L’Arsenale di Venezia e i cantieri navali della marina
Il luogo dell’«immenso lavoro»
Si è giustamente asserito che l’Arsenale di Venezia sia stato il luogo «dell’immenso lavoro» non solo nel periodo repubblicano caratterizzato dalla produzione manifatturiera, ma anche nel corso dell’Ottocento dopo la caduta della Repubblica, l’occupazione francese e austriaca, e soprattutto nel periodo postunitario quando si pensò di riconvertire la grande struttura in un insediamento di tipo industriale.
Con il riferimento all’immenso lavoro si è voluto sottolineare non solo la concentrazione di manodopera che, nell’antico Arsenale, anche rispetto agli odierni standard, sia pure limitatamente ad alcuni periodi e a fasi alterne, si deve senz’altro ritenere considerevole, ma anche la complessa articolazione della filiera manifatturiera, delle tecniche, delle arti insediate riconducibili alla costruzione navale e alla produzione bellica necessaria per esercitare e mantenere una prolungata egemonia sul mare.
Questa caratteristica è espressa da Gian Maria Maffioletti (1740-1803) – fondatore e direttore della Scuola di architettura navale, con Simone Stratico (1733- 1824), un unicum nell’intera Europa dei secoli 18° e 19° (Ventrice 2002) –, il quale, nel suo Nello aprirsi degli studi fisico-matematici relativi alla navale architettura nell’Arsenale di Venezia […] (1777), scrive che l’Arsenale è «un popoloso recinto di tutte quelle arti e di tutti que’ studi che costituiscono l’essenziale della marina […] molte sono queste arti ne’ vari lor rami, ma presi nella lor sorgente, l’architettura delle navi». Tali arti erano: «La costruzione delle àncore, la formazione delle gòmene con altri cordami, le guarniture» ossia «le arti le più principali che cospirano a stabilire una marina perfetta […] buon corpo di nave e ben lavorato, àncore bene costrutte, buoni cavi, albori e vele ben disposte».
Nonostante il lungo periodo di declino della grande potenza marittima e la sua definitiva fusione nello Stato unitario, l’Arsenale di Venezia costituisce l’esempio unico di un cantiere navale e di una fabbrica d’armi che ha mantenuto sempre la stessa natura e la stessa funzione avute nel periodo repubblicano fino all’occupazione napoleonica e nel corso della successiva dominazione austriaca, giungendo all’Unità d’Italia con una struttura predisposta ad accogliere o quantomeno a sopportare un riuso industriale.
Per salvaguardare la sua funzione originaria di cantiere della costruzione navale, di fabbrica di armi e di attrezzature navali si dovette operare una temeraria riconversione volta, tuttavia, non a distruggere radicalmente la struttura e l’antico assetto, né a cancellare completamente le tracce storiche dell’antico apparato produttivo, quanto a rendere tale luogo idoneo a ospitare nuove attività sollecitate dalle moderne necessità belliche, caratterizzate dalle più aggiornate tecnologie metallurgico-meccaniche. In sintesi, ciò significava riuscire a riprogettare una conversione o un passaggio dalla costruzione navale in legno a quella in ferro mantenendo, con gli opportuni adeguamenti, la fabbricazione di un nuovo tipo di armi.
Nell’accingerci a tracciare un breve profilo storico della vita produttiva di un grande complesso destinato, nel suo insieme, alla produzione navale e bellica, è indubbia la difficoltà di connettere e di sviluppare in una trattazione organica tecniche varie benché concentrate in una struttura funzionalmente finalizzata alla costruzione di due prodotti sinergici. A superare questa difficoltà non aiuta affatto il quadro di una storiografia che a tutt’oggi, in Italia, continua a essere disattenta, se non sorda, nei confronti della cultura e della storia della tecnologia relegata a un ruolo subalterno.
Settori quali la metallurgia, l’artiglieria e l’evoluzione delle bocche da fuoco, nonostante il solido legame che li collega alla scienza e alla tecnica (in particolare, alla balistica), alla chimica, alla meccanica e alle macchine, furono coltivati da alcuni appassionati cultori spesso isolati da un contesto storiografico più ampio.
L’Arsenale di Venezia, ma anche gli altri complessi manifatturieri o industriali destinati alla produzione degli armamenti di terra e di mare e di una certa tipologia navale, attivi nel periodo che va dal 15° al 20° sec., hanno mantenuto un carattere prevalentemente pubblico, vincolato e sottoposto all’autorità politica; inoltre, nel passato, l’Arsenale era gestito direttamente da un organo istituzionale denominato Reggimento dell’Arsenale.
Gran parte degli arsenali, dal 16° al 19° sec., hanno continuato a concentrare le loro attività tecniche nella stessa struttura produttiva opportunamente modificata e adattata alle esigenze navali e belliche che di volta in volta si presentavano, sempre, però, nel solco di una tradizione che favoriva rapporti episodici e saltuari e comunque svincolati da ogni forma di dipendenza dall’esterno.
Gli arsenali pubblici del passato provvedevano alla fornitura di materie prime, semilavorati e lavorati (legnami, metalli e tutti gli altri prodotti necessari all’armamento delle navi militari), con il sistema accentrato della commessa e dell’approvvigionamento diretto anche qualora fossero risultati particolarmente onerosi.
Sotto questo profilo è esemplare la gestione dell’Arsenale veneziano in antico regime, periodo in cui vigeva un rigido controllo e un’oculata gestione della ‘cassa’, confermando una tendenza che proseguirà, per motivi di bilancio, anche nella prima fase del periodo postunitario quando s’avviò l’attività industriale.
La ‘Casa dell’Arsenal’
L’antico impianto pubblico chiamato Casa dell’Arsenale, sin dalle sue origini fu adibito a cantiere per la costruzione delle pubbliche navi; a fabbrica e deposito delle armi; a luogo di stoccaggio delle materie prime; a sede deputata ad attività stagionali di rimessaggio della flotta, alla produzione delle corde, dei velami e dei remi.
Nei documenti ufficiali questa espressione è frequente e allude al significato emblematico e al contempo reale di luogo cui è demandata la sicurezza e la salvaguardia del bene comune: lo Stato. Sull’importanza dell’Arsenale veneziano per la vita dello Stato veneto basti citare il celebre lavoro di Bernardo Lodoli (Il cuore veneto legale formato dalla compilazione delle leggi decreti terminationi […], 1703) che gli attribuisce la funzione di «cuore» nevralgico della vita politica, economica e non solo militare della Serenissima Repubblica.
Il predominante interesse per l’aspetto architettonico del complesso è giustificato dall’imponente e articolata fabbrica, risultato di aggiunte sedimentatesi nell’arco di sei secoli; essa si sviluppa su una vasta superficie che, con le aggiunte più recenti, misura circa 478.000 m2 di cui 136.380 m2 di aree coperte, 224.620 di aree scoperte e 117.000 m2 di spazi acquei.
Il quadro storico degli interventi edilizi è il risultato della progressiva inclusione di aree racchiuse in un vasto perimetro i cui limiti, intorno agli anni Cinquanta del 16° sec., erano già ben definiti nelle dimensioni che ancor oggi sono esattamente individuabili.
Le dimensioni perimetrali sono indicate in un documento del 1544-1545 (Archivio di Stato di Venezia, poi sempre A.S.V., Archivio proprio Contarini, B.25), che ci fa conoscere come il nucleo storico del complesso risulti pressoché definito sin da quel periodo e ci mette anche al corrente di come le successive aggiunte avverranno per superfetazione fino all’esteso ampliamento postunitario quando si pensò di ingrandire l’Arsenale creando l’area dei bacini di carenaggio.
L’estensione, la morfologia e la tipologia degli edifici, pur nell’apparente disseminazione delle fabbriche contenute nel recinto murario e collegate tra loro per contiguità, lo rendono un unicum tra gli arsenali storici ancora superstiti nell’intera Europa mediterranea, d’epoca tardomedievale e moderna.
L’iniziale localizzazione dei depositi delle polveri
In origine, l’area della cosiddetta Zellestria o Celestia ospitava i depositi di esplosivo e le macine per la lavorazione delle polveri da sparo, essendo ubicata a una certa distanza dai reparti destinati a cantieri di costruzione navale e alle artiglierie e fonderie. Ciò accadeva antecedentemente al disastroso scoppio del 1569, coerentemente con la logica della specializzazione funzionale degli spazi.
La scelta dell’area da adibire a depositi e alla lavorazione delle polveri e il suo relativo acquisto risalgono al 1535. Un documento coevo dà la descrizione e la misura del perimetro «longo 133 passa verso la marina, da l’altra banda simile largo il fronte opposto alla marina, 34 verso S. Francesco e 49 passi verso l’Arsenale in tutto passi 349» (A.S.V., Patroni e Provveditori all’Arsenal, Archivio proprio Contarini, B.9). La sua estensione era poco meno di 5000 m2 e nel 1564 fu integrata con l’aggiunta del contiguo orto del convento delle suore che misurava 4544 passi (per complessivi 7800 m2 ca.).
I lavori di scavo delle fondazioni di tali depositi, iniziati nell’agosto del 1535 con l’intervento del Collegio alle Acque, e proseguiti nel settembre 1539, quando alla direzione dei lavori edilizi dell’Arsenale fu assunto Giovanni da Zon in sostituzione di maestro Angelo de Zuane (probabilmente le costruzioni «de fuora sopra l’Isolotto per li salnitri e le polveri compresi i depositi di esplosivi serati de muro con le porte di ferro et coperte di piombo et separati l’uno dall’altro»), erano già condotti a termine attorno al 1540 (A.S.V., Patroni e Provveditori all’Arsenal, Reg. 135, c. 39v).
La conferma che i depositi erano collocati nell’area più defilata della Zellestria è data dal successivo atto d’acquisto dell’orto fissato al 13 dicembre 1564, anteriormente alla notissima e rovinosa esplosione avvenuta in quell’area nel 1569; si trattava, dunque, di due terreni accorpati, ma prima distinti e di misura diversa.
Sappiamo che l’acquisizione della vigna alla Celestia (utilizzata poi come orto delle suore) era stata fatta per ampliare l’area in cui si trovavano i «torrioncelli» adibiti a deposito di polveri poiché s’era resa necessaria «per sicurtà della casa nostra dell’Arsenal et per commodità di luogar li legnami et di varar le galie che si fabbricano nelle volte di detta casa» (A.S.V., Senato Mar, filza 31).
È probabile che, data la contiguità dei due terreni, i tre edifici (torrioncelli) di più recente costruzione, posti nel luogo dove avvenne lo scoppio, fossero ubicati sì nell’area della Zellestria, ma nei pressi di quella delle monache; questa vicinanza potrebbe legittimare gli effetti rovinosi verificatisi sia nel convento delle suore sia nella chiesa di S. Francesco, detta della Vigna, sia all’interno del recinto arsenalizio.
L’area che include oggi le tese della Galeazza a levante e la cosiddetta Vasca a ponente è rilevante non solo ai fini dell’utilizzo come deposito delle polveri, ma per il luogo destinato alle esercitazioni con armi da fuoco, detto Campazzo, per la ‘prova’ dei moschetti da zuogo, dei falconetti, dei falconi e, in generale, dell’artiglieria di piccolo calibro.
Successivamente allo scoppio delle polveri, un decreto del 15 settembre del 1569 stabiliva che:
[…] nel predetto nostro Arsenal non si possa più per modo alcuno tenir polvere di sorte alcuna né grossa né fina […] ma solamente si habbiano a lavorare nel predetto Arsenale dove meglio parerà, li materiali separati, che intrano a far la polvere, et quando occorrerà che quelli debbano essere uniti per far essa polvere, questo effetto sia fatto in altri luoghi fuori dell’Arsenal, cioè nelle isole che sono in questa laguna […] circa il modo et forma della fabrica che si doverà fare per l’essercitio della predetta polvere, le quale come saranno di tempo in tempo lavorate debbino essere subito portate et divise nelle torri fatte per questo effetto in diverse isole di questa laguna sì che siano sempre tenute divise in più luoghi che si potrà (A.S.V., Patroni e Provveditori all’Arsenal, b. 11).
Sappiamo quindi che in quella data, in un momento di grande tensione con i turchi, il composto delle polveri era completamente bandito all’interno dell’Arsenale e come si stabilisse di regolare la necessaria sua introduzione all’interno adottando tutte le dovute precauzioni.
La polvere da sparo è basata sul salnitro quale componente fondamentale per le sue qualità ossidanti; questo sale è indispensabile per provocare l’esplosione fornendo l’ossigeno necessario a velocizzare la combustione del carbone da legna triturato molto finemente. A prescindere dal fatto che qualsiasi materia organica molto infiammabile si può sostituire al carbone, resta da dire che quanto migliore è la qualità del carbone da legna tanto maggiore risulta la deflagrazione.
Il salnitro, comunque, richiedeva molto tempo per essere prodotto e raffinato. Esso si ricava da una efflorescenza spontanea sui muri umidi, ma le quantità ricavabili con questo sistema erano, ovviamente, assai modeste; perciò si sopperiva alla penuria con l’importazione, ma a un certo punto si incrementò la produzione locale facendo ricorso a un laborioso procedimento per ottenere dai rifiuti organici degli animali la materia grezza che, sottoposta a numerosi lavaggi, permetteva di estrarre un distillato pronto per essere impiegato.
Altra componente fondamentale, oltre al salnitro e al carbone, era lo zolfo, che costituiva la parte minore del composto e serviva per l’innesco, essendo la sua infiammabilità inferiore a quella del salnitro. L’effetto esplosivo è l’esito della moltiplicazione del volume originario provocato dall’istantanea produzione di gas a seguito dell’accensione della polvere.
La straordinaria collaborazione tra artiglieri, fonditori e addetti alle polveri, regolata e razionalizzata con grande sapienza dagli organi dello Stato, diede vita a una comunità distribuita dentro e fuori la cintura arsenalizia, favorendo un’efficienza inventiva in grado di apportare numerosi e preziosi contributi all’affermazione di un’industria bellica che si collocò ai primi posti in Europa per quasi due secoli (Panciera 2005).
In questo stesso periodo, i fabbricanti di polveri, i fonditori e gli artiglieri continuarono a creare armi assai letali che andavano dai mortai a tiro curvo, alle gigantesche bombarde per gli assedi, alle colubrine, ai falconi e falconetti impiegati in battaglia.
Il reparto artiglieria, le sale d’arme e le fonderie
L’insediamento del reparto artiglieria nell’Arsenale veneziano, oltre che da Giovanni Casoni (1783-1857; Breve storia dell’Arsenale, in Venezia e le sue lagune, 1° vol., t. 2, 1847), è ricostruito, con il corredo di una vasta documentazione archivistica, da Ennio Concina (1991, p. 173) che si sofferma anche sull’installazione e lo sviluppo delle artiglierie e delle fonderie dentro e fuori dell’Arsenale.
Dalla documentazione non emerge, tuttavia, un’indicazione precisa da cui si possa desumere, con certezza, l’ubicazione originaria, né l’estensione del reparto artiglieria, nella prima fase della sua costituzione, ma si può riscontrare solo una generica allusione a un «magazen da le bombarde» e alla creazione di una «sala da i archibugi e schioppi» (Concina 1991) registrati nel recinto nei primi anni del 16° secolo.
Solo nel 1544 si fece una distinzione tra «sale d’arme vecchie e nuove», in un documento che ci informa dell’esistenza di un gruppo di tre cantieri (edifici) risalenti al secolo precedente e in quella data reimpiegati per l’artiglieria. Nel 1559 la mappa prospettica di Matteo Pagan che aggiorna quella di Jacopo de’ Barbari conferma la destinazione dell’area di Campagna a reparto d’artiglieria. Tuttavia, nel 1565, in un decreto della Commissione dei Dieci e del Provveditore alle artiglierie, si fa esplicito riferimento alla presenza, in Arsenale, di «fabbriche d’artiglieria» (A.S.V., Patroni e Provveditori all’Arsenal, b. 11, Capitolare VII, c. 11r, 2.3.1565) distribuite in quattro magazzini: «due da mare» e «due da terra», localizzate nella zona detta Campagna, posta nell’«Arsenal novo», e confinanti con quelle che saranno dette Sale d’arme; a queste bisognava aggiungere un mezzo volto (ossia il magazzino contenente l’acqua) ubicato invece all’Arsenale vecchio (A.S.V., Collegio V, Secreta, Relazioni, b. 57/1).
La riconferma dell’esistenza di «otto o nove magazeni, nelle quali le ruote, o letti dell’artiglieria si mettono […] di sopra ne i quali tutte le fortezze che si fanno hanno recapito», la si legge nel Breve discorso et relatione della Serenissima Repubblica di Venetia, manoscritto composto tra la fine del 16° e l’inizio del 17° sec. (Concina 1991, p. 176, in cui si cita un documento conservato a Parigi, Bibliothèque nationale, ms. it. 1422, cc. 385-96).
L’attuale lungo fabbricato delle artiglierie costruito a ridosso delle mura che danno sul Rio di S. Daniele sopravvive sostanzialmente integro ed è un edificio lungo circa 180 m; la sua costruzione fu avviata nel 1561 e completata nel 1580 con l’aggiunta di un muro con profili in pietra (Bellavitis 1983, p. 116).
Per quanto riguarda le fonderie, invece, per omettere la laboriosa menzione delle fonti d’archivio, nel caso dell’Arsenale particolarmente cospicue, diamo credito a quanto scrive Casoni (Guida per l’Arsenale di Venezia, 1829), profondo conoscitore della disposizione e organizzazione funzionale delle fabbriche e delle loro trasformazioni storiche.
Casoni, ingegnere e architetto presso le fabbriche dell’Arsenale durante il dominio austriaco, soffermandosi sul reparto ‘Campagna’ dov’erano allocate le fonderie accanto al grande edificio delle corderie, ci informa che queste erano distribuite in cinque fabbricati separati tra loro da uno stretto passaggio onde evitare la propagazione del fuoco in caso di scoppio e d’incendio. Nel primo di questi avveniva l’alesaggio dei cannoni, la cui calibratura veniva effettuata verticalmente; inoltre, nel locale erano installati alcuni torni per metalli che completavano la dotazione delle macchine. I forni a riverbero erano installati nel secondo e nel terzo fabbricato; il più grande di questi poteva fondere alcune tonnellate di metallo. Nel quarto fabbricato avvenivano l’operazione di formatura e la costruzione degli stampi per il getto. Nel quinto fabbricato, in tempi successivi, venne installato un laminatoio con doppi cilindri in bronzo, macchina che anticipava il sistema industriale di lavorazione.
Fino a oggi la documentazione d’archivio relativa all’assetto interno dell’impianto non è stata opportunamente studiata; attualmente, sulla base di ciò che si vede, è impossibile effettuare una ricostruzione attendibile degli impianti antichi, dal momento che, nel periodo postunitario, i locali furono completamente ricostruiti e adibiti a fonderia navale e a depositi di macchine per diventare attualmente uno spazio per rappresentazioni.
La ‘fabbrica’ dei cannoni tra scienza e tecnologia
La fusione dei cannoni, nei secoli 16°-17°, rappresenta la sfera più alta delle tecniche metallurgiche dopo la comparsa della nova scientia che altro non era che la balistica (N. Tartaglia, Nova scientia, 1537).
Tale scienza fu impostata da Niccolò Tartaglia (1499-1557) sulla base di quella che, in quel lasso di tempo, era denominata in latino Scientia de ponderibus o De ratione ponderis la cui radice archimedea si contaminava con la tradizione medievale di Giordano Nemorario che enunciava il principio secondo cui tanto più vicino al fulcro si colloca un peso, tanto minore è il movimento verticale che ne risulta e viceversa.
Il nucleo essenziale del libello venne da Tartaglia ripreso e ampliato nei Quesiti, et inventioni diverse (1546) e sviluppato dal punto di vista idrostatico nei Ragionamenti sopra la travagliata invenzione (1551).
Tartaglia, nato a Brescia, fu prima maestro d’abaco a Verona; trasferitosi successivamente a Venezia, nel 1536 divenne pubblico lettore di matematica, subentrando a Giovanni Battista Memo. Tartaglia effettuò una svolta definitiva sia nell’ambito dell’algebra sia in quello della meccanica. Infatti, nella Nova scientia egli riprese lo studio di Archimede, autore verso il quale si cominciava a ridestare un interesse scientifico sempre più vivo.
Al grande siracusano, il matematico bresciano dedicò tre pubblicazioni di cui l’ultima sopra citata è postuma; in esse porta a compimento, in completa autonomia, una svolta fortemente innovativa poiché per la prima volta, e in modo singolare, la matematica viene impiegata, in coerenza con la tradizione tipica delle scuole d’abaco, per spiegare fenomeni naturali e per risolvere casi concreti.
Nell’Epistola d’esordio della Nova scientia indirizzata a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, capitano generale della Serenissima Repubblica, Tartaglia propone la soluzione del problema balistico della massima gittata del proiettile risolvendola in funzione dell’inclinazione della bocca da fuoco e della traiettoria del proiettile.
A questo problema, che lui dice essergli stato posto da un peritissimo bombardiero, suo amico, Tartaglia risponde con argomentazioni geometriche e naturali, vale a dire con una dimostrazione geometrica e insieme naturale (fisica) del problema del moto a partire dal principio «esser impossibile mouersi un corpo graue di moto naturale & uiolente insieme misto» che era un chiaro riferimento al problema statico legato alla gravitas visto alla luce del metodo archimedeo.
Tartaglia propone il problema della massima gittata del proiettile suggerendo che per ottenerla «bisognaua che la bocca dil pezo stesse elleuata talmente che guardasse rettamente a .45. gradi sopra a l’orizonte, & che per far tal cosa ispedientemente bisogna hauere una squara de alcun metallo ouer legno sodo che habbia interchiuso un quadrante con lo suo perpendicolo […]» (Nova scientia, cit., c. 6r). La conseguenza è che «una balla tirata uerso li detti .45. gradi sopra a l’orizonte va circa a quatro uolte tanto per linea retta di quello che va essendo tirata per il pian del orizonte che da bombardieri chiamato (come ho detto) tirar de ponto in bianco» (c. 6r).
Da tale ragionamento egli desume che il proiettile, lanciato con la bocca inclinata a 45°, descrive una linea curva che assicura una gittata maggiore rispetto a quella del tiro rettilineo parallelo all’orizzonte detto di punto in bianco dai ‘bombardieri’. Tartaglia, partendo dal concetto della gravitas secondum situm, trae una nuova dottrina dal vecchio argomento, indicando il modo pratico di ricavare la giusta inclinazione attraverso l’archipendolo.
All’obiezione di Francesco Maria della Rovere che gli contesta che «colui che fa un giudizio di una cosa, della quale non abbia visto un effetto, over isperientia, la maggior parte delle volte s’inganna», Niccolò risponde: «egli è ben vero che il senso isteriore ne dice la verità nelle cose particolare, ma non nelle universale, perché le cose universale sono sottoposte solamente al intelletto, e non al senso» (c. 6r).
In forza di ciò Tartaglia può, non senza civetteria, affermare che la sua conclusione è giusta senza bisogno dell’esperienza né diretta né indiretta, infatti egli è sicuro di manifestarla «benché in tal arte io non hauesse pratica alcuna (per che in uero Eccellente Duca) giamai discargheti artegliaria, archibuso, bombarda, ne schioppo)» (c. 6r) aggiungendo
desideroso di seruir l’amico, gli promisi di darli in breue rissoluta risposta. Et di poi che hebbi ben masticata & ruminata tal materia, gli conclusi, & dimostrai con ragioni naturale, & geometrice, qualmente bisognaua che la bocca dil pezo stesse elleuata talmente che guardasse rettamente a .45. gradi sopra a l’orizonte, & che per far tal cosa ispedientemente bisogna hauere una squara de alcun metallo ouer legno sodo che habbia interchiuso un quadrante con lo suo perpendicolo […] (c. 6r).
L’«intelletto» (lo strumento matematico) e non la sola «isperientia» ci porta al cuore della lezione galileiana secondo cui il senso ci può ingannare; pertanto, la lettura del gran libro della natura scritto in caratteri matematici deve essere interpretata con questo linguaggio, lo stesso posto a fondamento della Nova scientia di Tartaglia: quella del bombardiere.
Nell’opera, Tartaglia fa intervenire alcuni protagonisti della cultura del suo tempo molto noti, citati con altri sconosciuti, ma nell’uno e nell’altro caso prevalgono uomini d’arme o che avevano a che fare con le armi; tra questi Francesco Maria della Rovere, Giulio Savorgnan, Alberghetto degli Alberghetti, Giovanni Antonio Rusconi, suo stesso allievo, Diego Hurtado de Mendoza, l’ambasciatore di Spagna assai interessato alla meccanica; a tali interlocutori si uniscono: un «Capo», ma anche semplici bombardieri, e qualche ignoto «schioppettaro».
A fronte degli studi empirici di Leon Battista Alberti (1404-1472), Roberto Valturio (1405-1475), Francesco di Giorgio di Martino, meglio noto come Francesco di Giorgio (1439-1501), Leonardo da Vinci (1452-1519), Tartaglia cerca invece la soluzione dei problemi balistici con il rigore del matematico; egli deduce geometricamente la traiettoria ‘curva’ e non ancora parabolica dei proiettili introdotta da Ostilio Ricci (1540-1603) e perfezionata da Galileo Galilei (1564-1642), calcolando la gittata massima dall’inclinazione ottimale della bocca indicata in 45°.
L’inventore e costruttore di armi stabiliva un contatto sinergico con l’ars diabolica di chi componeva le polveri (la pirotecnia). Infatti, per completare le ricerche sulla balistica avviate da Tartaglia ancor prima del 1537, intervenne l’opera data alle stampe di lì a poco da Vannoccio Biringucci (o Biringuccio; De la pirotechnia libri 10 […], 1540) cui seguì il trattato di Giorgio Agricola (De re metallica libri II, 1556). Il contributo della metallurgia e delle tecniche di fusione si deve considerare fondamentale per il perfezionamento della tecnologia delle armi da fuoco.
Riteniamo che la principale novità prodottasi nel quadro tecnico scientifico, più che la svolta meccanica e il conseguente affermarsi del macchinismo (cfr. Marchis 1994), fu l’evoluzione del quadro chimico e metallurgico che diede uno straordinario impulso alla scienza, alla tecnologia e all’industria bellica.
Le tecniche metallurgiche e il miglioramento delle polveri avevano il medesimo scopo: creare un clima tecnologico nel cui ambito si rendeva possibile la realizzazione di un cannone in un’unica fusione ottenendo un pezzo robusto e di calibro più rispondente a quello dei proiettili impiegati. Non solo, ma in tal modo s’abbassava l’indice di dispersione di gas (in termini tecnici il «vento»), e allo stesso tempo si aumentava la potenza e la precisione del tiro.
L’evoluzione delle bocche è confermata dai numerosi scritti sull’artiglieria che costituirono un’imponente letteratura tecnica tra manuali e trattati diffusi dall’editoria veneziana, sicuramente da considerare la più considerevole e importante del mondo di allora.
Per limitarci solo ad alcuni autori di trattati e manuali, artiglieri e uomini d’arme, ma al contempo tecnici, facciamo menzione di Girolamo Maggi d’Anghiari, Giulio Savorgnan, Girolamo Cataneo, Alessandro Chincherni, Giovanni Battista Colombina, Eugenio Gentili, Pietro Sardi, infine e, da ultimo, il fonditore e artigliere Sigismondo Alberghetti.
Giulio Savorgnan (1510-1595), patrizio veneziano, di famiglia nobile originaria del Friuli, fu un generale legato a Venezia oltre a essere autore di scritti sulle fortificazioni in terraferma e in Levante, ma anche su problemi di balistica; nel secondo libro dei suoi Quesiti (Venezia, Biblioteca civica del Museo Correr, ms. Cicogna, cod. 3277) pone il problema dell’effetto del peso delle palle al momento della gittata e documenta le prove fatte «a marina [al Lido di Venezia?] con un falconetto da 3 forzato per esperimentar la polvere raffinata et ordinata dall’Ill.mo Sig. Giulio Savorgnan» (Quesiti, cit., p. 17).
Rilevante, anche, l’importanza di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino (1490-1538), sia come uomo d’arme sia come autore di scritti sulla guerra e sui sistemi di fortificazione di cui fanno fede i Discorsi militari editi a Ferrara nel 1583. Nel fondo manoscritto della Biblioteca nazionale Marciana si conservano molte sue scritture tra cui un «Inventario di tutte le munizioni che al presente si trovano nella fortezza e città di Corfù» (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, cod. it. VII.890 = (8843), ff. 153-56).
Nell’ultimo scorcio del 14° sec. e in quello successivo notevole è il peso del ducato di Ferrara e degli Estensi nel campo della metallurgia e dell’artiglieria, come ben sottolinea una pubblicazione di Francesco Locatelli (1985), evidenziando il ruolo che ebbe dal punto di vista militare e della tecnologia bellica fino a diventare un vero e proprio polo innovativo e all’avanguardia.
Egli ascrive a Ferrara il merito di aver favorito l’affermarsi di una grande famiglia di fonditori e artiglieri come gli Alberghetti che, trasferitisi a Venezia, esercitarono per quasi due secoli la loro arte al servizio della Repubblica (cfr. A. Angelucci, Documenti inediti per la storia delle armi da fuoco italiane, 1868).
Il capostipite ‘Albergeto’ nativo di Massa Fiscaglia, inizialmente fonditore di campane in Ferrara prima di passare alle dipendenze di Ercole I d’Este, fu uno dei primi a contribuire a fare della città, nel corso di tutto il 16° sec., uno dei più importanti centri di produzione metallurgica e di pezzi d’artiglieria. Marco Morin (2008), in particolare, fa luce su alcuni aspetti dell’attività di Hieronimo Alberghetti, figlio di Sigismondo, sulla base di una dettagliata disamina di documenti d’archivio che riportano alcuni particolari relativi alle sue vicende personali e familiari.
In particolare, i tre fratelli Alberghetti, cioè Hieronimo, Emilio e Julio, rivolsero una supplica a «Sua serenità il Doge», nella quale gli chiedevano di rinnovare la «provision di 200 ducati con le case già in precedenza concesse ai loro antecessori» e donare al terzo fratello oltre alla casa anche la bottega che era stata del padre.
In un decreto del 1563 si fa accenno a Hercole Alberghetti e a Cristoforo Rossi che con un loro «fante» esercitano l’attività fusoria in un locale contiguo al «Magazen delli remi», con grave pericolo per l’incolumità di quell’edificio in caso di scoppio o d’incendio; pertanto si chiede che vengano loro assegnate due case vicine all’Arsenale già abitate dagli ormai deceduti «Marian Bonfadin fondittor delle ballotte et Isepo Donado scrivan»; queste case di solito erano date a personale dell’Arsenale come abitazioni; in tal modo gli spazi occupati in precedenza da Hercole e Cristoforo potevano essere recuperati e annessi «al Magazen delli remi» (A.S.V., Patroni e Provveditori all’Arsenal, b. 11 c. 17r).
Oltre agli Alberghetti, è necessario menzionare la famiglia di Conti, ma siamo oggi ancora ben lontani dall’avere un quadro completo ed esaustivo delle famiglie di tecnici dediti all’attività fusoria e alla fabbricazione delle polveri nell’Arsenale e a Venezia, nonostante la dovizia di documenti d’archivio che ne comprovano l’articolata attività.
La storia della tecnologia nella sua declinazione di storia interna delle tecniche e delle attività fusorie è molto importante nello studio degli Arsenali di terra e di mare sia per quanto riguarda le armi sia per ciò che concerne la produzione metallica.
Nella storia delle attività fusorie si deve includere quella delle tecniche e delle modalità dei processi di colata, della tipologia e dell’uso degli stampi; per quanto riguarda la storia della tipologia e morfologia delle armi da fuoco è importante stabilire la classificazione in base al calibro, al munizionamento, al sistema di caricamento (avancarica-retrocarica) e di funzionamento, alla forma della traiettoria, al trasporto e all’impiego.
Altro elemento importante è il riferimento a un quadro metodologico entro cui far rientrare l’indagine scientifico-tecnologica (chimico-fisica) fatta eseguire su campioni onde apprezzarne le caratteristiche meccaniche, tecniche, di resistenza e così via. Ovviamente tali indagini, poggiando su campioni limitati, rimangono puramente indiziarie, ma possono rivelarsi estremamente interessanti.
Le navi
La tipologia delle navi storiche della Serenissima Repubblica è ampiamente documentata sia nelle carte dell’Archivio di Stato sia nei testi a stampa. Tentiamo qui di dare un elenco sommario delle principali tipologie d’imbarcazione. Preliminarmente va fatta la debita distinzione tra navi a remi, dotate di una vela triangolare con funzione ausiliaria (quindi sono navi a propulsione mista), e navi a sola vela, impiegate, in modo più massiccio, in seguito (17°-18° sec.).
Tra le prime, la tipologia è varia potendo includervi galee a uno, due fino a tre alberi, dotati di relativo apparato velare, da cui si può dedurre una variazione dimensionale dell’imbarcazione. Per quanto riguarda l’evoluzione dell’originaria trireme romana si pensi alla quinqueremi (1529) di Vittore Fausto (1480 ca.-1551 ca.), uno dei pochi che arrivò alla costruzione navale senza passare direttamente dalla pratica di cantiere.
Faceva parte della prima categoria la ‘galera’ (o ‘galea’), sotto cui erano raggruppati vari sottotipi, a seconda della funzione e delle dimensioni; tra questi: la galea sottile, la galea grossa da merchado, la galea bastarda a metà strada tra la grossa e la sottile, destinata a ospitare il «Capitano Generale da mar»; in questo caso assumeva la funzione di unità di bandiera. Accanto a queste vi erano le galee capitane affidate ai «Capi da mar»; e infine anche le galeotte e le fuste, ambedue imbarcazioni leggere impiegate in battaglia e anche nelle operazioni di ricognizione. In caso di necessità, come accadde nella battaglia di Lepanto, quasi tutte queste tipologie furono impiegate in battaglia. A partire poi dalla prima metà del 16° sec. comparve la galeazza, più grande e dotata di un maggior numero di armi da fuoco.
Del secondo tipo erano invece le navi a vele quadre: sostanzialmente la cocca e la caracca (dal 15° sec.), cui vanno aggiunte barze, barzoti e galeoni, tutte grosse imbarcazioni d’alto bordo impiegate nel trasporto, e più tardi il vascello e la fregata.
La forza navale della Repubblica, costituita originariamente da galee e galeazze, era detta Armata sottile affiancata da un’Armata grossa allestita alla vela (barze, galeoni), munita di cannoni di calibro più grosso.
Tali navi a vela erano generalmente mercantili noleggiati dalla Repubblica la cui disponibilità, rivelatasi insufficiente, fu, nel tempo, integrata da un certo numero di navi straniere, due terzi delle quali olandesi e inglesi (Candiani 2009).
Nel corso del 16° sec., la Repubblica nel suo piano bellico previde un impiego attivo in mare di cento galere, programma cui successivamente cercò di sopperire mediante un numero congruo di navi a vela armate per la guerra.
Tuttavia, prima di passare alla costruzione di vascelli e fregate da guerra sul modello francese e anglo-olandese, tra le navi mercantili impiegate vi furono anche le caracche o navi atte (espressione con cui si designava la loro idoneità ad affrontare la navigazione atlantica). A Venezia, la produzione di navi di questo tipo, impiegate nei commerci, aveva un impatto del tutto trascurabile nella lavorazione in Arsenale, pertanto non ebbero grande impiego.
Solo in seguito all’infausta guerra con i turchi e alla definitiva perdita della Morea sancita a Passarowitz nel 1718, la Repubblica decise di potenziare la propria flotta armando le navi di linea grazie anche alla riserva strategica di navi denominata deposito.
Di lì a poco iniziò una grande opera di trasformazione dell’intero complesso che durerà qualche decennio, ma nel frattempo si riuscì ad armare una cospicua Armata grossa costituita da vascelli, che s’ingrandirà fino a raggiungere le quasi 30 unità cui s’aggiunsero 24 galere, 2 galeazze e 12 galeotte; dopodiché l’importanza dell’Armata sottile (galeazze e gale) cominciò a venire sempre meno e ciò in quanto il successo dell’impiego delle artiglierie obbligava a costruire navi sempre più grandi per contenerle.
Accenniamo brevemente al fatto che l’introduzione dei vascelli per formare l’Armata grossa comportò l’aumento del calibro dei cannoni da 30 a 40 e in alcuni casi a 50 libbre con l’aggiunta di alcuni cannoni di nuova invenzione e di petriere da 500 libbre di cui i turchi facevano ampio uso.
Le nuove navi da guerra e i più recenti armamenti ormai in dotazione a tutte le grandi flotte, inclusa la turca, imponevano a Venezia un riarmo consistente che, comunque, nonostante le ristrettezze, riuscì a condurre a termine.
Tuttavia, anche se dal punto di vista quantitativo l’Arsenale veneziano mantenne il tetto numerico programmato e una consistenza numerica tale da reggere il confronto con la produzione degli altri Arsenali europei, se si guarda alla stazza e all’armamento delle singole unità, il confronto è a netto sfavore di Venezia. Pertanto, a parità di denominazione tipologica, gli scafi veneziani, anche per i limiti imposti dall’angustia del cantiere arsenalizio e dai bassi fondali, avevano una chiglia ridotta e dimensioni minori rispetto alle unità di altre marinerie.
Infatti, in Europa, la costruzione navale aveva compiuto un salto di qualità per adeguarsi alla navigazione oceanica incentivando lo studio dello scafo fino a ricorrere al calcolo analitico-infinitesimale applicato all’idrodinamica e alla meccanica dei solidi e dei fluidi.
In ambito navale i protagonisti di questa svolta furono Leonhard Euler (1707-1783), tradotto e commentato in Italia da Stratico, Pierre Bouguer (1698-1758), Henri-Louis Duhamel du Monceau (1700-1782), Jorge Juan y Santacilia (1713-1773), Fredrik Henrik af Chapman (1721-1808), tradotto in francese da Honoré Sébastien Vial du Clairbois.
Stratico, a conoscenza degli studi che si stavano effettuando soprattutto in Francia e in Inghilterra, a sua volta dedicò studi alla meccanica navale ed ebbe contatti con i maggiori scienziati coevi, traducendo anche alcuni scritti di Euler e di Bouguer, questi ultimi rimasti manoscritti. Nelle sue Scritture di nautica, dedicò uno Studio sulla inarcatura delle navi e compose uno scritto sulla Soluzione del problema sulla curva della carena (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, cod. It. IV, 318 (5321), rispettivamente ff. 365-402 e 416-39).
Il contributo alla meccanica navale, da lui diffusa a Venezia, assumerà peso ed efficacia molto più tardi; in precedenza, la meccanica della macchine semplici si limitava alla trattazione assiomatica della dottrina della leva applicata solo ai remi dal più volte citato Galilei.
Nel corso del 16° sec. l’intuizione di collegare la meccanica alla costruzione navale l’aveva avuta Fausto, ma il tentativo di far tesoro dei suoi studi sulle cosiddette meccaniche pseudoaristoteliche non poteva consentirgli alcun tipo di conoscenza utile alla costruzione della sua gigantesca, per l’epoca, quinqueremi la cui fortuna fu assai modesta (Aristotelis mechanica Victoris Fausti industria in pristinum habitum restituta ac latinitate donata, 1517).
La costruzione navale in legno, nel 16° e 17° sec. si era infatti sviluppata a partire dal perfezionamento delle tecniche relative alla formazione delle armature, alla disposizione del fasciame, alla messa in opera del calafataggio dello scafo, alla costruzione degli alberi e alla confezione e all’uso delle vele; soprattutto, la conformazione dello scafo, dal punto di vista costruttivo, era il risultato di conoscenze empiriche derivate dall’esperienza ed espresse tramite disegni e, in qualche caso, anche rappresentazioni geometriche.
La costruzione navale si basava, quindi, sulle acquisizioni empiriche dei costruttori (proti e capi d’opera, ancorati alla tradizione) e su regole di geometria elementare tramandate per via spesso solo orale. Gli stessi autori di manuali tentavano di dare maggiore autorevolezza alla propria attività artigiana, fissando regole e modelli spesso ispirati al metodo del trial and error, con eccellenti risultati.
Per limitarci al 16° e al 17° sec., numerosi sono gli autori che trattano dell’arte della costruzione navale dei quali ci sono pervenute sezioni o anche opere complete che insieme formano un corpus abbastanza cospicuo. Fra i nomi – ma la lista potrebbe essere molto più lunga – ricordiamo: gli italiani Celio Calcagnini, Lilio Gregorio Giraldi e il più noto Bartolomeo Crescenzio; a questi si possono aggiungere Vittore Fausto, Pantero Pantera, Alessandro Picheroni della Mirandola, Stefano de Zuanne de Michiel i cui testi rimasero allo stato di note manoscritte.
Solo nel corso del 18° e 19° sec. si sviluppò una ‘scienza navale’ più articolata che coniugava la navigazione con la costruzione navale inclusiva di tutte le sue parti. In questo periodo i nuovi trattati sul maneggio o manovra delle navi si occupavano anche dell’alberatura, della velatura vista come superficie aerodinamica (si pensi a Jacob Bernoulli e alla sua analisi e costruzione della figura veli vento inflati, cioè della curva velaria, pubblicata nel maggio del 1692 che dimostra l’identità fra velaria e catenaria comune e illustra le principali proprietà geometriche e fisiche delle due curve); tutti questi aspetti contribuirono a formare le norme necessarie a regolare il governo della nave in movimento e a costituire la scienza della manovra che coinvolgeva l’intero corpo galleggiante immerso nel liquido.
Il passaggio della costruzione navale dalla fase empirica a quella scientifica fu imposto dall’aumento dimensionale delle navi e dalla transizione dal legno al ferro e all’acciaio come materiali impiegati nella costruzione. Il processo industriale che caratterizzò questa nuova fase, si affermò in Inghilterra nella prima metà dell’Ottocento sulla base di prove empiriche e in qualche caso sperimentali, indipendentemente dall’associazione dei principi del calcolo alle applicazioni meccaniche.
Il Giardino di ferro
La varietà delle bocche da fuoco era assai vasta ancor prima che si adottasse il sistema della standardizzazione e dell’intercambiabilità delle parti, concetti introdotti molto più tardi da uno dei maggiori esperti di tecnologie militari del 18° sec., l’ingegnere militare francese Jean-Baptiste Vaquette de Gribeauval (1715-1789). Lo sforzo di semplificare e ridurre sia la tipologia delle armi da fuoco sia i calibri è uno dei suoi meriti maggiori che, fra l’altro, ebbe anche un grande successo.
La pionieristica opera innovativa di Gribeauval si allargò anche alle bocche da fuoco di cui migliorò le canne perfezionandone sia la balistica esterna sia quella interna con effetti sulla velocità e sulla traiettoria del proiettile; migliorò le canne anche introducendo la tecnica della costruzione dei cannoni mediante alesaggio: il foro prodotto nella fusione perfezionava ulteriormente la corrispondenza tra le pareti della canna e la palla, regolandone il calibro con le ovvie conseguenze sulle munizioni e le cariche, permettendo un nuovo, decisivo, alleggerimento dell’arma; infine, rese più funzionali gli affusti e tutto ciò che poteva migliorare lo spostamento e la funzionalità di tiro dei pezzi. Le sue innovazioni avviarono la riforma e il rinnovamento dell’artiglieria, peraltro contrastati per le solite gelosie.
L’ostacolo, tuttavia, fu superato sul campo quando si videro, nella battaglia di Valmy (1792), i micidiali effetti dei suoi cannoni fusi in bronzo di 4, 8 e 12 libbre che avevano una gittata con palle piene di circa 800 libbre e di 600 m con carica a mitraglia. Nella stessa battaglia giocarono probabilmente un ruolo anche le granate lanciate da obici da 220 libbre che potevano sparare fino a due colpi al minuto ed essere letali fino a 2000 m di distanza.
Gribeauval descrisse le sue innovazioni nell’opera Tables des constructions des principaux attirails de l’artillerie, pubblicata nel 1776, i cui risultati si intrecciarono con quelli presentati da Gaspard Monge nella Géométrie descriptive, nella quale aveva elaborato il suo metodo prima del 1769, data in cui finalmente gli ufficiali della scuola militare di Mézières furono costretti ad ammetterne la superiorità. L’opera, coperta da segreto militare, fu pubblicata solo nel 1799, ma ancora prima Monge aveva pubblicato la Description de l’art de fabriquer les canons; questo lavoro fu stampato nel 1792, stesso anno dello scritto di John Francis Edward Acton, Regolamento per la fondizione [fusione], e le dimensione de’ pezzi di artiglieria, comandante della flotta navale del Granducato di Toscana e segretario di Stato del Regno di Napoli.
Sulla base di un accurato e originale lavoro di Francesco Caputo (2007), è possibile documentare sia un incontro tra Monge e Acton a Napoli sia una notizia che ci riporta all’Arsenale di Venezia e allo stato dell’artiglieria veneziana coeva. Nel 1775 Acton aveva preso parte, quale comandante di una fregata, alla spedizione congiunta spagnola e toscana allestita contro Algeri da Carlo III re di Spagna, distinguendosi per capacità e coraggio. L’episodio ci consente di fare riferimento all’impresa veneziana di un decennio successivo, culminata nel 1785 con il bombardamento di Sfax in Tunisia a opera di Angelo Emo. Questo successo, verificatosi in seguito alla profonda riforma dell’artiglieria operata da Gribeauval e da Monge, conferma come l’artiglieria veneziana si sforzasse di stare al passo, uniformando il proprio arsenale bellico agli standard svedesi e inglesi, mediante l’impiego del ferro al posto del bronzo, pur mantenendo alla propria artiglieria lo stesso calibro.
Anche la Repubblica risentiva dello ‘spirar’ dei venti nuovi e nel 1757, circa otto anni dopo l’autoesclusione di Venezia dalla pace di Acquisgrana, avvertì la necessità di ridare vita al primo nucleo del Reggimento veneto all’artiglieria affidato al brigadiere Tartagna, già in forza al governo austriaco e, successivamente, al brigadiere Saint-March e al generale James Patisson di origine inglese.
Benché il reclutamento delle truppe repubblicane, dette Schiavoni (la fanteria istriano-dalmata), fosse fatto nei territori oltremarini, è significativo che dopo il 1716, in seguito all’accettazione dell’incarico di generale capo da parte del sassone Johann Mathias der Schoulemburg, s’introdusse la consuetudine di affidare tale carica anche a stranieri: tra questi, vi furono l’olandese Greem e il tedesco Witzbourg. Negli anni successivi, con l’assottigliarsi del bilancio dello Stato per il settore militare, la tendenza si andò consolidando, interrompendosi solo quando fu nominato Savio alla scrittura Francesco Vendramin.
Tra i compiti del Savio alla scrittura c’era non solo la riorganizzazione delle forze armate, ma anche il controllo e l’esazione del contributo imposto all’industria metallurgica bresciana e bergamasca e a quelle estrattiva dell’alto Cadore.
Gli affari militari a Venezia, anche in quest’ultimo scorcio del 18° sec., dipendevano ancora da un Collegio, una sorta di Consiglio dei ministri della Repubblica. Di questo Collegio facevano parte il Savio di Terraferma alla scrittura e il Savio di Terraferma alle ordinanze.
Il Savio alla scrittura, tradizionalmente preposto oltre che alle milizie stanziali anche alle fortificazioni, alle artiglierie, alle scuole militari, in sostanza equivaleva al ministro della Guerra della Serenissima ed era affiancato da un generale in capo che aveva funzioni tecniche (era un militare di professione), mentre il Savio alle ordinanze badava alle Cernide (milizie di Terraferma della Serenissima) ed era una sorta di ministro alla Difesa del territorio.
In questo contesto, il 1° settembre 1759 fu istituito il Collegio militare di Verona con decreto del Senato che prescriveva un piano di studi da compiersi in sei anni. In esso era previsto l’insegnamento delle matematiche pure e miste o applicate «quali sono adatte al matematico e al fisico, abbracciando perciò la meccanica, la balistica, l’idrostatica, l’idraulica, l’ottica, la perspettiva, l’astronomia, l’architettura civile e militare, la nautica e la geografia» (Piano generale degli studi da farsi in un sessennio nel pubblico collegio militare di Verona, 1763).
Il Collegio militare fu affidato alla direzione di Antonio Maria Lorgna (1735-1796), matematico e ingegnere distintosi anche nel campo degli studi idraulici e come promotore e patrocinatore dell’associazione nota come Accademia dei XL che annoverava, tra i fondatori, i maggiori scienziati italiani dell’epoca tra cui Alessandro Volta, Lazzaro Spallanzani, Giuseppe Luigi Lagrange, Ruggero Giuseppe Boscovich.
Il Piano generale del Collegio è un significativo segnale della connessione tra scienza e tecnologia che in Francia, prima e dopo l’impero napoleonico, caratterizzò la svolta illuministica; inoltre, è un segnale eloquente di come, tra Settecento e Ottocento, l’evoluzione della tecnologia, anche quella militare, fosse in stretta correlazione con lo sviluppo della fisica e della matematica.
Il Collegio militare anticipò la creazione di un’analoga scuola per ufficiali di marina istituita nell’Arsenale di Venezia, il cui iter formativo, formulato nel 1777 dall’abate Maffioletti, ripropone lo stesso metodo e l’analogo contenuto per i quadri tecnici della Marina.
In questa seconda metà del 18° sec., poco prima della caduta, sembra riprendere vita l’antico orgoglio della gloriosa Repubblica; protagonista fu il grande ammiraglio Angelo Emo (1731-1792) sotto il dogado di Paolo Renier, che consegnò alla storia l’ultimo grande sussulto d’orgoglio repubblicano.
Emo riuscì ad armare l’ultima vera flotta veneziana formata da cinque vascelli di linea e cinque fregate e soprattutto da alcuni zatteroni assemblabili, vere e proprie batterie galleggianti che lui stesso aveva progettato, su ciascuna delle quali aveva fatto installare due cannoni, un obice e un mortaio da 200 libbre che, nelle battaglie vittoriose di Sfax, Tunisi e Biserta, fecero la differenza, così come era accaduto nel glorioso episodio di Lepanto con le galeazze armate.
Le stesse zattere, vere e proprie batterie blindate, vennero denominate obisiere e bombardiere o cannoniere a seconda dei pezzi che erano sistemati a bordo. In questa occasione furono gli zatteroni e i cannoni ad avere la meglio sulle galere, le imbarcazioni leggere e di scarso pescaggio dei pirati barbareschi.
A quei tempi, in Arsenale, nel reparto fonderie e metallurgia sopravviveva ancora la benemerita dinastia degli Alberghetti, cui si unì l’azione efficace del Savio alla scrittura Vendramin e dello stesso Emo tutti tesi a restituire alla Casa dell’Arsenale una certa efficienza e la volontà di mettersi al passo con i tempi facendo propria la nuova tecnologia delle armi.
Vendramin, al corrente delle innovazioni introdotte da Gribeauval e della riforma che ne era seguita, avrebbe voluto adottarla almeno nelle sue parti più vitali ispirandosi ai criteri che il generale francese aveva raccomandato, ma mancò sia l’energia sia la volontà politica dello Stato.
In questo epilogo merita anche una particolare menzione l’opera L’artiglieria veneta antica e moderna raccolta dal soprintendente all’Artiglieria (2 voll., 1779), scritta da Domenico Gasperoni (Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, B.co st. b. 45). Nella dedicatoria manoscritta anteposta all’esemplare della Biblioteca Querini Stampalia di Venezia (dell’opera esiste un’altra trascrizione nella Biblioteca del Museo storico della Marina di Venezia, ms. G/29), l’anonimo prefatore, probabilmente lo stesso Gasperoni, perora e sollecita l’interessamento del principe Polo (Paolo) Renier, «Uomo Celebre e autorevole», a favorire la pubblicazione a stampa dell’opera in questione divenendone il «Gran Mecenate».
L’opera non ha avuto lo stesso successo toccato alle Mappe dell’Arsenale di Maffioletti, benché l’Artiglieria sia stata concepita con lo stesso intento celebrativo, come dimostrano anche le preziose incisioni in rame di Giuliano Zuliani realizzate per conto di Gasperoni; infatti, è una rara ed esaustiva epitome a futura memoria delle antiche bocche da fuoco in bronzo, di cui si era stato dotato, nel corso di alcuni secoli, l’Arsenale veneziano.
Il Sopraintendente alle artiglierie della Repubblica, sottoposto al Magistrato all’artiglieria a sua volta subordinato al Reggimento all’Arsenal, controllava i ruoli dei fonditori, dei carreri, dei fabbri, dei tornitori e di altre arti e al contempo aveva in consegna il deposito dei cannoni in bronzo e in ferro, delle munizioni, delle bombe, delle polveri e dei servizi a questi sussidiari.
A tale carica burocratico-amministrativa era affidato un notevole numero di bocche da fuoco che comprendevano 24 diversi modelli di cannoni tra bronzo e ferro; 5 modelli di falconetti, 6 di colubrine, 4 di petrieri, 13 di mortai, 3 di obusieri, 3 di obici (obizzi) senza contare il minor calibro e le speciali come gli aspidi, i passa volanti, i saltamartini, i trabucchi, le spingarde, gli organetti e i mortaretti per la prova delle polveri (A.S.V., Delib. Senato Militar, filza 103).
I pezzi esistenti nel periodo considerato, dalla metà fino agli anni Ottanta del 18° sec., erano in Arsenale sulle postazioni e sulle navi, complessivamente, circa 5338 di cui 3713 in bronzo e 1625 in ferro, numero di bocche che, tuttavia, la Serenissima non riusciva ad attivare perché ormai il numero del personale addetto era alquanto ridotto.
In questo periodo il cosiddetto Deposito intangibile collocato dentro l’Arsenale ed esposto nelle Sale d’armi fu ampliato e riordinato nella parte moderna dal soprintendente Patisson e nella parte antica da Gasperoni ancora maggiore d’artiglieria.
Gasperoni fu al servizio del Magistrato alle artiglierie per «46 anni continui» durante i quali ricoprì anche «alcune delle ordinarie ed estraordinarie incombenze da esso lui sostenute senza il menomo Pubblico aggravio, oltre quello della natural paga» (A.S.V., Delib. Senato Militar, filza 103, c. n.n.).
L’armamento ammassato in Arsenale, nei nuovi locali restaurati dal proto Filippo Rossi, in molti casi obsoleto, era del tutto inutile non reggendo il confronto con la maggiore efficacia della più recente artiglieria. Per tale ragione le «Deliberazioni Sovrane» ne decidevano la «rifondita [la rifusione] e vendita delle inutili artiglierie per ridurle in altre di moderno utile uso» (A.S.V., Delib. Senato Militar, filza 103, c. n.n.).
L’opera di Gasperoni, quindi, è strettamente connessa al restauro del deposito d’armi e all’adattamento delle sale d’arme impiegate solitamente a uso espositivo nelle manifestazioni ufficiali allorquando i principi esteri si trovavano a Venezia in visita; nella parte manoscritta del volume si dichiara che Gasperoni
dispose tutti gli altri infiniti e vari generi di ogni qualità, sorte e figura nei rispettivi loro depositi, nei modi più vantaggiosi alla loro preservazione e che presentavano all’ochio dei forastieri più illustri e illuminati il Dipartimento Artigliere come il Giardino dell’Arsenale (A.S.V., Delib. Senato Militar, filza 103, c. n.n.).
Il suo scopo era quello di registrare, a futura memoria, lo stato dell’imponente arsenale bellico che la Repubblica poteva ancora esibire a scopo deterrente e dimostrativo, a testimonianza di una potenza più esibita che reale. Della sua attività si conservano nell’Archivio di Stato di Venezia numerosissime scritture sui più svariati problemi d’artiglieria e l’uso delle polveri esplosive e soprattutto sul problema della nitrificazione di cui descrisse i modi di stratificazione, di depurazione, di cotta, di raffinazione. Inoltre, egli si sofferma sulla nuova organizzazione del corpo, sul funzionamento, sulla disciplina, sul metodo e sull’istruzione del corpo degli artiglieri. Con lo stesso spirito si dedicò alla traduzione di testi specialistici sull’argomento.
Nel campo della balistica, per incarico di Emo, formulò alcune regole per ottenere una maggiore precisione di tiro dei cannoni installati sulle navi anche quando le cariche si fossero dimostrate deboli o difettose; inoltre si adoperò alla diffusione, tra i capitani delle bombarde, del trattato di balistica Le bombardier françois (1731) di Bernard Forest de Bélidor (1698-1761).
Gasperoni, inoltre, approfondì con argomentazioni scritte e disegni l’uso di pesanti pietriere da 500, rispetto alle comuni batterie da 30 e 40, utilizzate da Emo nella guerra di Tunisi; questa fu l’ultima occasione per la ripresa dell’attività fusoria da tempo sospesa, realizzando cannoni sia in bronzo sia in ferro con una produzione allineata a quella del resto d’Europa.
Le tecnologie nell’Arsenale e nei cantieri navali della marina
I decenni che vanno in particolare dall’Unità d’Italia fino alla Prima guerra mondiale sono quelli che presentano maggiore interesse dal punto di vista del patrimonio storico della tecnica e dell’industria. L’Arsenale veneziano postunitario è visto ancora come una struttura architettonica e ciò non sempre fa intravedere l’articolazione della produzione tecnica introdotta a partire degli anni Ottanta del 19° secolo.
Pur sotto il comune denominatore del legno e della sua particolare tecnologia di lavorazione, la nuova tipologia navale in ferro imponeva delle differenziazioni nel campo delle soluzioni innovative, tecniche, dell’organizzazione del lavoro e via dicendo.
L’Arsenale postunitario operativo fino al secondo dopoguerra si differenzia per la sua attività specifica di stabilimento industriale, provvisto di macchine e cuore di un sistema produttivo la cui durata è stata più effimera di quella degli edifici contenitori.
La stessa costruzione navale in ferro è il risultato complesso di molte tecniche, ma anche il frutto di saperi e conoscenze tecnico-scientifiche, che vanno dalle competenze metallurgico-meccaniche a quelle artigiane per la creazione dei prodotti di completamento e perfino d’arredo: dalle ancore, alle vele, al cordame, alle dotazioni di bordo e così via.
Anche l’Arsenale di questo periodo conserva, come l’antico, il carattere di «popoloso recinto di tutte quelle arti e di tutti que’ studi che costituiscono l’essenziale della marina» per riprendere la già citata definizione di Maffioletti. Ciò vuol dire che esso continuò a mantenere, fino ai tempi più recenti, il suo carattere di sede di un certo numero di arti e di tecniche che confluirono a formare una sorta di Enciclopedia delle tecniche.
Le finalità dei complessi arsenalizi moderni creati ex novo o riconvertiti, come nel caso di quello veneziano, alla moderna produzione navale in ferro costituiscono anche un indizio assai significativo di come l’inizio della moderna industrializzazione fosse un effetto della razionalizzazione delle varie tecniche di una specifica filiera produttiva. Ferma restando la finalità univoca degli arsenali militari della marina tra le due guerre mondiali del secolo scorso, il nuovo Arsenale veneziano, nelle dichiarate intenzioni del principale ispiratore e programmatore (la marina militare) avrebbe dovuto svolgere un compito importante e innovativo nel campo della costruzione e dell’armamento navale per conferire all’intera industria un notevole impulso.
Nel considerare l’industria navale come elemento trainante dell’industria moderna, è necessario rilevare che l’introduzione e l’uso innovativo delle strutture metalliche avvennero in Inghilterra già dalla fine degli anni Trenta dell’Ottocento quando la costruzione navale e quella delle grandi strutture metalliche a uso civile contrassero debiti e crediti reciproci: la costruzione di grandi navi metalliche non sarebbe stata possibile senza la sperimentazione di strutture metalliche di grande luce. Vi fu uno scambio tra i due settori favorito dal rapido evolversi delle macchine propulsive e dallo sviluppo dei motori a vapore, il cui aumento di potenza apparve subito legato alla necessità di ridurre volume e ingombro. La riduzione dimensionale delle macchine in rapporto all’aumento di potenza e prestazione è uno degli elementi cardine dell’innovazione e della specializzazione: si pensi alla sostituzione di motori a vapore di prima e seconda generazione con macchine più potenti, più compatte e di dimensioni più contenute rispetto alle precedenti.
Nonostante lo sforzo di adeguare la produzione dell’Arsenale agli standard europei, il processo di crescita fu lento sia per ragioni di carattere economico sia per i limiti intrinseci.
Le tipologie di macchine introdotte nell’allestimento delle officine (torni, universali o meno, trapani, fresatrici, scanalatrici stoccatrici) non furono di ultima generazione; valga l’esempio del maglio installato in Arsenale per fucinare riadattato con una piattaforma d’ancoraggio per aumentarne il tonnellaggio.
Lamiere e lamieroni e le diverse parti destinate alla costruzione della nave, prodotte e realizzate nei nuovi altiforni ubicati presso le Galeazze e Nappe, dovevano compiere diversi passaggi prima di essere messe in opera; il materiale grezzo e semilavorato proveniva anche dall’esterno: per es., le corazze montate a Venezia provenivano dalle acciaierie di Terni, punto di riferimento per tutti gli Arsenali del Regno.
Occorre però sottolineare l’autonomia della stessa marina che sperimentava le corazze con prove in proprio e stabiliva i parametri da rispettare nella fornitura di prodotti di acciaio fuso. Per la nave Ferruccio, apprendiamo che una fonderia milanese fornitrice dell’acciaio doveva consegnare il materiale semilavorato attenendosi però alle caratteristiche meccaniche imposte i cui valori, per la carica di rottura e per l’allungamento, dovevano essere compresi entro i parametri stabiliti dalle istruzioni tecniche della marina (i limiti dovevano essere contenuti entro gli indici prescritti che erano: R=40, A=15%; ed R=80).
Generalmente, la Direzione dell’arsenale committente forniva alle fonderie esterne, munite di macchine più aggiornate e personale specializzato, i modelli e gli stampi per la fusione di prodotti e componenti della nave; questi sono ancora reperibili nell’Arsenale veneziano, ma in numero maggiore e meglio conservati si trovano a Taranto.
I prodotti di acciaio fuso, greggi, ma perfettamente sbavati, da fondere negli stampi forniti dagli arsenali erano: piastroni per sottobasi di cannoni, cubie ordinarie per ancore complete di brida interna ed esterna, bittoncini e guardatonneggi semplici e doppi, ma anche parti accessorie destinate all’arredamento, eliche e altre componenti meccaniche.
In questa fase altre componenti furono invece poste in fusione all’interno dello stesso Arsenale veneziano; tra queste troviamo: manicotti semplici per passaggio delle catene delle ancore (in un solo pezzo e in due pezzi), queste ultime da riunirsi con chiavarde; diversi sostegni a mensola; manicotti accessori per ombrinali; forchette per alberi da carico; tubi a gomito per ombrinali e scarico latrine; tubi con innesto per una tubatura laterale; tubi a gomito per ombrinali con innesto di due tubature laterali.
Per quanto riguarda la formatura e il tipo di fusione impiegato nella modellazione di singoli pezzi meccanici ridotti alla forma e alle dimensioni occorrenti, occorreva valutare attentamente in tale procedimento gli effetti del coefficiente di contrazione dei vari tipi di metallo, tenendo presente che, nella solidificazione, si verifica un aumento di volume di cui il modellista deve tener conto.
Il materiale impiegato per gli stampi era il legno (tiglio, iermolo con nervature di legno forte) verniciato in vari colori per renderne liscia la superficie e indeformabile al contatto con il calore o l’umidità; vari colori poi erano impiegati in funzione dei metalli utilizzati nella fusione.
Lo stampo conferiva ai metalli impiegati nella colata la ‘forma’ voluta che, una volta ottenuta, si doveva sottoporre alla completa essiccatura in apposite stufe per evitare le soffiature, in modo da essere pronto, a raffreddamento avvenuto, per la scassettatura o distaffaggio che era la fase in cui il getto veniva tolto dalla sua armatura o staffa e sottoposto alla sterratura, mediante sabbiatrici, per eliminare l’eventuale terra ancora aderente. Da ultimo, veniva effettuata la sbavatura per l’asportazione del metallo infiltratosi nelle sconnessure durante la colata. Bisognava ottemperare a questi importanti requisiti con molta perizia, se si voleva ottenere un buon prodotto.
Tuttavia, l’impiego dei modelli o stampi era un sistema molto costoso che gli impianti metallurgici installati all’interno dell’Arsenale avevano avuto tutto l’interesse a eliminare, soprattutto nella fusione di ‘grossi pezzi’, per i quali fu introdotto un nuovo sistema cosiddetto a bandiera o a chablon (braccio girevole).
Altre operazioni erano svolte all’interno dell’Arsenale di cui però non rimane traccia; sappiamo con quali metodi fosse eseguita la fucinatura, ossia il procedimento mediante il quale il metallo trattato subisce una contrazione dell’1-2%. Essa può essere effettuata in vari modi:
a) mediante martello, detto maglio, a movimento circolare alternato; nell’Arsenale veneziano, oltre a quello più pesante montato nell’edificio detto appunto del ‘maglio’, ubicato nel piazzale dei bacini di carenaggio, in prossimità dei primi due bacini, ve ne erano altri di mole assai minore impiegati anche nelle operazioni svolte manualmente. Il maglio era costituito da una trave di un certo spessore vincolata a un perno che fungeva da fulcro della leva la cui estremità era dotata di massa battente che si muoveva generalmente in verticale per lavorare i pezzi ancora incandescenti.
b) mediante vere e proprie macchine dette anche queste magli, recanti una propria ‘mazza’ azionata però in linea retta dall’alto verso il basso con un movimento rettilineo alternato. Questo tipo di maglio ha varie denominazioni a seconda della modalità con cui è posto in azione: a vapore, a leva, a frizione e così via.
Gli strumenti di fucinazione furono via via aggiornati con fucinatrici di nuova generazione che erano vere e proprie macchine per forgiare (a stampo, limitato al ricalco ecc.) più che per fucinare, o macchine usate per flangiare. A queste si vennero ad aggiungere le presse che funzionavano appunto a pressione. Un solo colpo di pressa equivaleva a numerosi colpi di maglio. Le presse si adoperavano per la fucinatura di grossi pezzi come gli alberi di eliche, lamiere per gli scafi e così via. Facevano parte di questa tipologia di macchine le chiodatrici impiegate nella ribattitura dei chiodi nelle lamiere. Presse e chiodatrici funzionavano con il ricorso a varie forme di energia.
Nei documenti da noi consultati e nel testo di Felice Martini (1877-1898), si fa cenno a un laminatoio presente nell’edifico della Galeazza dell’Arsenale di Venezia. I laminatoi sono apparecchi complessi e, in assenza di una precisa descrizione del modello in uso a Venezia, possiamo ipotizzare che fosse del tipo a cilindri (2+2) disposti paralleli e provvisti ai due lati estremi di meccanismi, i quali davano luogo a un movimento che si sviluppava in direzione opposta.
I cilindri erano probabilmente sostenuti da un telaio mediante il quale costituivano la ‘gabbia’; l’insieme di due o più gabbie formava il ‘treno di laminazione’ e l’unione di due o più treni, il laminatoio vero e proprio. Non siamo in grado di dire quanti treni fossero operanti né stabilire la loro tipologia e cioè se fossero treni per lingotti di puddellatura, per ferri sagomati o per lamiere; tuttavia, la varietà delle esigenze da soddisfare nella costruzione degli scafi richiedeva tutte queste funzioni. Qualunque fosse il tipo dei treni, siamo certi che erano alimentati dalla forza del vapore e la prova di ciò è costituita dall’impianto di caldaie a vapore.
Masselli e lingotti per essere laminati venivano portati al color rosso arancio e al bianco saldante per poter procedere allo schiacciamento e all’eliminazione delle scorie: questa operazione si svolgeva nel vicino altoforno; il forno doveva essere o a riverbero o del tipo Martin-Siemens, di più largo impiego perché con questo modello si riuscivano a fondere i molti rottami presenti in Arsenale. Con il laminatoio era possibile conferire al ferro le forme più diverse o almeno realizzare quelle di più largo uso ai fini della costruzione navale.
Non sappiamo con certezza se avvenisse anche l’operazione di trafilatura e se si producesse il filo laminato, mentre vi era un’apposita officina per la fabbricazione di tubi. Anzi, era questa una lavorazione che in Arsenale aveva luogo in un’officina che metteva insieme una doppia specialità: quella dei ramieri oltre che dei tubisti.
I tubi prodotti in Arsenale erano ottenuti per laminazione, vale a dire per strisce di lamiera aventi lunghezza pari a quella del tubo in modo da corrispondere allo sviluppo periferico di esso; tuttavia, oltre che con questo sistema i tubi potevano essere prodotti anche con altri procedimenti. Il tipo di saldatura era quella autogena ossidrica oppure ossiacetilenica (a cannelli mediante l’acetilene) molto usata per il ferro, la ghisa e per il taglio dei metalli.
Oggi, a parte il vuoto desolante di questi locali alcuni dei quali consolidati e con il tetto, altri invece pericolanti e quasi del tutto scoperchiati, è possibile vedere solo le forge a cappello di doge dove avveniva la fucinatura manuale. In definitiva, ci sembra di dover costatare che nell’Arsenale di Venezia l’aggiornamento tecnologico nel campo della metallurgia e della meccanica segua l’indirizzo adottato negli arsenali degli altri due dipartimenti, senza avere però la complessa articolazione riscontrabile soprattutto a La Spezia. Sull’innovazione tecnologica apportata dalla costruzione navale italiana, specie per quanto riguarda gli scafi e la struttura della nave, sono noti i geniali contributi di Benedetto Brin (1833-1898), per merito del quale l’Italia, nel periodo postunitario, si pose all’avanguardia in Europa.
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Sull’attività degli Alberghetti si vedano:
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V. Avery, State and private bronze foundries in Cinquecento Venice: new light on the Alberghetti and di Conti Workshops, in Large bronzes in the Renaissance, Proceedings of the symposium, Washington (15-16 October 1999), ed. P. Mottura, Washington 2003, pp. 241-75.
Entrambi questi studi correggono l’albero genealogico, sostanzialmente inesatto, della famiglia Alberghetti pubblicato nel Dizionario biografico degli Italiani (1° vol., Roma 1960, ad vocem).