L'arte e la riforma ecclesiastica tra XI e XII secolo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La riforma ecclesiastica tra XI e XII secolo implica un rinnovamento delle strutture ecclesiastiche e un’affermazione politica della Chiesa nei confronti dell’impero. Per la produzione artistica non vi sono direttive ufficiali, ma si possono riscontrare influenze e riflessi della riforma sulle opere di committenza dei riformatori. La produzione artistica di Montecassino ai tempi dell’abate Desiderio, di Salerno all’epoca del vescovo Alfano e di Roma tra XI e XII sec., caratterizzata dal recupero di elementi stilistici e iconografici paleocristiani, è considerata espressione degli ideali della riforma. Segni e influssi evidenti si ritrovano anche nella produzione manoscritta: accanto alle cosiddette Bibbie Atlantiche, andranno ricordati i manoscritti legati alla contessa Matilde di Canossa e all’ordine cluniacense, protagonista della diffusione degli ideali della riforma in ambito monastico e liturgico su scala europea.
Nell’XI secolo il papato intraprende una vasta opera di riforma della Chiesa, che va spesso sotto il nome di riforma gregoriana: Ildebrando di Soana, ex-monaco di Montecassino, divenuto papa con il nome di Gregorio VII, ne è infatti uno dei principali protagonisti. Il fenomeno della riforma ecclesiastica si estende, tuttavia, oltre i limiti cronologici del pontificato di Gregorio VII e comprende una fase precedente, che si fa iniziare con il pontificato di Leone IX, e un periodo di ricezione e messa a punto dei nuovi orientamenti, che giunge fino al pieno XII secolo.
Sono gli imperatori del Sacro Romano Impero di nazione germanica che, di fatto, danno il via al movimento di riforma: una rinnovata auctoritas della Chiesa di Roma è infatti loro utile a rinsaldare la loro politica di controllo sui grandi principati ecclesiastici italiani e tedeschi. Nel 1046, quando tre papi si disputano la tiara, l’imperatore Enrico III scende in Italia ed elimina i tre contendenti, imponendo successivamente tre pontefici tedeschi, che si dedicano al compito di riforma e riorganizzazione della Chiesa: essi finiscono tuttavia per andare oltre le intenzioni iniziali dell’imperatore e la loro opera innesca un processo di riequilibrio delle forze in favore di Roma. Leone IX, sebbene ancora vicino alla politica imperiale, riesce a imporre alcune delle sue scelte e si rivela particolarmente attivo: per la prima volta, vestito da pellegrino, un papa si muove per andare ad applicare sul posto le decisioni dei concili (come quelli di Reims e Magonza, nel 1049). Un’altra tappa fondamentale sulla via dell’indipendenza della Chiesa viene raggiunta con Niccolò II, il quale attribuisce un ruolo fondamentale ai cardinali nell’elezione papale, sottraendo quindi potere alla decisione imperiale.
Quando Gregorio VII sale al soglio pontificio, ha già una lunga esperienza politica nel campo: ha infatti accompagnato i quattro papi che l’avevano preceduto, esercitando la sua influenza nella curia già dal 1048. Nel 1075, il suo Dictatus Papae, vero e proprio programma di governo, lascia poco spazio all’iniziativa imperiale. La questione delle investiture ecclesiastiche è all’origine di un conflitto con l’imperatore, privato dal papa del diritto di concedere le cariche episcopali. Negli anni seguenti, si accende, inoltre, in Italia del Nord, una lunga e difficile guerra tra l’imperatore e Matilde di Canossa, alleata di Gregorio VII e appoggiata da molte città settentrionali in lotta con l’impero per la loro indipendenza. L’intransigenza della politica gregoriana apre la via a un atteggiamento fermo dei papi successivi: il pontificato di Urbano II, ex-priore di Cluny, pacifico nei confronti dell’imperatore, viene caratterizzato dalla predicazione della prima crociata; con Pasquale II, si riapre lo scontro con l’imperatore Enrico V, ma la soluzione di compromesso trovata da Callisto II viene infine sancita dal concordato di Worms (1122) e ratificata dal primo concilio del Laterano (1123).
La riforma lascia tracce profonde in diversi campi. Le due forme di corruzione più diffuse, come la simonia (vendita e acquisto delle cariche ecclesiastiche) e il nicolaismo (concubinato degli ecclesiastici) vengono combattute con successo. I chierici, incoraggiati a forme di vita comune, formano congregazioni di canonici regolari, di fatto inseriti nella gerarchia secolare, ma aderenti a regole di vita monastiche. Il nuovo impulso dato al diritto ecclesiastico porta alla compilazione del Decreto di Graziano, la raccolta di diritto canonico che, messa a punto intorno al 1140, resta di fatto in vigore fino al 1917.
Nel complesso, la riforma ecclesiastica implica un rinnovamento morale e istituzionale delle strutture ecclesiastiche (secolari e regolari) e un’affermazione politica della Chiesa nei confronti dell’impero. Il bilancio generale è dunque, alla fine del processo, molto positivo per la Chiesa, che, nel XII secolo, si trova a essere un’istituzione dalla fisionomia definita e centralizzata, in grado di concorrere, per autorità e prestigio, con le monarchie europee nascenti.
Diversi studi sono stati dedicati alla ricerca di eventuali riflessi della riforma nell’arte coeva. Tuttavia, va notato che, mentre le gerarchie ecclesiastiche riformano i costumi, le forme di vita cenobitiche, la liturgia, il diritto, e procedono persino a una nuova edizione della Bibbia, nei loro scritti non è possibile rintracciare prescrizioni che consentano di ricostruire una teoria artistica sistematica. Certo, i riformatori si esprimono a volte sull’arte, in linea con quanto accade durante tutto il Medioevo. Bruno di Segni, per esempio, loda la ricchezza dei materiali che devono ornare la casa del Signore: si tratta di una tòpos antico, che ha, tra gli altri, dei precedenti in Venanzio Fortunato. Sempre Bruno di Segni riprende, rielaborandola, l’idea di immagini che convertono e che “insegnano”, idea in precedenza espressa da papa Gregorio Magno, rievocata poi in ambito carolingio e riformulata da Gerardo, vescovo di Cambrai, negli anni 1025-1030.
Affermazioni più originali si riscontrano invece in un passo di Pier Damiani, il quale, in una lettera indirizzata a Desiderio di Montecassino, spiega il motivo per cui nelle immagini di tutte le zone adiacenti a Roma, Pietro, a dispetto del suo primato, sia rappresentato a sinistra di Cristo, mentre Paolo compaia a destra. La lettera attesta il precoce interesse, nell’XI secolo, per una formula iconografica legata al tema del primato di Pietro, di importanza primordiale nel periodo della riforma. L’affermazione di Pier Damiani è tuttavia una giustificazione a posteriori di una formula iconografica attestata sin dall’epoca paleocristiana, più che una prescrizione da applicare nell’arte contemporanea. Degna di nota è infine anche la testimonianza di Leone Marsicano, che dedica un lungo passo della sua Cronaca di Montecassino alla descrizione e celebrazione della costruzione, da parte dell’abate Desiderio, della chiesa di San Benedetto. Malgrado queste sporadiche allusioni a diversi aspetti dell’arte, in assenza di direttive unitarie di sorta, non risulta comunque corretto usare l’espressione di “arte riformata” per l’arte legata agli ambienti riformatori dell’XI e XII secolo: passata di fatto nella storiografia, è questa in realtà un’espressione impropriamente presa a prestito dal periodo storico della Controriforma, quando l’arte è oggetto di una precisa regolamentazione (basti ricordare le direttive che i Gesuiti danno per la costruzione delle chiese dell’ordine e il decreto della XXV sessione del concilio di Trento, nel dicembre 1563, sull’uso e il contenuto delle immagini sacre).
Per analizzare i riflessi che la riforma ha concretamente sull’arte, non resta dunque che analizzare direttamente le opere di presumibile committenza dei riformatori o di personaggi a loro vicini. La ben documentata committenza di Desiderio, abate di Montecassino tra il 1058 e il 1086, è stata considerata da molti studiosi come espressione degli ideali della riforma: l’adesione a questi ideali si manifesterebbe attraverso un preciso richiamo alle forme architettoniche antiche. Nella ricostruzione della chiesa dell’abbazia di Montecassino (1066-1071), per la cui decorazione l’abate ricorre anche a maestranze costantinopolitane, Desiderio adotta quindi una pianta basilicale a 5 navate con transetto, simile a quella dell’antica San Pietro. Purtroppo, tuttavia, non sappiamo molto di più di questa basilica, distrutta da un terremoto nel 1349.
Desiderio prende a prestito altri elementi dell’antica basilica martiriale romana per un’altra chiesa legata alla sua committenza: la chiesa di Sant’Angelo in Formis, ove l’abate è rappresentato con il modellino della chiesa negli affreschi del cilindro absidale e citato in un’iscrizione dell’architrave del portale. Gli affreschi della navata centrale rappresentano scene della vita di Cristo, mentre nelle navate laterali trovano posto scene dell’Antico Testamento. La scelta di rappresentare scene dell’Antico e del Nuovo Testamento sulle due pareti della navata viene fatta risalire alla volontà di ispirarsi alle antiche basiliche romane di San Pietro e di San Paolo fuori le mura, le quali saranno prese a modello, nel XII secolo anche da altre chiese del centro Italia, come San Pietro ad Montes, presso Caserta, e Santa Maria Immacolata a Ceri, presso Roma. L’ispirazione a modelli artistici paleocristiani, e soprattutto all’antica San Pietro, è stata interpretata come volontà di rifarsi, anche nelle scelte artistiche, alla Chiesa delle origini; tale orientamento prende tuttavia senz’altro linfa dalle strette relazioni politiche che l’abate intrattiene con Roma: lo stesso Desiderio, del resto, diviene papa, nel 1086, con il nome di Vittore III.
Parallelamente alla committenza dell’abate di Montecassino, va considerata quella di Alfano, vescovo di Salerno dal 1058 al 1085. La cattedrale da lui commissionata, consacrata da papa Gregorio VII nel 1084, presentava verosimilmente nel perduto mosaico absidale lo stesso vescovo insieme al pontefice riformatore. L’arco trionfale presenta invece figure di profeti, inaugurando una moda che avrà largo seguito anche a Roma nei decenni immediatamente successivi (arco trionfale di San Clemente, di Santa Maria in Trastevere e di Santa Maria Nova). Le sculture della cattedrale, tra cui, soprattutto, l’architrave della cosiddetta Porta del Paradiso, presentano temi moralizzatori, in linea con le riflessioni dei riformatori.
Anche a Roma e nei dintorni, è stata evidenziata, nell’arte del periodo, la ripresa di modi stilistici, schemi decorativi e formule iconografiche paleocristiane. Schemi decorativi paleocristiani sono imitati negli affreschi della cappella dietro il catino absidale della chiesa di Santa Pudenziana sull’Esquilino (fine XI secolo), della chiesa di San Nicola in Carcere e della basilica di Sant’Anastasio a Castel Sant’Elia (Viterbo).
Il ricorso a moduli iconografici e stilistici paleocristiani attuato in tutti questi casi sarebbe, secondo una corrente di pensiero, il parallelo artistico di un ritorno alla purezza di costumi della Chiesa primitiva (Ecclesiae primitivae forma) preconizzato dai riformatori. È stato tuttavia notato che l’arte paleocristiana è stata fonte di ispirazione artistica in altri periodi storici (basti pensare alla cosiddetta “rinascenza carolingia”) e che la ripresa di modelli antichi è ben lungi dall’essere esclusiva dell’XI secolo. A questa constatazione si aggiungono anche i numerosi problemi legati alla committenza delle opere del periodo in esame.
Si pensi agli affreschi della già citata Santa Maria in Ceri, scoperti negli anni Ottanta: Pietro da Porto, indicato dagli studi recenti come probabile committente delle pitture, dopo una carriera molto vicina ai papi riformatori come Pasquale II e Callisto II, si pone, nel 1130, dalla parte dell’antipapa Anacleto II.
Il fatto che le pitture, le quali si ispirano al modello dell’antica San Pietro, siano state considerate frutto della temperie artistica connessa alla riforma, non è paradossale. All’epoca, i due partiti papale e filo-imperiale perseguono gli stessi obiettivi di riorganizzazione dell’istituzione ecclesiastica che essi vogliono entrambi controllare e la contrapposizione politica conosce molte più sfumature di quanto la storiografia abbia lasciato intendere. Allo stesso modo, a fronte della corrente storiografica che considera gli affreschi della chiesa inferiore di San Clemente come esemplari dell’adozione di stile e schemi decorativi antichi, “tipici” dell’arte “della riforma”, alcune proposte recenti ventilano, in realtà, la possibilità che si tratti di una committenza del partito antigregoriano.
Negli Anni Settanta dell’XI secolo, il cardinale titolare di San Clemente è infatti Ugo Candido, del partito imperiale, che continua normalmente le sue funzioni anche dopo le ripetute scomuniche ricevute da Gregorio VII. Certo, Gregorio VII sembra aver provveduto a eleggere un nuovo cardinale titolare di San Clemente subito dopo la prima scomunica di Ugo nella persona di Rainerius, futuro papa Pasquale II, ma l’ipotesi che la costruzione della chiesa inferiore, affrescata con scene della vita del santo eponimo dell’antipapa Clemente III, sia stata commissionata proprio dal cardinale filoimperiale, non è impossibile. Nell’ultimo ventennio dell’XI secolo (anni a cui dovrebbero datarsi gli affreschi), la maggior parte delle famiglie romane, anche committenti di opere d’arte, appoggiava infatti l’antipapa Clemente III. È costui, di fatto, che risiede a Roma tra il 1080 e il 1100, anno della sua morte, esercitando normalmente le sue funzioni. In questo periodo, i pontefici in seguito considerati “ufficiali” alternano brevi tumultuosi soggiorni nella capitale a precipitose fughe in vari possedimenti nei dintorni. L’arcano dell’interramento della chiesa più antica di San Clemente, seguito immediatamente alla sua costruzione e che, per quanto sia consentito appurare, non è causato da incidenti o catastrofi naturali, troverebbe così una naturale soluzione in una damnatio memoriae diretta al suo committente.
Malgrado tutti gli interrogativi che la definizione di un’arte “della riforma” pone agli studiosi, non andranno tuttavia dimenticate le opere e le invenzioni iconografiche che, a Roma, sembrano interpretare gli interessi e i dibattiti dell’epoca. La tavola del Giudizio universale (metà XI secolo), oggi ai Musei Vaticani, sembra coniugare il tema apocalittico a concreti rinvii alla diplomatica dell’epoca: essa rievoca, nell’immagine di Cristo, la formula iconografica del sigillo dell’imperatore Enrico III, mentre la forma stessa della pala è riconducibile alla Rota, introdotta come sigillo di documenti papali dal papa Leone IX, nel 1049. Da un punto di vista più generale, sembra possibile rintracciare, nella pittura monumentale romana del periodo, una maggiore insistenza sull’illustrazione di vite di alcuni santi particolarmente venerati per la loro castità, come sant’Alessio (affreschi della chiesa inferiore di san Clemente) e santa Cecilia (affreschi di Santa Cecilia in Trastevere, scene del perduto ciclo Sant’Urbano alla Caffarella, affreschi della cappella retroabsidale di Santa Pudenziana). La figurazione della vigna-acanto-Chiesa, che nasce dalla base della croce di Cristo e che occupa tutto il catino absidale della chiesa di San Clemente a Roma, è, infine, il potente simbolo dell’affermazione della Chiesa e un’icastica rappresentazione del nuovo vigore che l’istituzione centralizzata acquista, dal suo centro, fino alle sue componenti “periferiche”.
Riflessi della riforma ecclesiastica sull’arte sono stati cercati anche nella produzione artistica del territorio controllato dalla contessa Matilde di Canossa. Le testimonianze architettoniche sono purtroppo scarse e non ci consentono per esempio di indagare le modalità con cui gli ambienti per la vita cenobitica sono aggiunti a centri parrocchiali, contestualmente alla formazione dei nuovi gruppi dei canonici regolari.
Nell’ambito della produzione legata alla contessa, le tracce più chiare degli ideali della riforma si ritrovano nella produzione manoscritta, di cui l’evangeliario conservato a New York (Pierpont Morgan Library, ms. 492), realizzato alla fine dell’XI secolo, molto probabilmente nel monastero di San Benedetto al Polirone, è uno splendido esempio. Il monastero di San Benedetto al Polirone è legato, sin dalla sua fondazione, nel 1007, alla famiglia dei conti di Canossa e, dal 1092, comincia a ricevere cospicue donazioni anche da parte della contessa Matilde. Secondo una leggenda non confermata, anche il manoscritto in questione sarebbe stato donato al monastero dalla stessa contessa Matilde di Canossa. Nell’illustrazione dell’evangeliario, alcune scene, suscettibili di incarnare valori esaltati negli scritti dei riformatori, sono messe in particolare evidenza.
È il caso per esempio dell’illustrazione della scena evangelica di Pietro che taglia l’orecchio a Malco, in margine alla scena della Cattura di Cristo. In fondo alla pagina, Pietro afferra con veemenza la chioma di Malco e procede all’offesa: come è stato convincentemente proposto, l’immagine potrebbe far allusione al diritto rivendicato da Johannes Grammaticus, che, nel Commentario al Cantico dei Cantici dedicato a Matilde di Toscana, giustifica pienamente l’uso del gladio, simbolo del potere temporale, da parte di Pietro. Nelle immagini, Pietro è immediatamente al di sotto di Cristo; il suo gladio è, non a caso, contrapposto alle armi dei soldati che procedono alla cattura, contrassegnate dalla scritta SPQR, probabilmente allusiva all’impero. Nell’evangeliario, altre scene incarnano valori della riforma: ampio spazio, in questo senso, è riservato alla scena della cacciata dei mercanti dal Tempio, probabile allusione alla lotta che i papi intraprendono contro la simonia.
Il codice della Vita Mathildis (Biblioteca Vaticana, Vat. lat. 4922), contenente la biografia della contessa scritta da Donizone, presenta invece, al termine di una sequenza di immagini che rappresentano i conti di Canossa, una miniatura direttamente ispirata a uno dei fatti più salienti della lotta per le investiture: la resa dell’imperatore Enrico IV a Canossa.
L’episodio risale al 1077, quando, a seguito di una scomunica che mette in crisi la sua già fragile autorità sui suoi feudatari tedeschi, Enrico IV è costretto ad arrendersi. Recatosi al castello della contessa Matilde, alleata di Gregorio VII, chiede al papa la revoca della scomunica: attende, secondo le cronache dell’epoca, tre giorni e tre notti all’addiaccio, esposto al freddo dell’inverno appenninico, vestito da penitente, prima di essere introdotto nel castello, ove, grazie all’intercessione di Matilde e di Ugo di Semur-en-Brionnais, abate di Cluny, è infine reintegrato nella Chiesa. Nella miniatura, Enrico IV è in ginocchio, in primo piano, davanti all’abate di Cluny Ugo, seduto su una sedia curule, e a Matilde, parata in sontuosi abiti e regalmente seduta sotto un’arcata.
L’ordine cluniacense, di cui fa parte l’abate Ugo rappresentato nella miniatura, ha un importante ruolo nella riforma: i monasteri dell’ordine, dipendenti direttamente dal papa, sono importanti centri di diffusione della riforma monastica e liturgica su scala europea e contribuiscono così alla centralizzazione della Chiesa di Roma. Se per tutto l’alto Medioevo è prassi diffusa e largamente accettata che al controllo di abbazie e dei loro patrimoni siano promossi parenti di potenti laici o ecclesiastici, Cluny, nell’XI secolo, diviene un esempio di religiosità e di funzionalità proprio grazie alla sua autonomia da qualsiasi forma di potere ecclesiastico o temporale, con la sua esclusiva sottomissione al papa. Alcune opere legate a Cluny esprimono la posizione dell’ordine su questo punto. Così, ad esempio, la Vita sant’Ildefonso nel manoscritto 1650 della Biblioteca Palatina di Parma, miniato nello scriptorium di Cluny intorno al 1100, diventa un’occasione per trattare una questione contemporanea scottante: Ildefonso, vescovo di Toledo nel VII secolo, vestito in abiti monacali, è infatti da intendersi come prefigurazione dei monaci-vescovi cluniacensi presenti in Spagna all’epoca della Reconquista. Le miniature traducono dunque le aspirazioni dell’ordine di sfuggire al controllo dei vescovi ispanici, per dipendere esclusivamente dal papa. Lo stesso messaggio di esclusiva dipendenza dell’ordine cluniacense dalla Chiesa di Roma sembra veicolato anche dalla Traditio Legis affrescata nell’abside di Berzé-la-Ville, in Borgogna, databile anch’essa all’inizio del XII secolo (ante 1109).
Infine, una particolare attenzione nell’ambito dei manoscritti miniati meritano le cosiddette Bibbie Atlantiche: si tratta di manoscritti di grande formato (gli esemplari più grandi superano a volte i 600 x 400 mm) contenenti la revisione della Bibbia elaborata dai riformatori. I primi codici, realizzati a partire dalla metà dell’XI secolo, vengono prodotti nel Lazio, ma la nuova edizione della Bibbia riscuote da subito un grande successo in alcuni importanti centri monastici europei. I prelati Gebhard di Salisburgo, Federico di Ginevra e lo stesso imperatore Enrico IV, che ne fa dono all’abbazia di Hirsau, sono tra i potenti che hanno patrocinato e incoraggiato la trascrizione di tre fra le prime Bibbie Atlantiche (Admont, Stiftsbibliothek, C-D, ante 1088; Genève, Bibliothèque publique et universitaire, lat. 1, metà XI sec.; Munich, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 13001, 1070 ca.). L’apparato decorativo e iconografico delle Bibbie Atlantiche è molto vario. I codici figurati presentano evangelisti e profeti, spesso a decorare l’incipit dei rispettivi libri biblici. In alcune scene, tuttavia, è esplicito un valore simbolico: tra le figurazioni più frequenti c’è la scena di Giuditta che decapita Oloferne, che può essere interpretata come la Chiesa che trionfa sui suoi nemici, sulla base di un parallelo già formulato da Rabano Mauro nel IX secolo.
L’ipotesi è avvalorata dal fatto che le Bibbie carolinge sono tra le fonti di ispirazione delle Bibbie Atlantiche e che un ciclo miniato nella Bibbia di Carlo il Calvo, conservata nell’abbazia di San Paolo fuori le mura, insiste proprio sul parallelo tra Giuditta e la Chiesa.
Le complesse e a volte controverse vicende storiche legate alla riforma ecclesiastica dell’XI e XII secolo lasciano dunque molte tracce di segno diverso nell’arte. A conclusione delle osservazioni fatte, va osservato che le allusioni più dirette alle vicende dell’epoca si ritrovano nei libri miniati, destinati per loro natura a circolare in una ristretta cerchia di persone. Le immagini monumentali esprimono invece, con mezzi stilistici, decorativi e iconografici, l’adesione a modelli culturali antichi (in linea con quanto preconizzato da tutte le parti in causa nei complessi giochi politici della riforma) e continuano, come in tutto il Medioevo, a visualizzare scene edificanti, evangeliche e agiografiche. Contrariamente a quanto si possa pensare, esse non sembrano giocare necessariamente un ruolo esplicito di propaganda per gli ideali politici dei riformatori.