Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Apparsa all’inizio degli anni Sessanta in contrapposizione alle teorie del movimento moderno internazionale, la definizione di “postmoderno” suscita tuttora molte discussioni. I suoi teorici più importanti, l’architetto Robert Venturi e lo studioso Charles Jencks, propongono di rivisitare l’architettura delle epoche passate per dare vita a nuovi codici stilistici fatti di citazioni storiche e allusioni iconografiche.
A 30 anni di distanza dall’epoca d’oro dell’architettura postmoderna, il dibattito sul termine postmodernismo resta controverso. Importato dalla letteratura e dalla sociologia, il termine ha indicato un preciso movimento stilistico cresciuto in Europa e negli Stati Uniti durante gli anni Settanta, che si è voluto identificare come epocalmente successivo al movimento moderno internazionale. Questa interpretazione va attribuita alla difficoltà di trovare una sola definizione per una corrente architettonica che non è mai stata unitaria, ma che, al contrario, ha individuato nel pluralismo e nella molteplicità delle attitudini i suoi caratteri distintivi.
Con il CIAM VIII, svoltosi nel 1951 a Hoddesdon in Inghilterra, il moderno aveva dimostrato l’incapacità di trovare soluzioni valide per alcuni problemi rimasti irrisolti, quali, ad esempio, la crescita delle città e l’edilizia popolare e l’impossibilità di soddisfare i bisogni e i desideri di una società in continua trasformazione. La nuova generazione di architetti e urbanisti formula allora nuove proposte che tornano a prendere in considerazione i modelli ereditati dalle epoche precedenti, diversamente da quanto aveva sostenuto il movimento moderno con l’istituzione di un vocabolario architettonico basato esclusivamente sui precetti di originalità e di funzionalità. Possiamo notare che, fin dagli anni Cinquanta, diverse correnti avevano dato vita a interessanti rivisitazioni storiche come il cosiddetto neoliberty in Italia a cui si deve la Torre Velasca, celebre opera architettonica dello studio BBPR, o il New Brutalism in Gran Bretagna.
Nel 1962 Robert Venturi scrive Complexity and Contradiction in Architecture (anche se la prima edizione arriva solo nel 1966), il testo fondamentale del postmoderno architettonico. Negli anni successivi Charles Jencks diventa, grazie a innumerevoli pubblicazioni sull’argomento, il teorico del movimento. Infatti, nel 1977, mettendo a frutto le proposte di Venturi, elabora The Language of Post-Modern-Architecture, nel quale è contenuta la nota teoria della doppia codificazione, secondo cui ogni genere di edificio realizzato deve comunicare almeno “a due livelli simultanei: ad altri architetti e a una minoranza che si preoccupa di significati specificamente architettonici, e al pubblico in senso lato, o agli abitanti locali i cui problemi sono invece il comfort, la costruzione tradizionale e lo stile di vita”. Se pertanto l’architettura postmoderna ha il compito di parlare alla gente, il suo linguaggio deve diventare, di conseguenza, narrativo e simbolico. I mezzi che l’architetto ha a disposizione per creare uno stile ricco di allusioni e di metafore, devono derivare dai repertori stilistici di tutte le epoche precedenti, inclusa quella attuale segnata dal movimento moderno internazionale. La storia dell’architettura funge quindi da serbatoio di tipi e di modelli. Da un lato spetta all’“architetto e a una minoranza” di specialisti, come dice Jencks, riconoscerli e assistere al loro trapianto in un nuovo contesto. Dall’altro lato, però, tali elementi devono essere indirizzati all’attenzione di un vasto pubblico, e perciò di facile comprensione. Alla base di queste riflessioni sta l’idea di creare un’identità attraverso l’architettura, restituendo agli abitanti delle città la possibilità di instaurare un rapporto concreto con i luoghi abitati, nella corretta valutazione delle specifiche tradizioni locali e nella valorizzazione dei segni e dei simboli relativi alla vita quotidiana.
Uno degli incunaboli dell’architettura postmoderna è la residenza privata dell’architetto Charles Moore, l’House Orinda, costruita nel 1962. La casa “funzionale”, ovvero il principio per quasi mezzo secolo alla base della progettazione edile, viene sostituito dal piacere dell’abitarla. La dimora di Moore è composta da un largo tetto di scandole a quattro falde posto paradossalmente a copertura di un cubo in stile moderno con pianta libera e curtain-wall (facciata di vetro), che stimola immediatamente le stesse sensazioni di intimità e sicurezza delle abitazioni primitive. All’interno della casa troviamo alcune colonne di legno, originarie del XVIII secolo, che scandiscono ritmicamente lo spazio creando connessioni tra vecchio e nuovo. Una stanza-doccia, al centro dell’ambiente, è circondata solo da un baldacchino, che accenna sia alla funzione originaria del rito sia al bisogno psicologico dell’uomo legato all’idea della casa, richiamando alla mente la capanna primitiva di cui scrive Laugier nel Settecento. Tutte le pretese realizzabili dell’architettura postmoderna sono riunite nell’House Orinda di Moore: la reinvenzione di motivi e prototipi storici; la garanzia di continuità con la tradizione nel dialogo fra differenti generazioni architettoniche, la polivalenza degli elementi adoperati; la complessità e la contraddizione in architettura, e, da ultimo, l’ironia, il mezzo più importante per alleggerire il peso del passato.
Tuttavia, l’opera più conosciuta di Moore è la Piazza d’Italia, realizzata a New Orleans fra il 1975 e il 1978 con cui propone un luogo di identità e di aggregazione alla numerosa comunità italiana presente in città. Moore vi inserisce una fontana composta da una serie di schermi curvi e colorati. I cinque ordini classici dell’architettura vengono ironicamente illuminati da luci al neon lungo la trabeazione e le scanalature delle colonne e incoronati da capitelli in ottone. Nella piazza possiamo osservare una sagoma a forma di stivale circondata dall’acqua a imitazione della penisola italiana bagnata dal Mediterraneo. Al centro della composizione scultorea troneggia la Sicilia, patria originaria della maggior parte degli italo-americani di New Orleans.
Nel Public Service Building a Portland (1980-1983), Michael Graves realizza un edificio che riunisce frammenti di stili diversi. Su un basamento porticato si innalza un cubo parzialmente murato e vetrato, con incise piccole finestre quadrate, vicine agli stilemi del linguaggio razionalista. Sul curtain-wall nero vengono applicati festoni e colonne, ridotti a segni essenziali, ma cresciuti in proporzioni smisurate. Sulla porta principale l’installazione di una statua, simbolo della città di Portland, ricorda ai cittadini che si tratta pur sempre di un edificio destinato ai servizi comunali.
Un evento importante nella storia dell’architettura postmoderna è stato senza dubbio la Mostra internazionale di architettura alla Biennale di Venezia del 1980. Sotto la direzione di Paolo Portoghesi vengono invitati architetti provenienti da tutto il mondo – il citato Michael Graves, Hans Hollein , Rob Krier, Ricardo Bofill, Venturi, Josef Paul Kleihues, Arata Isozaki e lo stesso Portoghesi – ad allestire presso le Corderie dell’Arsenale la Strada Nuovissima, una sequenza di facciate lignee dipinte con colori esuberanti. La presenza del passato era il titolo carico di suggestioni scelto per la mostra, la quale proponeva un linguaggio pieno di citazioni storiche e motivi iconografici e simbolici per dichiarare la “fine del proibizionismo” (Portoghesi), cioè del movimento moderno.
La mostra è la prima grande manifestazione europea a promuovere il fenomeno dell’architettura postmoderna, anche se la maggior parte degli architetti segue da tempo questo nuovo stile. L’austriaco Hans Hollein, per esempio, aveva fatto scalpore con la sua Österreichisches Verkehrsbüro (Vienna, 1976-1978): un’agenzia di viaggi allestita con palme in ottone che da una parte citavano il Royal Pavillon a Brighton (1815-1823) di John Nash, dall’altra alludevano agli itinerari esotici del turismo di massa, con una bandiera austriaca in plexiglas come irrigidita nel vento.
In Germania l’architetto inglese James Stirling realizza con l’ampliamento della Neue Staatsgalerie (1977-1982) a Stoccarda un’altra opera emblematica del postmoderno. Materiali controversi come murature compatte e vetrate seguono un andamento organico e affermano una totale dicotomia tra tradizionalismo e moderno. La parte più interessante resta senza dubbio il cortile per le sculture: un tamburo cilindrico privo di copertura costruito in muratura piena. In questa rotonda si incrociano l’antica pianta romana del Pantheon e le soluzioni neoclassiche di Schinkel per l’Altes Museum.
Il fenomeno del postmoderno si estende anche all’urbanistica, ottenendo proprio in questo campo forse i risultati più duraturi. Le soluzioni del movimento moderno si erano degradate in gran parte al rango di periferie anonime senza qualità. Simbolo di questo fallimento restano ancora oggi le immagini impressionanti dell’abbattimento del complesso residenziale Pruitt-Igoe negli Stati Uniti nel 1972. Le immense e anonime Unité d’habitation dell’architettura modernista avevano generato una vertiginosa spirale di problemi di ordine sociale alla quale spesso non si era in grado di porre rimedio, se non con la distruzione.
Già nel 1961, il libro The Death and Life of Great American Cities, scritto dalla sociologa americana Jane Jacobs, annuncia il bisogno urgente di rivolgere una critica molto severa all’urbanistica moderna. Le idee chiave del saggio riguardano il pluralismo urbano e il benessere economico, garantiti da un insieme di edifici vecchi e nuovi in un quartiere molto popolato e l’applicazione di parametri urbani che intendono gestire funzioni diverse quali l’abitare, il tempo libero e i servizi commerciali e pubblici. Altre teorie sull’argomento ne svilupperannonuovi aspetti, come, ad esempio, il testo Collage City (1978) di Colin Rowe. Tutti, in sostanza, affermano la necessità di interconnettere funzioni, stili e tessuto urbano per creare spazi urbani definiti e circoscritti. Quando Aldo Rossi partecipò all’IBA di Berlino (Internationale Bauausstellung, 1979-1987), sul tema della ricostruzione della città europea, realizza un isolato sulla Friedrichsstrasse. Molti principi descritti nel suo testo fondamentale L’architettura della città del 1966 e messi in opera in varie occasioni precedenti, riappaiono in veste postmoderna conferendo massimo rilievo alla costante urbana, con la creazione di un isolato carico di citazioni a cominciare dagli archetipi della colonna e della torre, fino al comignolo e al porticato.
Un altro personaggio importante dell’urbanistica postmoderna è sicuramente Rob Krier sempre nell’ambito dell’IBA. Egli realizza un isolato alla Ritterstrasse mette alla prova la teoria della “riparazione della città”. Va ricordato che alcuni anni prima l’architetto e teorico lussemburghese aveva sviluppato una serie ampissima di disegni sulle variazioni possibili di tipologie di costellazioni urbane relative a case, piazze e strade, riallacciandosi a modelli archetipici e alle idee di Camillo Sitte.
È doveroso menzionare l’edifico forse più conosciuto e più discusso, il grattacielo dell’AT&T (1980) eretto da Philip Johnson a New York, la prima costruzione monumentale del postmoderno. L’architetto, dopo essere stato uno dei teorici più importanti del movimento moderno, si apre, alla fine degli anni Sessanta, alla nuova corrente eclettica. Alta ben 37 piani, la centrale della più grande azienda americana per le telecomunicazioni, dispone di una suddivisione classica in tre parti (base, parte centrale e coronamento) e di un rivestimento di granito rosa. Il vistoso coronamento del frontone spezzato, sovradimensionato, alto circa cinque piani, innestato su un grattacielo simile a quelli del revival neoclassicistico, suscita non poche polemiche sull’uso della citazione – “alzata Chippendale”, la battezza infatti il teorico Heinrich Klotz. Nonostante ciò, questo edificio, in qualità di costruzione commerciale – “Fast-food-costruzione”, per citare Charles Jencks – non fallisce nel suo scopo di emblematica rappresentanza aziendale.
La questione cruciale dell’architettura postmoderna, criticata anche dall’interno del movimento (basti ricordare le opinioni di Charles Jencks), sta nel rischio che il reimpiego di elementi storici degneri in un piatto e banale citazionismo. Derubate dal loro contesto originario, le citazioni corrono il rischio non solo di perdere il proprio significato, ma soprattutto di non organizzarsi in un valido programma iconografico nel quale gli elementi trapiantati possano svolgere una funzione e riprendere la propria azione comunicativa. Il collage, insomma, molte volte, viene accettato come fine a se stesso, e le citazioni, di conseguenza, degradate a frammenti decontestualizzati e private di senso. Proprio questa banalizzazione dell’idea postmoderna implica inevitabilmente anche l’esaurirsi del movimento, come era successo con il movimento moderno durante gli anni Cinquanta.