L’architettura nell’epoca della sostenibilità
Un segno distintivo (e un problema centrale) della società contemporanea è la sua frammentazione. L’individualismo dietro cui alberga la tendenza all’autoreferenzialità e alla valorizzazione della persona, che pure ha reso grande il pensiero moderno, si tramuta in egoismo. Ne consegue una riduzione della partecipazione agli affari pubblici, nonché della fiducia all’interno dei rapporti personali. Questo tende a condurre a un’atomizzazione sociale e morale, a una coesistenza muta di individui isolati. Non vi sono quasi più obblighi sociali e convenzioni: solo l’aspirazione alla diversità e l’obbligo dell’individualità. Una tale smania dell’Ego è, fra le tante conseguenze dell’Illuminismo, la più sbagliata: se infatti l’egoismo presente rappresenta il punto d’arrivo della preoccupazione epocale intorno al Sé, l’Illuminismo ha anche insegnato che proprio questo Sé si sviluppa solo nel rapporto dialogico con gli altri e nel riconoscimento di interpretazioni e valori comuni.
Da sempre architettura e urbanistica, laddove non siano insignificanti, sono legate in maniera indissolubile alla società, dalla quale vengono continuamente interrogate e alla quale danno risposte. Interpretazioni e valori comuni che si sviluppano in ambito sociale costituiscono la base per la cultura architettonica; se si pongono come avulse da questi, architettura e urbanistica perdono il loro fondamento. È verosimile che esse possano riconquistarsi autonomamente questo fondamento senza l’appoggio di una riforma della società? Il nesso causale tra il sociale e il costruito non si può rovesciare, e tanto meno eliminare. A buon diritto, però, lo si può contemplare, in maniera più complessa, come un vero rapporto di interscambio e non come una strada a senso unico. Acutamente, Victor Hugo riconosceva, in Notre-Dame de Paris (1831), che «le grandi opere architettoniche sono opere meno individuali che sociali, [...] il residuo delle successive sedimentazioni della società umana» (in Œuvres complètes, 1904, 3° vol., p. 90). Ma Heinrich Zille, illustratore e fotografo tedesco, non aveva meno ragione quando, all’inizio del 20° sec., guardando ai ‘casermoni’ d’affitto di Berlino, notava che una casa può uccidere un essere umano quanto un’ascia. La società dà forma all’architettura e all’urbanistica, ma anche l’architettura e l’urbanistica, dal canto loro, esercitano un’influenza sulla società, nel bene e nel male.
Una visione che tenga nel dovuto conto questa complessità deve necessariamente valicare le barriere disciplinari ed emergere come una ‘teoria architettonica sociale’ o ‘scienza sociale architettonica’. Ancora di più: se non vuole limitarsi alla mera descrizione e indagine dello status quo, ma contribuire a cambiarlo, deve assumere un atteggiamento critico. Non deve, inoltre, soffocare le riflessioni morali, ma mescolarle sistematicamente alle proprie analisi per trovare una giusta alternanza, purché in maniera trasparente e facilmente identificabile, tra un’argomentazione rigorosa e una personale dichiarazione di valori. Tali valori poi non devono essere mascherati nell’argomentazione, come peraltro spesso succede, ma devono essere dichiarati apertamente e inglobati come parti fondanti all’interno della costruzione teoretica dell’argomentazione stessa. Si può obiettare che così facendo viene minata l’esattezza scientifica della visione e si perde adesione alla realtà. Entrambe le cose corrispondono a verità, ma entrambe appaiono non solo sostenibili ma addirittura necessarie.
Esattezza scientifica e presa di posizione personale sono di per sé cose differenti, ma non per questo si escludono a vicenda. Al contrario: hanno bisogno l’una dell’altra. La scienza senza autocontrollo è predestinata alle applicazioni più perfide, come ci ha dimostrato con terribile chiarezza la storia, soprattutto quella più recente; la presa di posizione personale senza scienza rischia di volgere a un autocompiacimento tanto privo di significato quanto inopportuno. Per quello che concerne la mancanza di realismo, vige sempre, oggi come ieri, il postulato elaborato da Robert Musil: «Ma se il senso della realtà esiste, [...] allora ci dev’essere qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è» (Der Mann ohne Eigenschaften, 1° vol., 1930; trad. it. 1957, 1° vol., p. 12).
Servizi
Architettura e urbanistica sono innanzitutto prestazioni di servizi: spettano loro determinati compiti e vi devono adempiere al meglio. I loro compiti sono in primo luogo di tipo materiale. Fondamentalmente una casa assolve alla funzione di proteggere dalle intemperie, e per questo ha quattro mura e un tetto, e poggia su delle fondamenta. Nella casa devono regnare una temperatura confortevole, una piacevole qualità dell’aria, una luce accogliente, un livello di rumore basso e stimoli ottici che si accordano tra di loro. Dimensione, taglio e disposizione degli spazi devono permettere e facilitare diverse attività. In un’abitazione si deve poter entrare, cambiarsi e riposarsi, si deve poter cucinare, mangiare, lavarsi, dormire e, soprattutto, deve essere possibile conversare, interagire. In poche parole: si deve poter abitare.
Per questo una casa dev’essere progettata in maniera sensata. Il suo volume deve essere convenientemente proporzionato e adattato al terreno. L’ingresso deve essere posizionato in modo adeguato, la disposizione dello spazio organizzata per favorire lo svolgersi delle diverse attività senza creare attrito. Le finestre devono essere posizionate in maniera corretta e ben proporzionate. Le varie parti architettoniche devono essere progettate in dettaglio, e correttamente e solidamente realizzate e giustapposte. Tutte cose ovvie? Certamente. Costituiscono però la base fondamentale, necessaria e irrinunciabile di ogni architettura. Ogni architettura (e ogni città) si deve innanzitutto lasciar misurare e giudicare proprio in base a queste ovvietà.
Questa non è un’arringa a favore di un piatto pragmatismo, né tanto meno un esercizio di stile. Già Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc, nel suo Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle (1854-1868), metteva l’accento sul fatto che le necessità si erano moltiplicate ed erano diventate più complesse nel corso dei secoli. Architettura e urbanistica sono prestazioni di servizi, ma i servizi che esse assolvono si presentano come molteplici e multidimensionali. Pur legate all’essere umano, non derivano semplicemente dalle sue necessità biologiche. Sono, invece, in stretta relazione con le abitudini abitative e la cultura di determinati gruppi e strati sociali in determinati luoghi geografici e in determinate realtà storiche.
Non si scioglie una tale complessità cercando di coglierla in maniera analitica o tentando di applicarla in maniera schematica. Hanno provato a farlo più e più volte i funzionalisti ortodossi, e così facendo, ironia della sorte, hanno creato costruzioni e agglomerati che sovente risultano sorprendentemente poco funzionali. Non le si fa giustizia, però, nemmeno ignorandola. L’indifferenza verso l’utilizzo effettivo, quasi sempre infarcita di atteggiamenti ‘artistici’, ha partorito già troppe cose inutili perché la si possa ancora tollerare. Al contrario, ciò che può essere percepito razionalmente dev’essere tradotto coscienziosamente e in maniera puntuale: lasciando però sempre spazio all’inafferrabile, all’indefinito, all’imprevisto e imprevedibile. Ciò che emerge da un tale atteggiamento difficilmente avrà qualcosa in comune con quella ‘valigia minima’ (dotata di particolari scomparti, speciali tasche e sostegni ben escogitati) in cui un entusiasta Walter Gropius vide un simbolo del ben studiato appartamento funzionalista: proprio quell’appartamento che si è rivelato essere privo di ogni flessibilità, cioè inutilizzabile per qualsiasi altro uso se non quello per il quale era stato esplicitamente progettato. Si avvicinerà, invece, a quella ‘scatola’ che gli era stata contrapposta con disprezzo e derisione quale emblema della casa tradizionale, quella casa che nella sua semplicità e neutralità dimostra sempre più la sua attitudine ai più svariati utilizzi.
Considerate davvero prestazioni di servizio, architettura e urbanistica devono attendere, accanto ai compiti più puramente materiali, anche a quelli immateriali. Si riferiscono anch’essi all’essere umano e derivano dai suoi bisogni intellettuali ed emotivi; ancor più delle esigenze materiali, tali compiti difficilmente si lasciano incastonare all’interno di un programma, ma sono importanti quanto (se non di più) tutto ciò che è misurabile, quantificabile e razionalmente descrivibile. E ancor di più necessitano di precisione e apertura.
Su questa dimensione emozionale dell’architettura Alberto Savinio, nel suo racconto Omero Barchetta (1943), lascia eloquentemente riflettere il suo protagonista: «In che maniera stolida e incauta viviamo – pensa Mero – se è freddo ci rifugiamo in un luogo riscaldato e provvediamo che il freddo non ci raggiunga; il simile facciamo se è caldo, rifugiandoci in luogo fresco. Ma il favorevole caldo, il favorevole fresco della nostra mente non provvediamo in nessun modo a proteggerli, a preservarli dalle insidie e dalla distruzione. Il nostro benessere mentale è alla mercè di un’ombra che passa, di un rumore che echeggia, di un uscio che si apre [...]. Per la felicità del corpo c’è la casa, i mobili, gli apparecchi riscaldanti e quelli refrigeranti, la luce artificiale; ma che cosa ha inventato l’uomo, che cosa ha fabbricato per custodire, per difendere la sua felicità mentale?» (in Casa ‘la Vita’, 1988, pp. 209-10). Ciò che protegge e difende il benessere dello spirito non è null’altro che la bellezza dell’architettura e della città.
Risparmio
Costruire significa assumersi delle responsabilità non solo nei confronti di coloro cui gli edifici sono direttamente destinati, ma anche nei confronti della società. A questa responsabilità corrisponde il dovere del risparmio, del contenimento, della semplicità. I motivi di tale dovere sono molteplici. Sono ideologici: in un mondo che deve essere spartito il più equamente possibile tra una moltitudine vorticosamente crescente di persone, non può e non deve esserci spazio per lo spreco. Sono tecnici: se si vogliono semplificare i metodi produttivi per realizzare più beni (e dunque anche case) a costi minori, si deve rinunciare a tutto ciò che complica questi beni e ne appesantisce la realizzazione. Sono infine anche estetici, poiché dall’avvento della rivoluzione industriale la semplificazione, resa necessaria dai nuovi bisogni sociali e tecnici, è stata nobilitata attraverso la cultura progressista e innalzata a principio artistico. In altre parole: non siamo più in grado di trovare bello lo sfacciato e l’esuberante, ma solo il limpido, il parco, il rigoroso. Qualcos’altro concorre a fare del principio del risparmio, da sempre un’opzione importante in architettura e urbanistica, un imperativo categorico: le risorse energetiche della Terra sono limitate, in larga parte non rinnovabili e ormai fortemente erose; la Terra stessa è minacciata in maniera crescente da interventi che determinano cambiamenti climatici, da montagne crescenti di immondizie e da veleni diffusi senza scrupoli.
La questione della sostenibilità non è un’invenzione dei nostri giorni. Benché abbia talvolta anche commesso passi falsi, che hanno portato a catastrofi ecologiche circoscritte, fino a tutto il 19° sec. l’umanità si è impegnata in un uso parco e saggio delle risorse, che peraltro riusciva a rendere utilizzabili solo attraverso grandi sforzi. Con l’architettura possedeva tuttavia uno strumento atto a conferire espressione concreta alla spinta alla protezione, alla stabilità e alla durata. Persino nell’euforia della rivoluzione industriale e dei suoi saccheggi selvaggi emergevano periodicamente forti richiami alla conservazione. Il rispetto della natura è una costante civilizzatrice.
Una costante che però oggi, davanti allo scenario di inaudite violenze perpetrate ai danni della Terra, e nella minacciosa prospettiva di un’autodistruzione dell’umanità, tecnicamente possibile per la prima volta nella storia, acquisisce una nuova dimensione: ciò che fino a ora è stata un’opzione lungimirante è diventata ormai un imperativo categorico. Con questo imperativo il nuovo secolo dovrà fare i conti in tutte le discipline e forme espressive. All’architettura, oggi responsabile almeno della metà del consumo energetico dell’Europa, spetteranno compiti tutt’altro che marginali.
L’impegno dell’architettura a favore dell’ambiente non deve però portare a un atteggiamento dettato da una moda o a un’interpretazione superficiale di ciò che è ecologico o appare tale. In una casa, per es., si può risparmiare energia se per il riscaldamento degli ambienti e dell’acqua viene utilizzato calore generato da collettori solari, ma si può risparmiare energia anche se la casa è esposta correttamente rispetto al Sole, se tutti gli ambienti sono illuminati in maniera naturale, se le finestre esposte a nord sono piccole mentre quelle esposte a sud sono ampie, se i muri (e naturalmente anche le finestre) sono efficacemente isolati, se un altro edificio (o un albero) protegge la casa dal vento più freddo, se i materiali utilizzati per la sua costruzione non necessitano di tecniche produttive dispendiose a livello energetico. Una casa può alleviare il carico ambientale se si trova in un luogo dove gli abitanti non sono costantemente costretti a coprire lunghi percorsi in automobile, se è dotata solo di impianti veramente necessari (e non di quelli che in ogni momento e in tutte le stagioni producono ambienti climatizzati) e se questi sono tenuti il più possibile puliti. La coscienza ambientale non deve per forza essere visibile o addirittura messa in mostra, bensì messa in atto in maniera sensata e possibilmente in modo invisibile. L’estrema conseguenza del rispetto della natura consiste, comunque, nel lasciarla così com’è. Il più grosso risparmio energetico si raggiunge non consumando energia. Il minore inquinamento ambientale si ha se non si producono rifiuti. La casa più ecologica è quella che non viene costruita.
In ultima analisi, la nostra risorsa più preziosa e importante è il territorio. Si può smettere di consumarlo smettendo di renderlo edificabile. Per la città europea ciò non solo è possibile, ma addirittura necessario. La nostra popolazione non è in crescita, e gli adattamenti indotti dai flussi migratori e dalla crescita degli standard individuali possono avvenire infittendo e consolidando la città, utilizzando cioè meglio gli spazi già urbanizzati e a disposizione, invece di oberare la natura con nuove case unifamiliari disseminate con leggerezza, e con la creazione di periferie che non sono né urbane né rurali. Questo gioverebbe peraltro all’efficienza delle infrastrutture e all’intensità della vita cittadina. Anche le architetture esistenti devono essere utilizzate con maggiore accortezza. Città, paesi, campagne, sono pieni di edifici sottoutilizzati o addirittura abbandonati. Si dovrebbe provvedere a restaurarli e rivitalizzarli, invece di continuare a costruire nuove case proprio accanto a essi, su terreni che potrebbero rimanere liberi.
Si deve costruire meno di quanto comunemente si pensi, ma naturalmente si deve costruire, anche in Europa. Tuttavia se sono necessarie nuove costruzioni, queste dovrebbero essere realizzate in maniera ecocompatibile. Ciò comporta, in primo luogo, che esse devono durare il più a lungo possibile. Ogni casa non rappresenta solamente un gravoso impiego di lavoro, energia e materiali, ma anche un potenziale ammasso di macerie. Il mercato immobiliare e i meccanismi di ammortamento incentivano ancora il veloce avvicendarsi di demolizione e nuova costruzione. Questo fenomeno rappresenta uno spreco sconsiderato: ecologicamente irresponsabile e socialmente inaccettabile, diverrà presto insostenibile anche dal punto di vista dell’economia privata.
Inoltre è opportuno considerare il dovere di lasciare qualcosa in eredità alle future generazioni. Viviamo in paesaggi e città coltivati e costruiti nel corso di millenni; li utilizziamo, li viviamo, li contempliamo e ne godiamo addirittura come opere d’arte: profittiamo del lavoro e del genio di chi è vissuto molto prima di noi. Allo stesso modo, abbiamo il dovere di trasmettere a nostra volta qualcosa che abbia un valore, che possa essere utilizzato in futuro, che possa conferire bellezza alla vita di coloro che verranno dopo di noi.
Architettura e città non possono essere prodotti usa e getta: devono durare nel tempo, non solo fisicamente, ma anche esteticamente. Le nostre case, le nostre città non devono essere disegnate come oggetti di moda, condizionati dal gusto corrente e pensati per durare giusto il tempo di una stagione, per poi essere sostituiti con oggetti ancora più attuali. Devono andare oltre le tendenze effimere e abbracciare un’estetica che corrisponda alla nostra epoca, allo stesso tempo riallacciandosi al passato per indicare il futuro.
Una tale estetica sostanziale, che possiede validità per tempi lunghi, non potrà essere un’estetica individualistica. Ogni opera architettonica e urbanistica che vada oltre il mero espletamento funzionale e che possieda una dimensione culturale, è necessariamente una testimonianza dell’atteggiamento del suo autore. Non è però necessariamente la sua immagine. La vanità degli architetti, sollecitata e incrementata da quella dei committenti che desiderano partecipare all’aura dei propri autori, li porta sempre più alla cura narcisistica del proprio stile e alla ossessiva ripetizione delle stesse immagini. I gesti prevedibili e vuoti che ne derivano soddisfano le ambizioni più immediate della committenza e occupano un territorio; ma non fanno niente per contribuire a un suo significativo sviluppo. Se attingono il loro diritto di esistenza e il loro effimero lustro dalla celebrità dell’autore (spesso altrettanto effimera), venuta a mancare questa, lasciano poi impronte tanto inconfondibili quanto alienate, che lo stesso pubblico, pur avendo precedentemente espresso il suo entusiastico plauso, presto rifiuta annoiato. Questo anche perché molti dei progetti spettacolari inizialmente festeggiati con grande enfasi hanno deturpato l’ambiente circostante, si sono dimostrati poco funzionali e hanno generato costi insostenibili sia nella costruzione sia nella gestione. Le loro forme stravaganti non hanno valore intrinseco al di là della stravaganza e dello stupore suscitato. Non appena la loro seduzione volatile si dissolve, la loro elogiata iconicità si rivela culturalmente vuota, puro soddisfacimento delle esigenze del capitalismo globale e della società degli eventi. Naturalmente gli architetti possono e devono agire come individui autonomi e come artisti, ma come individui e artisti non staccati dalla società e dalla convivenza tra uomo e natura. Se non vogliono operare in maniera dissipata, inquinante e priva di senso, devono riconoscere nel loro operato questa società, questo sodalizio storico.
Comunque sia, non sono solo le ragioni economiche o ecologiche a esigere la durata materiale e concettuale dell’architettura e della città: anche la loro dimensione sociale pretende stabilità. Costruire si può definire, seguendo Ernst Bloch, un tentativo di produzione di Heimat, intendendo con ciò non tanto il luogo in cui si è nati, bensì quello con cui si è instaurata nel tempo una familiarità, così come con le persone che vi abitano. È il luogo dove ci si può e ci si deve assumere delle responsabilità nei confronti di sé e degli altri. Secondo questa definizione, la costante biografica rappresenta una parte essenziale del senso di Heimat, e tutto ciò che si oppone a tale costante una perdita. Di conseguenza, costituiscono una perdita del senso di Heimat una minaccia all’ambiente abitativo, un aumento sconsiderato dei prezzi, uno sgombero o una demolizione. La familiarità si instaura quando si è stanziali per un determinato periodo di tempo in un luogo che rimane relativamente immutato in quanto tale. Se il luogo si modifica velocemente e profondamente, anche la più intensa stanzialità non porterà a un senso di appartenenza. In effetti, ogni demolizione in una città o in un paesaggio che ci è familiare fa diminuire questa familiarità. Chi non ha mai provato un senso di lutto scoprendo una voragine prodotta dalla macchina demolitrice laddove prima c’era una casa, magari non particolarmente bella? Si accusa una perdita. Certo, alcune perdite è necessario sopportarle: la città, il paesaggio devono rinnovarsi, si devono adattare a nuove esigenze per poter essere in grado di sopravvivere. Quando però le perdite diventano troppe, il luogo perde la sua riconoscibilità, e anche chi rimane viene di fatto cacciato dalla sua Heimat perché questa viene distrutta.
In realtà una nuova edificazione non deve per forza risultare una perdita del senso di Heimat. Al contrario: proprio costruire in maniera parsimoniosa porta a un rafforzamento o addirittura alla creazione di un luogo specifico, senza il quale nessuna patria può esistere. Costruire con parsimonia (da non confondersi con costruire a basso costo) vuol dire, tra le altre cose, tener conto delle condizioni climatiche esistenti, utilizzare materiali reperibili nelle vicinanze e riutilizzabili, impiegare le tecniche costruttive abituali del luogo, rispettare tradizioni locali, culturali ed estetiche. Da questo emerge necessariamente un tipo di architettura che è regionale senza essere regionalistica, che è fondamento di un luogo che rende possibile un’identificazione o addirittura la crea, e che si oppone con naturalezza e tranquillità a quell’internazionalismo piatto (per lo più motivato da provincialismo) che porta un aeroporto in Irān ad assumere lo stesso aspetto di un aeroporto in Siberia, un edificio residenziale in Pakistan a diventare uguale a un edificio residenziale svizzero. Un’architettura sostenibile è sempre anche un’architettura che entra in relazione con un luogo e contribuisce alla creazione di un aspetto di Heimat. Un’architettura sostenibile è sempre anche un’architettura che si oppone alla globalizzazione.
Il dispositivo che assicura la durata materiale e culturale dell’architettura e della città è la sua stessa storia. In quanto memoria della disciplina, essa conferisce durata, al di là dell’esperienza diretta dei sensi, alle immagini impresse nella memoria collettiva. Il mito del moderno come fenomeno astorico è stato coltivato in maniera forzata dal postmoderno, che in questo modo ha giustificato il proprio diritto all’esistenza: come compensazione di un deficit. In verità il deficit non è mai stato così grave come i successori del moderno amavano dichiarare. È vero che nel 1937 Walter A. Gropius, chiamato a dirigere la Harvard school of design, si oppose all’insegnamento della storia dell’architettura perché temeva che gli esempi belli del passato avrebbero potuto distogliere gli studenti dal loro impegno verso il presente. Ma l’eloquente manifesto di Le Corbusier per l’architettura moderna, Vers une architecture (1923), attinge agli insegnamenti del passato almeno quanto all’estetica delle macchine. A ben pochi rami dell’avanguardia venne meno il senso della propria tradizione.
Prospettiva
Fin qui architettura e urbanistica appaiono come una reazione corretta, attenta, differenziata, sensibile rispetto a uno status quo percepito in maniera il più possibile complessa. Non è poco, ma non ancora abbastanza. Architettura e urbanistica devono andare oltre i fatti sociali, economici e tecnologici con cui si confrontano, e devono dispiegare per essi una prospettiva di miglioramento. In questo risiede la loro dimensione culturale; e questa dimensione culturale deve necessariamente essere critica, se non vuole accontentarsi di situazioni esistenti. La pratica critica dell’architettura è altrettanto distante dalla commercializzazione affermativa quanto dalla fiducia ingenua di poter cambiare il mondo esclusivamente con l’architettura e l’urbanistica. Nonostante tutte le differenze, esistono però collegamenti con entrambe: la pratica critica ha in comune con l’una la concretezza e il realismo, con l’altra la dimensione utopica. Quest’ultima risulta oggi démodé. A causa dei sistemi politici che ne hanno preso possesso (e nella maggioranza dei casi ne hanno abusato), si dice spesso che anche le grandi utopie siano crollate.
Il paragone è inconsistente, cinico e perfido: le nostre democrazie e il nostro benessere derivano, in ultima analisi, proprio dall’applicazione di utopie che al loro tempo apparivano molto audaci. E se il sistema che ha adottato un’idea, che se ne è impossessato e che l’ha travisata si è autodistrutto, ciò non significa assolutamente che l’idea in sé sia fallita. Nonostante i cambiamenti politici dell’ultimo ventennio, il sogno di un mondo in cui tutti possano convivere pacificamente, con gli stessi diritti e se possibile felicemente, non ha minimamente perduto il suo valore.
Tuttavia, proprio gli scuotimenti e i sommovimenti di cui siamo stati e siamo testimoni hanno mostrato non solo gli abusi dell’utopia, ma anche la sua fragilità. La sua realizzazione deve avvenire con cautela guardando ai relativi limiti e potenzialità. Anche e soprattutto in architettura e urbanistica: le discipline che si occupano dell’organizzazione, dell’equipaggiamento e del disegno del nostro ambiente, andando oltre l’assolvimento dei loro compiti, devono aprire prospettive per una vita migliore in un mondo migliore. Non però ergendosi a giudici di questo mondo e di questa vita predeterminandoli, bensì aprendo possibilità di sviluppo e creando nuovi spazi di libertà.
Nella Carta di Atene del 4° CIAM (Congrès International d’Architecture Moderne), scritta nel 1933 con il determinante contributo di Le Corbusier, si parla ancora dell’architetto come del detentore della più compiuta conoscenza dell’essere umano. Da tempo tale arroganza si è mostrata priva di giustificazione. Al suo posto non deve però subentrare il qualunquismo o addirittura la rassegnazione. Deve invece subentrare l’aspirazione a raggiungere realmente una buona conoscenza degli uomini, mettendo insieme, attraverso interdisciplinarità e partecipazione, informazioni e opinioni differenti che si integrano vicendevolmente. E sulla base di tale conoscenza si devono creare case e città che partano dai bisogni presenti per proiettarsi in un futuro migliore. Sui modi in cui questo futuro dovrà compiersi, per meritarsi realmente questo attributo, ci saranno e dovranno esserci diversi pareri. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno affermano, in Dialektik der Aufklärung (1947; trad. it. 1966), che la maledizione del progresso inarrestabile è l’inarrestabile regressione; e nell’epoca della crisi ambientale e della no-future generation, anche i più convinti ottimisti guardano al futuro perlomeno con sentimenti contrastanti. Tuttavia, la coscienza di quanto sia incerto il futuro non costituisce un pretesto per rinunciarvi; al contrario, deve essere una spinta a realizzarlo tenendo conto delle sue minacce e dei suoi pericoli.
Linea guida e punto d’orientamento dell’utopia architettonica e urbanistica che si rivolge a un futuro così inteso, sarà necessariamente l’essere umano. Nella generalizzazione necessaria per un’utopia universale, egli non trova posto; dunque non esisterà alcuna utopia universale. Esisteranno tante utopie, le une accanto alle altre, diverse e magari anche contrastanti. Proprio come gli uomini e le donne per le quali sono nate.
L’apertura non volgerà però al non impegno, perché se anche gli esseri umani sono differenti, per poter vivere insieme devono potersi affidare a convenzioni comuni. Su queste convenzioni può e deve basarsi anche l’utopia, nonché sull’immagine ideale di una società in cui ogni singolo può godersi tanta libertà personale quanta è possibile senza danneggiare il suo prossimo. Ma esistono convenzioni nella frammentata società contemporanea? Ci si può ancora accordare su aspettative e valori comuni? Per rispondere a queste domande, una società che aspiri a essere illuminata e non condizionata da pregiudizi o miti deve innanzitutto prendere coscienza di sé stessa. Anche per questo architettura e urbanistica possono creare perlomeno premesse, se non addirittura contributi attivi.
In primo luogo mediante la semplicità: per la ricerca di sé stessi, un ambiente che provochi un bombardamento continuo di stimoli, immagini e rumori costituisce più un ostacolo che una facilitazione. L’architettura si deve opporre a questo bombardamento: al posto di piccoli e grandi dispositivi di intrattenimento, deve realizzare luoghi dove i sensi possano riposare e dove venga indotta la riflessione, persino la contemplazione. Può darsi che il mondo contemporaneo sia caratterizzato da un caos crescente, ma ciò non giustifica la rappresentazione o l’assecondazione del caos, che va invece fermato e arginato. Il disordine non rende il mondo familiare: l’essere umano, per sentirsi a proprio agio, necessita dello stesso ordine geometrico che il suo corpo stabilisce e che il suo spirito astrae e sviluppa. A causa della loro visibilità e della loro durata, l’architettura e la città sono predestinate a essere isole di ordine nella fiumana della confusione. Naturalmente il semplice, il chiaro, il parco non possono simulare un’armonia che di fatto non esiste, né essere frutto di un rozzo risparmio. Al contrario, devono rappresentare una concentrazione di ricchezza culturale, una sublimazione della complessità. L’architettura dipende da molte cose: dall’ideologia, dalla politica, dai capitali finanziari, dalla tecnica, ma anche dalle norme della legislazione edilizia, dagli umori dei committenti, dalle difficoltà di reperimento dei materiali e naturalmente dall’utilizzo e dai mutamenti di questi ultimi. Tutto ciò deve essere elaborato in un edificio e corrispondere anche a colui che, disegnandolo, ne assume la responsabilità. Alla fine tutto deve apparire come se fosse scivolato facilmente dalla mano. Come Michelangelo Buonarroti esigeva dalla scultura, deve sembrare che la fatica messa nell’opera le venga nuovamente sottratta.
La seconda utopia di un’architettura e di una città che vogliano contribuire a una nuova autocoscienza sociale deriva dalla prima, ovvero dalla semplicità: è la neutralità. A un primo sguardo, questa contraddice il bisogno, sovente rivendicato ad alta voce, di segni architettonici e urbanistici concreti, figurativi, ben comprensibili di familiarità, calore, sentimento. Ma proprio sottraendosi alla diretta appropriazione dei sensi, la neutralità libera il costruire dalla limitatezza di un messaggio particolare, diretto a una particolare clientela in un particolare momento storico. Acquisisce così un’universalità e un’atemporalità che corrispondono al carattere pubblico e durevole del costruito. A questo si aggiunge il fatto che la neutralità, per il fatto di mettere in discussione i bisogni (spesso presunti), invita alla riflessione critica, e talvolta addirittura vi costringe. Colui al quale non viene concesso ciò che ambisce non può esimersi dalla riflessione sui propri desideri e sulla loro legittimità. Al contrario, la condiscendente soddisfazione dei bisogni porta l’architettura a quell’ossequioso avvicendarsi di consensi che costituisce il fondamento della società dei consumi: viene offerto ciò che si vuole, ma si vuole soprattutto ciò che porta alla minor opposizione politica e culturale. E questo, dal punto di vista politico e culturale, non è sempre la cosa migliore, come è stato ampiamente dimostrato.
La terza utopia architettonica e urbanistica costituisce per molti versi la premessa per poter realizzare le prime due: è l’utopia della normalità. L’architettura non deve costantemente rinnovarsi dalle sue fondamenta, né in quanto prestazione di servizio, né come opera d’arte. L’entusiasmo ottimista e superficiale per il nuovo è una delle eredità più funeste dell’epoca delle avanguardie. Sullo sfondo del pesante accademismo imperante del tardo 19° sec., valeva l’assunto: ciò che non è nuovo non ha valore. Oggi la situazione è diametralmente opposta: di nuovo ce n’è troppo, e troppo spesso senza motivo. I continui cambiamenti impediscono l’edificazione su ciò che i nostri predecessori hanno sviluppato e l’approfondimento di ciò che noi stessi abbiamo raggiunto. Come diceva Adolf Loos agli inizi del 20° sec., un cambiamento che non è un miglioramento è un peggioramento. Fino al 18° sec., architettura e urbanistica consistevano per lo più nell’apportare minimi, quasi impercettibili miglioramenti a ciò che si era sviluppato precedentemente. Oggi sembrano consistere nel fare qualcosa di radicalmente diverso da ciò che si faceva prima, indifferenti al fatto che sia meglio o peggio. Bisogna abbandonare il mito dell’innovazione quale valore a sé stante: l’innovazione dev’essere impiegata solo dove è realmente necessaria. Può apparire una rinuncia, ma è in realtà la più grande sfida a cui si possa aspirare in un momento in cui ci vuole infinitamente più coraggio, talento ed energia per realizzare qualcosa di convenzionale che qualcosa di stravagante: la normalità intelligente è la più grande provocazione.
L’utopia dell’architettura e dell’urbanistica entra così in contraddizione sociale proprio con la società che l’ha generata. Questo non stupisce: se la realtà non viene accettata ciecamente ma indagata nelle sue possibilità, ciò non può svolgersi senza conflitto. Non a caso, lo stesso Musil, che esigeva un ‘senso della possibilità’ che esistesse accanto al ‘senso della realtà’, metteva in guardia: «Questi possibilisti vivono, si potrebbe dire, in una tessitura più sottile, una tessitura di fumo, immaginazioni, fantasticherie e congiuntivi; quando i bambini mostrano simili tendenze si cerca energicamente di estirparle» (Der Mann ohne Eigenschaften, 1° vol., 1930; trad. it. 1957, 1° vol., p. 12).
Non ci si deve lasciare estirpare il ‘senso della possibilità’ come roccaforte dello sviluppo e della cura dell’utopia. Non si deve svicolare dalla contraddizione a cui l’utopia porta, sommessamente ma inevitabilmente. Se tale contraddizione non viene artificialmente appiattita, bensì espressa in maniera aperta, tollerante, civile, in una parola in maniera produttiva, si materializza in essa la più bella vocazione che l’architettura possa rivendicare: costruire luoghi in cui la società possa raggiungere la consapevolezza di sé, e con ciò cambiare e progredire.
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