L'architettura nel mondo greco, etrusco-italico e romano: le tecniche, i materiali e gli organismi edilizi
di Giorgio Rocco
La nascita dell'architettura greca si fa comunemente coincidere con l'inizio del processo di litizzazione delle costruzioni nei primi decenni del VII sec. a.C. La tecnica costruttiva dell'età precedente è riconducibile all'uso di materiali deperibili: travi e pali di legno per le componenti soggette a maggiore sollecitazione, mattoni crudi o argilla cruda mista ad inerti per l'elevato dei muri, una struttura lignea leggera con paglia, spesso ricoperta di argilla, per le coperture. Uno zoccolo in piccole pietre legate con argilla o, in alcuni casi, lastre verticali a rivestire il nucleo delle pareti proteggevano la parte bassa dei muri, la più esposta agli agenti atmosferici; allo stesso modo semplici elementi di pietra sollevavano dal terreno, proteggendoli, i pali lignei e un rivestimento di legno difendeva la testata dei muri di argilla o di mattoni crudi, troppo fragili per presentare angoli esposti; dettagli costruttivi, questi, sopravvissuti al processo di litizzazione e riconoscibili negli ortostati, nelle basi delle colonne e nelle ante degli edifici delle età successive. Frequente in questa prima architettura il ricorso ad una struttura lignea che, nell'articolazione in correnti e montanti, determinava un vero e proprio telaio nel quale deve essere riconosciuta la struttura portante dell'edificio; la tecnica, ampiamente documentata già dall'età del Bronzo, rimase in auge sino alle soglie dell'età arcaica, come attesta la struttura del muro, ormai interamente in pietra, del tempio di Poseidon all'Istmo dove, al di sopra di un alto zoccolo, fasce orizzontali e verticali rilevate racchiudono pannelli rettangolari; la soluzione non può non richiamare la struttura a telaio delle età precedenti, evidentemente ancora assai viva nella memoria dei costruttori della prima metà del VII sec. a.C. Anche la particolare configurazione dei diversi elementi degli ordini dorico e ionico sarebbe riconducibile alla trasposizione in pietra di soluzioni costruttive proprie di un'architettura in materiali deperibili, con la conseguente formalizzazione delle stesse nella definizione di un modello. All'origine del processo di litizzazione dovette esservi, almeno in parte, l'introduzione delle coperture fittili, poiché, per altri versi, l'uso di materiali deperibili non escludeva soluzioni architettoniche anche di grande monumentalità, né tantomeno pregiudicava l'efficienza strutturale e tecnologica delle costruzioni, fatte salve le esigenze di protezione dagli incendi, tanto più significative all'interno degli agglomerati urbani al punto da dover essere considerate la causa prima dell'adozione delle nuove coperture. Un ruolo centrale nelle trasformazioni della tecnica costruttiva greca fu certamente assolto da Corinto, cui si deve la prima tipologia di tetto in terracotta, nota come "protocorinzia" o "istmica", e parimenti i primi passi verso la realizzazione di un elevato in pietra; questa prima tipologia, caratterizzata da coppo convesso e tegola piana lavorati in un solo elemento provvisto di incastri, si associava a tetti a quattro falde e, dato l'alto costo di realizzazione, si affermò quasi esclusivamente nell'architettura templare. L'introduzione delle coperture fittili comportò naturalmente un significativo aumento di peso e un conseguente sostanziale ridimensionamento delle strutture portanti per le quali presto si preferì fare ricorso ad elementi litici: prima per i muri, poi per le colonne e quindi gli architravi, mentre per le restanti parti dell'elevato il processo si protrasse più a lungo. Naturalmente le trasformazioni non procedevano uniformemente nelle diverse aree di sviluppo, evidenziando nella fase iniziale un certo anticipo della corinzia; solo nel terzo quarto del VII sec. a.C. alle coperture protocorinzie si affiancò la tipologia cosiddetta "laconica", costituita da coppi convessi e tegole concave, entrambi privi di incastri, la cui introduzione favorì l'estensione del processo di litizzazione anche ad altre aree. Relativamente tarda fu l'introduzione di coperture fittili in area ionica, ma, nonostante ciò, un processo di progressiva litizzazione fu avviato già dalla fine dell'VIII secolo e fu sostanzialmente compiuto nei primi anni del VI sec. parallelamente alle aree più avanzate della Grecia propria; anche i tetti subirono ulteriori trasformazioni: all'inizio dello stesso secolo la tipologia protocorinzia fu sostituita da quella cosiddetta "corinzia", costituita da coppi pentagonali e tegole piane giuntati tra loro mediante appositi incastri, destinata ad affermarsi, in tutte le numerose varianti regionali (etolica, argiva, greca centro-settentrionale), come la soluzione prevalente, mentre i tetti laconici, a partire dall'ultimo quarto del VI sec. a.C., vennero progressivamente estromessi dagli edifici più monumentali, però senza mai sparire, soprattutto in virtù della loro maggiore economicità che li rendeva particolarmente idonei per l'edilizia minore, in particolare per quella residenziale. È frequente in Asia Minore e nelle colonie occidentali, al fianco delle tipologie corinzia e laconica, la presenza di un tipo "ibrido" che affiancava a coppi convessi tegole piane e connessioni ad incastro, ma l'ambiente asiatico si distinse presto per la produzione di tetti di marmo, documentati già nel primo quarto del VI sec. a.C., il cui peso, doppio rispetto alle corrispettive coperture fittili, e il cui costo, dieci volte maggiore, ne limitarono necessariamente l'uso ad edifici di particolare rilevanza monumentale. La rapida diffusione della pietra nel VI sec. a.C. vide lo sviluppo di tecniche specifiche per l'estrazione, il taglio e la posa in opera del nuovo materiale; si fece ricorso prima al poros, facile da lavorare e di estrazione da cave locali, e poi rapidamente a materiali più duri o più pregiati, spesso importati anche da luoghi molto lontani, come avveniva per il marmo. Le fondazioni degli edifici, già a partire dall'età arcaica, nella gran parte ripercorrevano l'andamento dei muri e dei colonnati senza soluzioni di continuità, venendo a costituire un supporto continuo per le strutture dell'elevato, tale da rivelare, anche laddove questo sia perduto, l'impianto planimetrico dell'edificio; in casi eccezionali si realizzarono anche fondazioni a platea, soprattutto dove il terreno appariva fortemente disomogeneo, come rivelano alcuni casi quali la tholos della Marmarià a Delfi, il Mausoleo di Alicarnasso o l'Artemision di Efeso. Sono anche documentati in alcuni casi colonnati su fondazioni a plinto, generalmente riconducibili ad esigenze economiche, i quali, piuttosto rari in età greca, si diffusero però in età ellenistica, come attestano alcuni interventi significativi, quali l'Artemision di Sardi, il Didymaion di Mileto o l'Apollonion di Claros. In molti casi, muri più sottili raccordavano tra loro i plinti per contrastare cedimenti relativi determinati dalla discontinuità dell'appoggio. Le fondazioni erano generalmente costruite con blocchi parallelepipedi, raramente in età arcaica poligonali, sommariamente sbozzati, di materiali non pregiati, come conglomerati, brecce, tufo, calcari; a volte, in presenza di terreni alluvionali, paludosi o comunque instabili, esse scendevano profondamente e riposavano su letti di preparazione costituiti da frammenti di calcare o di conglomerato o di carbone a volte alternato con strati di lana. Sopra il piano di campagna, le fondazioni determinavano un risalto, noto come euthynteria, realizzato in un materiale di migliore qualità e accuratamente lavorato, il quale veniva a costituire un piano di livellamento della costruzione e si configurava come un elemento di transizione tra fondazioni ed elevato, del quale adottava anche il sistema di giunzione dei blocchi mediante grappe metalliche. I muri degli edifici greci (toichoi) si caratterizzano per un'estrema varietà, dipendente da fattori regionali, cronologici e funzionali, che si rivelano nell'uso di materiali diversi e nella lavorazione con metodologie diverse; ulteriori diversità naturalmente sono riscontrabili nelle altre tipologie murarie, quali i muri di contenimento (analemmata) o le mura di cinta (teichoi), nelle loro molteplici varianti. I muri degli edifici, cui riserviamo la nostra attenzione, prevedevano un basso zoccolo (toichobates), a volte modanato, un basamento rivestito di lastre disposte verticalmente, gli ortostati, un elevato caratterizzato da una tessitura variabile e un'assise di coronamento in qualche caso modanata. La struttura del muro può essere formata da un doppio paramento con riempimento (emplecton) costituito da terra e inerti, da assise di blocchi di spessore pari a quello del muro o da un doppio filare di blocchi disposti parallelamente; nel primo e nel terzo caso un certo numero di blocchi sono disposti trasversalmente attraverso l'intero spessore del muro (diatonoi) a legare tra loro i due paramenti. Più in generale i muri, così come le mura, sono riconducibili, in base all'aspetto del paramento, ad una classificazione che identifica due gruppi principali di tipologie: i muri in pietra naturale (lithoi argoi) e i muri con paramento lavorato. Nel primo gruppo va annoverata la cosiddetta "opera ciclopica", caratterizzata dall'uso di grandi massi informi o appena sbozzati posti uno sull'altro con gli interstizi riempiti da detriti e piccole schegge; la tecnica, in uso sin dall'età micenea, era riservata alle mura fortificate e non era priva di valenze rappresentative, configurandosi come un'opera a misura superumana. Sempre a questa prima categoria sono naturalmente pertinenti i muri a secco realizzati con pietre informi generalmente destinati a delimitare aree di diversa funzione. Il secondo gruppo si articola a sua volta, in base alla forma dei blocchi utilizzati in tre famiglie principali: muri in opera poligonale, in opera trapezoidale e in opera quadrata e, nell'ambito di questi, si registrano ulteriori suddivisioni; si tratta ad ogni modo di apparecchi documentati sia in edifici sia in strutture difensive o di contenimento del terreno purché rivestano rilevanza monumentale. L'opera poligonale si caratterizza per la forma appunto poligonale dei blocchi in paramento che, se consente un risparmio di materiale, richiede al tempo stesso un notevole impegno di manodopera; di aspetto ricercato, la tecnica, che nelle sue forme più tipiche risale all'età arcaica e classica, presenta occasionali riprese in età ellenistica. Se ne distinguono tre tipologie principali: poligonale irregolare, caratterizzata dalla presenza di lacune determinate da un contatto non perfetto tra i blocchi; poligonale a bordi curvi (o lesbia), dove alcuni lati di contatto tra i blocchi sono concavi e convessi; poligonale a bordi rettilinei, contraddistinta da poligoni irregolari perfettamente connessi tra loro. Se il primo tipo, prevedendo una lavorazione più sommaria, costituisce una soluzione economica, gli altri due e in particolare il poligonale lesbio sono la manifestazione di maestranze notevolmente qualificate e raggiungono notevoli effetti estetici. L'opera trapezoidale è caratterizzata da blocchi che presentano i piani superiore e inferiore orizzontali, mentre quelli laterali sono obliqui; il sistema consente di sfruttare il materiale disponibile con poco spreco, ma, come nel caso dell'opera poligonale, richiede la preparazione dei blocchi sul posto per adattare l'inclinazione dei lati a contatto durante la posa in opera. Questa tipologia, ampiamente attestata nel mondo greco, si diffonde a partire dalla seconda metà del V sec. a.C. e sino al III sec. a.C. È possibile distinguere tre varianti dell'opera trapezoidale: trapezoidale irregolare, la cui variabilità nell'altezza dei blocchi non consente il verificarsi di assise regolari, determinando occasionali lacune nel contatto tra i blocchi e un aspetto poco regolare del paramento; trapezoidale pseudoisodomica, caratterizzata da assise regolari ma di altezza differente; trapezoidale isodomica, con assise regolari e di altezza costante. L'opera quadrata, caratterizzata da elementi parallelepipedi che presentano generalmente sul paramento una faccia rettangolare, nelle sue forme più comuni costituisce la tipologia più diffusa, anche per la possibilità che offre di realizzare i blocchi direttamente nella cava, riducendo al minimo il lavoro sul cantiere. Questa tipologia è generalmente diffusa sin dall'età del Bronzo per tutta l'età greca ed ellenistica; la sua presenza è generalizzata nelle diverse aree del mondo greco ed essa si segnala come la più idonea per la costruzione dei muri degli edifici, ma è del pari attestata sia nelle mura urbane che nelle opere di terrazzamento. Come nel caso dell'opera trapezoidale, anche per quella quadrata si distinguono tre diverse tipologie: quadrata irregolare, caratterizzata da un'altezza variabile dei blocchi e quindi dall'assenza di assise regolari; quadrata pseudoisodomica, con variazioni dell'altezza delle assise spesso con alternanze regolari tali da raggiungere pregevoli effetti decorativi; quadrata isodomica, con blocchi tutti della medesima altezza, tali da garantire assise molto regolari. Una grande varietà caratterizza anche il trattamento della superficie dei paramenti, soprattutto nelle strutture murarie di contenimento o di fortificazione: vi sono superfici naturali o appena sbozzate a creare un effetto bugnato, a volte ottenuto artificialmente mediante l'uso della martellina; superfici prive di risalto ma lavorate in modo da presentare una tessitura granulosa; paramenti decorati da incisioni lunghe e profonde, verticali o oblique; blocchi martellati ma incorniciati da una stretta fascia levigata, a sottolineare la tessitura del muro; infine superfici accuratamente lisciate caratteristiche dei principali edifici dell'età classica. Quando il materiale utilizzato non era particolarmente pregiato o resistente si faceva ricorso allo stucco per rivestire la superficie muraria proteggendola al tempo stesso dall'aggressione degli agenti atmosferici; lo stucco consentiva inoltre negli interni la realizzazione di ricche decorazioni architettoniche, spesso volte all'imitazione di materiali più pregiati e contraddistinte da una ricca policromia. Bisogna inoltre tener presente che nell'edilizia minore si continuò a fare ricorso a strutture in mattoni crudi per le quali, date le caratteristiche del materiale, la protezione di uno spesso strato di stucco era essenziale. Le strutture murarie realizzate in opera quadrata adottavano particolari accorgimenti per l'assemblaggio: per ottenere una perfetta aderenza delle facce a contatto dei diversi blocchi, la superficie di queste presentava un'accurata levigatura lungo il perimetro, per uno spessore di pochi centimetri, mentre l'area interna era sommariamente lavorata in sottosquadro; si tratta di un accorgimento, noto come anathyrosis, che veniva adottato anche per le facce a contatto dei rocchi delle colonne. I diversi blocchi erano inoltre giuntati tra loro sia orizzontalmente, mediante l'uso di grappe metalliche situate sul letto di attesa a cavallo tra due elementi contigui, sia verticalmente, attraverso il ricorso a tenoni, in genere anch'essi metallici, che giuntavano la parte mediana del letto di attesa del blocco inferiore con una delle estremità del letto di posa di quello superiore. Se la forma del tenone è assai semplice, essendo nient'altro che un elemento parallelepipedo, quella delle grappe appare piuttosto varia, differenziandosi sia per area che per cronologia. Realizzate originariamente in legno, le grappe sono documentate sin dall'età minoica ed erano diffuse anche nel Vicino Oriente e in Egitto; in età arcaica erano inizialmente di piombo, ma anche di legno in alcuni casi rivestito di piombo, e venivano inserite forzatamente in una cavità predisposta nel blocco. Presto il piombo venne integrato da un'armatura di ferro o di bronzo a sezione rettangolare o circolare, le cui estremità risvoltavano verso il basso fissandosi al blocco; il piombo fuso veniva direttamente colato nella cavità e sigillava il ferro isolandolo. La forma delle grappe, inizialmente a coda di rondine, presto si diversificò: in età arcaica e classica si diffusero soluzioni a doppio Γ, a T e a doppio T, e, a partire dal IV sec. a.C., si generalizzò la tipologia a Π che rimarrà dominante, salvo alcune varianti, sino a tutta l'età ellenistica e oltre. Anche i tenoni erano inizialmente realizzati in legno e solo successivamente si preferì fare ricorso al ferro o al bronzo; allo stesso modo di quelli lignei, comunque, anche questi ultimi erano inseriti in apposite cavità e fissati mediante colate di piombo; nei casi in cui i tenoni non erano posti in corrispondenza dei giunti tra i blocchi si adottò, già nel V sec. a.C., un sistema che prevedeva la realizzazione di canali di colata verticali o obliqui che raggiungevano il tenone. Non meno vari appaiono i sistemi di fissaggio verticale dei rocchi delle colonne, apparsi alla fine del VII sec. a.C., già prima dell'abbandono dei fusti monolitici, per collegare il capitello al sommoscapo. In alcuni tra gli esempi più antichi i tenoni erano costituiti da elementi di legno parallelepipedi, più raramente cilindrici, inseriti a forza in apposite cavità al centro del rocchio; in età classica e tardoclassica continuò l'uso degli inserti lignei semplici, ma gli si affiancò un sistema più complesso che prevedeva la presenza di elementi parallelepipedi in legno di cedro (empolia), incassati nelle facce di contatto dei rocchi, con una cavità cilindrica al centro destinata ad ospitare un perno di legno di cipresso (polos) che serrava i due empolia tra loro. A partire dal IV sec. a.C., elementi di metallo vennero a far parte del sistema polos-empolion e dalla seconda metà dello stesso secolo al giunto centrale, di legno o di metallo, si aggiunse un secondo, e a volte un terzo, giunto periferico, spesso barre metalliche piatte disposte sullo stesso diametro o più semplicemente un elemento isolato cilindrico. Nel III sec. a.C. fecero infine la loro prima apparizione sottili canali scavati sul letto di attesa dei rocchi destinati alle colate di piombo che dovevano saldare i tenoni, già fissati al letto di posa, all'interno delle rispettive cavità. Un aspetto collaterale alla tecnica costruttiva, ma di particolare rilievo, è costituito dalla presenza di alcune volute alterazioni nella geometria di certi elementi dell'architettura templare greca, comunemente note con il nome di "correzioni ottiche"; apparse già nel VI sec. a.C. forse in ambito cicladico, queste si svilupparono e si diffusero nell'architettura dorica all'inizio del V secolo, per ripresentarsi successivamente in ambito ionico nelle forme ormai consolidate nella madrepatria. Tra le correzioni ottiche è possibile identificare tre tipologie principali di interventi, a seconda che siano fondati sulla curvatura delle superfici, sull'inclinazione di piani o assi verticali o sulla variazione dimensionale di alcuni elementi dell'ordine. Alla prima di queste appartengono sia la curvatura dello stilobate sia l'entasi, ovvero l'ingrossamento del fusto della colonna posto a circa la metà dell'altezza. La curvatura dello stilobate consiste nella trasformazione della superficie piana destinata ad accogliere l'elevato del tempio in una superficie sferica; l'entità del grado di curvatura è naturalmente molto bassa e la sua ragion d'essere viene interpretata da Vitruvio come il tentativo di correggere l'effetto ottico di "insellamento" che si verificherebbe qualora la superficie di posa delle colonne fosse perfettamente piana, mentre secondo altri la superficie convessa dello stilobate potrebbe essere un espediente atto ad impedire il ristagno dell'acqua piovana all'interno del peristilio. L'adozione di questa particolare correzione comportava inoltre più dirette ripercussioni nell'ordine: mantenendosi infatti costante l'altezza delle colonne era inevitabile che la curvatura si trasmettesse inalterata anche alla trabeazione; è infatti normale, quando lo stato di conservazione dell'edificio ne consenta la verifica, riscontrare in questa un'identica curvatura. L'entasi è stata interpretata come un intervento volto a contrastare l'effetto di assottigliamento al centro che si verifica nel fusto a causa della sua stessa altezza, ma si è anche pensato che nel fenomeno possa riconoscersi un tentativo di mimesi naturalistica, in cui sarebbe rappresentata la trasposizione in pietra dello schiacciamento che il peso doveva indurre nelle colonne lignee dei più antichi edifici ad imitazione di quanto avviene per le architetture dell'antico Egitto. Alla seconda tipologia possiamo fare riferimento per gli interventi volti alla deviazione dalla verticale degli elementi dell'alzato del tempio; in sostanza, le colonne della peristasi non sono disposte ortogonalmente al loro piano di posa, ma lievemente inclinate verso l'interno del tempio. L'intervento sarebbe finalizzato a contrastare l'effetto ottico di incombenza e quasi di rovesciamento che queste e la soprastante trabeazione avrebbero nei confronti di un osservatore posto in prossimità dell'edificio; anche la trabeazione è inclinata rispetto al piano verticale dei prospetti, anche se architrave e antefisse lo sono in direzione opposta, e così i muri perimetrali della cella. Alla spiegazione ottica si contrappone la tesi che riconoscerebbe nell'inclinazione verso l'interno dell'elevato la volontà di contrastare la spinta al rovesciamento determinata dall'orditura stessa del tetto. Alla terza tipologia possiamo infine attribuire sia la contrazione angolare che l'ingrossamento della colonna d'angolo. La prima è un intervento connesso alla configurazione stessa del fregio dorico: infatti i triglifi, oltre ad essere strettamente correlati al colonnato della peristasi, sono altrettanto rigorosamente vincolati, nella loro disposizione, ad occupare l'angolo dell'edificio, la qual cosa comporta l'insorgenza di quel particolare fenomeno, noto con il nome di "conflitto angolare", che nasceva ogni qual volta le necessità di rispettare la disposizione del triglifo sull'asse della colonna e al tempo stesso sull'angolo dell'edificio venivano in contrasto. Perché la concordanza si realizzasse, infatti, era necessario che lo spessore dell'architrave fosse pari alla larghezza del triglifo, un fenomeno impossibile dopo il sovradimensionamento degli architravi che fece seguito al compimento del processo di litizzazione. La situazione a questo punto era tale da consentire diverse soluzioni: o il triglifo trovava posto sull'asse della colonna, e allora in angolo si veniva a trovare una porzione di metopa, o il triglifo veniva posto in angolo, e in questo caso l'ultima metopa risultava allungata, o veniva contratto l'intercolumnio angolare lasciando inalterata la composizione del fregio. La prima soluzione trova però riscontro solo in rari esempi, tutti di età romana imperiale, anche se non sono da escludere precedenti tardoellenistici; diversamente, l'allargamento dell'ultima metopa appare documentato in età arcaica, nelle colonie occidentali, mentre sarà proprio la terza soluzione a godere di maggiore fortuna nella madrepatria. A questa soluzione, a partire dall'età classica, in ambito siceliota e italiota fece riscontro la doppia contrazione angolare, ovvero la ripartizione della contrazione tra gli ultimi due intercolumni adiacenti l'angolo. Il fenomeno dell'ingrossamento della colonna d'angolo è ricondotto da Vitruvio all'esigenza di contrastare il fenomeno ottico che si manifesterebbe appunto nelle colonne angolari che, prive dello sfondo della cella, più delle altre appaiono assottigliate dalla luminosità solare, ma alla spiegazione ottica viene da alcuni contrapposta l'ipotesi che l'ingrossamento della colonna angolare possa essere un espediente per rafforzare agli angoli la struttura dell'edificio. L'interpretazione di questi interventi è stata d'altronde sempre oggetto di opinioni contrastanti; alla lettura ottica vitruviana si tende ad affiancare l'idea che tutti o una parte di questi accorgimenti possano essere originati da esigenze funzionali, statiche, o ancora assunti semplicemente quali motivi formali da ambiti culturali anellenici e che solo più tardi si sia fatto ricorso alle teorie ottiche per una coerente teorizzazione del fenomeno. L'adozione delle correzioni ottiche e in particolare l'entità stessa delle alterazioni apportate ai vari elementi attestano ad ogni modo l'estrema sensibilità formale che doveva caratterizzare la società greca; allo stesso tempo deve essere sottolineato il livello raggiunto dalle tecniche di misurazione e di lavorazione dei blocchi e parallelamente l'alta specializzazione della manodopera, acquisizioni che trovano una loro ragion d'essere nella consapevolezza delle proprie capacità che caratterizza le manifestazioni dell'architettura greca ed ellenistica.
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di Maura Medri
La capacità di rappresentare attraverso l'architettura l'ideologia e il potere dello Stato centrale è un tratto caratteristico della cultura romana. Il livello raggiunto nell'abilità tecnica e progettuale dai costruttori e l'originalità del loro apporto sono particolarmente evidenti negli edifici pubblici, terme, basiliche, ponti, porti, fortificazioni, acquedotti, che contribuirono a stabilire le regole del vivere civile nella società del mondo romanizzato. Accanto a questi esempi imponenti e molto noti, esistono molteplici attestazioni meno note nei singoli contesti regionali, dove l'arte del costruire appare variegata e mutevole, talvolta meno nobile e meno curata, e comunque non paragonabile a quella delle grandi realizzazioni. Gli studi sulla tecnica costruttiva non sempre hanno tenuto conto di questa articolazione. Opere sistematiche come quelle di G. Lugli (1957) e di E. Boise van Deman (edita postuma da M.E. Blake, 1947-73) hanno indotto nella falsa certezza che tutti i problemi principali fossero stati già risolti. Si è poi constatato quanto fosse poco proficua e limitante l'impostazione strumentale che aveva indirizzato quelle indagini alla ricerca di particolarità costruttive che definissero una cronologia o una tipologia, trascurando l'analisi complessiva del manufatto architettonico e la sua collocazione in un contesto storico e sociale. Ora si cerca di uscire dalle griglie tipologiche che erano state create sulle evidenze più rilevanti, lasciando in ombra tutto quanto è minore, accorpando e associando, invece di spiegare e capire le ragioni delle differenze. Ma è inevitabile che quella attuale sia una fase interlocutoria. Si avverte l'esigenza di ampliare la conoscenza di base acquisendo nuova documentazione, anche sulle evidenze già considerate in passato. Alcune certezze rassicuranti sono state demolite. Nuovi strumenti di indagine, come quelli offerti dall'archeometria, moltiplicano gli indirizzi della ricerca. A monte di tutto questo vi è poi un concetto che è rimasto inespresso, cioè cosa si debba intendere per tecnica edilizia, cosa in sostanza si debba far corrispondere a un nome: la conformazione del paramento o la lavorazione del materiale costituente o l'apparecchiatura o l'assemblaggio con varie qualità di legante oppure tutto l'insieme di queste caratteristiche. L'ambiguità della terminologia corrente riflette fedelmente la mancanza di questo fondamento metodologico. Accanto a nomi noti dalle fonti testuali, sono in uso neologismi, coniati a imitazione dei termini latini o mutuati da altre lingue moderne. Naturalmente, i nomi non sono in grado di descrivere le realtà molto eterogenee delle murature che spesso presentano caratteri ibridi, dove si mescolano i retaggi delle culture locali, antecedenti la romanizzazione, e gli apporti tecnologici e sociali della cultura romana. Restando nell'ambito di una presentazione sintetica, non si possono sciogliere i nodi di una tradizione di studi che ancora cerca di rinnovarsi. Si può però evitare di sottostare alla pianificazione rigida della tipologia e suddividere la materia, per altro molto vasta, offrendo un panorama sui materiali e sulle tre categorie principali di manifatture murarie, che hanno convissuto nell'architettura di epoca romana.
I materiali di base usati nella costruzione sono la pietra o i marmi, l'argilla e il legno. Considerando anche le finiture e gli elementi interni della costruzione, si possono qui includere il vetro e i metalli, o le leghe, come il ferro, il piombo e il bronzo. La scelta risulta determinata in prima istanza dalla reperibilità in ambito locale delle materie prime, ma l'assortimento può comprendere materiali importati, preziosi o addirittura rari, in dipendenza dall'entità della fabbrica, pubblica o privata. Per la datazione dei manufatti architettonici i materiali forniscono termini cronologici che possono essere validi nel solo contesto regionale, o anche extraregionale se si tratta di un prodotto con diffusione commerciale. In particolare, l'uso delle pietre da costruzione e dei marmi si può porre in rapporto alle date d'inizio e fine dello sfruttamento di una cava. La pietra è quasi sempre una roccia locale, con una compattezza adatta alla costruzione: calcari o arenarie, in numerose varietà; nella penisola italica, oltre questi si trovano impiegati anche i tufi vulcanici laziali e tra i materiali provenienti dalla Campania, oltre i tufi, la pomice, la lava e i lapilli. Per la sua duttilità e facilità di impiego, la pietra viene sfruttata in moltissime tipologie di muratura, allo stato naturale, come scaglia, ciottolo fluviale o marino, oppure lavorata in lastre, blocchi, scapoli sagomati, modanature per decorazioni, ecc. La robustezza la rende particolarmente adatta per le fondazioni, per i punti sottoposti a carichi verticali e per gli elevati in genere. I marmi e le pietre pregiate vengono scelti in funzione delle loro caratteristiche cromatiche ed estetiche e per la compattezza che li rende adatti al taglio e alla sagomatura, nonché resistenti ai carichi verticali. Tra i più diffusi sono i marmi bianchi provenienti dalla Grecia (isole di Paro, Taso e Lesbo, Monte Pentelico), usati anche per la statuaria, e in Italia il marmo lunense; tra i colorati sono preferiti per gli elementi architettonici il cipollino, di colore verde venato di grigio-bianco (dall'isola Eubea) e il marmo giallo-rosato di Simitthus (Numidia), insieme ai graniti grigi e rosa da Assuan (Egitto), mentre nei rivestimenti a lastre, a tarsie (opus sectile) o a tessere musive di pareti e pavimenti si adoperano moltissime varietà, con una ricerca costante di effetti policromi. A partire dall'età augusteo-tiberiana le più importanti cave di marmi pregiati in Italia e nelle province sono sotto il controllo dello Stato, che ne regola lo sfruttamento, limitandone l'uso e la circolazione. Sono, infatti, rarissime le attestazioni di marmi colorati nelle province, in particolare per le colonne, la cui presenza testimonia sempre un dono dell'imperatore alla comunità, mentre l'abbondanza di pavimenti in tarsie marmoree riscontrabile nell'Africa settentrionale può forse essere spiegata come una forma di reimpiego del materiale. L'argilla è tra i materiali più diffusi in assoluto, poiché è nota a tutte le culture mediterranee fin dalle epoche più remote. Allo stato naturale, mescolata ad acqua e sostanze organiche, come la paglia, o inorganiche, come la sabbia, serve a produrre mattoni essiccati al sole (mattoni crudi) oppure viene gettata in cassoni di legno e compattata nella forma prestabilita per la struttura. Cotta in appositi forni, è la materia prima con cui si realizzano laterizi di vario tipo e impiego: i pezzi speciali di modanature, suspensure per le terme e colonne, il cui uso precoce è attestato in Campania, entro la sfera di influenza magnogreca, dove alcuni tipi di mattoni venivano prodotti già nel III sec. a.C.; le tegole, le piastrelle per pavimenti e i mattoni fabbricati in serie. L'ampia diffusione dei prodotti laterizi si deve alle caratteristiche di questo materiale: l'impermeabilità, che garantisce un buon isolamento per coperture e pavimenti; la resistenza al calore, indispensabile negli impianti di riscaldamento; l'omogeneità, che favorisce la tenuta statica della muratura. Nel cantiere edile, il legno è destinato a vari usi in pontature, centine e casseforme. Come materiale da costruzione, la sua qualità caratteristica è l'elasticità e, quindi, la resistenza alla flessione e alla torsione, per cui è ideale nelle strutture architravate. Di consueto, sono in legno le travature di tetti e solai e spesso anche di scale e balconi; le finiture, come i telai e i battenti di porte e finestre; mentre nelle murature viene impiegato per i montanti verticali e orizzontali interni. Se numerose sono le tracce, assai scarsi sono i ritrovamenti, poiché questo materiale deperibile non si conserva che in condizioni particolari: in ambiente umido, come le palizzate dei piloni del ponte sul Reno a Magonza, oppure a seguito di fenomeni di carbonizzazione, come nel caso di alcuni esemplari unici di travature in legno da Ercolano, talune con intagli che consentono di congiungere più pezzi, sino a raggiungere la lunghezza desiderata. Scavi recenti hanno anche consentito di documentare l'uso di assi in legno come rivestimento pavimentale, in ambito nord-italico (Mezzocorona, Sanzeno e Aquileia). Molte delle essenze conosciute attraverso le citazioni delle fonti testuali o le analisi paleobotaniche sono le stesse che si usano ancora oggi, ad esempio la quercia, l'abete e il pino. L'uso del vetro in lastre per la chiusura delle finestre è piuttosto comune a partire dalla metà del I sec. d.C., specialmente nell'edilizia pubblica, ad esempio nelle finestre vetrate delle terme. Nella decorazione, viene trattato alla stregua di altri materiali pregiati: le tessere musive in pasta vitrea sono impiegate in piccole quantità nei mosaici parietali e pavimentali per accrescere le gamme cromatiche, meno frequente è, invece, la realizzazione di mosaici in sole paste vitree; raro e destinato alle residenze più lussuose, come le ville imperiali, è il vetro lavorato a imitazione del marmo, in lastre o bacchette, per formare pannelli a tarsie il cui effetto finale è simile a quello dell'opus sectile. Il metallo nei manufatti architettonici non è quasi mai visibile e spesso funzionale alla connessione dei vari elementi che compongono le strutture. Per il ferro, si conoscono: chiodi da carpenteria, in varie forme e grandezze il cui uso specifico non sempre è precisabile, chiodi a testa larga adoperati per migliorare l'aderenza degli intonaci sulle superfici murarie, chiodi a testa tonda e chiodi a T per fissare alle pareti delle sale termali tegole o tubuli; staffe per sorreggere finte volte in materiali leggeri (canne e stucco) alle travature in legno dei tetti; staffe inserite nella muratura tra pulvini e piattabande per strutture architravate e tiranti inseriti all'interno di strutture con volte in cementizio allo scopo di creare un'armatura di rinforzo; elementi di finitura come grate, inferriate e cancelli. I perni e le staffe in ferro che servono a tenere connessi i blocchi delle murature in elevato e i rocchi delle colonne, sono fissati alla pietra con colature di piombo, mentre le grappe a uncino per fissare le lastre marmoree alle pareti sono in bronzo e solo di rado in ferro.
Le murature in grandi blocchi - La pietra lavorata in blocchi di grandi dimensioni, sovrapposti gli uni agli altri a garantire con la loro stessa mole la stabilità delle strutture, anche nella penisola italica contraddistingue le tecniche murarie di origine più remota. L'opera poligonale (o pelasgica, ciclopica o opus siliceum) è caratterizzata dalla forma irregolare dei blocchi, sovrapposti senza legante, che vengono lasciati quasi allo stato naturale, lavorando solo le superfici da far combaciare e spiombando la facciavista esterna. Le realizzazioni più antiche sono cinte murarie o strutture di terrazzamento e sostruzione che appartengono all'ambito culturale etrusco-italico e datano tra il VI e il III sec. a.C., ma l'opera poligonale può essere ripresa, con intenti ideologici, anche in epoca successiva, come dimostra l'anfiteatro di Alba Fucens, donato alla città per una munificenza privata in età tiberiana. L'uso più ampio della pietra in blocchi si ha, però, nell'opera quadrata (opus quadratum), caratterizzata dalla forma regolare dei blocchi parallepipedi per l'elevato e associata agli elementi dell'ordine architettonico con funzione portante. Questo modo di costruire tipico dell'architettura greca, che lo aveva sviluppato e affinato nel modello del tempio a partire dalla seconda metà del VII sec. a.C., viene rielaborato dai Romani, i quali fondono i diversi apporti della cultura grecoellenistica e etrusco-italica, in parte riproducendo e in parte innovando la tecnica. Dal VI sec. a.C. (Roma, fondazioni del tempio di Giove Capitolino) fino all'epoca bizantina (Ravenna, Mausoleo di Teodorico, 526 d.C.) vi è una serie ininterrotta di edifici che attesta la fortuna dell'opera quadrata. Per le sue caratteristiche formali e tecniche, questa muratura viene preferita nelle architetture più rappresentative e abbinata ad altre anche negli edifici meramente utilitari, con un ambito di diffusione pari all'intero mondo romanizzato. Le varianti peculiari introdotte nel periodo romano sono l'unione dell'opera quadrata con l'opera cementizia e l'ordine applicato a parete. L'opera cementizia è usata in modo sistematico a livello delle fondazioni per conferire solidità all'edificio, e spesso anche nell'elevato, per cui i blocchi dell'opera quadrata non costituiscono più tutto lo spessore murario, ma solo il rivestimento esterno. Viene, quindi, riprodotta la qualità estetica dell'opera e mutata radicalmente la concezione costruttiva. Nell'ordine applicato a parete si ha un procedimento analogo: la colonna e il pilastro, elementi portanti per eccellenza, sono privati della loro funzione statica e divengono un'articolazione della superficie verticale alla quale sono accostati, dando adito alla creazione di numerosi schemi decorativi, dal colonnato del tempio pseudoperiptero alle arcate cieche, o inquadranti aperture, sovrapposte su più piani. Nella sfera di influenza cartaginese perdura durante tutta l'epoca romana una muratura che comporta l'impiego simultaneo di grandi blocchi in pietra, squadrati in forma regolare, e di pietre di piccole dimensioni, l'opera a telaio (opus africanum). Si tratta di una struttura fondata su filari di blocchi squadrati, con elevato composto da catene verticali in blocchi disposti a T, alternate a specchiature in piccole pietre, legate con malte d'argilla negli edifici più antichi e con malte di calce in quelli di piena epoca romana. Nell'Africa settentrionale, si contano numerosi esempi, anche con soluzioni originali, come il caso, per altro unico, della cosiddetta Basilica di Bulla Regia, con specchiature in reticolato. Probabilmente attraverso i contatti con questa regione la tecnica giunge in Sardegna (Nora), in Sicilia (Mozia, Selinunte) e nell'Italia meridionale (Pompei). Per le costruzioni in blocchi e per gli ordini architettonici, in pietra, marmo o tufo viene messo in atto il ciclo di lavorazione più articolato. La lavorazione inizia in cava con la selezione del materiale più adatto a realizzare ciascun pezzo e continua con la fase di estrazione, durante la quale tramite le operazioni di sbozzatura, taglio o sagomatura, i singoli elementi vengono portati alla forma e alle dimensioni previste per la destinazione finale. Quindi i pezzi vengono trasportati sul cantiere, di nuovo lavorati e portati a misura precisa per essere assemblati e, eventualmente, fissati gli uni agli altri con ingrappature. Il ciclo si conclude dopo la posa in opera con la rifinitura, che comporta la politura delle superfici e la decorazione. La dotazione del cantiere comprende macchine per il sollevamento, pontature e opere di carpenteria varia, oltre agli attrezzi di uso corrente. Tutti questi oggetti sono noti da ritrovamenti archeologici o dalle tracce che hanno lasciato sui manufatti, come nel caso della gradina il cui uso è documentato solo dalle impronte caratteristiche, presenti sulla superficie lavorata delle pietre. Le fonti iconografiche aiutano, poi, a ricostruirne l'aspetto e le fonti testuali ce ne tramandano i nomi antichi e, per alcuni congegni, la descrizione del funzionamento. Leve, carrucole, paranchi e argani, questi ultimi azionati a trazione diretta o mediante vere e proprie ruote motrici, fatte girare da schiavi che camminavano al loro interno, servono a spostare gli elementi di grandi dimensioni, che per il loro peso non potrebbero essere posti in opera a mano. Ponteggi e impalcature in legno, eretti a diverse altezze man mano che la costruzione procede in elevato, con le relative scale o rampe di accesso, servono a consentire gli spostamenti degli operai. Gli attrezzi di uso corrente sono molto semplici: compassi, squadre, fili a piombo, archipendoli, righe graduate e piedi, come strumenti di misura e di controllo dell'orizzontalità e della verticalità; mazzette, punteruoli, scalpelli, picconi, asce, badili, seghe e trapani a mano, come strumenti di lavoro per tagliare, rifinire e scolpire.
Le murature in cementizio - Caratteristico dell'architettura romana è il ciclo di lavorazione veloce che comporta l'uso di materiali pronti per la posa in opera e fabbricati in serie, assemblati con malta di calce. La calce è un legante, preparato attraverso un procedimento che altera la struttura chimica del materiale di partenza, cioè la pietra calcarea. Può essere utilizzata anche pura, ad esempio nella muratura in blocchi, ma non ha grande efficacia. Al contrario, se viene mescolata ad altri materiali, forma la malta di calce, un composto capace di compattare tutto quanto vi è incluso e di indurire (tramite un fenomeno di cristallizzazione, detto anche "presa"), fino al punto da raggiungere una consistenza paragonabile a quella della pietra, se non superiore. Nel trattato sull'architettura di Vitruvio (seconda metà del I sec. a.C.), si leggono dosi e ingredienti per la malta comune fatta di calce e sabbia (di cava o di fiume) e per la malta idraulica con calce e laterizi frantumati o pozzolana (polvere di tufo, prodottasi per effetto delle deiezioni vulcaniche, tipica della città di Pozzuoli e della zona flegrea ma presente anche nel Lazio). Nella realtà, sembra non esistere una regola così precisa e anzi si riscontrano numerose varianti dell'impasto di base, anche nell'ambito di uno stesso periodo e di uno stesso luogo. L'introduzione di questo tipo di legante, attestato per la prima volta a Roma, in costruzioni pubbliche di grande rilevanza (tempio della Magna Mater e Porticus Aemilia) tra la fine del III e l'inizio del II sec. a.C., costituisce un termine di riferimento, in quanto è possibile che la sperimentazione sia riconducibile a epoca precedente. In questi edifici, la malta di calce è usata per assemblare il paramento e per costruire il nucleo in opera cementizia (caementicium). Con questo termine si designa propriamente l'impasto di malta di calce e materiali frantumati di varie qualità (caementa, detti anche "inerti", perché non coinvolti nel processo chimico che causa l'indurimento, o presa, del composto). Il cementizio è, al pari di una materia duttile, modellabile nelle forme più diverse. Viene usato come tecnica a sé stante per la costruzione di fondazioni e coperture a volta, mentre per gli elevati costituisce il nucleo interno della muratura. Si conoscono vari tipi di posa in opera. Caratteristiche delle fondazioni sono la gettata libera, in cui l'impasto di malta e inerti, già pronto, viene messo dentro la cassaforma lignea in una o più gettate successive, e l'allettamento a mano, in cui gli inerti sono disposti in modo ordinato in strati orizzontali su cui viene poi colata la malta di calce. Per gli elevati, i due paramenti esterni possono essere costruiti per primi e quindi l'impasto cementizio gettato all'interno, come in una sorta di cassaforma in muratura, oppure si possono disporre i materiali del paramento e gli inerti del nucleo nello stesso momento, in modo tale da creare dei collegamenti tra l'esterno e l'interno della struttura muraria. Quest'ultima modalità è spesso usata lungo i piani orizzontali ad altezze regolari (cinture), negli angoli e negli spigoli (ammorsature) e nelle ghiere degli archi. Nelle volte si hanno le stesse tipologie di posa in opera e, inoltre, è attestato l'uso di inerti con peso specifico descrescente, man mano che si procede verso la sommità della copertura (tra i casi più noti sono le cupole del cd. "tempio di Mercurio" a Baia, di età augustea, e del Pantheon a Roma, di età adrianea). Nelle province asiatiche e in Africa, meglio studiate sotto questo profilo, si conoscono varie attestazioni di murature in cementizio, abbinato a paramenti o usato per le coperture a volta. Le nuove tecniche si affermano, insieme ai nuovi modelli architettonici, tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., ma si diffondono più ampiamente circa un secolo dopo, in età adrianeo-antonina. Mancano studi sistematici, per cui le conoscenze si limitano a casi documentati in un certo numero di siti meglio noti, come Pergamo, Efeso, Cartagine. Tuttavia appare molto chiaro che ovunque continuano a essere usati anche in epoca romana altri tipi di assemblaggio che implicano l'uso di leganti di tradizione più antica, quali le malte di argilla e calce, gesso, ecc. La lavorazione in serie dei materiali costituenti può avvenire in due modi: in cava per le pietre tenere, come il tufo, tramite la sbozzatura e il taglio in forma regolare di tessere e blocchetti; in officina per i laterizi, con la cottura in forme di misure standard, già predisposte. Su come avvenisse la produzione dei piccoli scapoli da mettere in opera con il cementizio non abbiamo informazioni dirette e soltanto le murature restano a testimoniare l'esistenza di questa industria. Non è da escludere, per altro, che parte della lavorazione avvenisse in cava e parte in cantiere. Per le figline, invece, si possono desumere alcuni dati dai marchi di fabbrica. Nel marchio, o bollo, sono impressi il nome del fabbricante (officinator), talvolta anche il nome del proprietario della figlina (dominus). Le grandi officine urbane, meglio note a causa della vastità della loro produzione, sono specializzate in pochi prodotti: tegole di vario tipo, coppi e mattoni, terracotte architettoniche e, tra quelli non destinati all'edilizia, soltanto doli, mortai o sarcofagi. Questi prodotti hanno anche un'area di mercato che per alcuni marchi di fabbrica è individuabile tra Roma e Pompei, ma più spesso la produzione dei materiali per l'edilizia è destinata a soddisfare il fabbisogno di un ambito regionale, o locale ancor più ristretto, e in questi casi si verifica in genere che le figline sono meno specializzate e hanno un assortimento più ampio di merci. Una volta trasportati sul cantiere, i pezzi sono messi in opera così come sono o, nel caso dei laterizi, dopo essere stati frazionati in più parti. La dotazione di cantiere comporta le pontature, che sono elevate insieme alla struttura muraria e talvolta ancorate in essa; soltanto per le centinature delle volte e per le casseforme delle fondazioni in cementizio, sono necessarie opere di carpenteria anche molto complesse, di cui i costruttori romani erano abilissimi artefici, come dimostrano i numerosi resti di scafi e parti di imbarcazioni, rinvenuti negli scavi subacquei. In cava e nei cantieri ove si adoperano i materiali fabbricati in serie, l'organizzazione delle maestranze è di tipo industriale, l'apporto degli operai qualificati è limitato e si ricorre alla manodopera non specializzata in più fasi della lavorazione e della costruzione e non soltanto per i lavori pesanti. La cesura rispetto alle esperienze precedenti dell'architettura greca risale all'età ellenistica, quando si verificano più condizioni favorevoli al rinnovamento dei sistemi costruttivi: la richiesta e l'intervento diretto della committenza privata nei progetti architettonici, l'afflusso di risorse economiche e di schiavi nella penisola italica. Nessuna fonte, però, dà notizie dirette circa la parte numericamente più cospicua delle maestranze. Nella cava di marmo giallo numidico di Simitthus, l'edificio in cui alloggiavano gli operai (forse schiavi, forzati, o condannati a morte) è simile a una grande caserma che poteva alloggiare oltre 1200 persone. Sappiamo che la struttura organizzativa dell'esercito (ripresa a Simitthus nel tipo architettonico) è in grado di progettare e costruire le opere militari necessarie in tempo di guerra, come si vede nelle raffigurazioni delle colonne coclidi, la Traiana e la Antonina di Roma, ed è probabile che i soldati delle legioni venissero impiegati anche in tempo di pace per alcune opere di interesse strategico, come le strade, o nella costruzione di edifici pubblici, come ipotizzato per le provincie asiatiche. Dall'analisi degli edifici, si constata che il lavoro di cantiere viene suddiviso tra diverse squadre di operai e portato a compimento in tempi diversi: caratteristica, al riguardo, è la posa in opera dei rivestimenti e della decorazione applicata, eseguita anche molto tempo dopo il completamento delle opere in muratura. L'esistenza di una forma di controllo, o quanto meno di un computo preciso del lavoro effettivamente svolto, è testimoniata da un ritrovamento recente, per altro unico nel suo genere: su di un paramento in mattoni di epoca traianea (edificio sottostante le Terme di Traiano, Roma) sono dipinte date in successione, a distanza di pochi giorni l'una dall'altra, forse apposte da chi sorvegliava il cantiere, man mano che la costruzione del muro procedeva in elevato. I tempi della costruzione sono comunque brevissimi, anche per architetture imponenti, come nel caso delle Terme di Caracalla, a Roma, per le quali si è potuto appurare che il lavoro del cantiere durò dai cinque ai sei anni (dal 211 al 216 d.C.), e si è calcolato che nei quattro anni finali era impegnata una maestranza di 7200 uomini per la produzione dei materiali e per la costruzione. A fronte dei manufatti che testimoniano l'efficienza del sistema con cui i costruttori sono in grado di realizzare architetture in cementizio e in pietre da taglio, i testi, specialmente epigrafici, forniscono solo alcuni dati circa le figure professionali. Dal I sec. d.C., gli operai qualificati e gli artigiani sono riuniti in corporazioni (collegia). La categoria principale è quella dei carpentieri (fabri tignuarii), importante per il numero di aderenti e per la diffusione in Italia e nelle province, cui forse fanno capo imprese edili con più operai. Altri artigiani hanno, invece, collegi propri, come i marmorari (marmorarii), i fabbri (fabri ferrarii) e gli operai specializzati nella posa dei pavimenti (pavimentarii). Circa la gestione delle opere di edilizia, solo in rari casi si ha la certezza di un incarico dato ad appaltatori (redemptores) che forse curano l'esecuzione, sotto il profilo economico e imprenditoriale, per conto di privati o per lo Stato. La progettazione e la guida del cantiere spettano comunque all'architetto, le cui competenze e funzioni rispondono a un profilo preciso, che risulta delineato con chiarezza già alla fine del I sec. a.C. nel trattato di Vitruvio. Ma le opere sono per noi anonime, fatti salvi alcuni casi in cui si riesce a stabilire un riscontro tra gli edifici conservati e le citazioni delle fonti, come per Rabirio o Apollodoro di Damasco. Tra i paramenti cui il cementizio è abbinato, il più antico è l'incerto (incertum), formato con piccoli scapoli, tutti di dimensioni simili, accuratamente sbozzati in forma poligonale e con superfici lisciate in facciavista, ben connessi e senza allineamenti su filari orizzontali. È diffuso in modo particolare tra Lazio e Campania, dove le prime attestazioni risalgono alla fine del III sec. a.C. (i due primi edifici conosciuti sono gli stessi già citati per l'attestazione della malta di calce) e si protraggono in età imperiale. I primi paramenti in reticolato (reticulatum) si collocano in edifici databili tra la fine del II e l'inizio del I sec. a.C. È con questa nuova tecnica che si diffonde per la prima volta su vasta scala la produzione in serie. Il paramento in reticolato è costituito da tessere di forma troncopiramidale, realizzate perlopiù in tufo, disposte con la base quadrata in facciavista a formare una tessitura con allineamenti obliqui. I primi esempi conosciuti sono tutti a Roma. Tra la metà del I sec. a.C. e l'età augustea la produzione delle tessere per il reticolato diviene sempre più precisa e alcune manifatture sono in grado di produrre i conci troncopiramidali con una base quadrata, i cui lati differiscono solo di millimetri (teatro di Balbo, a Roma, 13 a.C.). A questo stadio di sviluppo, il paramento ha una tessitura regolare, con giunti di proporzioni ridottissime. In seguito, l'uso del reticolato perdura sino al II sec. d.C. per poi scomparire definitivamente. Anche in questo caso, le attestazioni sono concentrate tra Lazio e Campania, dove più abbondanti sono i materiali adatti sia alla confezione del paramento che a quella del cementizio (tufi e pozzolane), mentre al di fuori di queste regioni sono solo sporadiche o mancano del tutto (per i limiti geografici, a nord e a sud, si ricordano il teatro di Verona, età augustea, e l'anfiteatro di Lecce, inizio II sec. d.C.). Per converso l'opera reticolata, eseguita anche in calcare, viene riprodotta e usata in ambito provinciale, come portato e segno tangibile della presenza romana: si conoscono edifici isolati (Grecia, province orientali e occidentali, in 27 siti) in prevalenza di carattere pubblico, per i quali si presuppongono l'intervento diretto di maestranze italiche, in specie le legioni di stanza nelle diverse province, e una committenza collegata al potere centrale; oppure si hanno concentrazioni di edifici pubblici e privati in zone limitate (Africa settentrionale, 11 siti), che lasciano supporre, in alcuni casi, una adesione spontanea a uno dei tanti modelli, proposti e imposti dalla cultura egemone. Il reticolato, come anche l'incerto, per la forma delle tessere usate nel paramento, deve essere necessariamente abbinato ad altre tecniche per la finitura degli angoli e per le ghiere degli archi. Questi elementi denotano l'evoluzione complessiva dell'apparecchiatura, che passa da forme sperimentali, come l'ammorsatura a dente di sega, a forme standard, come l'ammorsatura a dente con passo regolare di un piede. Nel I e nel II sec. d.C. l'unione di reticolato e mattoni diventa ricorrente, tanto che è stato coniato un termine specifico, "opera mista" (opus mixtum), con cui si identifica, nell'accezione comune, il paramento in reticolato con ammorsature a dente, cinture e ghiere in mattoni. Gli altri due tipi di paramento con materiali prodotti in serie sono i mattoni (opus testaceum) e i blocchetti rettangolari (opus vittatum), usati da soli per comporre tutto il paramento o tra loro abbinati. A Roma i primi edifici costruiti interamente in mattoni sono attestati a partire dall'età tiberiana (Castra Praetoria, 21-23 d.C.). I mattoni sono prodotti in misure standard (multipli o frazioni del piede), appositamente per la posa in opera. Questa tecnica più veloce e più semplice, dapprima si affianca al reticolato e quindi lo sostituisce nell'arco di un secolo circa, come documentano i grandi edifici pubblici di Roma e l'edilizia e pubblica e privata di Ostia. Prima e durante questo periodo di uso intensivo, produzioni di mattoni e di laterizi da copertura, come le tegole, si hanno in tutti gli ambienti regionali e spesso si differenziano per la forma e per i marchi di fabbrica. La presenza del bollo consente di stabilire con certezza quando avvenne la produzione dei materiali, ma non in tutti i casi il momento della posa in opera, poiché è frequente la pratica del riuso. La consuetudine di bollare i mattoni ha a sua volta dei limiti cronologici, variabili a seconda degli ambiti regionali, che possono servire da riferimento. Il paramento in blocchetti parallelepipedi (opus vittatum), di dimensioni regolari e sovrapposti con i giunti verticali sfalsati, si diffonde dall'epoca augustea e sembra coprire le aree in cui non si attesta il reticolato nell'ambito nord-italico. Nel Lazio e in Campania, invece, diviene comune solo a partire dal II sec. d.C. I blocchetti sono spesso abbinati ai mattoni, pieni o alternati a filari, su tutta la superficie muraria o solo nelle ammorsature a dente e nelle cinture. In ambito provinciale, la muratura in blocchetti è molto diffusa, come in Gallia, dove è usata in modo esclusivo fino al II sec. d.C. e, solo in seguito, unita ai mattoni. Agli esempi più tipici del paramento in blocchetti si avvicinano le numerose murature realizzate con scapoli di varie forme, ad esempio quadrangolari, assemblate con vari tipi di leganti, pure altrettanto diffuse. Oltre a questi tipi di murature in cementizio ne esistono vari altri. La casistica comprende murature con paramenti trattati in modo organico e tecnicamente curato, ma anche in pietre sbozzate, queste ultime spesso assimilate all'incerto. Tra tutti questi merita di essere citata la muratura con scapoli disposti a spina (o "a lisca di pesce", definita anche opus spicatum, nome che per altro è usato più di frequente per i rivestimenti pavimentali in piastrelle di laterizio). Alcuni edifici databili entro il I sec. a.C. (villa di Varignano, La Spezia; teatro di Bologna; e parzialmente anche il teatro di Amiternum e la cinta muraria di Sepino) hanno paramenti con tessitura a spina, realizzati in blocchetti di pietra, sagomati in forma rettangolare e assemblati con opera cementizia, in cui la lavorazione degli scapoli è derivata da quella delle tessere del reticolato, come anche la stessa tessitura obliqua del paramento. In altre attestazioni, che completano il panorama delle evidenze, la tessitura a spina è realizzata con pietre sbozzate. È questo uno dei casi in cui esiste effettivamente un margine sottile per distinguere una vera e propria tecnica a sé stante da una modalità di posa in opera, che, come quella con scapoli disposti di taglio, obliquamente o a spina, viene usata di frequente per economizzare materiali di vario tipo, ad esempio tegole e laterizi riusati. Come anche esistono pochi elementi per capire se nelle murature in ciottoli non spezzati disposti a spina, di epoca tardoantica e medievale, vi sia una continuità con la tradizione della manifattura di epoca romana o piuttosto una reinvenzione di un sistema costruttivo adatto a porre in opera piccoli scapoli di forma ellittica.
Le murature con montanti di legno e argilla e le murature cosiddette "disordinate" - Il panorama delle opere murarie che impiegano materiali deperibili e/o non prodotti in serie, con o senza uso di leganti, è molto ricco, anche perché gli abbinamenti tra materiali diversi generano molte varianti. La riconoscibilità di queste tecniche è, però, limitata: le tracce di legno e argilla si rivelano solo con lo scavo stratigrafico e con una lettura attenta dei reperti; i resti conservati sono spesso troppo parziali per poter operare una distinzione netta e, quindi, attribuire all'una o all'altra delle tipologie note la muratura esaminata. A questo, si aggiunge la scarsa uniformità delle descrizioni che vengono di volta in volta proposte. Gli studi più recenti, tutti a carattere regionale, offrono per il momento un panorama abbastanza frazionato. In Italia, esistono una rassegna tipologica riguardante la regio VIII e un censimento degli edifici in siti d'altura riguardante l'arco alpino orientale e occidentale e la zona dell'Imolese, ai quali si aggiungono poche altre notizie episodiche e dati provenienti da scavo (Bedriacum, odierna Calvatone; villa di Isera, Trento). Ciò non vuol dire che manchino attestazioni nell'area centrale e nel Sud dell'Italia. Anche per le province, il quadro è ancora frammentario e l'unica raccolta riguarda le architetture in argilla e legno di Tunisia, Marocco, Gallia, Svizzera e Britannia. Considerando le modalità costruttive degli elevati, si possono individuare tre gruppi: strutture con montanti lignei, strutture in sola argilla, strutture in soli materiali durevoli, quali pietre, ciottoli, laterizi. L'ambiguità tipologica sorge per via del fatto che i primi due tipi di elevato possono avere uno zoccolo di muratura identico, il quale spesso è l'unico elemento superstite e potrebbe essere anche tutto ciò che resta di una muratura in materiali durevoli. La muratura con montanti di legno viene correntemente definita opera a graticcio (craticium), con il nome che è indicato nel trattato vitruviano. Negli esempi delle città vesuviane, le murature in graticcio sono costituite da intelaiature lignee che delimitano pannelli rettangolari, chiusi con piccoli scapoli di pietra e malta, un tipo di muratura questo che viene assimilato all'incerto. Lo spessore di queste strutture è esiguo e sovente sono utilizzate come tramezzi. Questa è, però, soltanto una delle possibili realizzazioni della muratura con montanti lignei, forse la meglio documentata dai resti e anche quella che mostra la più lunga continuità di uso, giungendo sino all'epoca attuale (si ricordano tra gli altri esempi le caratteristiche case del Limosino, Francia, e quelle di Lefkada, Grecia). Nei siti dell'Italia settentrionale sono documentati vari altri sistemi, ma spesso la forma esatta dell'elevato è solo in parte ricostruibile o addirittura ipotetica. La fondazione al piano terra è, in alcuni casi, costituita da un cavo, poco profondo, riempito da strati limosi; lo zoccolo di muratura è formato da pochi filari di mattoni cotti o frammenti di laterizi disposti a spina o tegole non smarginate, tra le cui alette sono allettati frammenti di laterizi vari; nei piani superiori o per le suddivisioni interne degli ambienti, invece, c'è da supporre che strutture di questo tipo fossero costruite direttamente sui solai e sui pavimenti. Come riempimento dei pannelli possono essere usati: argilla cruda lavorata a mattoni (adobe), incannicciate e argilla, piccole pietre e materiali vari legati da malta. La disposizione dei montanti sembra variare a seconda delle necessità statiche della costruzione, poiché in questo genere di muratura è il telaio in legno che distribuisce i carichi verticali: pali verticali in posizione angolare, file di pali a distanze regolari lungo la parete, pali esterni allo spessore murario, in funzione di pilastri di rinforzo. Le varie tecniche vengono usate per i muri perimetrali e non soltanto per i tramezzi. Le pareti mostrano sempre robusti strati di rivestimento (su cui spesso restano le impronte dei materiali deperibili) che servivano a proteggere il nucleo interno della muratura dagli agenti atmosferici. La tecnica in cui si impiega l'argilla cruda pressata in forme di legno viene definita pisé, mentre il nome più specifico di torchis indica solo l'impasto di argilla e fibre vegetali (come la paglia ritorta e seccata). Anche questa tecnica ha una tradizione che rimane tutt'oggi vitale nei Paesi mediterranei (ad es., Tunisia e Marocco), in zone dove scarseggiano le pietre da costruzione. Per contro, le attestazioni riguardanti l'epoca romana sono limitate perché il materiale raramente si conserva integro e, nella maggior parte dei casi, è difficile distinguere tra il vero e proprio pisé o i mattoni crudi. Le fonti testuali (Catone e Vitruvio) fanno esplicito riferimento ai mattoni crudi come una tra le tecniche migliori (secondo Vitruvio assai più sicura del graticcio, perché priva di montanti lignei e quindi meno soggetta agli incendi), purché si adottino due precauzioni contro l'umidità: fondare su zoccoli di muratura e coprire la sommità dei muri con laterizi. Lo zoccolo di muratura, come si è detto, può essere del tutto simile a quelli già descritti poco sopra. Un'attestazione certa è nella villa di Settefinestre, in Etruria, dove si conservano tre tipi distinti di muri di argilla cruda: con zoccolo di incerto ed elevato di argilla; senza zoccolo e rinforzate all'interno con corsi di laterizi; di sola argilla cruda. Il gruppo cui appartengono tutte le murature di pietre lavorate in modo sommario o non lavorate, talvolta alternate a materiali di altro tipo, spesso anche frutto di recuperi, non ha un nome che corrisponda a un inquadramento tipologico. Nell'ambito degli studi di archeologia medievale, queste tecniche sono state definite "disordinate", poiché l'uso di materiali eterogenei conferisce al paramento un aspetto disorganico, ma, come è stato osservato, sarebbe più opportuno definirle "complesse", perché la loro esecuzione richiede una grande perizia da parte del muratore, che non può giovarsi di materiali predisposti e quindi si affida alla sua sola esperienza. Infatti, ciò che accomuna tutti questi tipi di muratura è il ciclo di lavorazione: l'assemblaggio è fatto direttamente dal mastro sul cantiere, al momento della messa in opera, il quale sceglie, adatta e lavora i materiali provenienti dal luogo d'origine, o reperiti in vario modo. Nelle abitazioni urbane o rurali e spesso nelle architetture minori queste opere murarie sono impiegate accanto alle altre, magari per refezioni e modifiche successive alla prima costruzione, oppure per la costruzione dell'intero edificio. I criteri distintivi sono dati dalla modalità costruttiva: assenza o presenza di tipi diversi di legante; conformazione del nucleo, distinto o indistinto dai paramenti; finiture angolari, con impiego o posa in opera diversi del materiale. Tracciare una sintesi sull'evoluzione delle tecniche con montanti di legno e argilla e su quelle "disordinate" è quanto meno prematuro, dato lo stato delle conoscenze attuali. In molti ambiti regionali, esse si riallacciano alla tradizione locale per cui sono spesso considerate indicatori del livello di maggiore o minore penetrazione della cultura romana nei territori conquistati. Indubbiamente, il legame con la cultura autoctona, e quindi la tradizione delle conoscenze empiriche, è una delle ragioni che inducono alla scelta e alla selezione delle modalità costruttive, insieme ai fattori contingenti, come la disponibilità della materia prima, e ai fattori economici. Ma il primo livello di scelta è determinato sempre dal progetto: non per caso in epoca romana l'uso dei materiali cosiddetti poveri è ricorrente nell'edilizia residenziale, urbana o rurale, quando la committenza privata non richiede modelli architettonici complessi.
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di Cairoli Fulvio Giuliani
L'essenza strutturale dell'organismo edilizio è la connessione di membrature costruttive dimensionate in modo tale da poter espletare all'interno dei carichi di sicurezza i compiti statici loro affidati. Dato che tra gli scopi di un edificio c'è quello di durare a lungo, è evidente l'importanza che hanno a questo fine la qualità dei materiali impiegati, l'efficace connessione dei vincoli, la suddivisione armonica del lavoro fra le diverse parti, la qualità del terreno fondale, la realizzazione di uno stato tensionale interno che sia compatibile con la capacità di resistenza del materiale impiegato ed infine la protezione di tutto questo dagli agenti atmosferici. Diventa così determinante riconoscere ai fini dello studio degli edifici quello che appartiene realmente alla struttura portante da quello che sembra appartenervi. Infatti, nell'architettura non sempre le motivazioni strutturali dichiarate nella membratura in vista sono quelle che poi determinano la statica dell'edificio. Il fenomeno si riscontra soprattutto nell'architettura romana che per ragioni diverse, non ultima l'uso del calcestruzzo, risulta meno esplicita di quella greca. Gli esempi di tale "illusionismo strutturale" sono parecchi: si va dalla piattabanda (spingente) foderata di marmo per sembrare un architrave (non spingente), all'uso di vere e proprie "piattabande di scarico" collocate nella fascia del fregio per proteggere l'architrave (tempio di Portuno al Foro Boario, Tempio dei Castori al Foro Romano); dalle colonne e mensole poste normalmente sotto i pennacchi delle crociere all'uso (raro) di archi aggettanti dall'intradosso a sostegno apparente delle volte (grande aula dei mercati di Traiano). Talvolta si hanno addirittura volte finte e controsoffittature con finalità estetiche e/o funzionali, ma prive di qualunque valenza strutturale. Tralasciando quest'ultimo caso, appare chiaro come si debba rintracciare in ogni membratura architettonica la valenza statica propria per evitare inquadramenti falsi e classificazioni equivoche, con gli immaginabili riflessi cronologici. A questo fine converrà anteporre la ricerca delle caratteristiche meccaniche dell'ossatura murale a quella della definizione cronologica delle cortine murarie. Ogni edificio è progettato per le scelte strutturali a partire dalla copertura, che impone la griglia delle soluzioni possibili per il tipo degli alzati (sia degli alzati sia della loro articolazione) e delle fondazioni. Un organismo architettonico può essere pensato come composto di tre grandi elementi tra loro strettamente connessi: copertura, alzato, fondazioni. La copertura è chiamata a proteggere l'intero edificio dalle intemperie e da essa dipendono non solo la statica, ma anche la vivibilità, l'estetica e spesso i caratteri distributivi dell'organismo costruttivo. Dalle tensioni che genera dipendono i modi con i quali essa trasmette i carichi statici e quelli dinamici alle strutture di alzato. Si pensi, a titolo di esempio, alla diversità planimetrico-strutturale richiesta da un organismo voltato rispetto ad uno architravato. L'alzato è costituito dai solidi murari verticali che, raccogliendo i carichi e le tensioni trasmesse dalla copertura, li inviano nel modo più omogeneo possibile alle fondazioni. Esso provvede anche a proteggere la costruzione dall'impatto laterale degli agenti atmosferici. Le sue caratteristiche sono strettamente vincolate dalla scelta del sistema di copertura. Dal punto vista funzionale, poi, le strutture di alzato sono occasione e mezzo per la delimitazione e l'articolazione degli spazi abitativi, sia in senso verticale sia orizzontale. La fondazione raccoglie il peso dell'intera struttura e lo trasmette al terreno nel modo più uniforme possibile ed in misura compatibile con le capacità portanti di questo, così da assicurare all'edificio la massima stabilità per un periodo di tempo indeterminato. Le sue caratteristiche dipendono da un lato da quelle del fabbricato e dall'altro dalla capacità portante del terreno, cioè dalla sua attitudine a sopportare i carichi. Le fondazioni sono limitate in basso dal piano di appoggio ed in alto dal piano di spiccato che le divide dall'alzato ed è marcato dalla risega di fondazione. Un tronco poggiato con le estremità su due pietre è capace di sostenere grossi carichi fissi o accidentali lavorando a pressoflessione. Questa condizione corrisponde al principio fondamentale del sistema trilitico. Esso, indipendentemente dal materiale adoperato, risulta formato da due elementi verticali convenientemente distanziati (ritti) sulla cui sezione superiore si appoggia orizzontalmente il terzo elemento (architrave o giogo). La moltiplicazione complanare di questa cellula elementare dette luogo ad uno scheletro i cui vuoti potevano essere riempiti di materiali diversi (mattoni crudi, pietre a secco, rami intrecciati, ecc.) a formare una lastra-parete. Eventuali cellule lasciate vuote diventavano porte e finestre. In sostanza si avevano una ossatura portante sollecitata a pressoflessione e tamponature che incidevano limitatamente nel comportamento statico di questo scheletro. Anche se a livello embrionale, è un po' quello che succede nelle strutture di cemento armato. La combinazione di più strutture-pareti secondo i tre assi di riferimento dello spazio (x, y, z) realizzava il vano la cui moltiplicazione dava luogo all'edificio complesso. Così tutto l'organismo lavorava, almeno nelle grandi linee, a pressoflessione nelle membrature orizzontali e a compressione in quelle verticali. L'estensione della struttura implicava, però, problemi di equilibrio nella distribuzione dei carichi e quindi nella ripartizione delle tensioni interne alle membrature. Erano difetti ai quali fin dall'inizio si rimediò con opportuni interventi. Facciamo l'esempio di una parete assimilabile ad un solido parallelepipedo a sezione di base ridottissima in cui si verifichino tensioni interne, anche per le sole condizioni di giacitura. Se al momento della costruzione questa parete era composta di un'armatura adeguata e da zone aperte ed altre tamponate, le tensioni alla ricerca di equilibrio aumentavano in quantità perdendo evidentemente di intensità; comunque esse risultavano per lo più dirette verso la periferia. Lungo il piano di contatto tra due pareti (spigolo) le tensioni si incontravano definendo così uno dei punti critici dell'organismo. La verifica sperimentale dovette portare ben presto ad irrobustire questi punti (Cato, Agr., XIV, 1: villam aedificandam... faber haec faciat oportet: parietes omnes, uti iussitur, calce et caementis, pilas e lapide angulari) e il fenomeno era così importante da essere enfatizzato nella figura retorica della pietra angolare. Per successive modifiche si rese sempre più complessa la articolazione del sistema trilitico, ma il modo di trasmissione del carico restò nell'ambito della pressoflessione con risultante assimilabile alla verticale. Tornando al solido-parete, si intuisce la maggiore complessità concettuale legata ad una struttura di muratura a sacco innervata da un telaio ligneo, anche di piccole dimensioni, rispetto a quella, magari più grande, in opera quadrata. Infatti laddove in quella, in quanto disomogenea, si dovevano individuare i punti in cui convogliare le tensioni interne, in questa, più omogenea, si ripartivano i carichi su tutta la superficie per sezioni orizzontali continue. Questa concezione strutturale è alla base dell'organismo costruttivo composto da ritti e travi tra loro solidali, cioè di quella che più propriamente può essere chiamata l'ossatura della costruzione. Il conflitto tra aree fabbricabili e volumi realizzabili fu avvertito subito (Vitr., II, 8, 17) e si rispecchiò nella ricerca di materiali sempre più resistenti alla compressione; così si abbandonarono rapidamente gli ingombranti muri continui di mattoni crudi a favore del sistema a pilastri portanti e travature resistenti che consentiva un considerevole sviluppo in altezza. Il sistema di scarico delle forze a pressoflessione, proprio perché elementare, è stato alla base di ogni cultura architettonica: ad esso fanno capo tutte le strutture non spingenti. L'esito formale più noto è il colonnato architravato, tanto diffuso e così organicamente concepito da essere diventato subito un vero e proprio codice di riferimento per la lettura dimensionale di ogni edificio in cui comparisse. L'ordine architettonico si caricò quindi ben presto di significati che andarono al di là della stessa funzione strutturale, come mostra la sua diffusione nel mondo romano, anche nella forma applicata a parete, per la quale la valenza statica è decisamente secondaria, anche se presente. Almeno in teoria, dunque, il sistema era in grado di trasmettere al terreno sia il carico permanente sia quello accidentale con andamento verticale. Così le forze si incanalavano lungo l'ossatura disposta secondo i tre assi di riferimento (x, y, z) e quando era necessario si ponevano raccordi ausiliari a 45 gradi. Proprio questa disposizione, spontanea per il sistema, determinava costruzioni ordite soprattutto per piani ortogonali e simmetrici, quindi sostanzialmente regolari. Dal momento che l'allontanarsi dalla regolarità comportava la ricerca di nuovi equilibri, è difficile attribuire al caso deroghe sensibili. Perfino il concetto di simmetria, al di là dell'estetica, ha un valore strutturale non trascurabile in quanto rende equilibrato l'organismo costruttivo rispetto al peso da trasmettere al terreno, come spiegano bene le raccomandazioni in tal senso emanate ancora nel secolo scorso per le ricostruzioni a seguito dei terremoti. L'individuazione dei nodi strutturali dell'edificio (compatibilmente con l'interazione di altri vincoli quali la funzionalità, l'economia, la facilità di reperimento, ecc.) portò presto alla differenziazione dei materiali da costruzione. L'uso contestuale di alzati in pietrame e coperture in legname e laterizio corrispose ad un compromesso economico iniziale, ma si legò poi così intimamente alla realizzazione di particolari spazialità architettoniche che è assai difficile, se non impossibile, stabilire se la motivazione della scelta iniziale sia stata estetica, economica oppure tecnica. Il sistema trilitico dunque comportava che almeno un elemento lavorasse in parte a trazione. L'inconveniente maggiore era che tutti i materiali da costruzione disponibili in antico, se molto resistenti alla compressione, lo erano assai meno alla trazione, se si escludono il ferro ed il legno. E del resto il legno, data la scarsa durata e la soggezione alla deformazione plastica, risultava inadatto a costruzioni monumentali pensate per durare a lungo inalterate, mentre il ferro, ancora costosissimo e relativamente raro, arrugginiva. Il problema era allora quello di individuare un procedimento costruttivo che assecondasse la resistenza alla compressione comune ai materiali da costruzione. L'elemento era l'arco, noto da tempo; se ne hanno esempi molto più antichi del suo fiorire come cardine dell'edilizia romana. Ma il suo impiego era stato sporadico e del tutto casuale e comunque applicato al di fuori di un contesto strutturale consapevole e adeguato. La sua adozione comportò una vera e propria rivoluzione della cultura architettonica. Bisognava essere disposti, una volta individuato il nuovo sistema, ad assoggettarsi alle sue leggi, evidentemente molto diverse da quelle del trilitico e tali anche da sovvertire le abitudini architettoniche e le concezioni spaziali di lunghissima tradizione. Solo un'architettura non intellettualizzata, distaccata dal continuo perfezionamento di concetti tramandati, disponibile alle innovazioni, alla progettazione e soprattutto provvista di una grande chiarezza nelle finalità costruttive poteva consentire una tale rivoluzione. La vera questione non fu dunque di immaginare un sistema nuovo, ma piuttosto di riconoscere le qualità ed i vantaggi di uno già noto e di essere disposti a sacrificare ad esso la certezza tranquillizzante della tradizione, in cambio di una flessibilità strutturale amplissima e piena di implicazioni estetiche assolutamente nuove. È per questo che non ha senso ricercare un "inventore dell'arco" perché, a ben guardare, l'arco preso in sé non ha un grande significato architettonico: esso ha invece un valore immenso in quanto è il solo strumento a disposizione che permette di sfruttare appieno le qualità di tutti i materiali da costruzione. L'arco infatti lavora solo per compressione, ma da solo serve a poco se non si è capaci di individuare, e di conseguenza contrastare, il gioco delle spinte che determina. Ed è appunto questa la geniale intuizione dell'architettura romana: l'aver capito le esigenze della nuova struttura ed averle sfruttate pienamente liberandosi delle ristrettezze dello schema trilitico. Sappiamo che a Roma l'uso fu precoce: si applicava in serie già alla fine del III sec. a.C.; Livio (XXII, 36, 8) cita infatti come già esistente nel 216 a.C. una via fornicata in Campo Marzio. E tralasciando la copertura con volte a botte in parallelo della Porticus Aemilia del 192 a.C. (Liv., XXXV, 10, 12), abbiamo notizia di archi onorari al Circo Massimo ed al Foro Boario per il 196 a.C. (Liv., XXXIII, 27, 4); nel 190 a.C. si menziona la costruzione di un arco in Campidoglio da parte di Scipione Africano (Liv., XXXVII, 3, 7), inoltre nel 179 a.C. (Liv., XL, 51, 4) i censori M. Emilio Lepido e M. Fulvio Nobiliore gettarono le pile del Ponte Emilio che, 37 anni dopo, fu terminato con i fornici impostati da P. Scipione Emiliano e L. Mummio, diventando così il primo grande ponte ad archi mai costruito. Abbiamo detto dunque che il limite della copertura delle luci con lo schema trilitico coincideva con quello dell'elasticità del materiale impiegato e che il superamento di questo limite si poté ottenere solo ricorrendo ad un diverso modo di scaricare le spinte a terra. Dove un solo blocco di pietra di una data sezione non poteva superare, poniamo, una luce maggiore di 5 m, una serie di piccoli blocchi dello stesso materiale, tagliati a cuneo e disposti ad arco, coprivano agevolmente uno spazio doppio. E mentre per l'architrave i 5 m erano il limite, per l'arco i 10 m erano solo una tappa: intervenendo sempre su forma e disposizione si poteva andare oltre. Grazie a queste caratteristiche l'arco avrebbe avuto un futuro negato all'architrave, almeno fino a quando non si arrivò agli architravi sintetici, realizzati, però, in calcestruzzo armato. Al di là della banale distinzione dell'alzato in pietra o in muratura e della copertura lignea, l'aumentare della complessità delle fabbriche, delle loro altezze e conseguentemente dei carichi, la necessità di coprire luci più ampie o di lasciare varchi più spaziosi nelle pareti attivarono la ricerca di materiali diversi per differenti impieghi e di soluzioni strutturali capaci di risolvere gli inconvenienti che a mano a mano sorgevano. L'attitudine alla progettualità dell'architettura romana si esercitò soprattutto nell'indagare il fatto strutturale per realizzare spazialità sempre più libere. Dato, questo, che si verifica ripercorrendo il fluire dell'edilizia romana dal III sec. a.C. in poi: dalle iniziali iterazioni di cellule strutturali affidabili e ben sperimentate (ad es., il vano coperto con volta a botte) e collocate paratatticamente a comporre un organismo modulare, tipiche della tarda repubblica, alle invenzioni ossaturali, spesso inedite, dell'architettura adrianea o, più tardi, di quella bizantina. L'indagine nel campo strutturale è il legame più solido che connette l'architettura di ogni epoca ed in particolare quella romana a quella moderna. Nell'ambito della concezione strutturale antica merita un posto di rilievo la piattabanda armata, che costituisce la prova della sapienza costruttiva antica ed allo stesso tempo il momento di passaggio tra l'antico ed il moderno, configurandosi come l'esempio più prossimo alla trave in cemento armato. Si tratta di una versione altamente evoluta della normale piattabanda detta "all'italiana", attestata su pulvini di pietra posti sulla verticale di colonne o pilastri. Nella faccia superiore dei pulvini venivano ricavati alloggiamenti per staffe di ferro che passavano sotto la piattabanda, opponendosi con grande efficacia alle sollecitazioni a trazione che questa parte della piattabanda subiva. Per l'attualità della soluzione tecnica si confronti la disposizione dei ferri nelle moderne travi di calcestruzzo armato con gli esempi di Villa Adriana (cd. Sala dei Pilastri Dorici, Teatro Marittimo). Nelle applicazioni più semplici, come nel criptoportico di Conimbriga in Portogallo, si trattava invece di una staffa unica corrente sotto i pulvini e sotto la piattabanda. L'esempio è sintomatico dell'efficacia della logica strutturale per la soluzione di molti problemi architettonici: mentre il riconoscimento del sistema sul piano teorico e storico si è avuto solo di recente (Olivier 1983), per le maestranze che negli anni Cinquanta hanno restaurato il portico del Teatro Marittimo, reimpiegando gli elementi antichi, la soluzione è stata spontanea.
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