L'arte figurativa a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le manifestazioni artistiche di Roma nei secoli di trapasso dall’età imperiale al Medioevo sono improntate a una bilanciata dialettica tra il costante riferimento alle imponenti testimonianze monumentali di età tardoantica, in primo luogo le basiliche di San Pietro, San Paolo e del Laterano, e i nuovi apporti provenienti dai principali centri della cristianità orientale.
Dell’impressionante serie di edifici cristiani fatti erigere a Roma dall’imperatore Costantino all’indomani dell’editto di Milano del 313, con cui era stata concessa la libertà di culto ai cristiani, sono ben pochi quelli in grado di restituire a colpo d’occhio almeno parte dell’antico aspetto. Un’eco della ricchezza e varietà dei loro apparati decorativi si può cogliere nel mausoleo edificato per Costantina, o Costanza, figlia di Costantino, tra 337 e 351 o, comunque, entro il 361.
L’edificio è a pianta centrale con un ambulacro interno coperto da una volta a botte rivestita di mosaici che vedono l’alternanza di settori dedicati a motivi figurativi e di settori campiti con motivi geometrici, secondo un repertorio di lontana ascendenza ellenistica già da tempo impiegato in contesti funerari lungo le sponde del Mediterraneo. Le calotte dei due nicchioni laterali ospitano, invece, due rappresentazioni in mosaico di inequivocabile soggetto cristiano, molto rimaneggiate da interventi successivi: da una parte Cristo consegna a Pietro le chiavi (Traditio clavium), dall’altra Cristo consegna a Pietro la legge, alla presenza di san Paolo acclamante (Traditio legis). Nell’evidente protagonismo dei due principi degli apostoli, e in particolare di Pietro, è facile cogliere una rivendicazione del primato della Chiesa di Roma, tanto più che probabilmente in quello stesso torno di anni una Traditio legis andava forse a rimpiazzare la precedente decorazione aniconica dell’abside di San Pietro in Vaticano.
L’ufficiale adesione della famiglia imperiale al cristianesimo favorisce la penetrazione e la diffusione della nuova religione anche nel ceto aristocratico. È infatti di probabile destinazione gentilizia il codice noto come Quedlinburger Itala (Berlino, Staatsbibliothek, Preussischer Kulturbesitz, Theol. Lat. f. 485), contenente i testi di Samuele e Re nella più antica versione latina della Bibbia e riccamente illustrato. Il codice è verosimilmente un prodotto romano, realizzato a cavallo tra il IV e il V secolo ad opera della medesima bottega cui è attribuito un altro manoscritto, stavolta di contenuto tradizionale, il cosiddetto Virgilio Vaticano (Città del Vaticano, BAV, Vat. Lat. 3225), recante i testi dell’Eneide e delle Georgiche, a sua volta corredato da illustrazioni. Le immagini di entrambi sembrano ancora ispirate dalla pittura del I secolo, ma ne sovvertono la concezione dello spazio, ormai ridotto a una cornice nella quale si assiepano i protagonisti.
La contestuale produzione di manoscritti a carattere cristiano e a carattere pagano a opera di uno stesso scriptorium riflette una situazione comune ad altri ambiti, come le botteghe dei lapicidi che realizzano indifferentemente sarcofagi pagani o cristiani. La possibilità di soddisfare le più varie esigenze di un pubblico eterogeneo e ancora abbastanza numeroso consente la sopravvivenza di maestranze in grado, all’occorrenza, di offrire le proprie prestazioni anche per imprese più impegnative. Infatti lo stesso atelier responsabile del Quedlinburg Itala e del Virgilio Vaticano potrebbe essere chiamato a fornire i cartoni per i mosaici di Santa Maria Maggiore. La basilica, solennemente attribuita al patrocinio di Sisto III dall’iscrizione dedicatoria, è uno dei primi importanti cantieri che vedono alla ribalta la committenza papale in alternativa a quella della corte imperiale, ormai stabilmente trasferita a Costantinopoli. Danno la misura della vocazione classicista del progetto il recupero della trabeazione rettilinea al posto delle arcate per separare la navata laterale dalle centrali e l’impiego di capitelli ionici, sebbene quelli odierni, come le colonne, siano di restauro settecentesco. Lungo le pareti della navata si succedono pannelli in mosaico con le più antiche raffigurazioni monumentali a noi giunte di episodi dell’Antico Testamento, in origine isolati come quadri entro cornici di stucco. La serie consacra la verità storica dell’epopea del popolo di Dio guidato dai suoi patriarchi e condottieri, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè e Giosuè. Sull’arco absidale il racconto sacro, stavolta dedicato al Nuovo Testamento, si dilata in una narrazione continua su registri sovrapposti che galleggiano su un fondo oro. Vi si rappresentano episodi dell’Infanzia di Cristo, con uno speciale accento sulla figura della Madre di Dio che qui fa la sua prima comparsa abbigliata in abiti regali, traducendo in immagini la dottrina teologica elaborata durante il recentissimo concilio di Efeso (431) in opposizione all’eresia nestoriana che nega la natura divina del Cristo. È invece ancora dibattuto il soggetto dell’abside originaria, demolita in seguito ai lavori promossi da papa Nicola IV per dotare di transetto la basilica.
Leone Magno nel succedere a Sisto III ne raccoglie il testimone e promuove due analoghi cicli pittorici a illustrazione dell’Antico e del Nuovo Testamento lungo le pareti delle navate maggiori delle due basiliche apostoliche, quella costantiniana di San Pietro in Vaticano e quella di poco posteriore di San Paolo fuori le Mura, fondata allo scorcio del secolo precedente sul modesto sacello di san Paolo per volontà degli imperatori Teodosio I, Onorio e Valentiniano II. Le pitture di San Pietro sono ovviamente andate perse nel corso della radicale ricostruzione rinascimentale della basilica, quelle di San Paolo invece, miracolosamente conservate fino al XIX secolo, sono state distrutte dal tremendo incendio del 1823. Dunque soltanto le riproduzioni consentono di ricostruire l’aspetto degli antichi cicli, imprescindibili punti di riferimento nell’immaginario medievale in virtù dello straordinario carisma riconosciuto alle due basiliche apostoliche, insieme a quella lateranense, sede del vescovo romano. L’abside di quest’ultima dopo l’iniziale decorazione aniconica dovette ricevere un mosaico raffigurante Cristo e apostoli.
Una teofania, declinata secondo il tema apocalittico della seconda venuta del Cristo alla fine dei giorni, ricompare agli esordi del VI secolo nei mosaici dell’abside della basilica dei SS. Cosma e Damiano. La chiesa si insedia in un ambiente pertinente al complesso del Foro della Pace, caduto in disuso a dispetto dell’ubicazione nell’antico cuore della città e quindi ceduto a papa Felice IV dal sovrano goto Teodorico. Il mosaico esibisce un Cristo, trionfalmente paludato nella toga dorata, affiancato dai santi Pietro e Paolo che, a loro volta, introducono alla divina maestà i santi titolari Cosma e Damiano e, agli estremi, san Teodoro e il papa committente, oggi nella versione del rifacimento seicentesco, che compare per la prima volta in una simile sede inaugurando una lunga tradizione. Fa da sfondo un paesaggio paradisiaco con un cielo di intenso blu screziato da una scalinata di nubi rossastre. Nella solenne gravitas dei corpi, ancora capaci di proiettare ombre vere sul piano di posa, e nella sapiente individuazione dei volti dai grandi occhi dilatati, debitori della ritrattistica romana tardoantica, si può cogliere il canto del cigno della grande scultura tridimensionale, destinata di lì a poco ad una plurisecolare eclissi.
Siamo ormai alle soglie della quasi ventennale guerra greco-gotica (537-553), uno dei momenti più critici nella storia di Roma che, gravemente prostrata dai reiterati assedi, si vede ridotta al rango di una tra le tante città dell’impero, mentre la sede del governo imperiale è stabilita a Ravenna.
Roma, ormai emarginata dalla corte, rifonda la propria autorevolezza sul possesso delle reliquie degli innumerevoli martiri, primi fra tutti Pietro e Paolo. Così Pelagio II celebra i resti mortali del protomartire Lorenzo con la costruzione di una basilica ad corpus, direttamente sopra la sua tomba, sbancando la circostante collina. Perduta l’abside originaria in seguito all’ampliamento duecentesco dell’edificio, ne resta l’arco circostante con i relativi mosaici.
Qui un Cristo assiso sul globo celeste è affiancato dai santi Pietro e Paolo, cui fanno ala il titolare della chiesa, Lorenzo, in atto di introdurre papa Pelagio, in qualità di committente, e, dalla parte opposta, santo Stefano e sant’Ippolito, le cui reliquie si ritenevano tumulate nel medesimo cimitero. Nei volti di Lorenzo e soprattutto di Pelagio II è possibile cogliere la perdurante vitalità della tradizione ritrattistica romana. Le figure si stagliano su un fondo oro in genere interpretato come indicativo di un’avvenuta mutazione del linguaggio figurativo romano su influenza dell’estetica bizantina, ma la scelta potrebbe anche essere dettata dall’intenzione di sfruttare i riflessi luminosi delle tessere auree nella penombra dell’ambiente semi-ipogeo.
Gregorio I Magno, di lì a poco, interviene addirittura sulla tomba dell’apostolo Pietro presso cui fa costruire una cripta a impianto anulare, adatta agli incessanti flussi di pellegrini. È un’impresa forse meno impegnativa di quella di papa Pelagio, ma di più forte valenza simbolica. L’energico Gregorio Magno, secondo una visione ampia del proprio compito pastorale, intraprende una campagna di evangelizzazione delle popolazioni delle isole britanniche. È probabile che i missionari lì inviati fossero dotati degli strumenti liturgici indispensabili alla celebrazione del culto, compresi codici con le Sacre Scritture appositamente approntati. Potrebbe esserne l’ultimo testimone l’Evangeliario di sant’Agostino di Canterbury (Cambridge, CCC 286), con un ritratto dell’evangelista Luca e una serie di storie neotestamentarie che, se davvero ispirate ai cicli delle basiliche urbane, potrebbero aver contribuito alla diffusione oltre Manica del linguaggio figurativo romano.
Nel 609 è convertito al culto cristiano con una dedica alla Vergine persino il Pantheon, monumento simbolo dell’antichità, concesso alla Chiesa dall’imperatore Foca. È ragionevolmente ancorata a questa data l’icona della Madonna con Bambino ancora custodita nell’edificio. Non si esclude che l’immagine, dipinta a encausto su tavole di cipresso, fosse in principio concepita a figura intera, nel qual caso sarebbe stata di notevole grandezza. Sebbene ne sia ancora controversa la provenienza, se romana o d’importazione costantinopolitana, almeno la sua datazione circa il 609 è fondata su attendibili argomenti storici. La cronologia delle altre antiche immagini mariane su tavola presenti a Roma è invece molto più sfuggente e dunque dibattuta. Potrebbe risalire addirittura agli inizi del VI secolo la venerata Salus populi romani di Santa Maria Maggiore, totalmente ridipinta nel XII secolo e quindi difficile da giudicare. Oscilla tra un’attribuzione al VI secolo, a una data di poco successiva ai mosaici dei SS. Cosma e Damiano, o al secolo seguente la Madonna con Bambino proveniente da Santa Maria Antiqua e oggi in Santa Francesca Romana. Riscoperta in seguito a un restauro moderno che ha rimosso le successive ridipinture, è ridotta a un frammento le cui dimensioni sono comunque sufficienti ad attestarne la primitiva imponenza. Il peculiare gigantismo di queste tavole è uno degli argomenti addotti a favore di una loro eventuale esecuzione locale.
Roma nel corso del VII secolo si trova ad accogliere personaggi e comunità di estrazione “orientale”: dalla metà del secolo per quasi cent’anni si succedono sul soglio di Pietro pontefici ellenofoni di più varia origine; con la conquista araba della Terra Santa, inoltre, diviene il rifugio delle comunità monastiche in fuga; infine è meta di un’incessante afflusso di pellegrini che, oltre ad arrecare vantaggi economici, le garantiscono anche uno status internazionale.
All’iniziativa di un papa dalmata, Giovanni IV, si deve la creazione di un oratorio accluso al Battistero lateranense per dare riparo alle reliquie di santi traslate dalle sue terre di origine. L’impresa, portata a termine dal successore Teodoro I, è coronata da un mosaico che sintetizza creativamente diversi temi dando luogo a un’originale rielaborazione dell’iconografia dell’Ascensione: la calotta dell’abside ospita un imponente busto del Cristo tra arcangeli, in omaggio alla rappresentazione absidale della vicina basilica, mentre nel sottostante emiciclo, in asse con il Salvatore, campeggia una Madonna orante al centro di una schiera di santi, in primis i patroni romani Pietro e Paolo.
Allo stesso Teodoro I, nativo di Gerusalemme, si deve l’altrettanto insolito soggetto del mosaico della cappella dei santi Primo e Feliciano presso Santo Stefano Rotondo: le effigi dei due santi titolari, le cui reliquie erano state qui trasferite da un cimitero suburbano, affiancano una croce gemmata coronata da un busto di Cristo racchiuso entro un clipeo che potrebbe dipendere dalle immagini venerate nei santuari palestinesi. Perduti i prototipi, ne restano le repliche riprodotte sugli oggetti di culto riportati dai pellegrini in Terra Santa, come le numerose ampolline conservate nel Tesoro del Duomo di Monza.
Potrebbero invece risalire all’insediamento di una comunità monastica fuggita da Gerusalemme, conquistata dai musulmani nel 638, i resti di un ciclo cristologico corredato da iscrizioni in greco rinvenuti durante gli scavi dell’antica basilica di San Saba, sul piccolo Aventino.
Giovanni VII, altro papa di stirpe greca, come tramanda la sua dettagliata biografia raccolta in quella preziosa fonte che è il Liber Pontificalis, apre il nuovo secolo con una serie di opere incentrate sulla devozione mariana. Infatti fa rinnovare la chiesa del foro dedicata alla Vergine, Santa Maria Antiqua, disponendo la sostituzione del precedente ciclo dipinto nel presbiterio alla metà del VII secolo con un nuovo ciclo cristologico, sigillato da una monumentale Adorazione della Croce. Si deve probabilmente alla sua committenza anche la straordinaria Madonna Regina, nota come Madonna della Clemenza, dipinta a figura intera su una tavola custodita nella chiesa di Santa Maria in Trastevere. Infine fa decorare la propria cappella funebre con un eloquente programma visivo imperniato su una monumentale Madonna Regina in posa di orante circondata da scene tratte dal Nuovo Testamento e dai Vangeli apocrifi mariani. Nel contesto della cappella destinata ad accogliere la sepoltura del papa committente, la Madonna in preghiera assume la peculiare valenza di intermediaria presso il Signore per la salvezza dell’anima del defunto. L’edificio, in origine addossato alla basilica di San Pietro, è stato demolito nel corso dei cantieri rinascimentali ed è quindi noto grazie a copie. Restano solo pochi brani dei suoi mosaici, sparsi tra diverse sedi, ed è quindi una fortuna che se ne sia conservata proprio la Madonna Regina, attualmente presso il San Marco di Firenze.
L’apertura, nel 726, della crisi iconoclastica provocata dall’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico segna una frattura insanabile con il papato romano, da sempre ostile all’ingerenza imperiale in questioni teologiche. La contesa si traduce in una serie di fondazioni papali a emulazione di opere e strutture costantinopolitane, promosse allo scopo di ribadire il protagonismo di Roma e della sua Chiesa, custode dell’ortodossia. La città diventa un punto di riferimento e un rifugio per gli oppositori dell’iconoclastia. Può essere interpretata come un manifesto anti -iconoclasta l’immagine dipinta al tempo del papa Paolo I sulla parete sinistra della navata centrale di Santa Maria Antiqua, da un secolo importante centro monastico greco. Ai lati di un Cristo in trono si dispongono due teorie di Padri della Chiesa greca e pontefici romani, identificati dai nomi iscritti in greco, uniti nella difesa dell’ortodossia e della legittimità delle sacre raffigurazioni. All’epoca di Paolo I risale anche l’immagine dipinta nell’abside di un gigantesco Cristo la cui taglia eccezionale può assumere analoga valenza iconodula.
Presso la medesima chiesa di Santa Maria Antiqua, pochi anni prima, durante il pontificato di Zaccaria, Teodoto, titolare dell’importante carica di primicerio presso l’amministrazione papale, fa realizzare per sé e per la propria famiglia una cappella funebre coperta di pitture. Il programma si articola in una serie di immagini votive – vere e proprie icone murali, davanti alle quali si prostrano i ritratti di Teodoto e dei suoi familiari, culminanti nella solenne Crocifissione campita nella nicchia della parete di fondo – integrate da un ciclo narrativo dedicato al martirio dei santi Quirico e Giulitta, titolari della cappella. I due santi, madre e figlio, sono raffigurati in atto di subire una serie di efferati supplizi, compreso l’essere arsi in un recipiente rovente, ai quali resistono con l’impassibilità consona agli eroi del Signore. Nello stile di queste immagini è riconosciuto un forte ascendente palestinese, suffragato dalla caratteristica lunga veste, colobium, indossata dal Cristo crocifisso. Alla stessa maniera sono associate le pitture staccate da un vano dell’antica diaconia di Santa Maria in via Lata, ora esposte nel Museo della Crypta Balbi. Anche qui compaiono animate scene di martirio, stavolta di sant’Erasmo, a conferma di una certa popolarità delle narrazioni agiografiche.
Le costanti tensioni con l’impero, per di più inadeguato a proteggere Roma dalle rinnovate ostilità con i Longobardi, inducono il papato a cercarsi altrove dei protettori, individuati nei sovrani franchi.
La nuova alleanza inaugura un periodo di relativa stabilità che si traduce in una febbrile attività riorganizzativa anche nei settori dell’urbanistica e dell’edilizia. Già prima della fatidica incoronazione imperiale di Carlo Magno per mano del pontefice nell’800, Adriano I, stando al Liber Pontificalis, inoltra al sovrano la richiesta di una fornitura di grosse travi atte alla ristrutturazione delle enormi coperture delle antiche basiliche.
L’invenzione del Sacro Romano Impero di mitica fondazione costantiniana ribalta gli antichi rapporti di forza, affermando la dipendenza della sovranità temporale dall’autorità del pontefice, e trova un’efficace visualizzazione nel mosaico commissionato da papa Leone III per il triclinio lateranense, un’aula di rappresentanza del palazzo episcopale. Demolito l’edificio, ciò che restava del mosaico è trasferito nel Settecento nell’attuale collocazione, ed è, per di più, pesantemente manomesso. È comunque ancora possibile riconoscervi due gruppi: nel primo Cristo consegna il labaro all’imperatore Costantino e il pallio a san Pietro, o, forse, a papa Silvestro I; nel secondo è san Pietro a porgere il pallio vescovile a Leone III e uno stendardo a re Carlo.
Con Pasquale I si raggiunge il diapason delle imprese di committenza pontificia di quest’epoca. Il papa imprime un’accelerazione al trasferimento dei corpi dei santi martiri dai cimiteri suburbani alle più sicure chiese intramuranee che, per l’occasione, fa radicalmente ristrutturare, come attestano le chiese di Santa Maria in Domnica, Santa Prassede e Santa Cecilia. Le forme architettoniche di Santa Maria in Domnica, con la sua terminazione a tre absidi, denunciano il sereno protrarsi di quelle scelte ispirate a modelli orientali inaugurate attorno alla metà del secolo scorso con Sant’Angelo in Pescheria e poi replicate in Santa Maria in Cosmedin durante il pontificato di Adriano I. Così la collocazione nell’abside centrale della maiestatica Madonna in trono con il Bambino trova dei precedenti solo in ambito bizantino, mentre la folla di angeli in adorazione assiepata attorno a lei, con la distesa di nimbi colorati scalati in profondità, richiama le schiere angeliche della pitture disposte sull’arco absidale di Santa Maria Antiqua al tempo di Giovanni VII. Santa Prassede, invece, sede privilegiata di reliquie, appare più orientata al modello offerto dalle antiche basiliche martiriali locali: con il suo quadriportico davanti alla facciata, il transetto e la cripta anulare, aspira a essere una versione in miniatura di San Pietro. Così come San Pietro era fittamente circondata da mausolei, anche Santa Prassede è dotata di una cappella funebre per la madre del pontefice, Teodora. La cappella, dedicata a San Zenone, è totalmente rivestita di mosaici a raffigurare un programma incentrato sul tema della seconda venuta del Cristo. Al centro della volta a crociera dell’ambiente, secondo una disposizione gerarchica, domina un busto del Cristo racchiuso in un clipeo trionfalmente innalzato da quattro angeli. Tutte le figure pullulanti sul fondo oro si caratterizzano per la splendida qualità della loro variegata cromia.
Il linguaggio figurativo carolingio sembra penetrare a Roma tardi e a stento, a dispetto di una serie di codici donati ai papi dai sovrani, alcuni dei quali sontuosamente illustrati, come la celebre Bibbia di San Paolo offerta da Carlo il Calvo in occasione della propria incoronazione imperiale a Roma nell’875, ab antiquo custodita in San Paolo fuori le Mura. Bisogna attendere circa gli anni Settanta del IX secolo per trovare finalmente l’impiego a Roma della scrittura carolina elaborata negli scriptoria della corte di Carlo Magno. Uno dei codici in carolina pura localizzati in uno scrittorio urbano, una raccolta di Canoni (Roma, Bibl. Vallicelliana, A 5, ff. 14v-15r), presenta due fogli illustrati con immagini degli apostoli intenti alla scrittura, dagli impianti disegnativi nervosi e dai panneggi agitati caratteristici della miniatura di Reims. Le sue animate figure presentano affinità con gli angeli protagonisti di una Adorazione della Croce dipinta sulla facciata della chiesa abbaziale di San Giovanni in Argentella, presso Palombara Sabina, fondazione periferica al limite della proprietà della potente abbazia regia di Farfa. Quindi, anche in assenza di specifici elementi datanti, è stata avanzata la controversa ma affascinante proposta di identificare questo brano pittorico come l’unica testimonianza di pittura monumentale carolingia di ambito romano. Si tratta però di episodi isolati.
Nella Roma di tardo IX secolo i modelli per le pitture si continuano a cercare nell’ormai consolidato retaggio di remota ascendenza orientale “naturalizzata” romana. Tanto più che fin dallo scorcio del VII, e poi ancora nei secoli VIII e IX, negli scriptoria cittadini si producevano anche codici in greco, talvolta provvisti di illustrazioni, come una versione in greco del Libro di Giobbe con commento catenario (Città del Vaticano, BAV, Vat. Gr. 749) di cui non si esclude un’esecuzione a Roma nel corso del IX secolo. Sembra partecipe di questo milieu la Discesa agli Inferi dipinta in una lunetta della navata destra della basilica inferiore di San Clemente. Qui un imponente giovane Cristo imberbe irrompe negli inferi calpestando Satana e afferrando per il polso l’anziano Adamo per trascinarlo via. Nel personaggio avulso dalla scena tanto da esserne isolato mediante una colonnina è stato riconosciuto un ritratto postumo di san Cirillo, l’apostolo degli Slavi morto a Roma nell’869 e sepolto in San Clemente. La pittura poteva dunque decorare la sua tomba. Sono probabilmente opera della stessa bottega i cicli pittorici della chiesa di Santa Maria de Secundicerio, meglio conosciuta come Santa Maria Egiziaca, fondata in un tempio pagano all’epoca di papa Giovanni VIII da un laico, il secundicerio Stefano. Le sue pitture dedicate ai santi orientali Basilio e Maria Egiziaca sembrano riflettere le miniature di un codice bizantino.
Il X secolo inaugura una fase di crisi: le importanti committenze papali si rarefanno, ma trovano una pur parziale compensazione nell’emergere di una committenza laica o monastica. A un privato, Petrus Medicus, si deve la realizzazione del complesso pittorico di Santa Maria in Pallara, più nota come San Sebastiano al Palatino. Si tratta delle sole pitture attribuite al X secolo sulla scorta di dati storici che ne consentono una datazione tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo. Il complesso delle scelte tematiche si pone in continuità con le precedenti esperienze romane: così la teofania della calotta absidale e la sottostante Madonna Regina tra una scorta di Arcangeli e una teoria di sante, oppure i cicli narrativi, noti ormai solo da copie, dedicati al Nuovo Testamento e al martirio dei santi Zotico e Sebastiano, titolari della chiesa. Forse le pitture di Santa Maria in Pallara sono la testimonianza di come ancora nel corso del X secolo si perpetuassero temi e soluzioni formali consolidati durante il secolo precedente, piuttosto che il precoce esito di quel rinnovamento paleocristiano intenzionalmente promosso dalla Chiesa romana solo a partire dallo scorcio dell’XI secolo su impulso della Riforma della Chiesa.