene rapidamente raggiunto con i grandi insiemi del secondo quarto del XII secolo (Moissac, S. Zeno di Verona, Ripoll, Vézelay, Saint-Gilles-du-Gard). Ormai sono scolpiti non solo il timpano e l'architrave, ma anche i pannelli decorativi, i piedritti, le strombature e molto spesso l'atrio a protezione del portale. Nello stesso periodo alcune facciate si coprono di rilievi ornamentali o istoriati (S. Michele di Pavia, cattedrale di Angoulême, Notre-Dame-la-Grande a Poitiers). L'architettura gotica costituisce una rottura in tutti i campi della decorazione monumentale. Non si trovano più, all'interno degli edifici, che capitelli vegetali, la cui uniformità va aumentando. La moda del capitello a fascio di foglie (à crochets), a partire dalla fine del XII secolo, è particolarmente rivelatrice di un nuovo ruolo della scultura, subordinata ormai all'effetto generale. Poco a poco, i capitelli perdono la loro importanza monumentale. Ridotti ad un semplice anello di fogliame in alcuni edifici della fine del XIII secolo, tendono a scomparire completamente nel secolo successivo nelle costruzioni monastiche come la Chaise-Dieu o nelle celle degli ordini mendicanti. E verrà il momento in cui, nello stile flamboyant, si moltiplicheranno gli esempi di nervature o di imposte di ogive che penetrano direttamente nei pilastri. In realtà, questi mutamenti non avvengono solo nei capitelli, ma in tutti gli elementi di supporto. Il moltiplicarsi delle colonnine incassate, che dalla metà del XIII secolo corrispondeva più ad una volontà illusionista che ad una necessità strutturale, prelude all'abbandono di questa necessità. Mentre i capitelli andavano scomparendo, queste diverse colonnine si fondevano in una serie di curve concave e convesse o in larghe ondulazioni. Parallelamente, si sviluppavano le zoccolature e le basi, spesso ridotte al loro toro inferiore, si atrofizzavano fino a che i basamenti, ridotti ad una moltitudine di modanature che raggiungeranno un'altezza senza precedenti, spariranno del tutto. D'altro canto compaiono, con l'architettura gotica, nuovi spazi per la decorazione monumentale: le finestre e le volte. In effetti, con l'ampliamento delle aperture (quelle della cattedrale di Chartres raggiungono i 31 m di altezza) si imporrà la necessità di suddividerle in lancette sormontate da rosoni, in modo da ridurre l'ampiezza delle superfici delle vetrate. Lo sviluppo di questi reticolati fu tale che nel XIII secolo finirono con l'occupare, sotto forma di immensi rosoni o di altrettanto grandi finestre, tutta la larghezza della facciata del transetto. Solo dopo l'evoluzione delle loro forme terminali vengono correntemente designate le diverse fasi dell'architettura gotica in Francia o in Inghilterra, dove questi reticolati conobbero una fortuna particolarmente importante (nell'architettura ornata, fiammeggiante, ecc.). Nell'architettura gotica, la statuaria monumentale è collocata soprattutto all'esterno degli edifici. Il principio dei portali istoriati di epoca romanica viene ripreso, ma amplificato nella scala di costruzioni di nuova ampiezza. Le statue-colonna che occupano le strombature nella prima arte gotica, nell'Île- de-France, cedono presto il posto a statue poggianti su zoccolature, giustapposte ai basamenti delle facciate, mentre si sviluppano al di sopra dei registri dei timpani e, forse, al piano della ghimberga. Nelle grandi facciate del XIII secolo furono aggiunte le gallerie per ospitare personaggi di dimensioni colossali. Ma questo "Gotico corale", caratteristico soprattutto della Francia del Nord (cattedrali di Reims o di Amiens), non doveva sopravvivere al XIII secolo. Successivamente, il ruolo della statuaria doveva ridursi a vantaggio di un'ornamentazione più architettonica. Questa evoluzione senza dubbio non fa che riflettere la crescente autonomia della statuaria nei secoli successivi al Medioevo. Il dialogo fra questa e l'architettura, intimo in epoca romanica, si farà infatti più rarefatto tanto che la storia della scultura incontrerà solo occasionalmente quella della decorazione monumentale.
F.W. Deichmann, Säule und Ordnung in der frühchristlichen Architektur, in RM, 55 (1940), pp. 114-30; Id., Die Spolien in der spätantiken Architektur, München 1975; L. Grodecki, Architettura gotica, Milano 1976; É. Vergnolle, Ordres de l'architecture, 2. Le Moyen Âge, in Encyclopedia Universalis, Paris 1985, pp. 647-50; Ead., Fortune et infortune du chapiteau corinthien dans le monde roman, in Revue de l'Art, 90 (1990), pp. 21- 34; Ead., Le rôle architectural des chapiteaux du haut Moyen Âge occidental: remplois, paires, groupes, in Colloquio internacional de capiteles corintios, prerománicos e islámicos, siglos VI-XII d.C. (Madrid, 1987), Madrid 1991, pp. 53-69; G. Piccinini, Capitelli a foglia nella Firenze del Due e Trecento. "Fogliame rustico e barbaro", Firenze 2000.
di Anna Sereni
Un riesame sistematico dell'edilizia abitativa di Roma e di Ostia indica che la costruzione di nuove insulae non dovette andare oltre il III sec. d.C.; in queste due città, ma anche in altri centri del mondo romano, come Conimbriga ed Efeso, molti di questi edifici erano certamente ancora in uso in età tardoantica e gli interventi si limitarono al restauro conservativo. Nel caso di ristrutturazioni più radicali, non è raro assistere alla trasformazione dell'insula in domus, secondo nuovi caratteri formali. Sebbene l'edilizia abitativa tardoantica si sia sviluppata secondo varianti locali connesse con fattori socioeconomici diversi, dalla sua analisi emergono alcuni tratti comuni che sono alla base di un progressivo processo di cesura con la casa di tradizione ellenistico-romana. Nelle domus tardoantiche di Roma l'elemento di spicco era un'ampia aula absidata con grandi finestre, derivata dalle aule di rappresentanza delle residenze imperiali coeve, isolata rispetto al contesto abitativo, con una sola apertura in facciata verso un'area aperta. Pur continuando a disporre in maniera ortogonale gli ambienti in alcuni settori della casa, questi venivano associati a strutture maggiormente articolate, con pareti curvilinee e pianta irregolare, nella scelta cosciente di creare piante originali e di movimentare lo spazio (ad es., le domus sotto S. Pietro in Vincoli e quelle di S. Balbina). Elemento ricorrente erano i ninfei e le fontane, anche a carattere monumentale, inseriti negli spazi aperti o in prossimità di questi. La presenza di impianti termali, sia pure di ridotte dimensioni, è certa o ipotizzabile in un discreto numero di casi. Non è sempre facile l'identificazione degli ambienti di servizio, come latrine e cucine; per queste ultime è possibile che si facesse ricorso a strutture diverse da quelle finora note, forse mobili. Nelle domus di Roma, probabilmente ad un solo piano, sono scarse le attestazioni di peristili e di aule tricore, mentre per il resto presentano riscontri con le ville extraurbane coeve. Le domus più piccole trovano analogie con quelle contemporanee di Ostia, spesso a due piani; esse prendono a modello le dimore più sontuose, pur con i limiti di uno spazio ridotto e di una minore ricercatezza. Uno degli elementi di novità nelle abitazioni tardoantiche è la presenza di ambienti dotati di riscaldamento alle pareti o sotto il pavimento, anche nelle ristrutturazioni di abitazioni già esistenti (ad es., nella domus sotto la Banca Popolare a Ravenna o di una domus di Aquileia). Nell'abitato rurale della Siria settentrionale l'unica variazione di rilievo tra il II e il VII sec. d.C. è data da mutamenti nelle tecniche costruttive. Può cambiare la disposizione degli ambienti, che però si aprivano sempre su una corte centrale, dove si svolgevano le principali attività economiche. A Behyo sono stati distinti tre tipi di abitazioni rurali: ville padronali, fattorie, abitazioni popolari. La fattoria aveva lo stesso impianto della villa, mentre le abitazioni per la manodopera erano strutture molto semplici, spesso di una sola stanza. Peculiare è la presenza al piano terreno di muri ciechi verso l'esterno, caratteristica che conferisce un aspetto forse non solo formalmente difensivo, talora accentuato dall'inserimento di basse torri a due piani. Tali peculiarità sono presenti in edifici rurali, noti in età imperiale in varie province del Mediterraneo e in Pannonia. Agli esempi pannonici vanno ricondotte alcune residenze aristocratiche extraurbane, come la villa di Insula (Palazzolo), fatta costruire da Teodorico nel 493. Probabile sede di un'autorità pubblica, il grande edificio dell'insediamento fortificato di Monte Barro in Lombardia (metà V - metà VI sec. ca.) presenta analogie con le residenze signorili di età gota per le dimensioni (1700 m² ca.) e l'impianto, ad ali organizzate attorno ad un cortile centrale; l'ala nord era destinata ad un personaggio di rilievo e al piano superiore vi era un'aula di rappresentanza, mentre il piano terreno era occupato da persone di rango subalterno. Le abitazioni comuni erano di dimensioni più modeste (tra i 100 e i 200 m²), generalmente a pianta rettangolare, divise in tre vani, talvolta dotate di un piano superiore. Pur non mancando esempi in pietra (ad es., Vallhagar, in Svezia, I-V sec. d.C.; Sannerville, in Normandia, dal VI sec.), ad una diversa tradizione costruttiva vanno invece ascritte le abitazioni degli insediamenti rurali dell'Europa settentrionale, in genere in legno, a pianta rettangolare, lunghe fino a 40 m, con due aperture al centro dei lati lunghi ed un solo focolare in corrispondenza dell'asse principale. Le cosiddette boat-shaped houses (long-houses a forma di imbarcazione), attestate ancora nell'XI secolo, sono considerate in genere più tarde rispetto a quelle con lati rettilinei e a navate; questa successione è attestata a Warendorf (Vestfalia, seconda metà del VII - fine dell'VIII sec.), ma in altri casi i due elementi compaiono combinati nello stesso edificio e comunque non sembra che a questa trasformazione corrispondano mutamenti nell'uso dello spazio abitabile. Tali abitazioni potevano accogliere diverse funzioni e coesistere con edifici analoghi, ma più piccoli, identificabili come abitazioni per ceti inferiori o legati all'attività agricola. In genere si ritiene che le long-houses fossero usate anche come riparo per gli animali (Warendorf, Kootwijk) o per lo stoccaggio dei cereali (Vallhagar). A Vorbasse, nello Jütland centrale, con continuità di occupazione tra il I sec. a.C. e l'XI sec. d.C., nella prima fase di questo periodo i gruppi di edifici erano circondati da recinzioni; le abitazioni più grandi non superavano i 20 m di lunghezza e presentavano un'estremità utilizzata come stalla. Nel III secolo tali abitazioni diventarono lunghe fino a 40 m ed erano divise in sei vani, ognuno probabilmente con funzione distinta; ogni nucleo recintato aveva inoltre uno o due edifici più piccoli. Tra VII e VIII secolo l'abitato era composto da long-houses, da piccole abitazioni spesso disposte su lunghe file e da edifici seminterrati (pit-houses), forse per la tessitura. Tra X e XI secolo comparvero stalle separate e case con un grande ambiente principale (halle). Fonti letterarie indicano che i Longobardi durante le migrazioni usavano accampamenti di tende, ma si ha notizia anche di abitazioni più stabili all'interno di recinti, probabilmente capanne in legno. Sulla base degli usi funerari, si è ipotizzato che queste fossero del tipo long-house in Pannonia e del tipo a fossa nell'Europa centro-orientale. Ad esempio a Dulceanca IV (Dacia), in due abitati sovrapposti del VI e della fine del VII secolo, prevale la capanna seminterrata composta da un unico ambiente (3,5 × 4,5 m) in genere rettangolare e con angoli arrotondati. Si possono individuare alcune modalità nelle trasformazioni dell'edilizia abitativa urbana che nei primi decenni del VII secolo accomunavano molti centri del Mediterraneo occidentale ed orientale. Una caratteristica ricorrente (ad es., a Cirene, Sirmio, Tipasa e Apamea) è il riuso delle strutture abitative più antiche, con il frazionamento degli spazi primitivi, con uno stravolgimento della fisionomia originaria dal punto di vista dell'organizzazione degli spazi, delle dimensioni, dei materiali; è spesso attestato l'abbandono di una parte dell'edificio. Gli interventi venivano eseguiti prevalentemente con materiale di reimpiego, non di rado legato da malta di fango e spesso integrato da strutture in legno o incannucciate intonacate. Il cambiamento appare più evidente nelle città di formazione classica, dove il contrasto con la precedente tradizione costruttiva appare stridente e si accompagna ad un allentamento del rapporto di subordinazione dell'edilizia privata rispetto alla pianificazione urbana. Una discreta casistica si ha ormai per i centri urbani dell'Italia settentrionale (ad es. Trento, Brescia, Milano, Pavia), con parziali riscontri nelle regioni meridionali (Napoli, Venosa, Otranto). In Italia settentrionale i cambiamenti salienti sembrano almeno in parte coincidere con l'età longobarda e riguardano innanzitutto le dimensioni, ora fortemente ridotte. Si tratta in genere di edifici, anche in legno, composti da 1-3 ambienti, con focolari aperti e piccole fosse per le derrate; occupano spesso solo una parte degli antichi isolati, mentre nelle aree rimaste libere si riscontrano di frequente depositi di terra scura, ad indicare la presenza di colture ortive e l'uso come aree di servizio delle abitazioni, dove si aprono fosse per i rifiuti e pozzi per l'acqua, che suppliscono al frequente degrado delle infrastrutture collettive. Un'altra soluzione prevedeva uno zoccolo di pietra, non di rado esito finale di edifici in muratura preesistenti, con alzato di legno o legno ed altri materiali deperibili. La concomitanza cronologica con la presenza di etnie allogene ha fatto ipotizzare in passato l'importazione di tradizioni abitative e costruttive legate alle popolazioni germaniche, ma le indagini archeologiche degli ultimi due decenni del Novecento suggeriscono la presenza di tali modelli anche in epoca precedente (ad es., Ibligo-Invillino). È possibile quindi che modelli abitativi più modesti rispetto alla tradizione classica derivino da un sostrato culturale almeno in parte comune, rimasto confinato in insediamenti marginali e in ambiente rurale e che talora si trasferisce in ambito urbano, come a Corinto (Lechaion) e a Luni. In Italia sembrano far eccezione alcuni centri della Pentapoli ‒ Ravenna e Rimini in particolare ‒ soprattutto per la qualità delle abitazioni, note grazie alla documentazione scritta molto precoce. I termini stessi usati nelle fonti indicano l'esistenza di varie tipologie, come semplici casae, mansiones pedeplanae (case ad un solo piano) o, più tardi, salae, termine di origine germanica che in questo caso dovrebbe indicare un edificio costituito da un solo vano. Ma, tra la fine del VII secolo e ancora nel IXX secolo, accanto a queste sono menzionate varie domus, dall'articolazione complessa, costruite anche in muratura, spesso su due piani, dotate di orto e corte antistante con pozzo. Per i primi secoli dell'Alto Medioevo solo raramente si hanno indicazioni archeologiche dell'esistenza di case a più piani, forse per la scarsa sopravvivenza di strutture in alzato. Negli edifici a due piani si ha la tendenza a collocare i servizi al piano terreno e i vani di soggiorno in quello superiore. Una consistente ripresa edilizia ha avuto luogo con tempi e modalità diverse a seconda delle varie aree e dell'economia degli insediamenti. Nelle regioni orientali bizantine dati più consistenti si hanno solo per pochi centri, insufficienti per definire l'evoluzione dei tipi architettonici. In ambiente rurale le abitazioni presentano talora elementi forse derivati dalla più antica tradizione rurale della Siria settentrionale, in particolare per la costante presenza di un cortile su cui si affacciavano i vari ambienti, come a Pergamo (fase di XI-XIV sec.). Qui l'abitazione corrente comprendeva un vano di soggiorno, un ambiente adibito a cucina, una dispensa, a volte con grandi contenitori (pithoi), un ripostiglio per le suppellettili domestiche e annessi adibiti a legnaia, fienile e forse anche a stalla. A Corinto sono invece attestate con continuità (nel VI, nel X e ancora nel XII sec.) abitazioni con il vano principale a pianta quadrangolare allungata. A Costantinopoli si hanno solo indizi dell'esistenza di un tipo di abitazione signorile con portico al piano terreno, forse derivato dall'architettura di età imperiale. Ad una diversa tipologia si ascrivono pochi edifici tardi a più piani, con facciata a sporti su mensole di pietra o con aggetto ottenuto tramite l'andamento a risega del prospetto. Le abitazioni correnti di Mistrà (Grecia), edificate a partire soprattutto dal XIV secolo, erano in genere a tre piani, a pianta parallelepipeda e a volte comprendevano una torre. Il piano seminterrato era destinato ai servizi, il piano terreno ai depositi; una scala esterna dava accesso al piano superiore, costituito da un unico ambiente plurifunzionale, a volte suddiviso da incannucciate. Nelle pareti si aprivano più nicchie, dove tra l'altro erano collocati il camino e la latrina, dotata di vaso in muratura, con scarico collegato con il sottostante letamaio della stalla. In varie città italiane una ripresa dell'attività edilizia era certamente già in atto nel X secolo e si consolidò nei due secoli successivi. In alcune zone si assiste ad un'evoluzione parallela anche in ambito rurale (ad es. negli insediamenti fortificati toscani), indicata dal miglioramento delle tecniche costruttive, fino alle abitazioni in muratura a sacco del XII secolo. In ambito urbano le fonti documentarie e archeologiche indicano una situazione articolata. Tipiche di molti centri storici medievali sono le "case-torri", derivate dall'occupazione progressiva da parte delle aristocrazie locali delle torri legate alle mura cittadine. Tra il X e l'XI secolo era comunque generale la tendenza allo sviluppo in altezza degli edifici, indice dello sfruttamento intensivo dei terreni urbani, che spesso rese necessaria una ripresa della regolamentazione urbanistica da parte delle autorità cittadine. Si diffusero anche edifici in muratura che tendevano a disporsi con il lato breve sul fronte strada e che in una fase più matura si tradussero in nuove tipologie, con portici addossati alla facciata o con logge inglobate al piano terreno, per ospitare attività produttive e commerciali. Negli edifici su più livelli una scala conduceva ai piani superiori, destinati agli ambienti di soggiorno e di servizio. Il processo di crescita e di evoluzione del tessuto abitativo fu segnato dalla progressiva saturazione degli spazi inedificati all'interno degli antichi isolati, mediante l'accorpamento e la giustapposizione degli edifici, che diedero così vita agli allineamenti di case a schiera, secondo una modalità che si diffuse un po' ovunque in Europa.
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di Elisabetta De Minicis
I nuovi canoni architettonici dell'architettura romanica, che si diffonde dall'area anglosassone alle terre lombarde nel corso dell'XI secolo, vengono sperimentati con successo tra gli esponenti dell'aristocrazia feudale che trasformano le loro abitazioni rurali, inizialmente in legno, in munite fortificazioni. Vanno ricordate, innanzitutto, le dimore di rappresentanza come le grandi torri-residenza (donjons); si tratta di strutture a carattere difensivo che prevedevano, in un unico corpo di fabbrica, una distribuzione di ambienti con funzione pubblica, di solito al piano terreno, e privata (camere e sale con cappella) al livello superiore. Questo tipo di struttura influenzò fortemente il panorama dell'edilizia civile, dalla Francia settentrionale e occidentale all'Inghilterra e alla Sicilia, come espressione dell'attività costruttiva dei Normanni; tale genere di residenza ebbe la sua naturale evoluzione nell'architettura castellana. Modalità diverse portarono all'affermarsi del modello edilizio della torre, inizialmente legato solo ad esigenze di difesa, in ambito urbano e soprattutto, già a partire dal X secolo, nelle città di un'ampia fascia territoriale dell'area mediterranea. Nei centri di antica origine vengono riutilizzate, a questo scopo, costruzioni preesistenti che permettono alla torre di elevarsi maggiormente in altezza; la struttura è sempre massiccia, a pianta quadrata e con muri di grande spessore, costruiti quasi sempre utilizzando spolia degli edifici antichi e grossi blocchi apparecchiati in maniera irregolare. Già dalla metà del secolo, pur costituendo l'emblema di una ristrettissima classe dirigente civile ed ecclesiastica, l'uso della torre è ampiamente attestato non più con una specifica funzione difensiva, ma con un valore simbolico che si percepisce dalla sua posizione in punti strategici della viabilità urbana. Si può avere un'idea di come dovevano apparire le prime torri urbane osservando, ad esempio, la torre realizzata dall'ipata Giovanni I, tra il 915 e il 934, a Gaeta. Interessanti dati di scavo, emersi dopo il crollo della Torre Maggiore di Pavia, fanno retrodatare al X secolo, per i rapporti stratigrafici con la vicina chiesa di S. Stefano, la fondazione della torre stessa, nella tradizione delle torri scalari di età carolingia e ottoniana. In area laziale, a Civita Castellana, può essere ancora riconosciuto un esempio di torre comitale in una struttura recentemente messa in evidenza, in via Panico, da uno studio sull'archeologia del costruito: le caratteristiche formali dell'edificio e la sua posizione topografica nella città hanno permesso di collocare cronologicamente la sua costruzione tra il X e la prima metà dell'XI secolo, periodo in cui è attestato dalle fonti un governo comitale della città affidato a nobili di origine germanica, voluto già dall'imperatore Ottone III. Solo dalla seconda metà dell'XI secolo le torri cominciano a configurarsi come stabili monumenti cittadini che, nei due secoli successivi, acquisteranno una preponderante funzione d'immagine anche nelle rappresentazioni delle città. In Italia, con la nascita del primo comune consolare, gli esponenti delle principali famiglie feudali cominciano a risiedere anche in città configurandosi come detentori del controllo economico e politico sui cittadini. La torre, a cui si affianca costantemente la domus, si carica sempre più di connotati simbolici utilizzando ampiamente, soprattutto nella parte basamentale, materiali lapidei pregiati di recupero da edifici antichi. In molti casi viene adottata una tecnica muraria largamente diffusa in Italia già in epoca classica, che da sola suggerisce quell'idea di potenza e di solidità che le torri gentilizie volevano rappresentare: la muratura a bugnato. Si possono individuare due categorie principali all'interno della grande varietà di tecniche di lavorazione presenti nella muratura a bugnato in Italia tra XI e XIII secolo: le murature cosiddette "a bugnato rifinito" e "a bugnato rustico". Il primo motivo viene adottato, in maniera totalmente innovativa, nelle fortificazioni federiciane dove, accanto ad una estrema accuratezza nella lavorazione delle pietre, che spesso vengono scelte in modo da formare una elegante bicromia, si nota l'uso della tecnica a bugnato sull'intera facciata degli edifici così da formare un forte contrasto chiaroscurale delle superfici (un modo di costruire già sperimentato in Inghilterra e Germania alla fine del XII sec.). Negli esempi più antichi (XI-XII sec.) della seconda tipologia, come nei casi di Arezzo e nella Torre delle Ore di Lucca, gli elementi in bugnato vengono inseriti in maniera disomogenea e insieme ad altri conci, semplicemente sbozzati o squadrati, nel paramento dei muri esterni, oppure, come nel caso della Torre di Gregorio, della Torre dei Becci e di quella dei Cugnanesi a San Gimignano, si alternano zone, più o meno ampie, di bugne con aree di conci rifiniti; nelle strutture databili tra la metà del XII e il XIII secolo i conci bugnati sono, invece, concentrati o nei cantonali delle torri, come nell'esempio di Montarrenti, o nella parte bassa, a sottolineare il basamento, come appare nelle città dell'Alto Lazio e nel caso delle torri individuate a Genova nella contrada degli Embriaci. È solo alla fine del XIII secolo, come nel caso della Torre Grossa di San Gimignano o la Torre dei Fieschi a Genova, quando la torre è ormai concepita unicamente come simbolo del nuovo potere comunale, che troviamo esempi di strutture interamente costruite con muratura per lo più a bugnato rifinito, certamente sotto l'impulso, diretto o indiretto, delle costruzioni federiciane. Anche l'autorità papale sancisce il suo potere e quello della propria famiglia con la costruzione di torri; esemplificativo è il caso di papa Innocenzo III, il quale, nei primi anni del XIII secolo, dopo averne costruita una in Vaticano fa erigere la Torre dei Conti nell'area centrale della città; l'alto valore simbolico che viene dato alle torri nel corso del Duecento si può riassumere con la rappresentazione di Roma lasciata dal Cimabue nella basilica superiore di Assisi (affresco databile tra 1280 e 1290) dove, accanto ai principali campanili della città, svettano le fortificazioni, tra cui la Torre delle Milizie. Indagini sulle fonti storiche e archeologiche di Roma permettono di evidenziare come la torre venga concepita dalle classi dominanti quale elemento tipologico essenziale ed adattabile alle diverse esigenze. L'analisi della Torre delle Milizie, ad esempio, ha messo in luce una trasformazione radicale della torre, avvenuta nel terzo quarto del XIII secolo, che la inserì in un complesso fortificato ben più articolato, il Castello delle Milizie. A questa impresa si interessò concretamente papa Bonifacio VIII investendo nel completamento dell'opera importanti risorse economiche; la struttura, che aveva subito un poderoso intervento di foderatura, assunse così una doppia funzione di fortezza e di monumento simbolo della città. Cariche di questa valenza le torri, o parti di esse, vengono acquistate, nel corso di tutto il secolo ed ancora nella prima metà del Trecento, dalle famiglie mercantili per elevare il loro rango a nuova aristocrazia, a testimonianza dell'affermarsi del ceto medio sull'antica nobiltà. È il caso dell'edificio in via del Portico d'Ottavia a Roma, di proprietà della famiglia dei Grassi, commercianti di pesce, che vengono esplicitamente menzionati in un documento del 1363; l'analisi muraria dell'edificio permette di attribuire la sua costruzione almeno al secolo precedente. Ampio e articolato è il panorama che riguarda, soprattutto nel corso del Duecento, gli adattamenti formali che si notano su alcune strutture, chiamate "case-torri", che dell'apparato difensivo mantengono l'altezza e la tipologia della pianta; le aperture e la disposizione della volumetria interna di questi edifici sono caratterizzate dalla loro funzionalità, sempre legata ad esigenze economiche e di rappresentatività del potere familiare. Infine l'affermarsi di una architettura che permettesse uno sfruttamento intensivo dello spazio urbano con uno sviluppo in altezza degli edifici e la costruzione di vere e proprie schiere di case-torri, dando avvio a una diversa tipologia abitativa, è attestato soprattutto nelle città ad economia prevalentemente mercantile come, ad esempio, Pisa e Genova. In ambito europeo, tra XIII e XIV secolo, il fenomeno della casa-torre urbana, come abitazione signorile, è poco diffuso e sembra derivare da modelli italiani, come, ad esempio, il Baumberger Turm a Regensburg, in Germania, che ricorda gli esempi di San Gimignano. Il periodo di massima diffusione delle torri termina con tempi e modalità differenziate nelle molteplici realtà comunali proprio a causa delle mutate condizioni politiche che richiedono una pacificazione dei cittadini funzionale allo sviluppo delle attività mercantili e artigianali. Numerose sono le fonti duecentesche che parlano non solo di distruzioni di torri nobiliari delle fazioni avverse, ma anche di divieti assoluti di costruzione di edifici che superino i tre livelli e di abbassamenti coatti delle torri: sono tutti impedimenti che favoriranno indirettamente la nascita del palazzo privato. In questo senso le ordinanze di Firenze, della prima metà del Duecento, di Parma, del 1255, e di Bologna, dello stesso periodo. Nell'ampio panorama che riguarda l'edilizia del potere di età medievale un posto certamente importante occupano le opere pubbliche volute dai liberi comuni. Nella seconda metà del XII secolo, dopo la pace di Costanza, si assiste ad un cambiamento radicale nell'organizzazione cittadina che raggiunge il suo culmine di attività prevalentemente nella fase podestarile dei comuni. Nei comuni lombardi compare, tra XII e XIII secolo, un tipo di edificio particolarmente significativo nell'ambito dell'architettura civile di questo periodo: il broletto, da brolium o brolum, palazzo pubblico, sede della magistratura dove si amministrava la giustizia; tra i primi di cui abbiamo notizia si ricordano gli esempi di Bergamo e di Pavia, a cui seguirono Cremona (1206) e Novara (anteriore al 1208). Accanto alle funzioni di tipo amministrativo e giuridico, che si svolgevano in un'unica grande aula assembleare al primo piano, era previsto, nel broletto, uno spazio porticato, al piano terra, destinato prevalentemente ad attività mercantili e di cambio; la torre campanaria si disponeva, di solito, in posizione angolare. Ma questi spazi divennero ben presto insufficienti e nella prima metà del Duecento, proprio in armonia con una sempre maggiore importanza che le associazioni mercantili andavano acquisendo, le piazze civili lombarde, con i loro broletti, assunsero una nuova fisionomia: in molti casi al corpo centrale si aggiunsero nuove fabbriche, spesso inglobando le strutture di una residenza feudale preesistente. Un esempio di riutilizzo, ancora ben identificabile con l'analisi delle murature, viene dal broletto di Brescia (il palatium novum documentato negli anni Venti del Duecento) dove la torre, di proprietà della famiglia dei Poncarali, inserita nella nuova costruzione, si distingue per la tecnica delle murature a conci sparsi di bugnato rustico e per la rasatura del basamento a scarpa. In altri esempi si preferì riprogrammare la sede comunale come nel modello della piazza del Nuovo Broletto di Milano dove l'organizzazione civile raggiunse un eccezionale livello di pianificazione urbana. Il termine indicava, durante il comune consolare, lo spazio recintato di pertinenza del vescovo entro cui sorgeva il palatium comunis, a sancire lo stretto rapporto tra autorità vescovile e civile. Nel 1228 il comune deliberò la costruzione di una nuova piazza dove dovevano esercitarsi le innumerevoli e complesse attività legate all'esercizio del potere e della giustizia, alle attività economiche e commerciali. Nel centro di un recinto chiuso, con sei porte, era collocato il Broletto Nuovo, un edificio rettangolare con una sala per riunioni al primo piano ed uno spazio aperto scandito dai pilastri del portico al piano terreno, dove si svolgevano le attività commerciali. All'inizio del XIII secolo il centro delle attività civili si andava quindi organizzando in maniera indipendente dal centro religioso, mentre in altre città, tra cui Bergamo, Brescia e Como, questa scissione non avvenne. Piccole piazze, molto spesso in connessione con la cattedrale ed il palazzo vescovile, diventano il luogo centrale della città dove si affacciano, in un equilibrio di forze, gli emblemi del potere civico e del potere ecclesiastico. Nelle proprie sedi, quasi sempre ricavate da nuclei edilizi privati, il potere comunale cura con particolare attenzione l'edificazione della torre pubblica dotata di campana, identificata come strumento per affermare la propria identità a livello cittadino, in concorrenza con i campanili delle cattedrali. Tra gli esempi più significativi è la Torre degli Asinelli di Bologna, che divenne proprietà comunale, dopo una lunga serie di acquisti, solo nel 1398, ma già nel Duecento, per la sua posizione dominante rispetto al centro commerciale della città (mercato di porta Ravegnana), venne sopraelevata per decisione del comune stesso. In molti casi è documentata la trasformazione materiale nell'ambito del palazzo comunale o dei palazzi che rappresentano le più alte cariche della magistratura, in torre pubblica di una torre privata preesistente. Il Palazzo del Capitano del Popolo di Firenze, attuale Bargello, venne appoggiato, nel 1255, alla Torre dei Boscoli, adibita a prigione, che mantenne l'altezza originaria (57 m) in quanto parte di un edificio pubblico. Tra gli esempi tardivi è da ricordare il nuovo nucleo di edifici comunali di Pisa costituito, tra la metà del Duecento ed il secondo quarto del secolo successivo, attorno alla piazza delle Sette Vie, mettendo in atto una politica di espropri molto ben documentati dalle fonti storiche e archeologiche. Dall'analisi, di notevole interesse, del Palazzo degli Anziani, che, attraverso la termografia, ha permesso la ricostruzione delle fasi di edificazione del complesso, è stato evidenziato come l'edificio sia il risultato di un accorpamento di almeno dieci nuclei edilizi. La stessa dinamica è riscontrabile nelle vicende edilizie, indagate archeologicamente in occasione dei restauri al Palazzo Ducale, che riguardano la costruzione della prima sede stabile del comune di Genova, avviata nel 1291. Prima di questa data si ha notizia che il Capitano del Popolo, tra 1271 e 1272, si andò a stabilire nel palazzo di Leonardo Fieschi, personaggio di potente famiglia guelfa nel frattempo esiliato come ribelle della Repubblica; qui si riuniva regolarmente anche il Consiglio degli Anziani. Solo con l'edificazione del palazzo comunale, avvenuto tramite l'acquisto di alcune case confinanti di proprietà Doria, anche l'edificio dei Fieschi venne completamente inglobato nella sede del potere cittadino, ad ulteriore conferma della superiorità dell'istituzione pubblica su quella privata. Anche nella costruzione delle nuove piazze si prevede, nella maggior parte dei casi, la demolizione di case o di altri edifici; l'esempio di piazza della Signoria a Firenze, interessata da scavi archeologici dal 1982 al 1996, permette di verificare una programmata operazione che interessa, alla fine del XIII secolo, la costruzione del Palazzo dei Priori e lo spazio davanti ad esso. Le case e le torri delle principali famiglie ghibelline abbattute per un volere politico ben preciso sono riemerse durante gli scavi e, tra queste, il quartiere degli Uberti con la turris maior e gli impianti artigianali annessi. Sono da citare, poi, le grandi piazze dove sono collocate, al centro, le istituzioni comunali e che coincidono con i luoghi di mercato; nell'esempio di Padova (1218-1219 ca.) il Palazzo della Ragione si erge tra le due piazze adibite a mercato e le mette in comunicazione con una soluzione di sottopassaggi ad archi aperti. Soluzioni simili si osservano, ad esempio, a Lubecca, dove il palazzo comunale (Rathaus) viene costruito, all'inizio del Duecento, tra le due piazze principali, al centro della città. Il mercato rappresenta la base economica su cui si stabilizza il potere civile nel corso del Duecento, ed a questo proposito va segnalata la creazione, da parte dei comuni, di spazi e strutture destinate al commercio e servizi, non a diretto contatto con la sede politica. L'esempio più antico è forse la sistemazione a Genova della Ripa (la Palazzata), voluta dai consules communi nel 1133-1134 per dotare l'arco portuale di una struttura per il controllo del commercio e di una sponda di attracco sicura. Nell'area era già iniziata una forte urbanizzazione: datate archeologicamente dall'analisi mensiocronologica dei litici e della composizione delle malte, le più antiche case della Ripa genovese precedono, sebbene di poco, il portico "a volte" che costituisce l'elemento distintivo della Palazzata. Parti di questi edifici appartengono, infatti, ai prospetti laterali dell'isolato e ad esse si addossano le murature dei portici, in armonia con quanto stabilito dal lodo consolare del 1133 che permetteva ai proprietari delle case che si affacciavano sulla Ripa di estendere le loro costruzioni contribuendo alla realizzazione della strada porticata. Tale soluzione trova una applicazione sistematica in area centroeuropea; tra gli esempi monumentali è da ricordare la via principale mercantile di Berna (1191), che venne ripresa in tutto l'arco alpino (Cuneo, Castel S. Pietro), dove vi è una perfetta integrazione tra edilizia residenziale e spazio di mercato. Recenti indagini eseguite in alcune cittadine del cantone di Berna (Burgdorf, Untersee, Laufen) hanno messo in luce case a schiera, abitazioni di mercanti sulle vie destinate al mercato; mentre già negli anni Sessanta, scavi realizzati nella città di Magdeburgo avevano messo in evidenza l'esistenza di mercati, inizialmente solo luoghi recintati, differenziati a seconda dell'uso (ad es., il mercato delle pelli lungo la strada principale della città), tutti caratterizzati da portici ed a volte muniti di ambienti interrati per lo stoccaggio delle merci. Un'altra esperienza progettuale è testimoniata a Brescia quando, tra il 1173 e il 1174, viene tracciata ed eseguita da Bosio Gaetani mensurator la più grande piazza italiana dell'epoca, la piazza del Mercato Nuovo. La piazza, di 185 × 55 m circa, venne realizzata dal comune bresciano sotto la pressione dei mercanti e degli insediamenti conventuali della città, tra cui il monastero di S. Giulia, per attivare un nuovo polo commerciale che costituisse nello stesso tempo un incremento allo sviluppo edilizio in una zona di modesta urbanizzazione, all'estremità orientale della città. Il carattere mercantile e artigianale della piazza è sottolineato dalla documentata prevalenza di piccoli lotti edificabili che si disponevano lungo le strade che la delimitavano e vi confluivano. Lo scavo di uno di questi lotti, in via Alberto Mario, ha messo in evidenza la semplice tipologia delle case a schiera, per lo più in legno, che si distribuivano negli spazi programmati lungo il fronte stradale e con un piccolo cortile che si apriva all'interno dell'isolato. Vanno ricordate, a questo proposito, le grandi piazze rettangolari dell'Europa centro-orientale, dove l'edificio del mercato è collocato al centro (ad es., Praga e Cracovia), realizzate nella seconda metà del XIII secolo. La piazza del mercato avrà una sua definitiva collocazione al centro della città nelle nuove fondazioni, di mano tedesca, a seguito della conquista e colonizzazione della Prussia. Tra gli esempi indagati archeologicamente di recente, si ricorda la città di Eblag (Polonia), fondata nel 1237, dove sono state messe in evidenza le strutture dell'originario municipio, bruciato nel 1777 insieme alla chiesa di S. Nicola che si trovava di fronte, dove si svolgevano funzioni amministrative e si teneva il mercato delle stoffe; una torre in pietra delimitava l'intero complesso.
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di Francesca Romana Stasolla
L'architettura religiosa del periodo postclassico si connota per l'adesione ai dettami della religione cristiana e, grazie alla continuità di funzione, è per ampia parte ancora in vita, soprattutto nelle sue forme medievali o più tarde. Il contributo della ricerca archeologica appare determinante soprattutto per i periodi tardoantico e altomedievale, grazie ai rinvenimenti delle fasi precedenti di aule di culto o altre costruzioni religiose ancora in elevato, ma in fasi edilizie successive, e soprattutto nella lettura delle interconnessioni tra liturgia e architettura, in soluzioni funzionali, a tratti innovative. La prima forma di architettura religiosa dichiaratamente cristiana è sicuramente l'aula di culto ad impianto basilicale, introdotta e canonizzata dagli architetti di Costantino nella progettazione della prima cattedrale dedicata alla nuova religione, la basilica del Salvatore a Roma (odierna S. Giovanni in Laterano). Precedentemente i luoghi di culto cristiani non presentano caratteri icnografici particolari, istallandosi in edifici privati e apportandovi modifiche più di arredo e decorative che strutturali. Emblematico a questo proposito è il caso di Dura-Europos, in Siria, centro scomparso nel 265 d.C. per mano sasanide, dove le risultanze archeologiche hanno restituito un'abitazione al cui interno vennero apportate modifiche per ricavarvi un'aula per le riunioni, una sala minore per le agapi ed un ambiente battesimale. Ciò che ha consentito agli archeologi di riconoscervi un luogo di culto cristiano è stato in realtà solo l'apparato decorativo del battistero, con scene neotestamentarie allusive ai riti che vi si celebravano. Si tratta in realtà non di una vera e propria chiesa, ma di una domus ecclesiae, termine con il quale vengono identificati luoghi di culto privi di una struttura architettonica tipica, ovvero costruzioni con altra funzione, per lo più abitativa, utilizzate a scopi religiosi. Analoghe strutture sono state rinvenute a Roma, ad esempio sotto la chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo al Celio. Agli architetti costantiniani si devono quindi le prime realizzazioni, il cui impianto rettangolare, diviso in navate separate da colonne o pilastri, la centrale delle quali più alta ed ampia, con ingresso su uno dei lati corti ed abside sull'altro, ha dato vita ad una serie di ipotesi in merito alla sua genesi. Il problema dell'origine della basilica cristiana, sollevato già a partire dal XV secolo ed affrontato da illustri architetti, a cominciare da Leon Battista Alberti, ha prodotto una serie di ipotesi: dalla derivazione dalla basilica civile romana, dall'idealizzazione della domus ellenistico-romana, dalle basiliche funerarie, dagli ambienti di rappresentanza dei palazzi imperiali tardoromani, dalle mere necessità liturgiche, in una ridda di soluzioni, nessuna delle quali è parsa soddisfare appieno i criteri di tale scelta. Il problema è stato risolto nella rinuncia alla ricerca di una specifica filiazione architettonica a vantaggio di un prestito ideale nei criteri di organizzazione degli spazi, che vede nel tipo basilicale, largamente utilizzato in epoca romana per la raccolta di ampie folle, la soluzione più ovvia adattata dagli architetti che di tale periodo storico e culturale erano comunque figli. Si passa così dalla domus ecclesiae alla vera e propria ecclesia, termine significativamente utilizzato per alludere sia alla comunità di fedeli che all'edificio che la ospita, in un concerto di spazi e funzioni che impronta i luoghi di significati spirituali. Su questa scelta di base, quella di un edificio innanzi tutto funzionale, si costruì un programma architettonico vero e proprio, legato e condizionato dalla liturgia, che determinò lo sviluppo di complessi, sovente oggi poco chiari perché depauperati completamente degli annessi nel mantenimento del solo luogo deputato al culto. Davanti alla chiesa si svilupparono portici ed atri, che talora si trasformarono in quadriportici con la duplice funzione di isolare la costruzione principale dai rumori delle strade e di accogliere i pellegrini (ad es., S. Clemente a Roma, S. Ambrogio a Milano, Marusinac a Salona). Dalle fonti letterarie (Eusebio di Cesarea, Paolino da Nola, ecc.) sappiamo della possibilità di transennare con supporti mobili, in genere lignei, parti dell'atrio. Al centro dell'atrio si trovava sovente una fontana o un semplice cantharus, per le abluzioni, mentre lo spazio interno poteva essere coltivato a giardino, così da essere definito paradisus, coniando un modello mutuato poi in ambito monastico e che vede nel chiostro la sua fortuna. Strutturalmente simile, ma distinto dal punto di vista icnografico, è il nartece, ambiente trasversale posto immediatamente all'esterno (esonartece) o all'interno (endonartece) della facciata, semplice o doppio (come a Tigzirt in Algeria), nato per accogliere i catecumeni ed i penitenti che non erano ammessi alla liturgia eucaristica. La facciata era generalmente scandita da porte di accesso, di solito una per navata, anche se una peculiarità di Roma è costituita dalla presenza di chiese "a facciata aperta", con il fronte scandito da arcature per le quali non sembra fossero previste chiusure stabili (S. Maria Maggiore, Ss. Giovanni e Paolo, S. Vitale, ecc.). Diffusa era anche la presenza di torri di facciata, con funzioni difensive o per ospitare le scale che davano accesso ai piani superiori (S. Lorenzo Maggiore a Milano, S. Vitale a Ravenna, duomo di Treviri, tutti esempi datati entro il VI sec.). Analogo effetto estetico, ma diversa funzione ebbe il Westwerk altomedievale, destinato ad ospitare i reali nel corso della liturgia. Lo spazio interno poteva essere unitario o scandito da navate, nella quasi totalità dei casi in numero dispari, delle quali la centrale era di dimensioni maggiori (in epoca paleocristiana il rapporto tra la navata centrale e le due laterali è in genere di 2:1), separate da colonne o pilastri sorreggenti una trabeazione continua o una serie di arcatelle; nella muratura sovrastante si aprivano le finestre che garantivano l'illuminazione naturale, integrata da lampade e lampadari. Sulle navate laterali potevano essere ospitati tribune o matronei, gallerie che talvolta si congiungevano in controfacciata, diffusi in Oriente, presenti a Roma solo a partire dal VI secolo e poco noti in Nord Africa. La copertura era generalmente lignea in età paleocristiana, con capriata a vista o nascosta da un soffitto piano; a partire dal V secolo si diffuse anche la copertura a volta, mentre la diffusione della pianta centrale prevedeva coperture a cupola variamente contraffortate. La terminazione della chiesa era solitamente costituita dall'abside, solo in corrispondenza della navata centrale o moltiplicata per il numero delle navate, di forma semianulare all'interno, sporgente all'esterno in varie fogge (semicircolare, quadrata o poligonale), oppure compresa nel muro di fondo. Ai lati dell'abside potevano aprirsi due ambienti gemelli (pastofori) con funzione di sacrestie. Alle peculiarità liturgiche vanno ricondotte le ripartizioni interne degli spazi, caratterizzate soprattutto dalla necessità di focalizzare l'attenzione su un punto centrale e visibile a tutti (altare eventualmente rialzato), di separare il celebrante dall'assemblea (presbiterio), di suddividere le diverse categorie di fedeli (navate ed eventuale atrio, successivamente i matronei), di ricavare uno spazio per le offerte (transetto, indipendente dai volumi delle navate oppure a navate avvolgenti, se scandito dal prosieguo dei colonnati di divisione dello spazio interno), di accogliere reliquie (cripta). Lo spazio interno era poi condizionato dalla presenza dell'altare, di varie fogge (a cassa, a mensa, a blocco unico, ecc.) e talora sormontato da un ciborio o da un baldacchino, da subsellia e cattedre, dalla presenza di recinzioni presbiteriali, scholae cantorum, cancelli e recinzioni miranti a definire e distinguere lo spazio riservato al clero da quello per le diverse categorie di fedeli. Che si tratti di un'organizzazione spaziale polivalente è testimoniato fin dalle costruzioni costantiniane, che prevedono il medesimo impianto per aule liturgiche (Basilica Lateranese), per basiliche martiriali (S. Pietro in Vaticano) o memoriali (Anastasis a Gerusalemme, Basilica della Natività a Betlemme). Le esigenze particolari create dall'assemblarsi delle folle presso le tombe venerate spinsero lo stesso Costantino a commissionare aule di grandi dimensioni nel suburbio romano, edifici caratterizzati dalla presenza di un deambulatorio continuo alle spalle dell'abside, per facilitare la circolazione dei fedeli, e dalla parete breve di ingresso diagonale rispetto all'asse principale, detti per la loro particolare icnografia "basiliche circiformi", che costituiscono un unicum del suburbio romano e che hanno una vocazione più cimiteriale che liturgica. Altrettanto poco diffuse sono le più tarde chiese ad absidi contrapposte, evoluzione architettonica che si ritiene dovuta principalmente all'introduzione dei culti martiriali (S. Gavino a Porto Torres nella fase romanica) oppure all'inserimento di tombe privilegiate (il vescovo Reparatus ad Orléansville) all'interno di chiese urbane o di chiese cattedrali, che dovevano prevedere la duplice funzione ‒ liturgica e memoriale ‒ ben distinta. Le stesse tipologie strutturali utilizzate dalla Chiesa vennero fatte proprie dai vari movimenti eretici a partire dalla Tarda Antichità, così che soltanto la dedica o fonti epigrafiche o documentarie consentono di individuare i monumenti eretici come tali. Quanto all'orientamento delle aule di culto, le fonti più antiche, soprattutto di ambito siriaco (ad es., le Constitutiones Apostolicae), prescrivono l'orientamento ad est del volto nel corso della preghiera, così che per un certo tempo si è ritenuta ferrea la regola della posizione dell'abside rivolta ad oriente. In realtà, proprio la documentazione archeologica ha chiarito come questa linea di tendenza abbia avuto sin da epoca paleocristiana numerose eccezioni, essendo l'orientamento condizionato dall'orografia dell'area, da costruzioni precedenti, dalla presenza di tombe venerate, da valutazioni di opportunità di vario genere. Se numerosi edifici di culto ci sono pervenuti nelle fasi originali o variamente modificati, comunque nella loro persistenza topografica e funzionale, ciò ha determinato una memoria selettiva, che ha conservato l'aula cultuale decontestualizzata rispetto al complesso degli annessi che essa prevedeva in origine. In taluni casi, proprio la ricerca archeologica ha consentito il recupero delle strutture abitative e di servizio che facevano della chiesa il polo di un complesso cultuale, memoriale e caritativo, variamente articolato dal punto di vista architettonico ed icnografico, spesso non frutto di un progetto unitario, ma sviluppatosi per ampliamenti successivi. Il polo religioso costituito dall'aula di culto determinò, specie nel caso dei più importanti santuari martiriali, un consistente afflusso di pellegrini ed il conseguente installarsi di un abitato progressivamente più stabile, costituito da edifici abitativi e di servizio, ma anche da una serie di strutture funzionali all'attività assistenzialistica della Chiesa, che vanno a collegarsi con la rete di servizi per i poveri che dal V secolo costituisce uno dei traccianti archeologici per la definizione dell'abitato urbano. Sorgono così diaconie, ospizi, xenodochi, strutture tutte queste prive di connotazioni religiose, ma funzionali ai complessi ecclesiastici. Riservata al vescovo e segno della sua carica è l'ecclesia episcopalis o cathedralis, che appunto prende il nome dalla presenza al suo interno della cattedra episcopale. Si tratta di una chiesa, il cui prototipo è rappresentato dalla Basilica Lateranense a Roma, presente nelle città sedi di diocesi e con giurisdizione sul territorio diocesano. Dal punto di vista strutturale una chiesa cattedrale non si differenzia dalle altre, ma la contiguità con altri edifici, religiosi e non, determinò ben presto il configurarsi di veri e propri complessi episcopali, che nel periodo altomedievale diedero luogo a svariati fenomeni di policentrismo urbano. Anche se non sembra esistere uno schema fisso per l'organizzazione del complesso episcopale ‒ sovente sorto in modo progressivo, piuttosto che come frutto di un'elaborazione concettuale organica ‒ la monumentalità delle costruzioni e l'articolazione degli spazi consentono di definire vere e proprie cittadelle episcopali. Presente già in origine nel complesso lateranense è il battistero (l'attuale ottagono è frutto delle ricostruzioni di Sisto III nella prima metà del V sec.), luogo deputato all'amministrazione del battesimo, che in epoca paleocristiana ed altomedievale avveniva per immersione. Raramente identificabile a livello archeologico perché privo di connotazioni icnografiche peculiari, ma noto dalle fonti, è il consignatorium, locale destinato al sacramento della confermazione. Ben rare sono le indagini archeologiche che hanno consentito una lettura integrale dell'intero complesso episcopale paleocristiano o altomedievale. Una felice eccezione è costituita dal sito di Cornus, in Sardegna, dove sono stati rinvenuti, in contesto extraurbano, la cattedrale con annesso edificio battesimale, l'episcopio, una basilica cimiteriale ed una vasta necropoli. La ricchezza dei ritrovamenti e l'accuratezza dello scavo hanno permesso una lettura integrata tra fonti e resti architettonici al fine di definire le dinamiche dell'amministrazione di alcuni sacramenti, in primo luogo il battesimo. Si trova ben esemplificato a Cornus quanto noto dalle fonti e in parte ricostruito anche in altri contesti archeologici: la presenza del nartece all'esterno della basilica episcopale per ospitare i catecumeni tenuti ad uscire dall'aula di culto dopo la liturgia della parola; il passaggio verso il battistero; i locali annessi a quest'ultimo, tra cui quello destinato ad accogliere i vasi ed i libri sacri in un apposito armadio ricavato nella muratura; la vasca ottagonale e la piccola conca per scaldare l'acqua; il transito dei neofiti, dopo l'amministrazione del battesimo, nella chiesa per poter finalmente partecipare della liturgia eucaristica. Fenomeno diffuso nell'area aquileiese in Italia, in Africa e in qualche sito orientale è quello della cosiddetta "cattedrale doppia", caratterizzata dalla presenza di una doppia aula, come nei casi di Aquileia e Parenzo in Italia, Gemila, Sbeitla e Bulla Regia in Africa, che ha dato luogo ad una ridda di ipotesi. Di recente, la certezza che la duplicazione di un luogo di culto non comporti automaticamente la presenza di una cattedrale e la revisione cronologica dei casi indagati conducono piuttosto a vedervi il risultato di una successione di fasi costruttive, in alcuni casi miranti all'ampliamento della chiesa. La compresenza di più centri episcopali all'interno di una stessa città si verifica con una certa ricorrenza nel Nord Africa, che a differenza di altre province romane conta già nel III secolo un gran numero di vescovi, sia in ambito urbano che al servizio di agglomerati rurali, a motivo della diffusione di sette eretiche e scismatiche. L'occupazione vandala (439-533) istituzionalizza in un certo qual modo questo fenomeno, comportando una gerarchia ecclesiastica ariana, i cui vescovi in alcuni casi occuparono gli spazi dei loro colleghi cattolici costretti all'esilio, in altri ne crearono di nuovi. All'Africa spetta anche il primato nella monumentalizzazione degli edifici di culto, nel moltiplicarsi delle navate laterali (nove a Tipasa). L'amministrazione del battesimo, il rito dell'iniziazione cristiana, era in origine riservata agli adulti, dopo una lunga catechesi, ed avveniva nel corso di una cerimonia che aveva luogo la notte di Pasqua, in occasione della celebrazione della resurrezione del Cristo. Anche le scelte architettoniche si modellano sulla pregnante valenza simbolica del rito, che prevedeva l'immersione del catecumeno nella vasca, spesso dotata di gradini interni sia per il neofita che per il celebrante, che vi discendeva dalla parte opposta. La stessa vasca poteva avere forma circolare, esagonale o talvolta ottagonale, talora era dotata di un baldacchino. Tale apparato poteva essere ospitato nella navata laterale della chiesa oppure, più significativamente, in un'aula apposita, annessa a quella di culto e ad essa collegata direttamente (ad es., Cornus) o mediante un portico (ad es., fase eufrasiana di Parenzo). Anche la decorazione del locale prevedeva il richiamo a temi iconografici allusivi al rito che vi si svolgeva, ad esempio il Battesimo del Cristo, oppure la visione del Chrismon nella visione apocalittica dell'empireo (battistero di Albenga). La presenza di un battistero connota i centri episcopali, ma non ne costituisce l'esclusiva: sin da epoca paleocristiana sono infatti diffusi edifici battesimali presso chiese titolari a Roma, nei pressi di edifici cimiteriali particolarmente frequentati (ad es., a Roma, presso S. Pietro in Vaticano e S. Agnese sulla via Nomentana nella prima metà del IV sec., e nucleo ipogeo di Ponziano, nel VI-VII sec.), in relazione con nuclei abitati in ambito rurale (ad es., S. Agata in fundo lardario nel suburbio romano, di fine V - inizi VI sec.), collegati quindi a tutte quelle strutture ecclesiastiche deputate alla cura animarum. A differenza dell'aula di culto, il battistero prevedeva uno spazio non gerarchizzato, ma nel quale la visibilità fosse totale: a tal fine venne privilegiata fin dalle origini la pianta centrale, incentrata sulla vasca, variamente corredata da nicchie e lobi plurimi, con prevalenza per l'ottagono semplice o reso complesso dall'inserzione di un quadrato, di un tetraconco, di nicchie variamente posizionate. Varia forma poteva avere anche la vasca battesimale, in genere di foggia allusiva a significati simbolici: ottagonale (Albenga, Fréjus, Sabratha), cruciforme (Salona, Leptis Magna), circolare (Tipasa, Sbeitla, S. Mena in Egitto), a stella (Tebessa, Sfax), esagonale (Timgad), o più semplicemente quadrata (Gemila) o rettangolare (Hebron in Palestina). Nel tardo Medioevo, con il diffondersi del battesimo ai bambini, il rito avrà meno bisogno di evidenziare i suoi significati ai catecumeni, così che progressivamente dall'aula battesimale si passerà al fonte inserito all'interno della chiesa, generalmente in fondo ad una delle navate laterali, spesso all'interno di una cappella ad esso appositamente dedicata. Particolare interesse riveste la decorazione interna delle aule di culto, alle origini ispirata ad intenti catechetici, dotata di forti valenze simboliche ed ispirata dalle Scritture, che accompagnava ed integrava le catechesi omiletiche. Anche i battisteri presentavano programmi decorativi, solitamente ispirati al Battesimo del Cristo o comunque ad episodi salvifici, senza escludere la possibilità di motivi decorativi e simbolici (esagoni e croci nel battistero teodoriano di Aquileia, IV sec.). Molto diffusa è la tecnica a mosaico, con uso di tessere policrome, nel caso dei rivestimenti parietali anche in pasta vitrea o ricoperte da una foglia d'oro. Ci sono pervenuti a questo proposito i mosaici absidali di parecchie chiese paleocristiane, soprattutto a Roma, come nel caso di S. Maria Maggiore. Molti mosaici, soprattutto absidali, conservati in Occidente sono di età e di influsso bizantino, dagli esempi ravennati a quelli romani, fino al Nord Africa. L'influsso dell'architettura religiosa di matrice bizantina determinò in modo sostanziale forme e modelli ecclesiastici occidentali, soprattutto nella predilezione per impianti non basilicali, di soluzioni strutturali articolate, fino alla scelta di temi decorativi che giungono a riproporre la raffigurazione della stessa corte imperiale nei mosaici ravennati. L'Italia, parte della Penisola Balcanica e il Nord Africa costituiscono i territori del Mediterraneo occidentale che risultano essere più marcatamente definiti da scelte icnografiche e decorative di stampo bizantino, soprattutto durante il periodo successivo alla riconquista ‒ nel VI secolo ‒ delle terre occupate dalle stirpi germaniche. Nella koinè architettonica e decorativa bizantina l'interdipendenza tra articolazione volumetrica e percorsi ornamentali si coglie nella trasmissione di modelli e scelte formali tra le due aree del mondo mediterraneo, così che la pars Occidentis non può essere letta a prescindere dalla sua omologa ad Oriente. Caratteristica dell'architettura altomedievale occidentale sembra essere la tendenza alla parcellizzazione degli spazi, che sul piano religioso si configura nella costituzione di piccoli nuclei volumetrici tra loro concatenati (ad es., S. Pedro de la Nave in Spagna, seconda metà del VII sec., S. Maria foris portas a Castelseprio), alternativi allo spazio unitario prefigurato dal modello paleocristiano di basilica. Le relazioni di continuità spaziale e logica sono affidate spesso alla successione di arcatelle che scandiscono lo spazio interno e allo svolgersi dell'apparato decorativo entro motivi vegetali a spirale continua, che tendono a disegnare una sorta di percorso visivo, con un costante richiamo all'antico accentuato dal frequente utilizzo di materiale di spoglio. Questi fenomeni assumono particolare evidenza nei rifacimenti di chiese già presenti nelle loro forme paleocristiane, come nel caso della basilica onoriana (prima metà del VII sec.) di S. Agnese in Roma, voluta per sostituire la precedente aula circiforme costantiniana. La completa mutazione della percezione spaziale è data dall'aula a stella di S. Sofia a Benevento (760), dove lo spazio interno, definito dalla continua frammentazione dei muri perimetrali e delle tre absidi, viene a sua volta frazionato dai numerosi sostegni. La committenza carolingia, a partire da quella dello stesso Carlo Magno, determinò la scelta di tipologie architettoniche peculiari in ambito religioso, sostanziate dalla volontà di recupero dell'antico, in particolare dei modelli paleocristiani e specificatamente costantiniani. La scelta di non eleggere una sede reale stabile, ma di moltiplicare i centri di potere politico in più residenze comportò la realizzazione di vari palazzi dotati di cappelle palatine, per lo più fuori dei maggiori centri urbani. La connessione tra aula di culto ed edifici residenziali è stata evidenziata proprio dalle indagini archeologiche in siti quali Ingelheim in Germania, dove l'aula di culto è a navata unica, absidata. Caratteri autonomi ha invece la Cappella Palatina di Aquisgrana, a pianta ottagonale con gallerie di riminescenza tardoantica, come il resto dell'articolazione palaziale, che prevede anche un impianto termale. Caratteristica dell'attività architettonica in campo religioso di età carolingia è anche la diffusione di cripte, per lo più semianulari, ma anche a galleria o a navate, sotto gli altari di molte chiese, in concomitanza con la diffusione del recupero delle reliquie in urbe (S. Marco, S. Prassede, S. Martino ai Monti, S. Cecilia, S. Maria in Cosmedin a Roma; S. Lucio a Coira; St.-Maurice d'Agaune; St.-Germaine d'Auxerre; ecc.). Altro elemento caratterizzante è costituto dalla diffusa presenza del controcoro all'interno delle aule cultuali, che produce impianti ad absidi contrapposte (St.-Maurice d'Agaune alla fine dell'VIII sec.), talvolta da porre in relazione con fenomeni memoriali (la tomba di s. Bonifacio a Fulda). Alla stessa epoca vanno riportati alcuni dispositivi volti ad evidenziare e nello stesso tempo ad accogliere personaggi reali o comunque aulici, quali i Westwerke, torri di facciata ‒ generalmente in coppia ‒ annesse a chiese urbane e monastiche (Lorsch, St.-Denis, Centula/St.-Riquier), ma in primo luogo a cattedrali (Hildesheim, Colonia, Minden), oppure strutture di vario genere comunque poste all'ingresso delle chiese (ad es. la Torhalle di Lorsch). A Roma interventi carolingi sono riconoscibili anche a livello costruttivo grazie al diffuso riutilizzo di blocchi di peperino nelle fondazioni delle chiese e all'uso del laterizio, anch'esso di recupero, disposto in filari ondulati negli elevati. Il fenomeno dell'introduzione in urbe delle reliquie dei martiri, ormai compiuto a Roma alla metà del IX secolo, comportò alcune modifiche architettoniche negli edifici di culto esistenti, che vennero ad assumere una funzione anche memoriale. Accanto al diffondersi di confessioni e di cripte, si ricorre in alcuni casi all'edificazione di vere e proprie cappelle annesse alle aule di culto: un esempio emblematico è costituito dalla cappella di S. Zenone voluta da Pasquale I (817-824) nella basilica di S. Prassede, che determinò il trasformarsi di una chiesa titolare in una sorta di santuario urbano. Per quanto attiene all'uso e alla diffusione dei campanili, la loro presenza certa, distinta da generiche torri difensive, scalari o auliche, è documentata a livello letterario solo a partire dalla metà dell'VIII secolo dal Liber Pontificalis romano, a proposito della realizzazione di una torre campanaria presso la basilica di S. Pietro in Roma da parte di Stefano II. In realtà, le prime testimonianze materiali sono del IX-X secolo (ad es., S. Apollinare in Classe a Ravenna), per poi trovare nell'architettura romanica ampio seguito, con strutture ancora caratterizzanti l'odierno paesaggio urbano. Meno evidenti sono i resti dell'architettura religiosa in legno, non solo per la maggiore deperibilità del materiale, ma anche perché non appena possibile gli edifici lignei vennero sostituiti da costruzioni in pietra, le aule di culto in primo luogo. È questo il caso ad esempio delle chiese anglosassoni, spesso realizzate in tecnica mista a navata unica, note nelle forme di VII secolo (Ss. Pietro e Paolo di Canterbury), IX secolo (chiesa di Kells), XI secolo (chiesa di Greendsted nell'Essex). Resti lignei sono diffusi specialmente nei Paesi del Nord Europa, dove la sostituzione della pietra al legno avvenne soprattutto in età carolingia e determinò l'evoluzione di soluzioni architettoniche e moduli costruttivi, con ogni probabilità mediante fasi progressive di utilizzo misto. Così avviene, ad esempio, in alcune aule di culto tedesche (Brebz, presso Heidenheim), che presentano il coro a terminazione rettilinea piuttosto che absidata. In Francia, Ste.-Catherine a Honfleur (XVI sec.) prevede un'ampia aula tripartita con copertura a carena rovesciata, che presenta analogie più con strutture di ambito rurale che con la tradizione architettonica ecclesiastica. Analoga struttura hanno esempi olandesi (chiesa di Paaslo, XV sec.) ed inglesi (nel Cheshire). I loro prototipi sono noti a livello archeologico (cattedrale di Maastricht di V-VI sec., chiese precarolingie di Worms e Magonza), prevedono basi in muratura, alzati con pareti in graticcio ed hanno avuto sviluppi paralleli con le chiese scandinave a pali. Proprio in ambito scandinavo, tra XII e XVI secolo l'architettura religiosa è rappresentata da edifici con tecnica a doghe (stavkirker), di modeste dimensioni e, nel caso dei tipi più importanti, con abside e presbiterio sopraelevati. Alcune hanno un unico sostegno centrale. Dagli scavi è emerso come spesso tali chiese riprendano esemplari analoghi, più antichi. Di particolare interesse a livello archeologico sono le tracce di cantiere: dalla documentazione scritta ed iconografica pienamente medievale abbiamo notizia dei grandi apparati che l'edificazione di importanti edifici di culto richiedeva, in primo luogo quella di alcune grandi cattedrali romaniche o gotiche, la cui durata nel tempo aveva spesso notevoli ripercussioni economiche e sociali, con la creazione di botteghe artigianali e di laboratori per la produzione di materiali edilizi. Meno evidenti sono le tracce sul terreno di questa attività, di recente evidenziate dall'indagine presso la basilica di S. Gavino a Porto Torres (Sassari), mentre l'impianto di fornaci per la realizzazione di campane all'interno dell'aula di culto dismessa è noto in più casi (ad es., Venosa). Nel corso del tempo ‒ talora anche alcuni decenni ‒ impiegato per l'edificazione o per la ristrutturazione radicale di grandi complessi religiosi, le esigenze del culto imponevano comunque la creazione di un angolo riservato alla liturgia. Così, proprio dalle indagini di scavo sono note le modalità di convivenza tra lavori di cantiere e pratica cultuale, con la creazione di piccole cappelle in legno, in pietra o in tecnica mista, ricavate sovente all'interno della navata centrale della chiesa in costruzione, come nel caso dei Ss. Giovanni e Reparata a Lucca. Per quanto concerne i moduli architettonici monastici, in Occidente furono influenzati fin dalle origini dalla regola benedettina, che a differenza di molte regole orientali prevedeva la vita comunitaria e la partecipazione al lavoro manuale da parte dei monaci. Ne conseguì la necessità di prevedere spazi per le attività comuni, per i dormitori ed i refettori, in un'articolazione spaziale che ruotava attorno ad un chiostro, vero fulcro della vita monastica, e che divenne sempre più complessa con la progressiva strutturazione gerarchica della comunità monastica, soprattutto a seguito della riforma cluniacense. La ricostruzione di tali complessi è consentita dalla comparazione di più tipologie di fonti con quanto ancora visibile o percepibile a livello planimetrico, visto che le indagini archeologiche solo occasionalmente hanno interessato gli ambienti non cultuali, cioè residenziali e funzionali, che per altro spesso ricorrevano all'uso del legno in luogo della pietra, sempre riservata alle chiese. I primi impianti monastici, soprattutto anteriormente all'età carolingia, appaiono poco condizionati da schemi spaziali, così che ambienti residenziali e di servizio affiancavano la chiesa principale e le eventuali altre cappelle secondo parametri non convenzionali, sia pur sovente all'interno di un recinto con funzione di delimitazione e talvolta di difesa, trattandosi nella quasi totalità dei casi di complessi extraurbani. La presenza di un recinto anche nei complessi urbani ne sottolinea un valore comunque simbolico e religioso. Solo nell'VIII secolo si giunge ad una definizione più rigorosa dello spazio monastico, con la strutturazione del chiostro come nucleo essenziale, architettonico e spirituale. In realtà in Gallia già all'inizio del VII secolo si diffondono complessi monastici strutturati in maniera progressivamente più organizzata, ma solo all'inizio del IX secolo un documento eccezionale quale la pianta di San Gallo consente di apprezzare la coeva concezione di impianto monastico ideale. Lo schema planimetrico riportato dalla pergamena conservata nell'omonimo monastero svizzero prevedeva la disposizione ordinata attorno agli spazi claustrali di ambienti cultuali, residenziali sia per i monaci che per gli ospiti, artigianali, cimiteriali e di servizio, moltiplicati e gerarchizzati (ad es., con bagni differenziati per le diverse categorie di monaci), esemplificando quindi il complesso abbaziale come un insediamento autonomo, con una tendenza all'autosufficienza che nei secoli successivi troverà conferme strutturali nell'articolazione planimentrica di grandi complessi d'Oltralpe, in primo luogo Cluny. Questa articolazione dei complessi ben si coniuga con il ruolo assunto dagli impianti monastici in età carolingia, come strumenti di controllo territoriale, possessori e gestori di grandi ricchezze terriere. Di particolare rilevanza archeologica sono i risultati delle indagini nel monastero di Aniane, che hanno comportato il rinvenimento di strutture lignee del chiostro, l'unico al momento noto in materiale non litico. Il riferimento ai moduli paleocristiani proprio dell'architettura religiosa carolingia appare evidente anche nelle coeve chiese monastiche, nella scelta di modelli basilicali con transetto monoabsidati (Fulda, St.-Denis) o triabsidati (Münstair, Ratisbona). Una successiva grande fase di rinnovamento architettonico si percepisce con chiarezza nell'XI e soprattutto nel XII secolo e prevede la ristrutturazione e spesso la monumentalizzazione delle strutture altomedievali, come noto a livello archeologico nell'abbazia della Novalesa, a Cluny, a Farfa, a Montecassino, a San Vincenzo al Volturno. Quest'ultimo complesso monastico è stato oggetto di scavi tuttora in corso che consentono di tracciarne un quadro dello sviluppo architettonico sulla scorta delle evidenze materiali. Fondato nel 703 con donazione ducale nel ducato longobardo di Benevento, nel corso del IX secolo divenne uno dei capisaldi della penetrazione carolingia nei territori longobardi, con un'estensione di oltre 20 ha a cavallo del fiume Volturno. Oltre alle costruzioni cultuali, riccamente decorate da pitture e rivestimenti marmorei, il complesso venne dotato di un palazzo per gli ospiti con cappella ed oratorio funerario, un refettorio per i monaci e una sala per le assemblee, arricchiti di importanti cicli pittorici, oltre ad impianti artigianali, ad esempio per la produzione del vetro e la lavorazione del metallo, sia temporanei sia, in un secondo momento, permanenti. Dopo successivi ampliamenti e ristrutturazioni, all'inizio del XII secolo il sito venne abbandonato a vantaggio di un nuovo monastero in posizione d'altura, incentrato sulla chiesa principale e difeso da una cinta muraria con torri angolari. Le nuove fondazioni cistercensi e certosine sono frutto di una progettazione più organizzata e complessa, con impianti che, pur rispettando gli schemi condizionanti della vita comunitaria, appaiono più rigidi e modulari nel primo caso, più liberi nel secondo. Il contributo delle indagini archeologiche per queste categorie di edifici si è rivelato particolarmente interessante per la conoscenza dei cicli produttivi ed artigianali che ne caratterizzavano l'economia, come ad esempio la lavorazione della lana a Fountains Abbey (North Yorkshire) e gli impianti metallurgici nell'abbazia gallese di Tintern (Monmouthshire), cenobi fondati entrambi nel secondo decennio del XII secolo. Nello schema cistercense grande importanza assume la strutturazione degli ambiti produttivi, in linea con il ruolo delle attività lavorative imposto dalla regola riformata. Finisce comunque per assumere un valore emblematico e di prototipo la pianta dell'aula di culto ripartita in tre navate con transetto, coro dotato di terminazione rettilinea con cappelle allineate alle estremità, impianto definito dalla storiografia plan bernardin o bernhardinischer Grundtypus e che prevede un alzato variamente articolato. A partire dal XII secolo circa, gli esiti architettonici dell'architettura religiosa occidentale sono ancora apprezzabili nelle città e nelle strutture monastiche e conventuali, in un prosieguo di vita e di funzione che ne ha garantito la sopravvivenza. Il contributo dell'archeologia nella definizione degli impianti romanici è sostanzialmente riservato alla lettura degli alzati, per cogliere le tracce di strutture precedenti o le vicende subite, secondo il metodo stratigrafico, oppure alle indagini degli ambienti annessi, al fine di ricomporne gli assetti architettonici. Ciò non toglie che singoli siti rivelino possibilità di indagini archeologiche importanti ai fini della ricomposizione di complessi più tardi, ma comprensibili solo grazie ad interventi, come nel caso delle indagini nel centro di Assisi, in relazione ai luoghi della tradizione francescana, di pievi rurali dell'Italia settentrionale, di complessi ecclesiastici d'Oltralpe. Ai fini delle ricostruzioni volumetriche e dei moduli decorativi, lo studio si compone strettamente con quello specificatamente storico-artistico.
Oltre agli atti dei Congressi Nazionali e Internazionali di Archeologia Cristiana, si vedano: K. Conant, Carolingian and Romanesque Architecture 800-1200, Harmondsworth 1978; C. Heitz, L'architecture religieuse carolingienne: les formes et leurs fonctions, Paris 1980; P. Testini, Archeologia Cristiana, Bari 1980², pp. 545-751; R. Krautheimer, Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1985⁵; G. Pugliese Carratelli (ed.), Dall'eremo al cenobio, Milano 1987; G. Cantino Wataghin, Monasteri di età longobarda: spunti per una ricerca, in CARB XXXVI (1989), pp. 73-100; M.E. Savi et al., s.v. Architettura in legno, in EAM, II, 1991, pp. 397-406; V. Ascani - G. Binding, s.v. Cantiere, ibid., IV, 1993, pp. 159-75; M. Righetti Tosti-Croce, s.v. Cistercensi. Strutture di produzione, ibid., pp. 852-71; R. Hodges - J. Mitchell (edd.), San Vincenzo al Volturno, I-IV, London 1993- 2000; A.M. Giuntella, Cornus I, 1-2, Oristano 1999-2000 (con bibl. prec.); L. Pani Ermini (ed.), Christiana Loca (Catalogo della mostra), Roma 2000.
di Francesca Romana Stasolla
L'architettura funeraria postclassica è ben nota nelle sue forme pienamente medievali grazie ai numerosi monumenti ancora in elevato, spesso conservatisi all'interno di aule di culto, e ampiamente studiati dagli storici dell'arte. Il contributo dell'indagine archeologica appare determinante invece per i periodi tardoantico e altomedievale, quando le fonti attestano la diffusa presenza di edifici funerari, conservatisi per felici coincidenze o spesso noti attraverso scavi. Non sempre è agevole distinguere le forme dell'architettura funeraria, soprattutto quando queste assumono funzioni e valenze differenti, quando cioè diventano, come nel caso degli edifici destinati ai culti martiriali, monumentalizzazione della sepoltura e contemporaneamente sede e strumento del rito: allora i legami con l'architettura religiosa sono talmente stretti da risultare talora inscindibili e si assiste alla polivalenza delle forme architettoniche e alla concatenazione degli spazi, che si intersecano e si articolano al fine di consentire la celebrazione sia della memoria che del culto. La diffusione del culto dei martiri e la volontà di residenti e pellegrini di trovare sepoltura accanto ai corpi venerati determinarono nelle aree suburbane la nascita di veri e propri nuclei cimiteriali dalle peculiari caratteristiche architettoniche. Il suburbio romano, per la precocità e le dimensioni del fenomeno, costituisce un vero e proprio exemplum, anche per il costituirsi di strutture di ricezione funzionali alla celebrazione dei riti funebri. Alcuni impianti basilicali nascono sicuramente con vocazione funeraria e non liturgica, tanto da essere definiti, almeno tra IV e VIII secolo, coemeteria dal Liber Pontificalis della Chiesa di Roma. Si devono a Costantino alcuni dei primi impianti nei pressi delle sepolture degli apostoli e dei più importanti martiri romani, impianti caratterizzati sul piano architettonico da una particolare icnografia: un'aula basilicale nella quale la navata centrale è circondata dalle due laterali che si congiungono sul retro dell'abside semicircolare in un corridoio anulare. Di tali strutture se ne conoscono con certezza sei, tutte collocate presso i più importanti santuari o nuclei funerari: S. Lorenzo, S. Agnese, S. Sebastiano (Basilica Apostolorum), Ss. Marcellino e Pietro e le basiliche anonime della via Ardeatina e del cimitero di Callisto, cui va aggiunta in via ipotetica quella nei pressi della catacomba di Pretestato. Cronologicamente si collocano tutte nella prima metà del IV secolo, con la supposta eccezione dell'aula laurenziana, per la quale è stata proposta una datazione alla prima metà del V secolo, sotto il pontificato di Sisto III. Le dimensioni particolarmente ampie (66-99,5 × 28-40 m) erano in qualche caso accresciute dalla presenza di portici (Ss. Marcellino e Pietro e la basilica del comprensorio callistiano); sia questi che gli spazi interni erano invasi da sepolture pavimentali. Si è voluto vedere il prototipo di tale impianto nell'architettura circense, donde la denominazione di "circiformi" per queste basiliche, che sovente erano circondate da mausolei, che potevano essere comunicanti con l'aula di culto, nella definizione di uno spazio privo di un punto focale, né liturgico, né celebrativo di una specifica memoria, ma dinamico nella polipercorrenza degli spazi e all'occorrenza utilizzato per il rito del refrigerium collettivo. Il pasto funebre rituale infatti prosegue nel periodo postclassico, servendosi di strutture che vanno dalle semplici mensae addossate alle sepolture a vere e proprie costruzioni, come nel caso della cosiddetta "abside occidentale" a Cimitile. In quest'ultimo caso, proprio le indagini archeologiche hanno consentito di riconoscere in questa struttura, contrapposta e cronologicamente successiva alla basilica di S. Felice, la sede di riti funebri e commemorativi sia in occasione della festa del martire che per i semplici defunti, le cui sepolture affollavano il santuario, riti noti dalle fonti e testimoniati dalla presenza dei resti ributtati all'esterno dell'abside. Anche in ambito catacombale, tale pratica viene rivelata sia dalla presenza di tombe a mensa, sia soprattutto da impianti ad essa specificatamente destinati. È questo il caso ad esempio della grande sala con pozzo e bancali (precedente la metà del IV sec.) originariamente all'aperto, antistante l'Ipogeo dei Flavi, poi inglobata nella catacomba di Domitilla a Roma. Allo stesso scopo era destinato il triclinio scavato nel tufo delle catacombe di Malta, con cratere centrale per la deposizione delle offerte. Edifici con funzione funeraria, veri e propri cimiteri coperti sia pure nelle forme architettoniche di aule di culto, si riscontrano nel periodo paleocristiano ed altomedievale presso alcuni santuari martiriali anche fuori Roma, come nel caso della basilica di S. Tommaso nel complesso feliciano di Cimitile, databile su base stratigrafica tra VI e VII secolo e nella quale le sepolture sono state previste in connessione fisica con le fondazioni della chiesa. Strutture analoghe sembrano essere sorte anche in relazione ad un abitato, come per la basilica di Pianabella ad Ostia e per quella di S. Ilario ad Bivium a Valmontone, entrambe note grazie alle indagini archeologiche. Dal punto di vista architettonico, si tratta di aule basilicali di riutilizzo o di nuova costruzione nelle quali lo spazio appare programmaticamente articolato in sepolture a forno, anche a più piani, che occupano l'intera superficie pavimentale. In ambito monastico, la necessità di circoscrivere uno spazio funerario per i membri della comunità comportò la costruzione di analoghe basiliche appositamente dedicate alle deposizioni. Esempi ben conservati sono rintracciabili sia in Oriente (numerosi i casi siriani, come ad Antiochia, a Qasr al-Gharbi, Qalat Seman, ecc.), sia in Occidente (S. Saba a Roma). Un esempio particolare di chiese in ambiente funerario è costituito dalle basiliche ad corpus, la cui struttura appare fortemente condizionata dalla tomba venerata, che viene a trovarsi sempre sotto l'altare o comunque nell'area absidale, e che per questa ragione talvolta sono semi- ipogee. In molti casi questa costruzione rappresenta la prima monumentalizzazione architettonicamente rilevante della sepoltura, anche se nella maggior parte dei casi l'aula di culto assume connotazioni liturgiche. Dal punto di vista strutturale, però, questi martyria rispondono ai canoni della coeva architettura funeraria, e almeno in alcuni casi appare evidente la volontà di distinguere l'aspetto legato alla memoria da quello liturgico. Già all'inizio del IV secolo, presso Salona, il mausoleo di Asclepia prevedeva due livelli, l'inferiore destinato ad ospitare le spoglie del martire Anastasio e il superiore funzionale alla liturgia, con l'altare posto in corrispondenza della sepoltura venerata; questa articolazione spaziale si ritrova in epoca appena successiva anche in altri siti dell'area balcanica (Pécs, Travnik, ecc.). Un'estensione di questo concetto si attua con la realizzazione di basiliche destinate ad ospitare non i corpi santi, ma le reliquie, la cui valenza simbolica si esprime in maniera pregnante nell'esempio delle quattro costruzioni ambrosiane a Milano, disposte a croce a difesa della città. Il primo e più significativo esempio di costruzione funeraria dedicata alla memoria è rappresentato dalla chiesa costantinopolitana dedicata agli apostoli, in realtà una sorta di martyrium a pianta cruciforme destinato ad accogliere le reliquie degli apostoli e le spoglie dello stesso imperatore. La stessa pianta ricorre in edifici sia orientali, ad esempio il martyrium di S. Babila ad Antiochia, che occidentali, come nel caso delle chiese milanesi degli Apostoli e di S. Simpliciano. La pianta cruciforme, nel suo pregnante significato cristologico, ben si prestava a questo tipo di edifici, che all'incrocio dei bracci accoglievano le memorie dei martiri, imagines Christi, per altro ben visibili da ogni parte della struttura. Un esempio particolarmente eclatante è costituito dal santuario siriaco di Qalat Seman, dedicato a s. Simeone Stilita, nel quale al centro ottagonale sorge la colonna venerata. I bracci, spazi secondari, potevano essere utilizzati in vario modo, ad esempio per ospitare l'altare, essere suddivisi in navate, avere terminazione rettilinea o absidata. Dipendono dalla coeva architettura funeraria con schema a pianta centrale anche edifici memoriali come la Basilica della Natività a Betlemme e il santuario del Monte degli Ulivi. L'esempio più caratteristico è costituito comunque dall'Anastasis di Gerusalemme, voluta da Costantino sul sepolcro di Cristo, che si innalzava sotto un baldacchino al centro del monumento a pianta circolare con deambulatorio esterno. In questo filone vanno considerate anche le strutture edificate per ospitare le reliquie venerate in urbe quando, a partire dalle guerre greco-gotiche, le condizioni del suburbio apparvero precarie sia per l'integrità dei corpi santi che per la sicurezza dei devoti, in un processo che troverà a Roma in Pasquale I (817-824) il più attivo realizzatore. A tale pontefice si devono, tra l'altro, la costruzione della cappella di S. Zenone, realizzata quasi interamente con materiale di spoglio in parte rilavorato, annessa alla chiesa di S. Prassede con le stesse modalità architettoniche che in altri contesti legano i mausolei all'edificio di culto principale. Dalla monumentalizzazione della sepoltura venerata e dalla corrispondenza tra questa memoria e la celebrazione liturgica che si svolge sull'altare immediatamente sovrapposto nasce la creazione delle cripte al di sotto degli altari. Se ne hanno esempi già in ambiente catacombale, come nel cimitero romano ad duas lauros, in connessione con le seppolture dei ss. Marcellino e Pietro, negli anni attorno al 330- 340. Appare comunque evidente il rapporto tra basiliche funerarie e/o liturgiche, mausolei e cripte in complessi ormai noti anche grazie a indagini archeologiche globali (ad es., S. Lorenzo a Grenoble), in qualche caso con mutamenti funzionali che consentono ad un mausoleo di essere trasformato in cripta, come a S. Gervasio a Ginevra. Più isolate rispetto al complesso funerario sono le cripte semianulari, inaugurate da Gregorio Magno per S. Pietro in Vaticano e poi ampiamente diffuse in relazione alle reliquie venerate ricondotte in urbe. Un aspetto particolare di architettura "in negativo" è dato dalle catacombe, cimiteri sotterranei che, pur non essendo di origine specificatamente cristiana, vennero intensamente sviluppati a partire dalla fine del II secolo e soprattutto dalla pace religiosa (313) da parte della Chiesa nascente, complici anche l'incremento demografico e il prevalere della pratica dell'inumazione. L'uso delle catacombe si diffuse nelle aree dove la costituzione geologica ben si adattava allo scavo di gallerie, che sovente utilizzarono, riadattandoli, cave di arenaria (catacomba di Priscilla a Roma) e cunicoli idraulici (catacomba di S. Giovanni a Siracusa), oppure ipogei precedenti (di età punica nel caso di S. Antioco in Sardegna). Se ne conoscono esempi, oltre ai celeberrimi casi romani, nell'Italia centro-meridionale (Venosa), a Malta, nel Nord Africa, in Palestina, sia in ambito cristiano che giudaico. Le gallerie, cui si accedeva mediante una scala o più raramente a livello del terreno, mediante un ingresso scavato alle falde di un rilievo, avevano una disposizione diversa, a seconda del tipo di terreno e dell'eventuale sfruttamento di preesistenze, quali condotte idriche o nuclei ipogei precedenti. Alle sepolture in semplici loculi scavati sui lati delle gallerie si alternano strutture più curate, sempre prodotte in negativo, mediante escavazione, o con integrazioni murarie che hanno dato luogo ad ambienti come il mausoleo funerario della catacomba di Pretestato a Roma e la Cappella Greca nel cimitero di Priscilla o a soluzioni sepolcrali particolari, quali i baldacchini dei cimiteri a Malta e in Sicilia e della catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro a Roma, oppure le teorie di sarcofagi scavati nella roccia della "rotonda dei sarcofagi" dell'ipogeo di S. Lucia a Siracusa. In qualche caso la presenza di strutture aggiunte arricchisce e completa i risultati dell'escavazione, come a Milo, in Grecia, dove arcosoli familiari, intonacati e decorati ad affresco, dotati di nicchie per le lampade, presentano una chiusura con transenne su pilastri. Alcune di queste necropoli ipogee potevano essere segnalate in superficie da ingressi monumentali o da scale di accesso, come ad esempio in Siria (Qalat Kalota, Ruwayha), dove la diffusa pianta quadrata prevede coperture a cupola o cuspidate, nella connessione inscindibile tra le sepolture del piano inferiore e la monumentalizzazione in superficie (mausoleo di Diogene ad Hass). Nella medesima regione, tentativi di monumentalizzazione di sepolture più modeste sono rappresentati da sarcofagi su base rialzata e copertura cuspidata. Sviluppo particolarmente esteso in superficie, sia pure su un nucleo di partenza ipogeo, ha il complesso che costituisce il santuario dei Sette Dormienti ad Efeso, con sale absidate ed arcosoli. Attorno ai complessi martiriali, in necropoli subdiali o ipogee di ampie dimensioni o anche nell'isolamento di residenze auliche sorgono svariati tipi di mausolei e cappelle funerarie, la cui icnografia varia dalla semplice pianta absidata a forme più complesse (polilobate, a triconco, ecc.). I mausolei tardoantichi non si discostano tipologicamente dai precedenti romani: è questo il caso soprattutto di quelli legati a personaggi di rango imperiale. In età tetrarchica si diffonde il modello che si ispira al Pantheon, posto in connessione con altre strutture comunque di rappresentanza, come avviene ad esempio presso i palazzi di Diocleziano a Spalato e di Galerio a Salonicco, all'inizio del IV secolo. Questi schemi costruttivi e, per quanto riguarda strettamente i mausolei ad essi collegati, icnografici ricorrono nel corso dello stesso secolo a Roma, nel mausoleo di Romolo e in quello legato alla villa dei Gordiani sulla via Prenestina, e in Spagna, a Centcelles, presso Tarragona. Del monumento funerario di Romolo, voluto da suo padre Massenzio nel complesso palaziale lungo la via Appia, resta il solo piano inferiore dei due livelli previsti; è a pianta circolare e percorso internamente da un corridoio anulare. La struttura funeraria catalana, nata sull'impianto di una villa di II secolo, prevede un'aula quadrata all'esterno e circolare con nicchie lungo le pareti all'interno, cupolata, con mosaici che rappresentano scene di caccia ed episodi vetero- e neotestamentari e con ogni probabilità era destinata ad accogliere le spoglie di Costante II. Una tappa importante nell'evoluzione concettuale dei mausolei prevede non solo mutamenti icnografici, quanto piuttosto nuove connessioni, in relazione alle aule di culto cristiane e ai santuari martiriali. Gli esempi più noti si devono a Costantino e alla sua famiglia: il mausoleo di Costanza, figlia dell'imperatore, annesso alla basilica circiforme di S. Agnese sulla via Nomentana; il mausoleo di Elena, legato ad un'analoga chiesa dedicata ai Ss. Marcellino e Pietro sulla via Labicana. Quest'ultimo si conserva quasi integralmente nelle sue forme originarie, con pianta circolare preceduta da un atrio a forcipe, deambulatorio interno voltato a botte, copertura a cupola e decorazione musiva con scene dal Vecchio Testamento, Traditio Legis e Traditio Pacis, oltre a scene di genere. La pianta centrale viene utilizzata anche nel caso di mausolei ipogei, come in quello di Tipasa, edificato nel IV secolo come camera funebre vescovile, con sarcofagi posti in arcosoli ricavati nelle pareti. A pianta ottagonale era il mausoleo attribuito a Massimino, rinvenuto nell'area della necropoli paleocristiana di S. Vittore a Milano, oltre agli ambienti annessi a S. Lorenzo Maggiore, nella medesima città, che si suppone fossero originariamente mausolei e che presentano nicchie alternate circolari e rettangolari. Un ovale trasformato in ottagono mediate l'aggiunta di lobi laterali viene utilizzato per il mausoleo di Pécs in Pannonia (V sec.). Connotazione imperiale ha anche il mausoleo annesso alla basilica di S. Croce a Ravenna, a pianta cruciforme e con ricca decorazione musiva, voluto da Galla Placidia nella prima metà del V secolo per sé e per esponenti della sua famiglia; anch'esso si presenta ormai saldamente connesso con l'aula di culto, sia sul piano strutturale che per sintassi decorativa, a conferma delle nuove direttrici cultuali date dal cristianesimo. Pianta basilicale mononave presentano piccoli ambienti funerari ad al-Bahnasa; sempre in Egitto, la necropoli sviluppatasi nei pressi del monastero di Bawit prevede anche cappelle funebri di modeste dimensioni, con interessante decorazione dipinta. L'omogeneità di modelli architettonici appare evidente ad esempio nella necropoli di al-Bagawat, dove i mausolei cristiani possono essere identificati solo se recano simboli cristologici inequivocabili. Annessi alle strutture liturgiche compaiono tra IV e V secolo piccoli edifici funerari a pianta cruciforme, a tricora, rettangolare anche nell'Europa centrale, con volta a botte o cupolati in Egitto (Bawit). Alcune cappelle finiscono per ospitare le spoglie vescovili, ad esempio a Ravenna. Si differenzia dai prototipi romani il mausoleo di Teodorico, voluto a Ravenna dal re goto nella prima metà del VI secolo. Tale differenza si esplica non tanto nella pianta centrale cupolata, con una teoria di arcate che articolano il piano inferiore, quanto piuttosto nella tecnica costruttiva, che prevede l'uso di conci litici uniti a secco e la cupola monolitica. A partire dal VI e soprattutto dal VII secolo la diffusione delle sepolture urbane comportò l'utilizzo di spazi legati alle aule di culto (portici in Britannia e in Gallia) e soprattutto la costruzione di cappelle funerarie annesse agli edifici di culto. Le sepolture più importanti finirono con l'invadere gli spazi interni delle chiese urbane (ad es., l'abbazia di Westminster a Londra, St.-Denis a Parigi, il duomo di Monreale) o monastiche (ad es., St.-Étienne a Caen, il monastero di S. María la Real de Huelgas ad Oviedo), fino a trasformarle in veri e propri templi dinastici. Dal IX secolo, si diffondono le cappelleossari (come quella dell'abbazia di Fulda), che nei due secoli successivi nei Paesi d'Oltralpe, soprattutto in Germania, in Austria, in Svizzera, sono edificate contigue alle chiese.
A. Grabar, Martyrium, Paris 1946; P. Testini, Le catacombe e gli antichi cimiteri cristiani di Roma, Bologna 1966; Id., Archeologia Cristiana, Bari 1980²; R. Chapmann - I. Kinnes - K. Randsborg (edd.), The Archaeology of Death, Cambridge 1981; Y. Duval - J.-Ch. Picard (edd.), L'inhumation privilégiée du IVe au VIIe siècle en Occident. Actes du Colloque (Créteil, 16-18 mars 1984), Paris 1986; Y. Duval, Auprès des Saints corps et âme. L'inhumation "ad sanctos" dans la chrétienté d'Orient et d'Occident du IIIe au VIIe siècle, Paris 1988; W. Gaddoni, Il mausoleo di Teodorico, Ravenna 1990; M. Torelli, Le basiliche circiformi di Roma: icnografia, funzione, simbolo, in G. Sena Chiesa - E.A. Arslan (edd.), Felix Temporis Reparatio. Atti del Convegno Archeologico Internazionale (Milano 1990), Milano 1992, pp. 203-17; M. Delle Rose, s.v. Cimitero, in EAM, IV, 1993, pp. 770-85; N. Duval - C. Bozzoni, s.v. Cappella, ibid., pp. 229-46; M. Delle Rose, s.v. Mausoleo, ibid., VIII, 1997, pp. 274-80; Ph. Pergola, Le catacombe romane. Storia e topografia, Roma 1997.
di Enrico Zanini
I caratteri propri dell'impero bizantino, la cui vicenda si sviluppò su un arco cronologico di oltre undici secoli (tra il IV e il XV sec.) e su un'area territoriale assai vasta e in continua trasformazione, rendono assai problematico individuare e definire caratteristiche unitarie comuni alla sua produzione architettonica, sia riguardo ai materiali e alle tecniche edilizie prevalentemente impiegati, sia riguardo alla tipologia funzionale degli edifici, sia infine all'evoluzione in senso diacronico dei principali tipi architettonici. A una conoscenza sistematica dell'architettura bizantina sotto il profilo archeologico si frappongono poi ostacoli dettati dal livello qualitativo e quantitativo degli edifici conservati e dallo stato di avanzamento della ricerca nei diversi settori. Il patrimonio architettonico bizantino è infatti rappresentato in larga misura dall'edilizia religiosa e in particolare dalle chiese, la cui sopravvivenza e la cui continuità funzionale come luoghi di culto sono state spesso assicurate dalla trasformazione in moschee dopo la conquista islamica. Ben attestate sono poi le architetture a diverso titolo collegate con le installazioni militari, presenti in quasi tutto il territorio imperiale, giacché praticamente tutte le regioni storiche dell'impero si trovarono, in tempi e circostanze diversi, ad assumere il ruolo di aree di frontiera. Almeno nei centri maggiori e in primo luogo a Costantinopoli si conserva poi qualche traccia dell'edilizia residenziale delle élites dominanti, mentre assai più limitate ‒ anche in ragione delle spoliazioni subite dalla capitale in occasione del saccheggio crociato del 1204 e della conquista ottomana del 1453 ‒ sono le testimonianze relative all'arredo monumentale urbano, la cui entità e le cui caratteristiche principali possono comunque essere ricostruite attraverso le fonti. Assai più rari sono le fonti e i dati archeologici relativi ad altri aspetti della produzione architettonica bizantina, in primo luogo per quel che concerne l'edilizia residenziale urbana delle classi intermedie e inferiori, ma anche per tutto quel che riguarda le infrastrutture di servizio (strade, pozzi, acquedotti, con qualche significativa eccezione per le cisterne) e più in generale tutte le espressioni architettoniche a destinazione eminentemente funzionale, per le quali la mancanza di caratteri monumentali ha agevolato il continuo reimpiego degli spazi, delle strutture e dei materiali. In parte diversa si presenta invece la situazione per quel che riguarda l'edilizia residenziale e a destinazione produttiva dei centri rurali in alcune regioni periferiche dell'impero, dove la progressiva desertificazione di vaste aree (ad es., l'altopiano calcareo della Siria settentrionale o l'area subdesertica del Negev, in Israele) ha determinato già in antico l'abbandono di numerosi insediamenti e la nascita delle cosiddette "città morte", che offrono un immenso materiale di studio per indagini sistematiche sull'architettura minore della prima età bizantina.
L'indagine archeologica sulla produzione architettonica nel mondo bizantino può avvalersi anche di un corpus di fonti relativamente ricco e articolato, che offre informazioni su singoli edifici, ma anche preziose indicazioni sulle tecniche costruttive, sui materiali impiegati, sui procedimenti tecnici seguiti nelle fasi di progettazione e realizzazione dei manufatti architettonici e sulle specifiche competenze delle maestranze coinvolte nella costruzione. Testo fondamentale per la prima età bizantina è il De aedificiis di Procopio di Cesarea, redatto alla metà del VI secolo, in cui vengono enumerati e spesso descritti in dettaglio gli edifici fatti costruire dall'imperatore Giustiniano. Nonostante appaia in più punti fortemente segnato dalla volontà di sottolineare e celebrare la magnificenza dell'evergetismo imperiale, il trattato di Procopio costituisce tuttavia una guida preziosa per ricostruire edifici perduti o pesantemente modificati in epoca successiva e offre nel contempo una messe di informazioni di dettaglio sulle scelte progettuali e sulle procedure realizzative dei singoli edifici. Per l'epoca mediobizantina, numerose notizie sugli edifici monumentali della capitale possono essere ricavate dall'analisi del trattato sul cerimoniale di corte (De caerimoniis aulae Byzantinae), redatto alla metà del X secolo dall'imperatore Costantino VII Porfirogenito, che offre un'interessantissima visione "dall'interno" degli ambienti architettonici in cui si svolgono le cerimonie stesse. Distribuite su tutto l'arco cronologico della vicenda bizantina sono poi le notizie su singoli edifici e monumenti ricavabili dalle fonti archivistiche o da altri documenti. La ricchezza degli archivi imperiali ha lasciato solo poche tracce ‒ ma del massimo interesse proprio in relazione alla produzione architettonica minore ‒ negli atti privati trascritti su papiri in Egitto (fino alla metà del VII sec.) e nella cancelleria ravennate (fino alla metà dell'VIII sec.), ove sono spesso contenute descrizioni molto dettagliate di edifici di diversa tipologia oggetto di transazioni commerciali. Descrizioni dei caratteri costruttivi di singoli edifici pubblici o privati possono poi essere rintracciate in testi di diversa natura (agiografici, giuridici, storici, ecc.), tra cui spiccano per la loro rilevanza gli atti di fondazione (typikà) dei monasteri urbani di epoca medio- e tardobizantina, che contengono spesso elenchi molto dettagliati degli edifici che compongono il monastero e delle pertinenze esterne assegnate alla fondazione dal donatore. Questi documenti, che rimangono in larga misura inediti, attendono ancora un'analisi sistematica, anche se i primi tentativi di sintesi evidenziano la potenzialità informativa di queste fonti.
L'estensione geografica e temporale dell'impero costantinopolitano implica che nella produzione architettonica propria delle diverse regioni e delle diverse epoche siano impiegati materiali, tecniche e procedimenti costruttivi anche profondamente differenti. Per quel che riguarda i materiali, i resti archeologici e le fonti testimoniano dell'uso della pietra, più o meno lavorata, del laterizio (sia sotto forma di mattoni che di tegole per le coperture), del legname e perfino della paglia, ampiamente utilizzata, soprattutto nelle regioni periferiche per le coperture degli edifici più semplici. L'ampio ricorso a strutture lignee per la realizzazione di edifici a destinazione residenziale anche in ambiente urbano è frequentemente testimoniato dalle fonti e in particolare dalle norme dirette a regolamentare l'impiego di questo materiale e la distanza minima tra gli edifici al fine di ridurre gli effetti degli incendi che periodicamente devastavano Costantinopoli e le altre grandi città dell'impero. Per quel che riguarda invece i materiali più solidi, i resti archeologici testimoniano, almeno per l'epoca protobizantina e soprattutto per le grandi fasi edilizie legate all'attività degli imperatori evergeti del VI secolo (Anastasio e Giustiniano in particolare), una sorta di bipartizione del territorio imperiale in due grandi aree di diversa cultura costruttiva, legate rispettivamente all'uso pressoché esclusivo della pietra da taglio ‒ lungo un arco che va dall'Africa settentrionale, all'Egitto, all'area siro-palestinese, all'Asia Minore e che comprende anche la Grecia peninsulare ‒ e all'impiego altrettanto esclusivo del laterizio, particolarmente diffuso nella regione costantinopolitana, nella Grecia continentale, nella Penisola Balcanica, mentre una cultura costruttiva più eterogenea, fortemente legata alle tradizioni locali, sembra cominciare a delinearsi per le regioni bizantine d'Italia. Per quanto attiene alle tecniche costruttive, fin dai primi secoli della vicenda bizantina si devono registrare la netta rottura con la tradizione edilizia romana ‒ soprattutto per quel che riguarda la muratura laterizia ‒, il parallelo recupero dei modelli costruttivi della tradizione greco-ellenistica e, soprattutto nelle regioni periferiche (in particolare in Siria e in Armenia), una forte continuità con le tradizioni costruttive locali, segnate dalle peculiarità dei materiali impiegati. Nel campo della muratura laterizia gli elementi di più sensibile rottura con la tradizione romana appaiono costituiti dall'abbandono della tecnica a cortina e concrezione, dall'adozione di mattoni quadrati e dalle soluzioni di posa in opera. Gli edifici in laterizio di epoca protobizantina presentano dunque muri pieni, costituiti da una o più file complanari di mattoni per tutto lo spessore del muro, con i singoli filari separati da spessi letti di malta, normalmente di altezza pari o superiore a quella dei mattoni. I mattoni sono di dimensioni piuttosto variabili con un campo di oscillazione normalmente compreso tra i 35 e i 38 cm di lato, per uno spessore di 4-5 cm; la malta appare generalmente di qualità piuttosto scadente, molto friabile, ricca di sabbia, ghiaia e frammenti laterizi. Negli edifici in laterizio della prima epoca bizantina, soprattutto in ambiente urbano, i mattoni sono abbastanza frequentemente bollati ed è stato calcolato che nel V e nel VI secolo la percentuale di mattoni recanti un bollo arrivi intorno all'1% di quelli complessivamente impiegati. I bolli laterizi bizantini, che non sono stati ancora studiati estensivamente, sembrano poter essere suddivisi in tre grandi tipi principali: quelli anepigrafi, particolarmente attestati negli edifici religiosi di epoca giustinianea; quelli monogrammatici, che presentano spesso strette analogie con i contemporanei sigilli; quelli rettangolari che recano iscrizioni più o meno lunghe, indicanti in qualche caso il nome dell'edificio a cui erano destinati (ad es., quelli con l'iscrizione relativa a una Grande Chiesa, evidentemente riservati alla S. Sofia giustinianea), in altri casi il nome del committente, assai spesso una datazione indizionale in forma molto abbreviata e, forse, il nome del responsabile della fabbricazione. Per quel che riguarda la cronologia e la diffusione territoriale, la muratura laterizia appare caratterizzare gli esordi dell'architettura pubblica nella capitale imperiale fin dalla metà del V secolo (chiesa di S. Maria Chalkoprateia), per divenire normativa negli edifici religiosi e civili dell'epoca giustinianea (chiese dei Ss. Sergio e Bacco e di S. Sofia; coperture delle grandi cisterne sotterranee). In ambito urbano, la tecnica laterizia appare frequentemente impiegata in associazione con la pietra da taglio nella tipica apparecchiatura a corsi alternati che caratterizza tanto gli edifici religiosi (chiesa del monastero di S. Giovanni di Studio) quanto le imponenti opere pubbliche (in primo luogo le mura teodosiane). Al di fuori di Costantinopoli, la tecnica laterizia appare impiegata nell'area danubiana, sia nelle fortezze del limes sia nei centri dell'entroterra (ad es., a Caričin Grad-Iustiniana Prima), e nell'area di Salonicco; nelle regioni orientali essa appare invece diffusa soltanto nei territori posti sotto una più diretta influenza di Costantinopoli, in particolare nell'Anatolia nord-occidentale, mentre le sporadiche attestazioni del laterizio nella Siria settentrionale appaiono quasi esclusivamente in relazione con l'architettura militare e con la diretta committenza imperiale, ponendo così in risalto il ruolo avuto dall'esercito nella diffusione della cultura materiale anche su lunghe distanze. La muratura in pietra da taglio è largamente diffusa, come si è detto, soprattutto nelle regioni orientali e meridionali dell'impero protobizantino ed appare attestata in un buon numero di varianti tipologiche riconducibili a due classi principali, rappresentate dalla muratura piena in opera quadrata e dalla muratura a doppia cortina con nucleo interno in conglomerato cementizio. La prima tecnica, particolarmente diffusa nell'area siro-palestinese e nell'Africa settentrionale, soprattutto nel caso di edifici di piccole e medie dimensioni, riprende fedelmente i moduli costruttivi e le tecniche di finitura della tradizione ellenistica, distinguendosi spesso dalla muratura degli edifici più antichi solo per un uso spesso estensivo di materiali di reimpiego. La scelta del tipo di pietra impiegata nelle diverse zone sembra dettata unicamente dalla disponibilità di cave nelle immediate vicinanze: stante la natura del terreno in Africa settentrionale e nella regione siro-palestinese prevalgono così nettamente i calcari sedimentari, ma in alcune aree interne della stessa Siria (ad es., nella regione di Diyarbakır, nella Turchia meridionale, o nell'Hauran) l'affiorare di banchi di pietra basaltica determinò un uso estensivo di questo materiale da costruzione. In alcune zone della stessa regione (ad es., nel Massiccio Calcareo o ancora nell'Hauran), stante la limitatissima disponibilità di legname, la pietra da taglio venne largamente impiegata anche per la realizzazione di coperture, sotto forma di lastroni piani o di trabeazioni per coperture piramidali, o anche per la realizzazione dei serramenti di porte e finestre. La tecnica a doppia cortina con conglomerato interno appare diffusa, nelle stesse regioni, soprattutto per opere murarie di grandi dimensioni (ad es., nelle cinte fortificate): in essa risulta quasi sempre prevalente l'uso di materiali di reimpiego più o meno rilavorati, mentre variano da zona a zona le soluzioni tecniche adottate per la posa in opera dei blocchi delle cortine in rapporto al conglomerato interno. La bipartizione territoriale tra "area del laterizio" e "area della pietra" sembra definitivamente superata in epoca mediobizantina, quando si determinarono le condizioni per una sostanziale omogeneizzazione anche in questo campo della cultura materiale bizantina. L'edilizia dell'impero greco-anatolico tra l'VIII e il XII secolo appare dunque caratterizzata da un netto prevalere della muratura in laterizio nei grandi centri urbani e comunque negli edifici di alto livello e da un generale affermarsi dell'uso di una muratura mista di pietra e laterizio nelle regioni periferiche e negli edifici a più semplice destinazione funzionale. L'architettura costantinopolitana di quest'epoca, nota solamente attraverso i pochi edifici religiosi superstiti, è caratterizzata dall'uso esclusivo del mattone, al principio impiegato ancora secondo le tecniche costruttive tradizionali dell'epoca protobizantina. Una netta cesura tipologica si registra nella seconda metà del X secolo o agli inizi del successivo, quando si diffonde rapidamente l'apparecchiatura cosiddetta "a mattone arretrato", realizzata disponendo alternatamente i filari di mattoni su due piani sfalsati e mascherando i filari arretrati con robuste lisciature di malta, tanto da dare l'impressione che i mattoni a vista siano legati da uno strato di malta di abnorme spessore. Questa tecnica, di indubbia origine costantinopolitana ‒ anche se la prima testimonianza materiale conservata in ambito urbano (chiesa di S. Giorgio alle Mangane) risale solo alla metà dell'XI secolo ‒ si diffuse con eccezionale rapidità un po' in tutte le regioni dell'impero, dalla Russia, ai Balcani, alla Grecia e all'Anatolia nord-occidentale, dove si trova attestata soprattutto in edifici in diretta o indiretta relazione con la committenza degli imperatori della dinastia dei Comneni e offre quindi un'eccellente testimonianza della rete di relazioni culturali che legava le diverse regioni dell'impero in quest'epoca. Anche in età comnena, come cinque secoli prima, all'epoca di Anastasio e Giustiniano, Costantinopoli costituiva dunque il centro propulsore di una cultura architettonica comune, alimentata dalla diffusione periferica di modelli e soluzioni elaborate centralmente e dallo spostamento di progettisti e maestranze nelle diverse regioni. Parallelamente a questo circuito direttamente collegato con la capitale imperiale, la produzione architettonica di epoca mediobizantina appare caratterizzata, soprattutto nella periferia e negli edifici di minore rilevanza monumentale, dall'adozione di una muratura mista, in pietra e laterizio, segnata ancora una volta da un larghissimo uso di materiali di reimpiego. Questa tecnica si ritrova attestata in tutte le regioni dell'impero, in una vasta gamma di varianti tipologiche che vanno dalle murature più irregolari di pietra appena sbozzata frammiste a pochi laterizi, spesso frammentari, a quelle con più regolare alternanza di conci di pietra e filari di laterizi (particolarmente attestate in area anatolica), fino ad arrivare alle apparecchiature a cloisonné, soprattutto diffuse in Grecia, in cui i mattoni sono disposti a incorniciare i singoli blocchetti di pietra con maggiore o minore regolarità e spesso raggiungendo rilevanti effetti estetici. Questo tipo di muratura mista in pietra e laterizio caratterizza, pure in questo caso con diverse varianti, anche la produzione architettonica di epoca tardobizantina, con una continuità così spiccata rispetto all'epoca precedente da rendere talvolta difficoltosa una datazione dei singoli edifici su sola base tipologica. In epoca paleologa scompare invece praticamente del tutto la muratura in laterizio cosiddetta "a mattone arretrato" (anche se l'uso di incorporare filari di spezzoni laterizi nei giunti di malta delle murature miste continua ad essere una soluzione tecnica frequentemente adottata), che appare sostituita, almeno negli edifici di maggior pregio, riconducibili alle committenze più elevate, da una muratura a fasce alternate di blocchetti di calcare, per lo più di reimpiego ma accuratamente tagliati e apparecchiati, e di filari di laterizi (nuovi o anch'essi di reimpiego), secondo un ritmo regolare e spesso più volte variato nelle diverse parti di un singolo edificio, che esalta fortemente l'effetto decorativo della bicromia.
La decorazione parietale fu sempre concepita come completamento indispensabile della costruzione: se la decorazione degli esterni, realizzata appunto attraverso l'articolazione delle superfici con aperture e nervature, ma anche facendo ricorso a inserti decorativi in laterizio e in ceramica smaltata, è una caratteristica peculiare dell'architettura religiosa e residenziale dell'epoca medio- e soprattutto tardobizantina, già a partire dai primi secoli dell'impero costantinopolitano si pose una speciale attenzione alla decorazione degli interni, dove praticamente ogni superficie visibile appare ricoperta da pitture ad affresco, da mosaici e da altri materiali più o meno pregiati. Oltre a essere utilizzato per molte delle strutture interne (colonne, cornicioni, architravi), il marmo veniva impiegato per la realizzazione di elementi di decorazione architettonica (capitelli, lastre di recinzione, ecc.) e anche per la decorazione parietale, tagliato in sottili lastre applicate alla parte bassa dei muri, con le venature congiunte a formare complessi giochi di linee. Per la realizzazione di tutti questi elementi vennero impiegati marmi di diversa origine e di diverso pregio, ma quello utilizzato più estensivamente fu il proconnesio, prodotto nelle cave del Mar di Marmara ed esportato in tutte le regioni dell'impero.
Nonostante il tasso di conservazione delle strutture sia certamente più basso che non nell'architettura religiosa, l'architettura civile bizantina ‒ oggetto di specifica indagine archeologica solo negli ultimi decenni ‒ è ormai sufficientemente conosciuta almeno nelle sue tipologie fondamentali, tanto nel campo dell'edilizia residenziale, sia ordinaria che privilegiata, quanto in quello dell'edilizia a destinazione funzionale, sia pubblica che privata. Erede della tradizione greco-romana, l'architettura residenziale bizantina si sviluppò, soprattutto nei suoi primi secoli, a partire dalla continuità dei modelli antichi e tardoantichi tanto nelle residenze urbane (palatium, domus, insula) quanto in quelle rurali. Il panorama dei centri urbani era in larga misura dominato dalle grandi insulae a più piani, a proposito delle quali rimangono significative testimonianze nelle fonti (soprattutto per quanto riguarda la regolamentazione della loro altezza massima e delle tecniche costruttive da impiegare al fine di limitare i danni in caso d'incendio) e di cui sono stati scavati alcuni esempi ad Alessandria d'Egitto, dove fino all'invasione araba del VII secolo è documentata la continuità della tipologia di derivazione classica, con una corte centrale lunga e stretta, intorno a cui si disponevano ambienti con diversa funzione. Analoga continuità denuncia il tipo della domus urbana, che continua ad essere mantenuta nelle sue strutture nel caso delle città di tradizione antica e che viene riproposta nelle medesime forme anche nei centri urbani di nuova formazione, come testimoniano ad esempio le residenze privilegiate urbane di Iustiniana Prima. A un quadro di sostanziale raccordo con la tradizione tardoantica rimanda anche la tipologia dei palatia imperiali, che in epoca protobizantina tendono a moltiplicarsi (la Notitia urbis Constantinopolitanae, del secondo quarto del V sec., ne elenca cinque, cui sono da aggiungere i quattro fatti erigere da Giustiniano) e a costituire una sorta di rete di cui entrano a far parte anche le residenze privilegiate (oikoi) dei più alti esponenti dell'aristocrazia. Al di fuori delle città, la persistenza delle tipologie residenziali antiche si riscontra anche nelle abitazioni rurali, com'è testimoniato dagli esempi indagati archeologicamente nella regione del Massiccio Calcareo (Siria settentrionale), dove si registra l'affermarsi di un tipo di casa relativamente articolata, con una serie di ambienti disposti, con maggiore o minore regolarità, intorno a un cortile centrale porticato su uno o più lati. La grave crisi della fine del VI e del VII secolo, che comportò un sensibile mutamento dello stesso modello urbano della città bizantina, determinò trasformazioni anche nell'edilizia residenziale, che assunse caratteri di maggiore precarietà in tutte le sue manifestazioni (frammentazione degli spazi, tamponatura di porticati per ricavarne vani, utilizzo di tecniche edilizie più povere), con ricorso estensivo al reimpiego degli spazi, delle strutture e dei materiali, come stanno a testimoniare i resti di abitazioni ricavate all'interno di monumenti pubblici preesistenti tanto in città di tradizione antica, come Palmira o Apamea, quanto in città nuove come Iustiniana Prima. Lo sviluppo dell'edilizia residenziale bizantina nelle epoche successive può essere seguito in maniera meno sistematica alla luce dei pochi dati archeologici disponibili e delle sparse notizie nelle fonti: abitazioni urbane di età medio- e tardobizantina sono state scavate solo nell'area greca e lungo la costa dell'Asia Minore, sui siti di Atene, Corinto, Mistrà e Pergamo. I primi due casi documentano, per il XXII secolo, l'affermarsi di una tipologia sostanzialmente unitaria, con abitazioni individuali che si sviluppano intorno a un cortile talora anche relativamente ampio, lungo uno o più lati del quale si dispongono su di un solo piano semplici ambienti rettangolari, talvolta comunicanti tra loro e destinati ad assolvere ciascuno una specifica funzione. Poste all'interno di città assai meno popolate e dal tessuto insediativo assai più diradato rispetto al passato, anche le residenze urbane appaiono assumere in questa fase aspetti propri delle tipologie rurali, e sono quindi caratterizzate dall'isolamento rispetto allo spazio esterno, ottenuto attraverso una recinzione costituita in parte dagli ambienti perimetrali ‒ che si aprono solo verso il cortile ‒ e in parte da un muro di cinta in cui si apre l'unico e stretto portale. L'epoca tardobizantina sembra denunciare invece una nuova articolazione delle tipologie residenziali: da un lato va infatti riconosciuta una continuità dei tipi mediobizantini, che appaiono ancora ben attestati nel XIII e XIV secolo a Pergamo e la cui vitalità un po' in tutta la regione anatolica è indirettamente dimostrata dalla sopravvivenza di tali tipologie in quell'area anche in epoca postbizantina e moderna; dall'altro, nella Grecia occidentale, il sito di Mistrà attesta un profondo innovamento delle tipologie, con l'affermarsi di edifici più compatti, a pianta rettangolare allungata, disposti su due piani e con tetto a doppio spiovente, che rivelano più di qualche contatto con la contemporanea cultura architettonica del Medioevo occidentale. Le trasformazioni dei modelli residenziali possono essere seguite anche attraverso l'evoluzione tipologica delle residenze di rango, a partire dai mutamenti subiti dagli stessi palazzi imperiali. Il X secolo segna il primo radicale mutamento nella struttura fisica e concettuale del Grande Palazzo imperiale di Costantinopoli che, dotato di una autonoma cinta difensiva per volontà dell'imperatore Niceforo II Foca (963-969), perde definitivamente il suo carattere tardoantico di residenza aperta, per acquisire un carattere più spiccatamente medievale di residenza fortificata e particolarmente difesa rispetto alla città. Questo significativo mutamento di prospettiva prelude al progressivo abbandono del gigantesco palazzo, cui rimangono annesse solo funzioni simboliche, mentre la vera residenza imperiale viene trasferita, a partire dalla fine dell'XI secolo, nel nuovo palazzo costruito nel quartiere delle Blacherne, immediatamente a ridosso delle antiche mura urbiche di Teodosio II, le cui strutture vengono sfruttate a fini difensivi. Il palazzo imperiale della dinastia comnena alle Blacherne è andato completamente perduto, ma le sue principali caratteristiche tipologiche possono probabilmente essere riconosciute nelle strutture in larga misura conservate del palazzo detto Tekfur Saraı, costruito come residenza degli imperatori della dinastia paleologa dopo la riconquista bizantina della città a seguito della dominazione latina del 1204- 1261. L'edificio, unica parte conservata di un complesso più vasto che riutilizzava un ampio tratto delle mura teodosiane, presenta un impianto rettangolare, articolato su tre piani, in cui dovevano essere associate le funzioni residenziali, ai livelli superiori, posti in diretta connessione con i camminamenti delle mura, e le funzioni di rappresentanza, probabilmente svolte dal piano terreno aperto da un ampio porticato affacciato sul cortile quadrangolare, anch'esso cinto di mura. Che questo tipo di impianto (non senza punti di contatto con la contemporanea architettura palaziale occidentale) fosse divenuto in qualche misura normativo per i palazzi imperiali bizantini è testimoniato dalle stringenti assonanze che possono essere riconosciute con il palazzo di Nymphaeum (od. Kemalpaşa, presso Smirne), sede imperiale della dinastia lascaride nel periodo della dominazione latina a Costantinopoli, e con il Palazzo dei Despoti di Mistrà, eretto probabilmente intorno alla metà del XIV secolo come sede del despotato autonomo retto dalla dinastia dei Cantacuzeni.
I monumenti pubblici - Certamente fino all'epoca giustinianea e probabilmente fino ancora ai primi decenni del VII secolo, le città bizantine conservarono le tipologie monumentali che caratterizzavano le città antiche e tardoantiche: come testimonia l'impianto urbano della città nuova di Iustiniana Prima, all'idea stessa di città erano ancora associati monumenti e infrastrutture peculiari quali piazze e strade porticate, colonne onorifiche, forse archi trionfali, terme, acquedotti, cisterne. Ad una linea di accentuata continuità con la tradizione urbanistica e architettonica antica rimandano ancora le infrastrutture urbane, con particolare riferimento a quelle destinate all'approvvigionamento e alla distribuzione dell'acqua potabile. L'attenzione posta da Giustiniano alla soluzione dei secolari problemi di approvvigionamento della capitale è documentata dalla costruzione di un gran numero di cisterne sotterranee, alcune delle quali ‒ ad es., quelle cosiddette "di Filosseno" (o Binbirdirek) e basilica-cisterna (Yerebatan Saraı) ‒ testimoniano, nell'adozione di raffinati sistemi di sostruzione e di copertura, il diffondersi anche all'edilizia a carattere funzionale delle acquisizioni tecniche e delle soluzioni spaziali adottate nell'architettura monumentale maggiore. L'epoca giustinianea rappresentò invece un momento di netta cesura per quel che riguarda gli edifici di spettacolo (in particolare i teatri, ma anche gli ippodromi), di cui venne decretata la chiusura, con l'eccezione dell'ippodromo di Costantinopoli, che continuò a ricoprire per secoli il suo ruolo di centro della vita sociale e politica della capitale imperiale. La situazione che si può delineare con qualche chiarezza per la capitale imperiale, sembra trovare riscontro anche nei centri delle province, dove, sia pure in misura differente, i segni della continuità dell'impianto urbano e del panorama monumentale prevalgono nettamente su quelli della trasformazione. Il quadro cambia invece nettamente all'indomani della grave crisi urbana del VII-VIII secolo, quando le fonti ‒ in particolare le Parastaiseis syntomoi chronikai ‒ testimoniano per la capitale imperiale e, di riflesso, per gli altri centri dell'impero, la profonda alterazione della percezione collettiva dei grandi monumenti del passato, visti ormai come vuote quinte architettoniche residuali nel tessuto di una città in profonda trasformazione. I dati archeologici provenienti un po' da tutte le città delle province confermano questa immagine, registrando fenomeni estesi di reimpiego con destinazione abitativa, funzionale e in qualche caso difensiva degli spazi e dei monumenti pubblici. La crisi urbana delle città bizantine fu probabilmente meno grave di quella delle città occidentali nell'Alto Medioevo, ma, a differenza di queste ultime, i secoli centrali e finali del Medioevo non fecero registrare per i centri bizantini ‒ a eccezione naturalmente della capitale imperiale ‒ una vera e propria rinascita del fenomeno urbano. Dal punto di vista dei monumenti pubblici, le città medio- e tardobizantine appaiono ruotare intorno a due elementi fondamentali: la cinta muraria e le chiese. La prima circoscrive giuridicamente e fisicamente la città, separandola da un territorio esterno sempre più avvertito come ostile; le seconde, con il loro moltiplicarsi e distribuirsi entro il perimetro delle mura, contribuiscono a frammentare l'unità degli antichi centri urbani, determinando il progressivo prevalere di quartieri aggregati intorno a una residenza aristocratica, a un monastero privato e a una rete di abitazioni ad esse gerarchicamente collegate, dando così vita a una città policentrica e polinucleata, in cui viene perdendosi il concetto stesso di monumento pubblico, inteso come edificio al servizio dei cittadini e delle istituzioni.
Grandi committenti furono in primo luogo gli imperatori, a partire dai grandi evergeti del V e VI secolo, impegnati a conferire alla capitale e alle altre grandi città dell'impero il carattere di civitas Christiana: il De aedificiis di Procopio di Cesarea assegna all'attività edificatoria del solo Giustiniano la costruzione di oltre trenta chiese urbane nella capitale, vale a dire più del doppio di quelle presenti nella città alla metà del V secolo, stando all'elenco fornito dalla Notitia urbis Constantinopolitanae. Nei secoli successivi praticamente nessun imperatore rinunciò ad arricchire il panorama monumentale della capitale con nuove fondazioni religiose o almeno con restauri e risistemazioni di edifici esistenti. In tutte le fasi della vicenda bizantina, al centro come in periferia, il fenomeno della committenza di edifici religiosi interessò poi vasti settori dell'aristocrazia urbana delle città e della nobiltà fondiaria nelle campagne e nei centri minori, come testimonia, soprattutto a partire dal IX-X secolo la ripresa delle fondazioni di monasteri urbani, a carattere semiprivato, che arricchirono ulteriormente il già denso tessuto monumentale cristiano di Costantinopoli e delle altre città bizantine.
Le chiese - La grande stagione costruttiva del VI secolo coincide nel campo dell'architettura cristiana con un momento di radicale cambiamento formale, producendo una sorta di scisma architettonico rispetto alla tradizione costruttiva del Mediterraneo occidentale (che rimase ancorata per tutto il Medioevo al tipo basilicale di derivazione romana) in favore dell'affermarsi di tipologie nuove, caratterizzate dalla predilezione per le piante centralizzate e le coperture a volta e a cupola. Le basiliche costantinopolitane della metà del V secolo ‒ S. Giovanni di Studio, S. Maria Chalkoprateia, basilica anonima del Tekfur Saraı ‒ mostrano infatti alcuni caratteri comuni (pianta "raccorciata", con un rapporto di quasi identità tra lunghezza e larghezza del corpo longitudinale, grande ampiezza della navata centrale a discapito delle laterali, divise dalla principale da colonnati che sorreggono una trabeazione rettilinea con sovrastante galleria, abside semicircolare all'interno e poligonale all'esterno) che ne connotano un distacco dalle basiliche di tradizione romana e in qualche misura preannunciano l'impianto quadrato delle chiese a pianta centrale di età giustinianea. Cronologicamente alle soglie dell'epoca giustinianea e tipologicamente come sorta di ibrido tra la basilica e la chiesa a pianta centrale si colloca la chiesa costantinopolitana di S. Polieucto, fondata nei pressi della sua residenza privata dall'aristocratica Anicia Giuliana, completamente demolita nel corso del saccheggio crociato del 1204 e oggi nota solo attraverso i resti archeologici e una descrizione poetica contenuta nell'Anthologia Palatina. Costruita al di sopra di un potente basamento, la chiesa era probabilmente suddivisa in tre navate, ma l'eccezionale spessore delle fondazioni, la forma dei frammenti decorativi superstiti e alcuni accenni della descrizione inducono a supporre che essa forse coperta in muratura, probabilmente a cupola, e che avesse un alzato assai complesso, con una galleria sostenuta da pilastri e colonne e movimentata da esedre a nicchie che si aprivano verso la navata centrale. Anche se la ricostruzione dello sviluppo in alzato della chiesa di S. Polieucto rimane assai ipotetica, molti dei suoi elementi strutturali e decorativi richiamano da vicino la sintassi architettonica dei maggiori esiti dell'architettura giustinianea, a partire dalla chiesa dei Ss. Sergio e Bacco a Costantinopoli, fatta costruire proprio in quegli stessi anni dal futuro imperatore accanto alla sua residenza privata. Quest'ultima chiesa rappresenta la prima testimonianza conservata della nuova tipologia edilizia che si andava affermando e presenta un'inedita interpretazione del tema architettonico dell'edificio a pianta centrale, articolato in un doppio involucro ‒ quadrangolare con abside sporgente quello esterno, ottagonale, con sequenza alternata di colonnati rettilinei ed esedre, quello interno ‒ e coperto da una grande cupola ad ombrello. Al 532 risale l'avvio della ricostruzione della grande chiesa di S. Sofia, in sostituzione di quella a tradizionale impianto basilicale a cinque navate, frutto di diverse fasi di costruzione in epoca paleocristiana e andata distrutta nel corso di una violenta rivolta popolare. In questo edificio, monumento dai caratteri costruttivi evidentemente unici e irripetibili, si trovano concentrate tutte le tematiche architettoniche che sottolineano lo scostamento dell'edilizia religiosa bizantina di quest'epoca dalla tradizione architettonica romano-cristiana. Anche in questo caso si tratta di una chiesa a doppio involucro, inserita in un impianto di base sostanzialmente quadrato, dove però la centralità propria della chiesa dei Ss. Sergio e Bacco appare sostituita da una sottolineatura dell'asse principale est-ovest, cui fa da contrappunto la dilatazione dello spazio in tutte le direzioni, assicurata da amplissime esedre semicircolari angolari e, soprattutto, da un articolato sistema di coperture ‒ cupola centrale, semicupole assiali, catini delle esedre ‒ che conferisce all'insieme una immagine di ariosità interna e di leggerezza che non trova alcun confronto nelle architetture successive. La creazione di un organismo architettonico così articolato appare legata all'adozione di soluzioni tecnico-strutturali fortemente innovative, a partire dal sistema dei sostegni ‒ quattro enormi pilastri angolari che sostengono arconi a tutto sesto di eccezionale ampiezza sui quali si imposta la cupola, cui si affianca la serie degli otto pilastri articolati addossati alle pareti esterne, su cui scarica la spinta dell'intero sistema di copertura ‒ che vennero realizzati in pietra da taglio, mentre il resto della struttura venne realizzato in muratura laterizia, più leggera ed elastica e quindi in grado di adattarsi meglio alle inevitabili deformazioni di un organismo così complesso. Particolarmente ardita risulta la cupola centrale, concepita dagli architetti Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto con un profilo particolarmente ribassato, tanto che non resistette ai terremoti che devastarono Costantinopoli alla metà del VI secolo e venne sostituita nel 558 da quella attuale, a profilo più rialzato. S. Sofia rimane un monumento eccezionale, isolato anche nell'ambito dell'architettura bizantina e una riproduzione della sua dilatata spazialità venne tentata solo nel XVI secolo dagli architetti ottomani: ciò nonostante, il sistema di saperi che la sua realizzazione implica riemerge un po' in tutta l'architettura monumentale bizantina di quest'epoca, negli esempi conservati in ambito urbano (chiesa di S. Irene, pervenuta in una redazione frutto di numerose ristrutturazioni successive), negli edifici noti solo dalle fonti (ad es., la chiesa costantinopolitana dei Ss. Apostoli, a croce libera, coperta da cinque cupole, che fu modello della contemporanea chiesa di S. Giovanni a Efeso, di cui rimangono importanti resti archeologici, e, molti secoli dopo, della basilica di S. Marco a Venezia) e in parti significative di edifici monumentali in diverse regioni dell'impero (dal sistema di esedre della chiesa di S. Vitale a Ravenna, allo sviluppo in alzato della chiesa annessa al palazzo di Qasr ibn Wardan, in Siria). La grande rottura con la tradizione basilicale che si verifica a Costantinopoli in età giustinianea non trovò tuttavia corrispondenza immediata nelle regioni periferiche dell'impero. Ciò appare particolarmente evidente nelle regioni in cui le tradizioni locali erano consolidate da più lunga data e legate alle proprietà intrinseche del materiale da costruzione disponibile. Così, ad esempio, in Siria l'architettura religiosa del VI secolo è caratterizzata dalla diffusione capillare di edifici a pianta basilicale che presentano alcuni caratteri del tutto peculiari: la sostituzione delle colonne con robusti pilastri rettangolari in pietra da taglio, in grado di sostenere la spinta degli archi che separano la navata centrale dalle laterali; l'abside semicircolare coperta da una massiccia calotta a quarto di sfera in pietra e mascherata all'esterno da un muro rettilineo che congiunge le due torri aggettanti che ospitano i pastofori; la presenza di due torri ai lati della facciata; il sistema di copertura, a tetto nella navata centrale e sovente a lastroni litici nelle strette navate laterali; la riduzione nel numero e nelle dimensioni delle finestre; la presenza di un peculiare motivo decorativo, costituito da una sorta di grande nastro a rilievo (detto appunto "nastro siriaco") che scorre continuo intorno ai portali e alle finestre a movimentare le monotone facciate litiche. Esempi particolarmente significativi dell'architettura religiosa siriana nella prima epoca bizantina sono le chiese dei villaggi del Massiccio Calcareo (ad es., quella di Qalb Loze, seconda metà - fine del V sec.), che costituirono il modello di riferimento per chiese costruite ancora molti decenni dopo, come S. Croce di Resafa (datata da un'iscrizione del 559). Caratteri icnografici e stilistici più ibridi presenta invece il grandioso complesso di Qalat Seman (eretto nella seconda metà del V sec. intorno alla colonna dell'ascesi di s. Simeone Stilita), dove, nei quattro corpi basilicali a tre navate che si dipartono a croce greca dai lati dell'ottagono centrale, gli elementi tipici dell'architettura siriana dell'epoca si fondono con elementi più eterogenei. Ancora tipica della regione siriana è la soluzione dell'edificio a pianta centrale, articolato in un quadriconco centrale delimitato da quattro esedre semicircolari su colonne e inserito in un involucro esterno anch'esso a quadriconco (Seleucia Pieria, Apamea, Resafa) o quadrangolare (Bostra). Del tutto episodiche appaiono invece, anche in questo territorio che fu per tutta la prima epoca bizantina d'importanza centrale per le sorti dell'impero, le attestazioni di diretti legami con la cultura architettonica e costruttiva della capitale, come nel caso della citata chiesa del complesso di Qasr ibn Wardan. Tradizioni costruttive autonome e differenziate anche su base subregionale denunciano anche l'Anatolia ‒ dove le soluzioni architettoniche e spaziali adottate ad esempio nelle chiese della Licia e della Panfilia differiscono profondamente da quelle regioni orientali, dove nelle chiese monastiche del massiccio del Tur Abdin (Turchia sud-orientale) si continua la tradizione degli edifici a navata trasversale ‒ e la vasta regione che va dall'Egitto alla Tunisia, dove, soprattutto nel territorio magrebino, la continuità con la tradizione basilicale paleocristiana appare particolarmente consolidata. Nella parte occidentale dell'impero, e segnatamente nelle regioni della Penisola Balcanica, il panorama dell'architettura religiosa della prima età bizantina appare caratterizzato da una forte eterogeneità, in cui convivono una peculiare accezione del tipo basilicale, in qualche misura standardizzata e diffusa su un prolungato arco temporale in decine di esemplari che differiscono solo per le dimensioni, e soluzioni più complesse, come le cosiddette "basiliche a transetto" cupolate (Basilica B di Filippi, Katapoliani nell'isola di Paro, VI sec.). Eccezionale esempio della ricchezza e della complessità delle tradizioni locali e degli influssi esterni che si incrociano nella regione balcanica in epoca giustinianea è costituito dalla capitale dell'Illirico bizantino, Iustiniana Prima, fondata dallo stesso Giustiniano intorno al 530, dove sono state finora individuate ben otto chiese rispondenti a tipologie profondamente differenti: dalla grande basilica sull'acropoli, di tradizionale impianto greco, ma con abside poligonale all'esterno, alle due piccole basiliche a tre navate e monoabsidate, di più chiara ascendenza costantinopolitana, alla grande basilica a transetto, alla piccola chiesa a triconco, alla chiesa cruciforme della città alta, alla chiesetta mononave e alla chiesa doppia della città bassa, che fanno tutte riferimento a tipologie relativamente ben attestate in un ambito regionale più o meno allargato. Del tutto autonoma e con pochissimi rapporti con l'architettura costantinopolitana contemporanea risulta infine la produzione architettonica dell'Armenia e della Georgia, caratterizzata fin dal V-VI secolo, e poi in misura maggiore nel VIIVIII secolo, dall'adozione di tipologie edilizie proprie (con particolare predominio degli edifici a pianta centrale, con soluzioni molto elaborate nell'articolazione dei piccoli spazi interni) e dalla conservazione di scelte tecniche peculiari, tanto nelle caratteristiche di una muratura a doppia cortina con conglomerato cementizio di particolare pesantezza, quanto nell'impiego preferenziale di cupole e coperture piramidali poggianti su trombe angolari anziché su pennacchi sferici. La grande diversità delle tradizioni costruttive regionali che caratterizza l'architettura religiosa bizantina dei primi secoli lascia il posto, nel periodo successivo, a una maggiore omogeneità sia per quel che riguarda le tipologie edilizie adottate sia per quel che concerne le tecniche costruttive. L'articolazione del percorso che condusse a questa riduzione a unità sfugge ad una analisi ravvicinata soprattutto in ragione della scarsità dei monumenti superstiti databili ai secoli VII e VIII, convenzionalmente definiti dalla critica i "secoli bui" dell'architettura bizantina. I pochi edifici di questo periodo, conservati con pesanti superfetazioni o noti solo da documentazione archeologica d'epoca (S. Sofia di Salonicco, seconda metà - fine dell'VIII sec.; chiesa della Dormizione di Nicea, forse degli inizi dell'VIII sec.; S. Clemente di Ankara e S. Nicola di Mira, VII-VIII sec.), rivelano nel loro complesso una evoluzione verso il tipo della basilica cupolata (in qualche caso con una sorta di navata a U costituita dal nartece e dalle due navate laterali) e quindi verso l'impianto cruciforme con cupola centrale. Quali che siano state le origini, le tappe e gli esiti di questa evoluzione, l'immagine dell'architettura religiosa bizantina alla ripresa della documentazione scritta e monumentale appare radicalmente mutata: definitivamente abbandonata la tipologia basilicale nelle sue diverse accezioni regionali, l'architettura del nuovo impero mediobizantino (territorialmente ristretto di fatto alla sola regione greco-anatolica) appare segnata dalla distribuzione praticamente uniforme su tutto il territorio imperiale di un nuovo tipo architettonico, costituito da una chiesa di ridotte dimensioni, con pianta centrale a croce greca inscritta in un quadrato, preceduta da un nartece e dotata di abside e pastophoria, coperta da una cupola centrale e da quattro cupole minori poste agli angoli del complesso. Rimane non risolto il problema se questa tipologia sia stata elaborata centralmente nella capitale (e in tal caso il prototipo di riferimento potrebbe essere costituito dalla perduta Nea Ekklesia, fatta costruire nella seconda metà del IX sec. da Basilio I nell'ambito del grande palazzo imperiale) o se invece si sia trattato di una soluzione spaziale coagulatasi in ambito monastico, dato che le dimensioni ridotte di questo tipo di edificio si prestano particolarmente bene ad un uso da parte di una piccola comunità religiosa. Gli elementi salienti, dal punto di vista storico-archeologico, dell'affermarsi di questa nuova tipologia sono almeno tre: in primo luogo, il configurarsi di una nuova classe di committenti, testimoniata dalla sostituzione delle grandi fondazioni pubbliche degli imperatori evergeti della prima età bizantina con una rete di numerosissime fondazioni private o semiprivate da parte degli esponenti dell'aristocrazia urbana vicina alla corte imperiale, ma anche di committenti minori. In secondo luogo, una diffusione sistematica su tutto il territorio di un tipo di edificio religioso fortemente standardizzato nei suoi elementi costitutivi e per questo facilmente riconoscibile come tale, con caratteri analoghi negli esempi metropolitani (ad es., la chiesa settentrionale del monastero costantinopolitano di Costantino Lips, degli inizi del X sec., la chiesa della Panaghia ton Chalkeon a Salonicco, della prima metà dell'XI sec.) e in quelli periferici (ad es., la chiesa del monastero Hosios Lukas, nella Focide, o la Cattolica di Stilo, in Calabria, entrambe del X sec.). In terzo luogo, come si è già accennato, una parallela standardizzazione delle tecniche costruttive che, a dispetto delle innumerevoli microvarianti regionali e subregionali, consacrano la muratura laterizia o mista come normativa dell'architettura religiosa bizantina di questo periodo. La profonda aderenza di questo tipo di edificio di culto alle esigenze di rappresentanza dei committenti, alle necessità del culto legate al definitivo affermarsi della liturgia greco-bizantina e alla volontà di moltiplicare il numero delle chiese all'interno del tessuto insediativo dei centri urbani e di quelli minori, è infine testimoniata dal fatto che gli stessi caratteri tipologici e costruttivi elaborati a Costantinopoli, Salonicco e nelle province tra la fine del IX e gli inizi del X secolo si ritrovano riprodotti, sostanzialmente intatti a dispetto delle numerose piccole varianti compositive dei medesimi elementi di base, in tutti i territori in diversa misura segnati dall'influenza culturale ed economica bizantina (dall'Italia meridionale alla Russia) e per un arco di tempo che coincide con l'intera seconda parte della vicenda storica bizantina, giacché al medesimo modello costruttivo si richiamano, con variazioni spesso impercettibili, le produzioni architettoniche urbane e provinciali dell'epoca comnena (XI-XII sec.) e poi dell'età paleologa (XIII-XV sec.). Un posto del tutto particolare nel panorama dell'architettura religiosa del mondo bizantino è infine occupato dalle chiese rupestri, diffuse, in diverse forme, in molte regioni dell'impero, ma particolarmente attestate in alcune aree territoriali, in primo luogo la Cappadocia, ma anche la Palestina, la Crimea e l'Italia meridionale, in particolare la Puglia. La scelta dell'impiego e dell'adattamento a funzioni religiose di grotte naturali fu consona specialmente all'ascetismo monastico, ma, soprattutto in Cappadocia, lo scavo ex novo di grotte rappresentò una vera e propria pratica costruttiva, in cui (procedendo per sottrazione anziché per accumulo di materiale) si tentò, spesso con risultati significativi, di riprodurre i modelli architettonici e spaziali della contemporanea architettura costruita.
I monasteri - Il monachesimo rappresentò un elemento fondamentale della società bizantina in ogni sua fase di sviluppo e gli insediamenti monastici caratterizzarono sempre il panorama delle campagne e dei centri urbani. Architettonicamente, i monasteri bizantini presentano, nella diacronia dello sviluppo secolare della loro tipologia, elementi di forte continuità, rappresentati in primo luogo dalle caratteristiche generali dell'impianto spaziale, che prevedeva ‒ tanto per i monasteri delle campagne quanto per quelli urbani ‒ una recinzione perimetrale più o meno permeabile (in un campo di variazione che va dai veri e propri monasteri fortificati, come quello di S. Caterina al monte Sinai, ai monasteri difesi della regione palestinese, ai monasteri dei grandi centri urbani, in cui la recinzione assumeva essenzialmente un valore simbolico), una chiesa (la cui forma e dimensione variano invece notevolmente in relazione alle aree e alle epoche) e una serie edifici a destinazione residenziale e funzionale, generalmente disposti a ridosso della recinzione e intorno a uno spazio aperto centrale. Fatto salvo questo schema generale, l'architettura monastica presenta invece, nelle diverse aree dell'impero, specifiche caratteristiche regionali, dettate da un lato dalle varie accezioni culturali assunte dal monachesimo e dall'altro dagli scopi specifici che ogni singolo monastero era chiamato ad assolvere. Così in Egitto, tra il IV e il VII secolo, appare frequentemente attestata la tipologia insediativa e architettonica della lavra, in cui i monaci sono distribuiti, isolati o in coppie, in una rete di piccole strutture abitative e lavorative (normalmente costituite da una cella suddivisa in due ambienti, destinati rispettivamente a residenza e a oratorio), disposte in un territorio relativamente vasto intorno a una o più chiese che costituivano la sede delle funzioni religiose comunitarie. Nella regione siro-palestinese, in epoca protobizantina i monasteri extraurbani assumono spesso funzione di difesa e di gestione economica ‒ e in qualche caso anche amministrativa ‒ del territorio, assumendo l'aspetto di "microcittà", in cui le tipologie architettoniche tradizionali sono integrate da edifici destinati alle attività agricole e commerciali, quand'anche non alla residenza di truppe regolari. Nella regione greco-balcanica il movimento monastico si sviluppò particolarmente in epoca medio- e tardobizantina, dando vita a tipologie architettoniche peculiari, tanto nella forma e nelle dimensioni degli edifici di culto, quanto nella disposizione e nella qualificazione degli ambienti residenziali e di servizio. Soprattutto nella regione del monte Athos ‒ che costituì il maggiore centro monastico della civiltà mediobizantina ‒ vennero a maturazione nuovi tipi di chiesa, in cui il tradizionale impianto a croce greca inscritta in un quadrato viene modificato con l'aggiunta di absidi laterali per i cori dei monaci (dando vita ad un impianto a trifoglio che caratterizza molta dell'architettura religiosa tardobizantina e postbizantina della regione balcanica), di cappelle funerarie laterali (i parekklesia in seguito diffusi anche nell'architettura religiosa urbana) e di un ampio nartece (litè), giungendo alla definizione di un tipo architettonico in parte originale (il katholikon), che sorgeva isolato al centro del monastero. Le soluzioni spaziali e architettoniche dei monasteri extraurbani si ritrovano, soprattutto in epoca medio- e tardobizantina, riproposte quasi immutate nei monasteri urbani delle grandi città, a partire dalla stessa Costantinopoli, dove la pratica della fondazione di un monastero intra moenia, a carattere semiprivato, costituisce un elemento costante che caratterizza le residenze privilegiate dei personaggi di rango dell'aristocrazia urbana collegati con la corte imperiale.
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