L'architettura: caratteri e modelli. Subcontinente indiano
di Giuseppe De Marco
In India scopo principale dell'attività costruttiva di tipo monumentale era, e resta tuttora, quello di rappresentare nella sua forma concreta la coscienza religiosa della sua gente, non importa quale fosse o sia il mezzo per materializzarla: la roccia, il mattone, la pietra. Ciò spiega perché, oltre a ciò che resta della sua architettura, l'India ha preservato una grande quantità di testi tecnici che si occupano non solo delle regole dell'architettura in quanto tale, ma anche dei simboli connessi e dei rituali che fortemente la condizionano. Se si escludono le culture regionali neolitiche, l'evoluzione dell'architettura ha inizio nella valle dell'Indo tra il 2600 e il 1900 a.C. circa, con i grandi centri di Harappa nel Panjab, di Mohenjo Daro nel Sind e di Kalibangan nel Rajasthan. Gli scavi condotti documentano un complesso di culture omogenee caratterizzate da un'urbanistica e da un'architettura standardizzate. La grande regolarità dell'impianto urbanistico è accentuata anche dall'estrema semplicità dell'esterno degli edifici, alti e privi di finestre, sì da non lasciar intravedere alcuna rispondenza architettonica tra l'interno e l'esterno. Con la scomparsa della civiltà vallinda dovrà passare più di un millennio perché l'India veda il sorgere, intorno al 500 a.C., della sua civiltà cosiddetta "classica" nella valle del Gange, in seguito al processo di sedentarizzazione di popolazioni arie (cioè parlanti lingue arie), qui giunte nel millennio precedente, e al loro incontro con le popolazioni indigene. Il lungo intervallo di tempo che separa questi due periodi di urbanizzazione è noto come "periodo vedico". Di questo periodo, incentrato soprattutto sui rituali, c'è però poco che interessi l'architettura. La documentazione archeologica riguarda solo resti di culture eneolitiche, ultime sopravvivenze della civiltà vallinda, come quelle di Jukhar e di Jangar, rappresentate da villaggi costruiti in materiale deperibile, prevalentemente in legno. È quindi solo a partire dalla metà del I millennio a.C., e con più chiarezza a partire dall'epoca Maurya (fine IV-III sec. a.C.), che sono documentate strutture urbane e le più antiche fondazioni buddhistiche, gli stūpa. Si pensi agli stūpa più antichi della valle del Gange, come ad esempio quelli di Vaishali (Bihar) e di Piprahwa (Uttar Pradesh). Per il resto la produzione architettonica monumentale di questo primo periodo ci ha lasciato ben poco: i noti blocchi monolitici sormontati da emblemi buddhistici e, di quella che fu l'antica capitale Maurya, Pataliputra (odierna Patna, Bihar), solo i resti lignei dei bastioni di difesa della città e del padiglione in pietra con pilastri. Di epoca Maurya sono i più antichi santuari rupestri di Barabar, nella regione di Gaya (datati al III sec. a.C.); si tratta in realtà di una "falsa" architettura cavata nella roccia, che imita prototipi reali lignei. A parte alcuni esemplari Jaina, i santuari rupestri più antichi appartengono alla tradizione buddhistica; templi Hindu in grotta compariranno invece solo a partire dal VI sec. d.C. In origine poco elaborata, l'architettura rupestre conoscerà nel Subcontinente indiano una vasta e duratura fortuna e un progressivo sviluppo verso forme più complesse, divenendo un modello di riferimento per soluzioni analoghe in territorio extra-indiano. Tra il II e il I sec. a.C. si collocano il tempio protovishnuita di Besnagar (200 a.C.), dedicato al culto dei pañcavīra ("cinque eroi"), le strutture più antiche (II-I sec. a.C.) del tempio di Manyar Math di Rajgir (Bihar) e del Tempio Absidato 2 di Sonkh, presso Mathura, entrambi dedicati al culto dei nāga ("divinità serpente"), quest'ultimo attribuito all'epoca Mithra (I sec. a.C.). Intorno al 100 a.C. sorgono i primi grandi monumenti buddhistici dell'India antica, come il tempio a pianta circolare con stūpa all'interno di Bairat, nel Rajasthan, gli stūpa di grande importanza storico-artistica di Bharhut e di Sanchi (Madhya Pradesh) e i grandi complessi rupestri del Deccan occidentale. Una notevole concentrazione di questa classe di monumenti, spesso circondati da monumenti minori e affiancati da monasteri, è attestata nel Nord-Ovest dell'India (Gandhara) e nella regione del corso inferiore della Krishna e della Godavari fra il I e il III sec. d.C. I primi stūpa gandharici, per alcuni dei quali (ad es., Butkara I) il nucleo originario risale all'epoca Maurya, nel complesso differiscono poco da quelli di epoca precedente. Intorno all'era cristiana tuttavia proprio dal Gandhara partirà quel processo di trasformazione che avvierà questo monumento da una forma emisferica più o meno allungata a quella a torre dell'Asia Centrale (regioni di Turfan, Kucha, ecc.) o delle pagode cinesi. Nel suo aspetto finale il monumento è arricchito da una decorazione plastica con immagini e scene buddhistiche che, meno presente negli stūpa di maggiori dimensioni, orna soprattutto il corpo e i vari elementi strutturali degli stūpa votivi minori, a differenza della più antica scuola artistica indiana, dove la decorazione plastica si concentrava soprattutto sulle balaustre (ad es., Bharhut) o sui portali (ad es., Sanchi) intorno ai monumenti. Con i Gupta (IV-VI sec. d.C.) ha inizio e si consolida l'architettura templare Hindu in mattoni cotti o in grossi blocchi di pietra, creando le premesse per la grande architettura medievale. Nella sua forma originaria il tempio, microcosmo del dio universale, consiste in una cella quadrata innalzata su un basamento di eguale perimetro, con copertura piana e preceduta da un portico prostilo con pilastri (ad es., Tempio n. 17 di Sanchi e di Kalikali Devi a Tigowa). In una fase successiva esso sarà costruito su un podio assai più alto ed ampio, con l'aggiunta di una o più scale di accesso, talvolta affiancate da cappelle minori, e di un corridoio esterno per la circumambulazione rituale (ad es., Bhumara e Nachna Kuthara); si evolve inoltre la forma della copertura, in base alla quale, secondo le descrizioni contenute nelle fonti letterarie sull'architettura, i templi indiani possono essere classificati tipologicamente in tre ordini: nāgara, vesara e drāviḍa, distribuiti da un punto di vista geografico rispettivamente nell'India settentrionale, nel Deccan e nell'India meridionale. Lo stile nāgara, caratterizzato dall'andamento curvilineo della copertura, si diffonde dal Gujarat all'India centrale e settentrionale fino all'Orissa. Il secondo ordine, il vesara, secondo alcune interpretazioni una sorta di mescolanza tra lo stile nāgara e quello drāviḍa, derivazione del complesso rupestre buddhistico, è caratterizzato da una copertura simile ad una volta a botte (o a lanterna); le sue origini stilistiche si possono rintracciare nei complessi del V secolo di Aihole, di Badami e di Pattadakal (Mysore). L'ordine drāviḍa, infine, diffuso nell'India meridionale a sud della Krishna, presenta una struttura piramidale con successione di terrazze ascendenti. Esso si sviluppa lungo un arco di tempo piuttosto ampio, dai Pallava (V-IX sec. d.C.) fino alla caduta, sotto la pressione islamica, dei regni di Vijayanagara (1565) e dei Nayak di Mathura (metà del XVII sec.).
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di George Michell
Le tecniche di costruzione con mattoni sono note nel Subcontinente indiano a partire dalla prima metà del III millennio a.C., nelle fasi antico-harappane; le città del successivo periodo harappano (2600-1900 a.C.) mostrano una perfetta padronanza di tali tecniche, che consentono, grazie anche all'uso del mattone cotto, la realizzazione di strutture molto complesse: imponenti sostruzioni, recinzioni monumentali, edifici, reti fognarie e pozzi. Il tramonto della civiltà dell'Indo segna l'abbandono del mattone in favore di materiali deperibili, di cui restano poche tracce. Nei secoli successivi si elaboreranno i fondamenti tecnici di una grande tradizione di architettura lignea, di cui non si conservano che tracce isolate, quali ad esempio i resti di una sala delle udienze a Patna (l'antica Pataliputra) nell'India orientale, risalente al III sec. a.C.; essa può essere comunque ricostruita sulla base dell'immagine che ne conserva la decorazione scultorea e pittorica dei monumenti buddhistici, nonché sulla base di edifici posteriori in muratura che ne imitano le forme. Nello Stupa 1 di Sanchi (India centrale, III sec. a.C.) la balaustra di pietra e i portali di ingresso (toraṇa) ai quattro punti cardinali, aggiunti nel I sec. d.C., forniscono un esempio di come l'architettura in pietra più antica imitasse ancora i modelli lignei. Nelle costruzioni religiose e in quelle civili dei secoli antecedenti l'era cristiana è probabile che fossero realizzati in legno balaustre, colonne e portali. Frequenti erano anche i tetti a più piani, in particolare quelli a volta e con profilo curvo, ottenuti da legname flessibile. Travi sporgenti sostenevano finestre ad arco, mentre i toraṇa avevano architravi ricurvi. Elementi di terracotta venivano impiegati a protezione dell'estremità inferiore delle colonne e del colmo dei tetti. I più antichi monumenti dell'India si dividono in due tipi: costruiti o cavati nella roccia. In mattoni venivano realizzati stūpa e vihāra (rispettivamente monumento religioso-funerario e monastero buddhistici), con l'eccezione delle aree settentrionali, come ad esempio lo Swat (Pakistan), dove, grazie alla facile reperibilità, era invece di norma impiegata la pietra, in blocchi di talco o lastre di scisto. I mattoni, legati con malta, erano posati in corsi orizzontali e quindi rivestiti da una coltre d'intonaco. Nulla sopravvive delle coperture in legno dei vihāra, mentre si conservano abbondanti evidenze della realizzazione in pietra di montanti e architravi. La padronanza del sistema della volta realizzata in mattoni è testimoniata dal tempio della Mahabodhi a Bodhgaya, nell'India orientale (VII sec. d.C.), i cui archi interni svolgono un'importante funzione di sostegno per la torre piramidale di copertura, alta circa 55 m. Le tecniche di costruzione in mattoni sono adottate anche dall'architettura Hindu, come appare evidente soprattutto a partire dal V sec. d.C.: le pareti esterne dei templi di Bhitargaon e Sirpur, in India centrale, sono definite da mattoni sagomati, che creano modanature, alti basamenti, lesene e torri ogivali a piani decrescenti. Lastre figurate di terracotta completavano la decorazione di questi e, a giudicare dai numerosi rinvenimenti nelle aree vicine, di molti altri templi oggi perduti. Cappelle e monasteri scavati in pareti rocciose verticali e associati alle sette religiose buddhiste e Jaina sono stati scoperti in diverse località del Deccan; tra questi si segnalano quelli di Karli, del II sec. a.C., e di Ajanta, il cui nucleo più antico risale alla stessa epoca. Essi riproducono nei dettagli l'architettura reale, anche in questo caso con forti richiami all'architettura lignea. L'architettura cavata nella roccia ha in India una lunga storia, che si protrae fino al IX sec. d.C.; templi monolitici, cioè interamente ricavati dalla roccia con la tecnica della scultura, sono presenti a Mamallapuram nell'India meridionale e ad Ellora nel Deccan, dove si conserva il più spettacolare di questi, il tempio di Kailasanatha. L'importanza attribuita all'arte di modellare la pietra è tale da imporsi anche nell'architettura reale, in cui le superfici di pietra sono sempre concepite in maniera plastica, con l'accurata rifinitura dei dettagli dopo la messa in opera delle lastre. Gli interni stessi dei templi costruiti tendono a riprodurre l'effetto di massiccia solidità propria dei santuari cavati nella roccia. Essendo rigorosamente composte da elementi verticali e orizzontali, le strutture in pietra indiane sono sempre basate sul sistema trilitico. La malta non era mai utilizzata, dal momento che l'accurata disposizione dei blocchi ne assicurava la stabilità grazie alla sola pressione; in alcuni casi l'uso di grappe di ferro conferiva maggiore solidità all'insieme. Queste limitazioni strutturali non furono tuttavia di ostacolo alla realizzazione di edifici dal progetto ambizioso, con piani sovrapposti e torri svettanti, specie nell'architettura religiosa, in cui le alte guglie dei templi dovevano rievocare la montagna cosmica della mitologia indiana: il tempio di Brihadeshvara (XI sec.) a Tanjavur, nell'India meridionale, porta, ad esempio, una torre in granito alta oltre 66 m e sormontata da un blocco massiccio a forma di cupola, probabilmente posata con l'ausilio di una lunga rampa di terra. Le sale annesse ai templi sono spesso ambienti spaziosi con alti soffitti a file di elementi aggettanti disposti secondo un elaborato schema ascendente, ben esemplificato dal virtuosismo dei soffitti marmorei dei templi Jaina di Abu, collina sacra dell'India occidentale, databili fra l'XI e il XIII secolo. Mensole angolari servono da puntelli e costituiscono un tramite strutturale tra gli elementi verticali portanti e quelli orizzontali del soffitto; mensole sostengono anche i balconi aggettanti dai muri. Le tecniche architettoniche variano nelle zone periferiche del Subcontinente indiano, come il Kerala, sulla costa del Mare Arabico dell'India meridionale, o le valli dell'Himalaya. In queste regioni, caratterizzate da piogge particolarmente abbondanti, i templi e le case sono costruiti con nuclei interni in muratura, tecnica che consente l'elevazione su più livelli, ciascuno dei quali caratterizzato da un tetto a forte spiovente, retto da montanti di legno e ricoperto da tegole di rame o di legno. Significativa è l'assenza di accessori di carpenteria di metallo: gli elementi strutturali di legno (colonne, mensole, travi, porte, finestre e tramezzi), lavorati con grande perizia, si sorreggono a vicenda grazie ad un accurato sistema di incassi. Un nuovo capitolo dell'architettura si aprirà a partire dalla fine del XII secolo, quando, a seguito dell'invasione musulmana dell'India settentrionale, il Paese si confronterà con tradizioni architettoniche completamente diverse.
P. Brown, Indian Architecture, Bombay 1956; J. Auboyer - J.F. Enault, La vie publique et privée dans l'Inde ancienne. L'architecture civile et religieuse, Paris 1969; K. Fischer, Dächer, Decken und Gewölbe indischer Kultstätten und Nutzbauen, Wiesbaden 1974; G. Michell, The Hindu Temple, London 1977; M.W. Meister - M.A. Dhaky (edd.), Encyclopaedia of Indian Temple Architecture, I-II, Philadelphia - Princeton - New Delhi 1983-91; C. Tadgell, The History of Architecture in India, from the Dawn of Civilization to the End of the Raj, London 1990.
di Giuseppe De Marco
Definire con precisione il concetto stesso di decorazione architettonica in riferimento ai monumenti dell'India antica non è compito agevole. È difficile infatti distinguere tra elementi architettonici veri e propri, elementi decorati e motivi decorativi complementari, ma non costitutivi del monumento. In linea generale, sono i punti più vulnerabili degli edifici (portali, aperture, nicchie, torri) quelli che recano la decorazione più elaborata, il cui scopo principale è quello di assicurare, attraverso simboli appropriati, una sorta di protezione rituale. La principale tecnica decorativa è la scultura, in epoca storica per lo più in pietra, talora rifinita in stucco, o interamente in stucco, soprattutto a partire dal IV-V sec. d.C. e in area gandharica. Notevole, sia pure più scarsamente documentata, è la decorazione pittorica e in terracotta. L'impero Maurya, particolarmente sotto Ashoka (III sec. a.C.), segna la nascita della prima architettura monumentale realizzata in materiali durevoli; fra le testimonianze più antiche si annoverano le colonne monolitiche (lāṭ o stambha), molte delle quali fatte erigere o riutilizzate dallo stesso Ashoka nei luoghi sacri del buddhismo. In arenaria polita, prive di basamento, esse sono coronate da un capitello campaniforme sormontato da abaco circolare con motivi vegetali (ad es., loto e caprifoglio) o animali (ad es., anatre, haṃsa), al cui sommo sono altre figure di animali come il toro (ad es., a Rampurva) e il leone (ad es., a Lauriya Nandangarh), o simboli buddhistici, come la ruota (cakra). È per la verità opinabile che il coronamento di queste colonne possa essere considerato alla stregua di una vera e propria decorazione architettonica. Simili colonne o pilastri continueranno tuttavia ad essere parte della tradizione indiana sia essa buddhistica, Hindu o Jaina, tenendo conto naturalmente delle molte varianti nell'elaborazione del fusto e di altre parti componenti (ad es., l'esistenza di una base, chabutra, di un'immagine in metallo al sommo, ecc.). Se ad epoca Maurya risalgono i più antichi stūpa pervenutici, è tuttavia a partire dall'epoca Shunga (II-I sec. a.C.) che si assiste al moltiplicarsi di questi e, soprattutto, della decorazione architettonica a rilievo; quest'ultima, se nella tecnica e nella trattazione dello spazio denuncia la discendenza dalla precedente architettura lignea, accoglie anche nel suo repertorio motivi evidentemente appartenenti ad una tradizione di più antica data, di cui non resta altro indizio se non la trasposizione nel nuovo contesto architettonico e nella contemporanea coroplastica. Soggetto dei rilievi sui toraṇa degli stūpa di Sanchi e Bharhut sono jātaka e avadāna (rispettivamente storie delle vite passate e dell'ultima incarnazione del Buddha storico), in cui il Buddha è rappresentato in forma aniconica, immerse in un sontuoso apparato di motivi decorativi, fitomorfi, geometrici e figurati, tra cui spiccano presenze di significato simbolico, quali fiori di loto (simbolo di nascita divina), pūrṇaghaṭa (vaso della vita), yakṣa e yakṣinī (antiche divinità encorie), makara (mostri acquatici). Tra le decorazioni architettoniche dei monumenti rupestri, merita particolare attenzione l'arco a ferro di cavallo o arco indiano, anche noto come arco a caitya, che sovrasta porte e coperture di edifici. La forma e la curva di un arco a caitya sono indicativi della sua antichità: nella sua forma più semplice esso presenta una curva di larghezza irregolare, culminante al sommo in una cuspide appena accennata, sormontata da un pinnacolo (ad es., Lomash Rishi nel Bihar, III sec. a.C.). La facciata dell'ambiente rupestre (caityagṛha) di Bhaja (100 a.C. ca.), nel Deccan, come è tipico di questi complessi, culmina con un imponente arco a caitya, che delimita un intradosso relativamente sporgente, scandito da un modulo costituito da elementi a forma di "pseudoarcarecci"; questa tipologia, spesso arricchita da una lunetta decorata a graticolo e già attestata nei modelli più antichi (ad es., Lomash Rishi) e nella produzione figurata (ad es., Bharhut, Sanchi, Mathura, ecc.), diverrà pressoché costante dall'epoca Satavahana e Kshaharatha Shaka (I-II sec. d.C.), come a Nasik e a Karli, almeno fino all'epoca dei Vakataka (ad es., Ajanta, V sec. d.C.). L'epoca Gupta (IV-VI sec. d.C.) segna un periodo di sviluppo parallelo dell'architettura templare Hindu in grandi spazi aperti; la decorazione assumerà, a partire da questo periodo, un ruolo così preponderante da fondersi con l'elemento strutturale. L'arco carenato indiano, noto nell'India centrosettentrionale come candraśāla o gavākṣa, nel Sud come kūḍu, si avvierà, attraverso varie fasi di sviluppo e sino all'epoca medievale, da una funzione strutturale ad una puramente decorativa. Arricchito da motivi come il loto, teste umane e animali, ecc., esso farà infatti da cornice a finestre cieche, spesso presenti addirittura sulle modanature di base dei monumenti. La stessa copertura a torre, o śikhara, tipica dello stile settentrionale (nāgara), risulterà spesso caratterizzata dal moltiplicarsi, lungo le costolature verticali del tempio, di gavākṣa sovrapposti, come ad esempio nel tempio di Parashurameshvara a Bhuvaneshvara o nel Tempio 2 di Surya di Osia (Rajasthan). Fungendo da base di supporto dell'elemento finale, a forma di vaso (kalaśa) del tempio, l'āmalaka, elemento a forma di bulbo schiacciato e a coste, è quasi onnipresente nell'architettura templare dell'India centrale e occidentale, entrando addirittura a far parte del repertorio architettonico decorativo islamico del Subcontinente. Inquadrature architettoniche riccamente decorate fungono da cornice al rilievo figurato, in cui, a seconda degli spazi, trovano posto immagini di dei e di divinità paredre o guardiane. Una vera e propria decorazione architettonica di derivazione classica è invece attestata nel Nord-Ovest del Subcontinente a partire dall'inizio dell'era cristiana, nella regione nota storicamente come Gandhara, che comprende il Pakistan settentrionale e l'Afghanistan occidentale. Regione largamente ricettiva di culture e tradizioni diverse (indiana, iranica, ellenistica), il Gandhara si caratterizza, appunto, per la presenza sulle sue due principali classi di monumenti religiosi buddhistici (stūpa, vihāra) di numerosi elementi, sia architettonici sia decorativi, di chiara derivazione ellenistica. Si deve a D. Faccenna (1980-81) il primo serio contributo per una loro sistemazione tipologico-architettonica, basata sui monumenti venuti alla luce a Butkara I, Panr, Saidu Sharif I, nello Swat (Pakistan settentrionale). La più tipica decorazione architettonica degli stūpa e, più raramente, delle cappelle (vihāra) gandharici è costituita dai rilievi figurati, di soggetto spesso narrativo, dove le singole scene sono scandite da lesene o semicolonne corinzie o indo-persepolitane. Lesene o semicolonne (dal nucleo in lastrine di scisto grigio-verdastro o in blocchi di talco) fungono anche da sostegno alle cornici superiori. Impostate sulle basi dei monumenti, presentavano, nella forma finale definita dall'impiego dello stucco, una modanatura di base d'ispirazione classica, fusto variamente scanalato, capitello di tipo corinzio, con foglie e volute, talvolta arricchito nella parte superiore (abaco) da una o più rosette o da un campo figurato. Di tipologia varia erano anche le cornici architravate che delimitavano in alto le lesene, talora di forma assai elaborata (ad es., Stupa n. 14 di Butkara I), con un ricco repertorio di motivi figurati, fitomorfi e geometrici variamente combinati, e le stesse mensole delle cornici: quadrangolari, modanate, con o senza volute o scanalature, a forma di cavetto, ovolo, gola rovescia o di pilastro ripiegato a S, ma anche con figure umane e animali alate. Tracce di bolo su numerosi rilievi testimoniano l'esistenza di dorature oggi perdute, che forse si accompagnavano all'applicazione del colore su alcune superfici. La decorazione di stucco (e in alcune zone, come ad es. l'Afghanistan, di argilla cruda), che vive accanto a quella di pietra, diviene preponderante nelle fasi più tarde dell'arte del Gandhara. La plasticità di questo materiale, combinato ad un uso vivace del colore, consentirà realizzazioni di grande effetto decorativo, anche se il largo impiego di matrici a stampo, specie per determinati elementi o dettagli, produce una certa impressione di serialità. In stucco erano spesso realizzate anche figure a rilievo di notevoli dimensioni, in tal caso con l'ausilio di una struttura interna (di legno, stracci o altro materiale) fissata alla parete, sulla quale si stendevano diverse coltri di stucco. Tracce quantitativamente minori, ma non meno pregevoli, ha lasciato la decorazione architettonica di terracotta, che conosce il suo periodo più fecondo in epoca Gupta, con l'uso di lastre in terracotta, di mattoni e di altri elementi architettonici decorati a rilievo o a incisione, modellati a mano, a stampo o spesso con tecnica mista. Una grande ricchezza di motivi, alcuni dei quali di derivazione ellenistica, caratterizza la decorazione in terracotta dello stūpa di Devnimori, in Sind (fine IV sec. d.C.); si segnalano inoltre lo stūpa di Mirpur Khas (V sec. d.C.), nella stessa regione, e i pannelli del tempio di mattoni di Bhitargaon (il più antico di questo tipo pervenutoci) e del tempio di Shiva a Ahichchhatra (V-VI sec. d.C.) in Uttar Pradesh; notevoli, infine, per la loro peculiarità, sono le lastre pavimentali del santuario buddhistico di Harwan, in Kashmir (V sec. d.C.?), in cui compare un ricco repertorio di motivi fitomorfi e di figure animali e umane, fra cui spiccano figure di asceti. Della decorazione pittorica restano poche tracce fino all'epoca Gupta; nel Gandhara, dove pure se ne può supporre un largo impiego, oltre ai lacerti di Butkara I (Pakistan) si conservano testimonianze in siti più tardi dell'Afghanistan, quali Tapa Sardar e, soprattutto, Tapa Shotor, dove in una cripta è stata rinvenuta una pittura parietale che ritrae un gruppo di monaci meditanti attorno ad uno scheletro. Sono tuttavia le grotte di Ajanta (V-VI sec. d.C.), con le loro pareti completamente affrescate, il più prezioso documento rimastoci: lo spazio affollato da una narrazione senza pause, i colori morbidi, l'uso del chiaroscuro, l'eleganza delle figure testimoniano una raffinatissima tradizione formale, che trova espliciti richiami nelle grotte di Sigiriya a Sri Lanka.
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di Giuseppe De Marco
Nucleo dell'ordine sociale in India, tramandatoci nella sua letteratura più antica, è la famiglia e insieme ad essa la casa, variamente denominata gṛha, agāra, śālā, ecc. La casa indiana, di cui quasi tutti i testi sul cerimoniale domestico (Gṛhyasūtra) descrivono i riti che ne accompagnano l'edificazione, è la dimora non solo dei membri in vita della famiglia, ma anche degli antenati e degli dei. Essa è vista come uno degli strumenti per raggiungere la liberazione finale (mokṣa). Trattandosi però di architetture realizzate con materiale deperibile (bambù e paglia, canne e giunchi), o riutilizzabile (mattoni), gli esempi abitativi dell'India antica a noi giunti, dalle origini al periodo Gupta, sono poco numerosi dal punto di vista della documentazione archeologica. La prima civiltà urbana, fiorita nella valle dell'Indo tra il 2600 e il 1900 a.C. circa, è caratterizzata da un'accurata pianificazione urbanistica, con i blocchi residenziali organizzati entro le maglie di una regolare rete viaria. Le case, a più piani, erano costruite con mattoni cotti di dimensioni standardizzate (28 × 14 × 7 cm), connessi tra loro con fango impastato; i tetti, piani, erano ottenuti mediante robuste travature. Le case erano di dimensioni molto varie: mediamente ogni abitazione aveva almeno tre stanze, tutte aperte verso una corte centrale, e un bagno; cucina e bagno erano al pianterreno, mentre quelle che potremmo chiamare soggiorno e camera da letto erano al piano superiore, raggiungibili dalla corte mediante una scala. Abitazioni più piccole, con non più di due ambienti, erano probabilmente riservate alla servitù. Tra due o più case vi era un pozzo. Ciascuna abitazione era provvista di latrine, connesse con canali di scolo coperti ai lati della strada, che confluivano a loro volta in pozzi neri posti a intervalli regolari. La pavimentazione degli ambienti poteva essere di terra battuta o di mattoni cotti o essiccati al sole e solo raramente veniva impiegata la pietra lavorata. Il resto dell'India, ad eccezione delle zone costiere del Kerala, del Tamilnadu, dell'Orissa e dell'Assam, era ancora caratterizzato da fasi diverse della cultura neolitica. La documentazione migliore riguardo all'architettura domestica di questo periodo viene dagli scavi condotti nella regione del Malwa (Madhya Pradesh occidentale), soprattutto a Navdatoli. Diversamente da altri siti calcolitici scavati nella stessa regione (ad es., Eran e Nagda), Navdatoli non pare abbia avuto una cinta di mura a racchiudere l'insediamento. L'abitato era costituito da capanne circolari (diam. 3 m ca.) o rettangolari (in media 3,5 × 2,5 m ca.). Non si conosce l'impiego di mattoni cotti; le pareti delle abitazioni erano costruite con tronchi di bambù intonacati con fango all'interno e all'esterno, mentre per i pavimenti si ricorreva all'impiego di ciottoli e di ghiaia impastati con argilla, poi rivestiti con calce. Pali di legno erano impiegati a sostegno dei tetti; questi erano probabilmente a cono e realizzati, come nelle capanne attuali, con uno spesso strato di paglia e di giunchi, consolidati con strati di argilla, steso su un'intelaiatura di travi incrociate. Verso la metà del I millennio a.C. sorsero nella valle gangetica grandi città fortificate, capitali dei janapada (territori protostatali), quali ad esempio Kaushambi, capitale del Vatsa, Champa dell'Anga, Rajghat del Kashi. Sembra che solo a partire dal III sec. a.C. (contrariamente alla datazione del V-IV sec. proposta dagli studiosi indiani) le città siano state costruite con mattoni cotti e secondo un principio, sia pure più schematico di quello delle città della valle dell'Indo, di piano regolatore. Uno degli esempi meglio documentati è offerto da Bhita, piccola città mercantile fortificata in Uttar Pradesh, sul fiume Yamuna, parzialmente scavata da J.H. Marshall agli inizi del Novecento. A Bhita l'area immediatamente interna alle mura sul lato est presenta isolati delimitati da strade e stradine, con botteghe e abitazioni di grandi dimensioni. Tra le strutture più significative portate alla luce è la cosiddetta Casa della Corporazione (III sec. a.C.). La pianta dell'edificio è piuttosto semplice: una corte centrale rettangolare aperta è circondata sui quattro lati da dodici camere precedute da portico, secondo il principio noto come catuḥśālā. Come altre abitazioni del periodo Maurya i muri a vista sono costruiti con mattoni cotti e le fondazioni impostate su frammenti di mattoni misti a frammenti ceramici e ad argilla. Caratteristica innovatrice nel sistema urbano delle città gangetiche è il tipo di canalizzazione costituito dai cosiddetti "pozzi ad anelli modulari" (ring wells), rinvenuti all'interno di ambienti (cucine e corti). Pozzi per i rifiuti domestici, costituiti dalla sovrapposizione di due o tre giare di terracotta perforate alla base, sono documentati a Hastinapura, Rajghat, Vaishali, ecc. I pozzi di assorbimento (o biologici) erano scavati sino alla profondità necessaria e collegati alla latrina mediante il montaggio, l'uno sull'altro, di più anelli modulari di terracotta. Altro sito di grande importanza archeologica è Taxila (Panjab, Pakistan), dove si succedettero tre città: il cosiddetto Bhir Mound, Sirkap e Sirsukh. La prima città, abitata dall'epoca achemenide fino al II sec. a.C., presenta un impianto urbanistico non pianificato, con un intrico di strade così strette da non permettere in molti casi il passaggio di due persone. Le case del Bhir Mound presentavano in genere una corte aperta su uno o più lati, ma con una pianta così irregolare da rendere labili i confini tra una casa e l'altra. La pavimentazione delle corti era di terra battuta o di rozze lastre o ciottoli di fiume. Né nel Bhir Mound, né negli altri insediamenti di Taxila sono stati rinvenuti pozzi, pubblici o privati, per l'approvvigionamento idrico, che, secondo Marshall (1951), avveniva servendosi direttamente del corso d'acqua del Tamra. I rifiuti domestici venivano depositati in scarichi pubblici posti lungo le strade. Caratteristici del Bhir Mound erano i pozzi di scarico privati, di cui è documentata una tipologia molto varia. Gli scavi di Sirkap, soprattutto dei livelli Shaka-partici, hanno posto in luce, oltre al palazzo e a importanti edifici di culto, anche i resti delle strutture residenziali, in cui il principio del catuḥśālā è applicato con regolarità maggiore rispetto al Bhir Mound, anche se non rispecchiano comunque l'accurata simmetria generale della città. I muri, in massima parte costruiti con pietre grezze, erano coperti da intonaco di calce o malta, che ancora conserva in qualche caso tracce di colore. Il legno veniva usato per i tetti, piatti e ricoperti da uno spesso strato di fango, per i piani superiori, per i portici e per le porte. Ad alcune abitazioni pare fosse annessa una piccola cappella, che ospitava uno stūpa, in molti casi aperto direttamente sulla strada. Il successivo insediamento fortificato, Sirsukh, non è stato scavato, ma è stato attribuito ai Kushana per la tecnica in pietra della muratura e per altre particolari caratteristiche della cinta di mura. Disponiamo però della documentazione di numerosi altri insediamenti di epoca Kushana nel Nord-Ovest e nel Nord dell'India, da cui possiamo ricavare indicazioni riguardanti l'abitazione tipica del periodo. In generale l'abitato di epoca Kushana era costituito da case ad uno o più piani, spesso intonacate, dipinte o decorate in vario modo, che comprendevano camere da letto, cucine e bagni. La disposizione interna delle abitazioni fa pensare ad un uso differenziato degli ambienti per sesso, con quelli femminili più ampi (ad es., a Kaushambi). Il legno era largamente impiegato per porte, stipiti, travi, colonne e forse per la costruzione dei piani superiori. Tra i siti recentemente portati alla luce, degno di nota per l'ampia documentazione archeologica che si distribuisce in maniera ininterrotta dai livelli pre-Maurya sino a quelli islamici è l'insediamento di Sonkh, presso Mathura (Uttar Pradesh). Qui il periodo Kushana, che corrisponde al periodo V e che comprende sette livelli di occupazione (livelli 16-22), è caratterizzato da un'attività costruttiva piuttosto intensa. I blocchi residenziali (A-J) consistono di gruppi di ambienti che sfruttano in parte le precedenti strutture dei livelli Kshatrapa (periodo IV). La maggiore concentrazione di abitazioni è stata osservata nel settore di sud-ovest del livello 16 (il primo dei livelli Kushana) in un'area di 20 × 30 m circa. I blocchi abitativi (in mattoni cotti, talvolta riutilizzati da strutture precedenti), contrariamente ai livelli precedenti, erano costruiti gli uni a ridosso degli altri, senza alcun muro in comune, ma appena separati da uno stretto varco, di larghezza compresa fra i 30 e i 70 cm. Il numero più cospicuo di abitazioni (Block C) comprende 16 stanze tutte aperte verso una corte rettangolare; i tetti, probabilmente piatti, dovevano essere costruiti con materiale deperibile, a giudicare dai resti di vegetali e dai frammenti di intonaco di argilla trovati in parecchie stanze. Il rinvenimento di un grosso vaso (alt. 1,1 m) in un ambiente del Block B fa pensare alla sua destinazione come stanza per la riserva dell'acqua, secondo una pratica già attestata nei precedenti livelli Kshatrapa (periodo IV) e Mithra (periodo III). Con i livelli Gupta e post-Gupta (periodo VI) si assiste, come altrove in India, ad una fase di deurbanizzazione e ad un graduale decadimento dell'attività edilizia civile e, fatto salvo il livello 15, in cui, con pochi interventi di ristrutturazione, si riutilizzano le strutture Kushana precedenti, le nuove costruzioni, disposte in maniera incoerente con i muri a ridosso gli uni degli altri, sono anche a Sonkh, così come a Vaishali (Bihar), molto modeste e di scarsa qualità, edificate prevalentemente con frammenti di mattoni e pietrisco. La scarsità di evidenze strutturali è compensata dalle indicazioni testuali, tra cui l'abbondante corpus della letteratura buddhistica (Vinaya, Jātaka), dell'epica (Mahābhārata, Rāmāyaṇa), dei Purāṇa ("tradizioni", "antichità"), dei trattati tecnici sulle "regole dell'architettura" (Vāstuvidyā o Vāstuśāstra) o di testi come la grammatica di Panini, l'Arthaśāstra di Kautilya e delle opere di autori come Vatsyayana, Kalidasa e Bana, ma soprattutto dalle rappresentazioni iconografiche (in particolare le sculture e le pitture buddhistiche), attraverso le quali si tramanda l'immagine viva di strutture che l'archeologia potrebbe appena ipotizzare: gli appartamenti sui vari piani con balconate, finestre e bovindi quadrati, rettangolari o ad arco; i tetti, a cupola o absidali, in molti casi provvisti di pinnacoli, impostati su travetti inclinati (gopānasiyo), o quelli più piatti di epoca Gupta; le abitazioni rurali, capanne le cui forme e dimensioni variavano a seconda della casta di appartenenza del proprietario e che potevano presentare pianta circolare e copertura di paglia con cupola emisferica o parabolica e volta a botte, oppure pianta rettangolare con copertura di tegole e tetto a doppio spiovente, spesso sormontate da pinnacoli.
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di Ciro Lo Muzio
Le città protostoriche della valle dell'Indo (2600-1900 a.C.) lasciano trasparire una complessa organizzazione gerarchica, non ancora pienamente chiarificata, ma evidente nella presenza di settori urbani di rango e specializzazione funzionale differenti. Sebbene gli impianti delle città vallinde siano solo con una certa approssimazione riconducibili a uno schema bipartito (città alta e città bassa), è verosimile che i quartieri situati in posizione eminente (di frequente resa tale da imponenti opere di sostruzione) rappresentassero nella topografia urbana i vertici della gerarchia politica, economica e religiosa. È, infatti, nei quartieri alti di Mohenjo Daro, Harappa e di altri centri di questa civiltà che si concentrano le strutture architettoniche di particolare monumentalità, a testimoniare l'esistenza di una solida autorità centrale; tuttavia, non si dispone di indizi sufficienti per chiarire la funzione dei singoli edifici o complessi edilizi. Inoltre, l'assenza di termini di confronto con la tradizione architettonica mesopotamica, assai meglio nota, non facilita l'interpretazione delle strutture che convenzionalmente definiamo "granai", "grandi bagni", "quartieri operai" e di altri resti monumentali delle città protostoriche del Subcontinente. Anche per quanto concerne l'epoca storica, le nostre conoscenze in materia sono lacunose. Le esigue testimonianze archeologiche sono tuttavia integrate da una documentazione ausiliare fornita dalle fonti scritte e dall'iconografia. In particolare, per quanto concerne l'architettura palatina possiamo contare sull'apporto di testi di materia e appartenenza religiosa diverse. Alle prescrizioni dell'Arthaśāstra o del Mānasāra si affiancano le testimonianze, forse più autentiche, di altre fonti quali, in ambito buddhista, i Jātaka, il Mahāvagga e il Cullavagga, e, in ambito brahmanico, i Purāṇa od opere più tarde come l'Harṣacarita e la Kādambarī (composte da Bana alla corte del re Harshavardhana nella prima metà del VII sec. d.C.). Secondo le prescrizioni canoniche, il palazzo doveva essere situato nel centro della città, con l'accesso principale orientato verso una delle porte urbiche. L'entrata immetteva in una corte o in una serie di corti, all'interno delle quali sorgevano edifici adibiti a funzioni diverse. Il prāsāda, ossia l'edificio residenziale propriamente detto, era situato in posizione appartata ed era inaccessibile al pubblico. Nelle fonti viene descritto in genere come una costruzione a più piani, dato che trova riscontro nell'iconografia (si vedano, ad es., le rappresentazioni di facciate di palazzi nei rilievi buddhistici di Bharhut, Sanchi, Mathura e Amaravati). Gli ambienti abitativi erano situati al piano più alto, o mahātala, mentre i livelli inferiori erano occupati da uffici, cucine, bagni e altri vani di servizio. In queste strutture, come in gran parte dell'architettura del Subcontinente, l'impiego del legno doveva essere assai ampio e ciò spiega la scarsità delle testimonianze superstiti. In legno erano realizzati i pilastri che, particolarmente numerosi al pianterreno, ma presenti anche nei piani superiori (come si evince dall'iconografia), sostenevano le coperture. Del medesimo materiale erano fatte finestre, scale, pavimenti, nonché le armature di sostegno per la muratura in mattoni cotti. L'utilizzo della pietra era più limitato (pavimenti e pilastri). Secondo un'opinione di A.K. Coomaraswamy (1931), le facciate e le sale pilastrate dei caityagṛha buddhistici (ad es., Bhaja, Karli e Bedsa) erano essenzialmente ispirate all'architettura dei prāsāda. Le testimonianze archeologiche sono ancora insufficienti per vagliare la veridicità dei riferimenti letterari. È del tutto legittimo ipotizzare la presenza di un complesso palaziale a Pataliputra (nell'area dell'odierna Patna), capitale dei Maurya (fine IV - inizi II sec. a.C.) nella quale soggiornò Megastene, ambasciatore dei Seleucidi, ospite del re Chandragupta; tuttavia si reputa ora meno convincente la tradizionale attribuzione della vasta sala ipostila (39 × 32 m) riportata alla luce in località Kumrahar a un palazzo, dato il totale isolamento della struttura. Le 80 colonne in arenaria polita di questo padiglione, distrutto da un incendio intorno al 150 a.C., avevano fatto ipotizzare una derivazione dal modello dell'apadāna, dunque dall'architettura palatina achemenide. Frammenti di colonne e capitelli sono stati rinvenuti in diversi punti dell'area urbana; il più noto tra questi reperti è il capitello di Bulandibagh, nella cui decorazione motivi di origine classica (palmette, onde correnti, linguette, volute) appaiono mediati dalla tradizione achemenide. Pervenutoci integro nella sua planimetria, e per questo motivo un unicum nell'intero Subcontinente, il palazzo di Sirkap (Taxila) risale agli inizi del I sec. d.C. Il complesso (che J.H. Marshall denominò Block K) sorgeva nel centro della città, poco distante dall'incrocio delle due vie principali; l'edificio misurava 107 (fronte stradale) × 125 m, era costruito in pietrame rivestito da una fodera di arenaria ed era accessibile tramite tre entrate, una delle quali situata sulla via principale. Il settore sud-occidentale del palazzo includeva una sala tetrastila, presunta corte per le udienze private, intorno alla quale erano disposti ambienti spaziosi (tra questi, una presunta sala per banchetti), e una corte della guardia, accessibile da una via laterale. In un altro settore del complesso, situato più a est e suddiviso in due parti da un muro, è stata portata alla luce una vasta corte (a sud), probabilmente destinata alle udienze pubbliche. Una corte a L circondata da vani di misure diverse, nella parte nord-occidentale, è stata identificata da Marshall (1951) come il "settore femminile". Si segnala, inoltre, la presenza di uno stūpa (secondo l'autore degli scavi, Jaina), di cui si conserva solo il basamento quadrato, situato al centro di una corte nella parte orientale del complesso. Nell'insieme il palazzo di Sirkap non denota soluzioni architettoniche o caratteristiche monumentali, se non le dimensioni complessive, che lo distinguano in modo netto dall'edilizia domestica cittadina. Di ciò si è spesso cercata conferma letteraria nelle parole di Apollonio di Tiana, che sottolineava la sobrietà del palazzo reale di Taxila (Philostr., V. Apoll., II, 25), ma l'autenticità di questa fonte è stata messa in dubbio. L'organizzazione spaziale e l'articolazione in settori funzionali del Block K rivela tuttavia elementi di confronto con l'architettura palatina della Mesopotamia arsacide (Assur, Dura-Europos, Nippur) e, in ultima analisi, con la tradizione assira (palazzo di Sargon a Khorsabad). Sempre a Sirkap, nella parte alta del sito, è stato riportato alla luce un gruppo di strutture presumibilmente appartenenti a un complesso palaziale, il Mahal. Delimitato a nord e a ovest dalle mura urbiche, esso si articola in settori composti da corti circondate da vani di dimensioni diverse. Anche queste rovine sono state datate ad epoca scito-partica (I sec. d.C.). A Sanghol, nel Panjab indiano, è stato scavato un complesso di epoca Kushana (I-III sec. d.C.) comprendente un edificio palaziale (150 m²) ‒ con sala ipostila, pavimento di mattoni cotti e, su un lato, una piattaforma originariamente sormontata da un baldacchino ligneo ‒ e un edificio amministrativo (16 × 12,4 m), costituito da 20 ambienti, probabilmente adibiti a uffici. A Nagarjunakonda (Andhra Pradesh) sono stati messi in luce resti di strutture palaziali e di pubblica utilità attribuibili alla dinastia Ikshvaku (secondo quarto del II-IV sec. d.C.), che nella città stabilì la propria capitale (Vijayapurī): un edificio destinato ai bagni e una vasta piscina a gradini di pianta quadrata originariamente coperta da un padiglione ligneo, distrutto da un incendio. Sempre a Nagarjunakonda è stata scavata l'unica struttura architettonica dell'India antica riconducibile con buona verosimiglianza alla tipologia dell'anfiteatro. Realizzata in mattoni cotti e rivestita di lastre di pietra, la costruzione era di pianta quadrangolare, con almeno 16 gradini su ciascun lato. L'entrata principale era a ovest e su questo stesso lato la gradinata era suddivisa in due metà da una scalinata. La struttura, priva di copertura, racchiudeva un'area rettangolare (16,5 × 13,5 m) destinata a esecuzioni musicali o rappresentazioni teatrali, sebbene non si escluda la possibilità che vi si svolgessero combattimenti o altre attività agonistiche. Il monumento viene datato al III sec. d.C.
A.K. Coomaraswamy, Early Indian Architecture, Part 3. Palaces, in EastArt, 3 (1931), pp. 180-217; P.K. Acharya, Hindu Architecture in India and Abroad, London 1946, pp. 124-25; J.H. Marshall, Taxila, I, Cambridge 1951, pp. 171-80; V.S. Agrawala, Palace Architecture in Bāṇa's Harṣacarita: Skandhāvāra, Rājakula, Davalagṛha, in Mélanges d'Indianisme à la mémoire de L. Renou, Paris 1968, p. 722 ss.; M.W. Meister, Prāsāda as Palace: Kūtina Origins of the Nāgara Temple, in ArtAs, 49 (1989), pp. 254-80; L.N. Rangarajan (ed.), Kautilya. The Arthashastra, Calcutta 1992; R. Coningham, The Spatial Distribution of Craft Activities in Early Historic Cities and their Social Implications, in SAA 1995, pp. 351-63.
di Ciro Lo Muzio
Fino all'ascesa della dinastia Maurya (321-185 a.C.), la civiltà indiana non ha lasciato che sporadiche e incerte testimonianze di edilizia cultuale. Che la lacuna sia pressoché totale per il periodo vedico (approssimativamente 1500-500 a.C.) non deve sorprendere, poiché la cultura religiosa dell'epoca era imperniata sull'esecuzione di riti sacrificali che, prerogativa esclusiva dei sacerdoti (brāhmaṇa), non contemplava la partecipazione della comunità, né tanto meno richiedeva l'erezione di edifici di culto, quanto piuttosto di altari di mattoni costruiti in luoghi determinati di volta in volta a seconda del tipo di rituale da officiare. L'assenza di resti di strutture monumentali di chiara destinazione cultuale nelle città protostoriche della valle dell'Indo (2600-1900 a.C. ca.) potrebbe invece destare stupore, soprattutto tenendo conto dello sviluppo che l'architettura religiosa conosceva nelle coeve culture vicino-orientali. L'unica eccezione viene indicata nel Grande Bagno di Mohenjo Daro, una vasca rettangolare di mattoni cotti rivestita di bitume e accessibile tramite scalinate, la cui utilizzazione per abluzioni rituali viene suggerita principalmente in base all'importanza che i rituali legati alla purificazione avrebbero successivamente assunto nell'India brahmanica. È invece plausibile postulare l'esistenza di luoghi deputati al culto dell'albero. Come tale sembra si possa identificare il Cortile 10 della House A1 di Mohenjo Daro; accessibile tramite due scalinate da ovest e da est (che hanno fatto pensare a un percorso processionale), esso conservava nella sua parte centrale un piccolo recinto di mattoni cotti, che si suppone ospitasse la pianta oggetto di venerazione. Questa interpretazione troverebbe supporto nelle raffigurazioni, su sigilli rinvenuti nelle città vallinde, di cerimonie incentrate su alberi (probabilmente varietà di acacia) all'interno di simili recinti. Come si è detto, gli inizi di un'architettura religiosa monumentale si datano a epoca Maurya. Le più antiche testimonianze a noi note sono gli ambienti di culto cavati nella roccia delle colline di Barabar e di Nagarjuni (Bihar). Le grotte di Barabar furono dedicate da Ashoka (272-231 a.C.), quelle di Nagarjuni dal di lui nipote Dasharatha (II sec. a.C.) e destinate, come esplicitamente dichiarato dalle iscrizioni, a essere utilizzate dai membri della setta degli Ajivika. Tali grotte constano di un vano rettangolare voltato seguito da un ambiente circolare vuoto, disposti su un asse parallelo alla falesia. Nel gruppo di Barabar si distingue la grotta di Lomash Rishi (l'unica priva di iscrizione, ma con ogni probabilità anch'essa attribuibile ad Ashoka) per la facciata configurata a portale (toraṇa) ad arco cuspidato, che testimonia in modo evidente l'influsso di modelli lignei su questa architettura sui generis. È infatti verosimile che la realizzazione di questi monumenti e, a partire dalla fine del II sec. a.C., dei più antichi complessi buddhistici sia rupestri sia costruiti con materiale durevole (mattone cotto e pietra), sia stata preceduta da una fase di sperimentazione dominata dall'impiego del legno (che forse non fu mai definitivamente abbandonato), di cui è andata persa ogni traccia. L'impronta dell'architettura lignea accompagnerà, con le sue tipiche soluzioni tecniche e formali, l'intero sviluppo dell'edilizia religiosa indiana.
Le grotte d'epoca Maurya inaugurano una tradizione che, a partire dal 100 a.C. circa e per diversi secoli, costituirà una delle più significative e coltivate espressioni architettoniche del buddhismo e di altre correnti eterodosse (come il jainismo) e che, seppure in epoca molto più tarda, troverà piena accoglienza anche all'interno del brahmanesimo. Le ragioni della popolarità di cui l'architettura rupestre godette nell'India antica sono probabilmente da ricercare nella concomitanza di fattori diversi. Per lunga tradizione dimora ideale degli asceti (e del Buddha stesso), la grotta garantiva frescura nei mesi torridi e un riparo asciutto nella stagione monsonica. Inoltre, il fatto di essere scavati nel fianco di una montagna, che la mentalità religiosa indiana investe di sacralità immanente, rendeva questi luoghi di culto tanto più venerabili. La regione più ricca di monasteri rupestri è senz'altro il Deccan: Kondivte e Bhaja (100 a.C. ca.), Pitalkhora (I sec. a.C.), Nasik (II sec. a.C. e oltre), Bedsa (I sec. d.C.), Karli (I sec. d.C.), Ajanta (II sec. a.C. e seconda metà V sec. d.C.), Bagh (tardo V sec. d.C.) e Aurangabad (metà VI sec. d.C.) non sono che i complessi più noti. Intorno al 100 a.C. si datano anche i primi insediamenti religiosi costruiti (ad es., Bharhut e Sanchi in Madhya Pradesh), mentre la fioritura dei monasteri buddhistici del Gandhara corrisponde grosso modo ai secoli di regno dei Grandi Kushana (I-III sec. d.C.). Tra il I e il III sec. d.C., nei bacini dei fiumi Krishna e Godavari, dunque nel territorio governato dai Satavahana (Andhra), si sviluppa uno dei più vitali poli di cultura buddhista dell'India antica, testimoniato da numerose e importanti fondazioni religiose, come Amaravati e Nagarjunakonda. Esamineremo ora le tipologie architettoniche peculiari del saṃghārāma (monastero) e, più in generale, del luogo di culto buddhista: lo stūpa, il caityagṛha e il vihāra. I primi stūpa furono innalzati sulle reliquie corporali del Buddha. Secondo il Mahāparinibbānasutta, le ceneri dell'Illuminato sarebbero state distribuite tra gli otto re convenuti nel luogo dove era avvenuta la sua cremazione. Ciascun monarca avrebbe poi eretto un tumulo sulla parte di reliquie a lui toccata. Nessuno di questi monumenti si è conservato, tuttavia vi è motivo di credere che il loro aspetto non si discostasse troppo da quello del tumulo funerario vedico (samadhī). In effetti, lo stūpa ci è noto in una forma già evoluta che, rispetto al prototipo funerario, denota i peculiari elementi simbolici che ne fanno un vero e proprio monumento di culto. Come ci è testimoniato dagli esemplari risparmiati nella roccia nei più antichi complessi rupestri del Deccan, da quelli raffigurati nell'iconografia coeva e, soprattutto, dagli esemplari costruiti ‒ e splendidamente conservatisi ‒ nel complesso buddhistico di Sanchi (ca. 100 a.C. - I sec. a.C.), lo stūpa è costituito da una calotta emisferica (aṇḍa) impostata su un basamento circolare (medhi) e sormontata da una piccola balaustra di pianta quadrata (harmikā); da questa sorge un pilastro (yaṣṭi) che attraversa assialmente l'intero monumento e reca all'estremità superiore una serie di parasoli (chattra) di diametro decrescente. Nelle aree sacre buddhistiche all'aperto (ad es., Bharhut, Sanchi, Amaravati) lo stūpa può essere circondato da una balaustra circolare (vedikā) che riproduce in pietra la forma di una massiccia stecconata lignea interrotta da una o quattro entrate (in tal caso orientate secondo i punti cardinali). In corrispondenza dei varchi potevano essere eretti monumentali portali (toraṇa) costituiti da due piedritti e da tre architravi interconnessi da pilastrini. Lo spazio compreso tra la vedikā e la base dello stūpa era destinato al rito della pradakṣiṇā, cioè alla circumambulazione del monumento, che avveniva generalmente in senso orario; in alcuni stūpa anche il margine del basamento fungeva da percorso per la pradakṣiṇā (ad es., lo Stupa 1 di Sanchi). Lo stūpa è insieme monumento funerario, simbolo del Buddha e rappresentazione simbolica della tripartizione del cosmo ‒ le Acque (il piano della pradakṣiṇā), la Terra (il basamento), il Cielo (l'aṇḍa), attraversati e saldati dal pilastro centrale, l'axis mundi. Fulcro dell'area sacra buddhistica e principale oggetto di devozione, lo stūpa non contiene una cella o ambienti di altro tipo, pertanto, a rigor di termini, non potrebbe essere definito struttura architettonica. Esso è in sostanza una massa compattata di terra e pietrame, rivestita da una fodera di mattoni cotti o pietra. Al suo interno, in prossimità del punto in cui sorgeva il pilastro assiale, si trovava un piccolo vano, inaccessibile dall'esterno, destinato a contenere i sacri resti, in genere assai esigui, e altri oggetti simbolici (ma spesso soltanto questi), in un reliquiario di pietra o altro materiale a sua volta inserito in una cassetta; naturalmente gli stūpa risparmiati nella roccia non contenevano reliquie. Alcuni stūpa hanno rivelato una struttura interna di muratura a forma di cerchio radiato, la quale, oltre ad assolvere una funzione eminentemente pratica, ossia quella di consolidare la massa di materiali che costituivano l'aṇḍa, rinviava, da un punto di vista simbolico, al dharmacakra, la Ruota della Legge. Data la sua naturale tendenza a disgregarsi, lo stūpa richiedeva periodiche rifoderature (opere meritorie, per chi se ne assumeva l'onere) che, oltre a rinforzare il monumento, ne accrescevano via via le dimensioni. Molti degli stūpa a noi pervenuti sono dunque il risultato del progressivo accrescimento (acchādaya) di un nucleo più antico di diversi secoli; è il caso dei cosiddetti Dharmarājikastūpa (ad es., a Butkara, a Taxila o a Sarnath), che racchiudono stūpa fatti erigere da Ashoka. L'evoluzione formale dello stūpa produce esiti particolarmente interessanti nella regione gandharica. Le principali innovazioni consistono nella sostituzione del basamento circolare con un podio di pianta quadrata, che può articolarsi in diversi corpi di dimensioni decrescenti verso l'alto e nell'inserzione di un tamburo cilindrico tra il podio e l'aṇḍa. Rispetto al modello tradizionale con basamento circolare, pure testimoniato nella regione (Jamalgarhi, Manikyala, Butkara I), lo stūpa gandharico tende ad assumere una forma più slanciata. È inoltre frequente la presenza di una scalinata su uno dei lati del basamento o su tutti e quattro (stūpa a pianta cruciforme o stellare). Peculiare al Nord- Ovest indiano è inoltre il cosiddetto "stūpa a colonne"; le colonne sono situate in corrispondenza degli angoli del basamento e sono presumibilmente da interpretare come rappresentazione simbolica delle emanazioni del Buddha. È infine importante ricordare che diverse parti dello stūpa (balaustra, toraṇa, basamento e tamburo) presentavano una ricca decorazione a rilievo figurato. Le sculture che ornavano gli stūpa di Bharhut, Sanchi, Mathura, Amaravati e dei monasteri del Gandhara sono fonte primaria per la conoscenza dell'iconografia buddhistica e, più in generale, della più antica produzione artistica dell'India. Nei complessi rupestri, lo stūpa è situato all'interno di una cappella, il caityagṛha (ossia "sala", gṛha, contenente il caitya, che è sinonimo di stūpa). La pianta dei più antichi caityagṛha buddhistici (Kondivte e Bhaja in Maharashtra, 100 a.C. ca.) deriva da quella delle grotte Maurya già menzionate, tuttavia d'ora in avanti la cappella sarà orientata su un asse perpendicolare alla falesia. Inoltre, se nel caityagṛha di Kondivte la sala rettangolare è ancora separata dal vano circolare di fondo (che qui contiene lo stūpa), a Bhaja troviamo un impianto modificato: i due vani originari si fondono in un'unica cappella absidata, con lo stūpa nel fondo e una fila di pilastri a sezione ottagona, che, seguendo il profilo absidato della grotta, ne suddivide lo spazio in tre navate, delimitando il percorso della pradakṣiṇā. D'ora in avanti i caityagṛha dei complessi rupestri buddhistici riprodurranno questo modello planimetrico senza variazioni significative, se non nelle dimensioni (il più vasto caityagṛha è quello di Karli, metà del I sec. d.C., con una lunghezza di 38 m ca.) e nella decorazione, che si allontanerà gradualmente dalla sobrietà originaria (si pensi al sontuoso apparato ornamentale delle grotte di Ajanta, 460-500 d.C. ca.). L'ampia entrata del caityagṛha di Bhaja, sormontata da un arco a ferro di cavallo, ma originariamente provvista di uno schermo ligneo, si staglia sullo sfondo della facciata lavorata a imitazione di strutture architettoniche (balconate, archi, finestre). Successivamente le entrate dei caityagṛha avrebbero assunto forme più elaborate con l'aggiunta di verande (Bedsa) e di una corte antistante (Karli). Componente essenziale del monastero buddhistico (saṃghārāma) è la cella monastica, ossia il vihāra; il medesimo termine designa anche un insieme di celle nella loro tipica configurazione architettonica, cioè riunite intorno a una corte o a una sala centrale. Il vihāra è in genere un ambiente quadrato o rettangolare di dimensioni contenute (in alcuni casi con un più piccolo vano annesso sul retro) costruito o cavato nella roccia; nei complessi rupestri può essere dotato di una sorta di letto risparmiato nella pietra. Una delle prime esemplificazioni dello schema di raggruppamento delle celle nei monasteri rupestri è esemplificato dal Vihara 19 di Bhaja, con celle quadrate e rettangolari disposte, in maniera ancora asimmetrica, intorno a una sala quadrata e sui lati della veranda che la precede. Un impianto più regolare e simmetrico caratterizza i vihāra di altri monasteri rupestri del Deccan, quali Pitalkhora (I sec. a.C.) e Nasik (II sec. d.C.); a Bedsa (I sec. d.C.) le celle si dispongono eccezionalmente lungo il perimetro di una sala absidata. Lo schema planimetrico dei vihāra giunge a perfezionamento ad Ajanta. Le celle sono disposte su due lati di una vasta sala quadrata ipostila, preceduta da una veranda, mentre, significativa innovazione, al centro della parete opposta all'entrata è una cappella contenente una grande statua del Buddha, preceduta da un vestibolo. Le pareti e i soffitti della sala sono decorati da splendide pitture, cui è in gran parte legata la fama di questo sito. Il Nord-Ovest del Subcontinente rappresenta uno dei più importanti terreni di indagine per lo studio delle tipologie architettoniche del monastero buddhistico. Resta ancora valida la classificazione generale che venne formulata da A. Foucher, il quale distingueva tra saṃghārāma delle pianure e saṃghārāma delle colline. I primi, caratterizzati da un'architettura che privilegia l'uso del pisé e del mattone crudo (e per questo assai mal conservati), sono di concezione relativamente semplice quanto a organizzazione delle parti componenti, con lo stūpa e le celle monastiche distribuite sui quattro lati di una corte quadrata. Lo stūpa può trovarsi al centro della corte, oppure accanto a essa, o ancora al centro di una seconda corte (lungo i lati della quale si dispongono cappelle contenenti immagini di culto) adiacente a quella residenziale. Più complesso e articolato è l'impianto dei monasteri collinari (Sanghao, Takht-i Bahi, Jamalgarhi), costruiti in pietra. In essi, alle due corti originarie sono annesse altre strutture contenenti ambienti di funzioni diverse (sale per riunioni, cucine, magazzini). Ricorderemo che gran parte delle tipologie dell'edilizia buddhistica è alla base anche dell'architettura religiosa jainica (che, tuttavia, ci è nota da un numero assai meno cospicuo di testimonianze). Con il buddhismo, i Jaina condividono il culto dello stūpa (ne conosciamo l'aspetto soltanto da raffigurazioni su rilievi) e la tradizione dei complessi monastici rupestri, il più importante dei quali è costituito dalla cosiddetta Rani Gumpha (Udayagiri, Orissa, inizi I sec. d.C.), con vihāra disposti intorno a una corte su due piani, ma priva di ambienti di culto.
Secondo la concezione induista il tempio è il luogo in cui la divinità si manifesta temporaneamente. Richiamata, o meglio "risvegliata", da appositi rituali officiati dal sacerdote, essa si rende accessibile ai fedeli tramite la sua icona alloggiata nella cella o garbhagṛha ("dimora dell'embrione"). Piccola, disadorna e scarsissimamente illuminata, perché intenzionalmente concepita a immagine di una caverna, la cella occupa il centro di un impianto elaborato sul modello del maṇḍala, ossia un diagramma cosmico, e ciò stabilisce una chiara connessione tra l'universo e il tempio stesso, che del primo è riproduzione simbolica. Il tempio Hindu è anche rappresentazione della montagna sacra, sia che la si consideri come monte Meru, che nella cosmologia indiana occupa il centro dell'universo, sia che la si intenda come il Kailasa, sede celestiale del dio Shiva. Questa assimilazione simbolica è all'origine della marcata tendenza allo sviluppo verticale dell'edificio, in particolare della sua copertura, che, configurata come una torre o come una piramide, evoca lo slancio e l'imponenza di una vetta montana. L'astronomia svolgeva un ruolo essenziale nella determinazione del momento più favorevole per l'inizio della costruzione del tempio e del luogo in cui esso doveva sorgere, nonché nella realizzazione del maṇḍala. Il tempio doveva avere una forma gradevole ed equilibrata, pertanto la struttura generale e le sue singole parti erano determinate in base a calcoli matematici fondati su un rigoroso sistema proporzionale di misure. Solo il rispetto di queste regole garantiva l'efficacia del tempio, quale luogo atto ad accogliere il dio, e il suo rapporto armonico con l'universo. La piena formulazione di un'edilizia religiosa brahmanica si può far risalire all'epoca Gupta e la codificazione dei principi di cui si è detto ci è testimoniata da manuali di architettura di redazione ancora più tarda. Secondo la classificazione fornita dai testi, tre sono i principali stili o ordini del tempio Hindu: nāgara, drāviḍa e vesara, considerati rispettivamente tipici dell'India settentrionale, delle regioni meridionali e del Deccan. I tre stili si differenziano principalmente in base alla forma della copertura: a śikhara (ossia a torre) nel nāgara, a piramide nel drāviḍa, a botte nel vesara. In linea di massima, soprattutto per quanto riguarda gli stili settentrionale e meridionale (la tipologia del vesara è in effetti meno facilmente definibile e, in fondo, scarsamente rappresentata), la ripartizione geografica indicata nei testi corrisponde alla distribuzione delle rispettive testimonianze monumentali, sebbene non possano essere tracciati confini precisi. Nel Deccan governato dai Chalukya Occidentali (VII-VIII sec. d.C.), ad esempio, cioè in un momento e in un luogo di significato cruciale per la genesi dell'architettura brahmanica, tutti e tre gli stili sono rappresentati. L'elaborazione delle forme architettoniche canoniche fu preceduta da una lunga fase di sperimentazione che, di pari passo con la crescente popolarità delle correnti devozionali vishnuite e shivaite, ebbe probabilmente avvio nei secoli immediatamente precedenti l'era cristiana. Ritrovamenti archeologici rischiarano timidamente alcune tappe di questa evoluzione, che tuttavia, essendo di certo dominata dall'utilizzo del legno, resta difficilmente ricostruibile. Su basi epigrafiche sappiamo della presenza di un tempio vishnuita a Ghosundi (Rajasthan) nel II sec. a.C.; di funzione cultuale potrebbe essere stata una struttura di pianta ellittica rinvenuta a Besnagar (Vidisha) nei pressi del pilastro fatto erigere dall'indo-greco Eliodoro (II sec. a.C.) in onore delle divinità vishnuite Samkarshana e Vasudeva. Ricordiamo, a questo proposito, che una recente ipotesi propone di attribuire al culto vishnuita l'enigmatico Tempio C di Jandial a Taxila (II sec. a.C.), caratterizzato da una pianta di parziale ispirazione ellenistica (pronao, naòs, uno pseudo-opistodomo con scalinata interna e circumambulatio delimitata su tre lati da un muro con finestre) e in precedenza ricondotto, senza motivazioni convincenti, alla sfera zoroastriana. Gli scavi di Sonkh (Mathura) hanno rivelato i resti di due templi absidati in mattoni; l'uno (il Tempio 2, I sec. a.C.) circondato da 23 colonne, probabilmente coperto da una volta a botte e da una semicupola e racchiuso, in una seconda fase (II sec. d.C. ca.), da una recinzione simile a una vedikā con portale d'ingresso (toraṇa), l'altro (di epoca Kushana e più volte rimaneggiato) con un podio o altare nella parte absidata e forse dedicato a una dea. A epoca Gupta datano alcuni edifici di culto in pietra o in mattoni che ci consentono di seguire le fasi formative dello stile nāgara. Il più antico è il Tempio 17 di Sanchi (prima metà del V sec. d.C.). L'edificio poggia su una piattaforma a tre gradini ed è composto da una cella quadrata senza finestre preceduta da un portico tetrastilo; mancano elementi decisivi che consentano di attribuirlo al brahmanesimo piuttosto che al buddhismo. Alla medesima concezione si ispira il tempio di Tigawa, che sorge su una piattaforma più ampia, probabilmente atta a consentire il rito della pradakṣiṇā. Il tempio Dashavatara di Deogarh (500 d.C. ca.), una semplice cella quadrata con tre delle pareti esterne decorate da grandi nicchie contenenti splendidi pannelli scultorei, poggia su un ampio plinto quadrato, accessibile tramite quattro scalinate orientate secondo i punti cardinali; le quattro edicole situate agli angoli del plinto erano probabilmente riproduzioni in scala ridotta dell'edificio principale e fanno del Dashavatara uno dei prototipi del santuario pañcāyatana ("cinque templi"). Approssimativamente contemporaneo, o di qualche decennio più antico, è il tempio in laterizi di Bhitargaon, primo esempio del cosiddetto "schema triratha", caratterizzato dalla presenza di un aggetto su ciascuna parete esterna. Questo modello conoscerà grande fortuna e ulteriori sviluppi (con il moltiplicarsi degli aggetti) nei secoli successivi. Il tempio conserva inoltre buona parte della copertura a śikhara composta da una sequenza di piani di dimensioni decrescenti decorati da candraśālā, ossia archi riproducenti coperture a botte in miniatura viste di prospetto. Ricorderemo ancora il tempio di Parvati a Nachna Kuthara (inizi VI sec. d.C.), in cui un corridoio coperto per la circumambulazione racchiude la cella sui quattro lati. Si noti infine che, diversamente da quanto prescritto dai testi, dei templi d'epoca Gupta sopra citati solo quello di Bhitargaon ha l'ingresso orientato a est, mentre gli altri sono volti verso ovest (orientamento che in alcune regioni, come l'Orissa, rimarrà quello consueto anche nelle epoche successive). Nel corso del VII e, soprattutto, dell'VIII secolo la fisionomia del tempio nāgara si arricchisce e si definisce ulteriormente in alcuni importanti siti del Deccan Chalukya, dando vita allo schema canonico in cui il vimāna, ossia l'edificio principale contenente il garbhagṛha (in genere circondato dal corridoio per la pradakṣiṇā) e sormontato da uno śikhara, è preceduto da una sala colonnata, il maṇḍapa. Questo modello architettonico è testimoniato ad Alampur, Aihole, Pattadakal e in altre località della regione. Numerosi templi Chalukya hanno conservato il loro śikhara, con la sua tipica sagoma parabolica e sormontato dall'āmalaka, un elemento sferico fortemente schiacciato ai poli e scanalato, che ritroviamo anche agli angoli di ciascuno dei piani in cui la copertura è suddivisa. Non mancano, tuttavia, templi di impianto meno consueto, come il cosiddetto "tempio di Durga", ad Aihole (VIII sec. d.C.), edificio absidato periptero che da un lato richiama la caratteristica pianta del caityagṛha buddhistico, dall'altro sembra sviluppare uno schema già testimoniato nella Sonkh d'epoca Kushana. Vitali centri di elaborazione dello stile nāgara furono anche il Gujarat (tempio di Gop, VI-VII sec. d.C.), e il Rajasthan (templi di Surya e di Hari-Hara, a Osia, VIII sec. d.C.), mentre recenti indagini archeologiche in Pakistan (Panjab e North West Frontier Province) vanno chiaramente delineando una locale scuola di architettura religiosa brahmanica (Gandhara-Nagara), della quale diversi siti (Katas, Kafir Kot, Mari, Malot e altri) conservano testimonianze scaglionate tra il VI e l'XI secolo. È invece risaputa l'importanza dell'Orissa. Il più antico dei templi conservatisi a Bhuvaneshvar, il Parashurameshvara (VII sec. d.C.), si ispira a un modello comune a quello di diversi templi Chalukya; il vimāna, del tipo triratha, preceduto da un maṇḍapa rettangolare ipostilo con copertura suddivisa in due registri. Al medesimo schema si ispira il Mukteshvara (terzo quarto del X sec.): il maṇḍapa, privo di colonne (come lo saranno d'ora in avanti i templi della regione), è coperto da un tetto piramidale composto da piani orizzontali di dimensioni decrescenti ed è preceduto da un massiccio toraṇa con architrave curvilineo. Versioni via via più elaborate e imponenti sono illustrate da alcuni noti templi di Bhuvaneshvar, come il Rajarani (1000 d.C. ca.) e il Lingaraja (metà dell'XI sec. d.C.), nel quale troviamo due corpi aggiuntivi ‒ il bhogamaṇḍapa (sala delle offerte) e il nāṭamandir (padiglione della danza) ‒ allineati con i due tradizionali. Ricorderemo, infine, il tempio di Surya a Konarak (XIII sec. d.C.), concepito come gigantesco carro solare. Altrettanto sofisticati sono gli esiti dello stile nāgara nei templi di Khajuraho (Madhya Pradesh), fatti erigere dai dinasti Chandella. Il tempio di Lakshmana (fine X sec. d.C.), con un impianto a croce latina determinato dalla presenza di tre portici aggettanti nel vimāna, è impostato su un grande plinto con quattro tempietti agli angoli (tipo pancāyatana) e scalinata d'accesso a est. Il maṇḍapa si scompone qui in tre corpi allineati e di dimensioni crescenti: ardhamaṇḍapa, maṇḍapa e mahāmaṇḍapa, grande sala tetrastila dalla quale, tramite un piccolo vestibolo (antarāla), si passa nel garbhagṛha. Al medesimo schema si ispira il più imponente Khandariya Mahadeva (primo quarto dell'XI sec. d.C.). Nei più antichi templi che esemplificano lo stile meridionale o drāviḍa ‒ l'Arjuna Ratha (VII sec. d.C.) e il Dharma Raja Ratha (inizi dell'VIII sec. d.C.) a Mamallapuram (Tamilnadu) ‒ le caratteristiche formali di questo "ordine" sono già pienamente definite. A partire da questo momento, il suo sviluppo prosegue in maniera relativamente lineare e, rispetto al nāgara, in un'area geografica più circoscritta. I due suddetti fanno parte di un gruppo di cinque templi monolitici intagliati in uno sperone granitico (tecnicamente si tratta, dunque, di sculture), collettivamente denominati pañcaratha. La loro copertura è una piramide costituita da una serie di piani di dimensioni decrescenti, decorati da śālā e candraśālā (ossia volte a botte viste di profilo e di fronte) alternati e che formano una sorta di parapetto continuo, e coronata da un una cupola ottagona (designata con il termine śikhara); caratteristica peculiare allo stile meridionale è anche la ripartizione delle pareti esterne in pannelli rettangolari che ospitano figure scolpite di grande formato. Altri celebri templi drāviḍa (costruiti) sono lo Shore Temple, a Mamallapuram, e, in una configurazione architettonica più complessa (vimāna preceduto da maṇḍapa, muro di recinzione bordato da cappelle e con portali di ingresso che preannunciano i monumentali gopura delle città-tempio d'epoca Chola e Pandya), il Rajasimheshvara e il Vaikunthaperumal a Kanchipuram, tutti risalenti all'VIII secolo. Importanti santuari di stile meridionale si segnalano anche nel Deccan: tra questi il Virupaksha di Pattadakal (VIII sec. d.C.) e, ultimo grandioso tempio monolitico dell'India, il Kailasanatha di Ellora (Maharashtra, VIII sec. d.C.). A partire dal VI secolo nell'India centro-meridionale si contano i primi notevoli esempi di architettura rupestre brahmanica. I più antichi santuari cavati nella roccia furono realizzati nell'isola di Elephanta, al largo di Bombay, intorno alla metà del secolo, per volere dei sovrani Kalachuri. La più vasta e articolata è la Grotta 1, dedicata a Shiva, che ha il suo fulcro in un ampio maṇḍapa ipostilo, al cui interno è alloggiato un piccolo padiglione quadrato contenente la statua del veicolo del dio, il toro Nandin. I templi rupestri d'epoca successiva riflettono un comune schema, realizzato in scale diverse. Le grotte 1-3 di Badami (Karnataka, VI sec. d.C.) consistono in un maṇḍapa a colonne, preceduto da un portico, con una piccola cella cavata nella parete opposta all'entrata. Più semplici i templi rupestri voluti dai sovrani Pallava (a Mandagapattu, Tiruchirappalli e Mamallapuram, VII sec. d.C.); le dimensioni dell'ambiente principale sono più contenute (e le colonne meno numerose) e fanno risaltare i pannelli a rilievo di soggetto mitologico.
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di Ciro Lo Muzio
La cremazione dei defunti e lo spargimento delle loro ceneri nelle acque di un fiume rappresentano, salvo poche eccezioni, l'unica pratica funeraria osservata nell'India brahmanica. Il trattamento dei resti mortali degli individui non richiede, pertanto, l'erezione di edifici destinati alla loro deposizione o di monumenti commemorativi. A esclusione dei monumenti funerari megalitici, appartenenti a un ambito culturale specifico e non ancora pienamente rischiarato, non si sono conservate testimonianze archeologiche sull'edilizia funeraria Hindu, della quale, tuttavia, i testi lasciano supporre l'esistenza e l'iconografia ci consente di immaginare le caratteristiche esteriori. Non è facile stabilire con precisione quando, nel mondo indiano, il rituale dell'incinerazione abbia definitivamente preso il sopravvento; si può tuttavia affermare, soprattutto sulla base delle testimonianze testuali, che nei secoli a cavallo dell'era cristiana il ricorso ad altre pratiche funerarie era esplicitamente avversato dall'ortodossia. Tali pratiche erano invece contemplate nella letteratura vedica; oltre all'incinerazione, l'Atharvaveda (XVII, 2, 34) fa riferimento all'esposizione e all'inumazione. Quest'ultimo rituale, prescritto anche nel Ṛgveda (X.XVIII.10-13) e nello Śatapatha Brāhmaṇa (V.XIII.8.3.11), prevedeva l'erezione di un tumulo funerario, o śmaśāna, termine avente anche il significato di "cimitero". Nel corso dei secoli, il rito dell'inumazione perse a mano a mano terreno (śmaśāna sarebbe passato a designare il luogo della cremazione) e finì per essere riservato a determinate categorie di defunti, in particolare ai bambini morti in età prepuberale e alle donne incinte, o ai casi di morte violenta o causata da alcuni tipi di malattie. Alla sepoltura venivano inoltre destinate (e tuttora lo sono in alcune aree del Subcontinente) le salme di asceti e yogin; anche in questo caso la tomba era ricoperta da un tumulo (samadhī). Un esempio figurato di samadhī sembra si debba riconoscere in un rilievo di uno dei portali dello Stupa 1 di Sanchi (I sec. a.C.), che raffigura un gruppo di asceti impegnati in attività diverse e, sullo sfondo, una costruzione emisferica di mattoni circondata da una balaustra (vedikā); è l'assenza di alcuni elementi specifici, soprattutto il pilastro assiale (yaṣṭī), che ci permette di non confondere questo monumento sepolcrale con uno stūpa. Alla medesima tipologia monumentale è da ascrivere lo stūpa buddhistico e Jaina; la sua forma, una calotta emisferica, è infatti quella del tumulo e la sua funzione originaria è in sostanza quella di imponente segnacolo ricoprente le reliquie corporali (o, se cenotafio, oggetti simbolici) di religiosi eminenti, in primo luogo quelle del Buddha. Lo stūpa diverrà tuttavia ricettacolo di significati cosmologici e religiosi che trovano riflesso nella sua evoluzione formale e che, pur senza cancellarne la valenza funeraria, ne fanno il fulcro del culto buddhista e simbolo del Buddha stesso, dunque un monumento religioso a tutti gli effetti. Le fonti letterarie, a cominciare dal Mahābhārata, tramandano un altro termine, eḍūka (o aiḍūka), che evidentemente designava un edificio funerario, sul cui aspetto, tuttavia, i testi non forniscono che indicazioni generiche. Inoltre, gli studiosi non hanno raggiunto un accordo su quali debbano considerarsi il suo ambito religioso di appartenenza (brahmanico o buddhistico) e la pratica funeraria cui esso era correlato (incinerazione o inumazione); è probabile che il termine fosse di per sé generico e che il suo spettro semantico fosse mutato nel corso del tempo. Allo stesso modo, non è facile stabilire se esista un rapporto tra l'eḍūka e i monumenti funerari di cui l'arte del Gandhara ci offre alcuni interessanti esempi figurati. La serie più consistente è costituita dalle rappresentazioni della storia di Sudaya, il bambino che viene nutrito dalla madre defunta; la pratica funeraria che vi è testimoniata è evidentemente quella dell'inumazione. La tipologia più frequentemente rappresentata è il tumulo di mattoni di forma analoga a quella della sepoltura del rilievo di Sanchi sopra menzionato; nelle rappresentazioni gandhariche manca tuttavia la vedikā (non si tratta, in questi casi, della sepoltura di un "santo") e il tumulo è provvisto di un'apertura ad arco (dalla quale fuoriesce il busto della donna defunta), che tuttavia si pensa fosse intesa a rappresentare un passaggio ipogeo; esso può inoltre presentare un elemento di coronamento emisferico o globulare. In altri casi il corpo della donna giace in veri e propri edifici che, stranamente, riecheggiano alcune tipologie architettoniche di carattere religioso, quali la capanna ascetica, evidentemente rappresentata come una costruzione lignea con copertura di paglia, o il vihāra, ossia la cella monastica, struttura di mattoni con copertura a volta, o ancora un edificio con portale sormontato da un doppio "arco a caitya", che normalmente decora la facciata del caityagṛha (l'ambiente di culto buddhista contenente uno stūpa). Una singolare variante, anche questa illustrata nella leggenda di Sudaya, è rappresentata da una struttura voltata in mattoni sormontata da un monumento del tutto simile a uno stūpa; in effetti, la pratica di erigere uno stūpa su di una tomba a inumazione è attestata (e avversata) in fonti buddhistiche dei primi secoli della nostra era.
Queste sepolture rappresentano l'elemento distintivo, nonché praticamente l'unica categoria di monumenti superstiti, di un vasto complesso culturale che, pur avendo lasciato testimonianze in gran parte del Subcontinente, ebbe i suoi più vitali centri di sviluppo nel Deccan e nell'India meridionale (soprattutto Karnataka, Kerala e Tamilnadu). La cronologia delle culture megalitiche è postulata in termini piuttosto generici; in base ai dati ricavati da analisi scientifiche, in verità ancora esigui, la loro durata complessiva interesserebbe un lungo arco di tempo, grosso modo dal 1000 a.C. al 1000 d.C.; tuttavia il periodo di massimo rigoglio viene collocato tra il 600 a.C. e il 100 d.C. La definizione di "tombe megalitiche" abbraccia una diversificata casistica di sepolture (in genere destinate a contenere resti ossei di cadaveri, precedentemente sottoposti al rito dell'esposizione o dell'incinerazione) e cenotafi. Sebbene in gran parte accomunati dall'utilizzo di grandi blocchi o lastre di pietra, i monumenti megalitici rispecchiano concezioni diverse e denotano un variabile grado di complessità strutturale, che in alcuni casi, quelli sui quali ci soffermeremo, consente di parlare di vere e proprie architetture funerarie. Sono attestati diversi tipi di tombe a camera (dolmenoid cist, slabbed cist, chambered tomb) realizzate in lastre o grossi blocchi di pietra grezza o parzialmente lavorata; le strutture possono essere costruite in superficie oppure parzialmente o totalmente interrate; uno o più circoli di pietre racchiudono l'area, di dimensioni variabili (diam. da 3 a 48 m), in cui esse sorgono e l'intero monumento può essere ricoperto da un tumulo di pietre. All'interno delle tombe del tipo dolmenoid cist erano in genere deposti sarcofagi di terracotta, talvolta di aspetto zoomorfo. In numerosi casi la lastra orientale della tomba presenta un'apertura circolare (da cui la definizione port-holed cist) di diametro variabile (da 10 a 50 cm) attraverso la quale, si suppone, erano depositate offerte. In una variante attestata a Brahmagiri, nel Karnataka, le lastre sono disposte in modo tale da formare in pianta un motivo a svastika; in altre località la tomba può essere preceduta da un'anticamera di uguale ampiezza (transepted cist). Sono inoltre attestate tombe costituite da camere interrate a forma di croce latina o greca, rivestite da lastre di pietra e racchiuse da un recinto quadrato (Karnataka). Una categoria distinta è rappresentata dalle tombe rupestri del Kerala. In genere la sepoltura consiste in un ambiente (circolare, semicircolare o approssimativamente rettangolare) ipogeo cavato nella roccia, preceduto da un vestibolo con scalinata che conduce in superficie; in alcune sepolture il vestibolo dà accesso a un maggior numero di camere (fino a quattro). Talvolta l'ambiente principale presenta un pilastro centrale, in altri casi un'apertura centrale nel soffitto (piano o a volta). La destinazione funeraria di tali ipogei è provata dal rinvenimento di sarcofagi, urne, ceneri e resti ossei. La presenza di banchi di pietra, risparmiati lungo il perimetro della camera, ha tuttavia incoraggiato l'ipotesi di un'affinità tipologica tra le tombe del Kerala e le grotte monastiche buddhistiche e Jaina del Deccan occidentale, ma le incertezze cronologiche sono di ostacolo a un approfondimento dell'eventuale rapporto tra queste diverse categorie di monumenti.
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