Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le opere d’arte realizzate nel corso del Medioevo sono per lo più anonime. A partire dal XII secolo la situazione muta, tramandandoci una ricca messe di nomi di artisti. Questa trasformazione però non implica un riconoscimento del valore creativo e intellettuale del lavoro di pittori e scultori. Considerati semplici artigiani, essi devono essere iscritti alle corporazioni locali e seguirne le regole nello svolgimento della propria attività. Solo nella seconda metà del Trecento la celebrazione di Giotto a opera di poeti e scrittori apre la strada all’elevazione delle arti figurative al rango di arti liberali.
La conoscenza del nome dell’artista che ha realizzato una determinata opera, la presenza della sua firma sul manufatto sono due degli elementi utilizzati dagli studi per valutare la considerazione di cui pittori, scultori, architetti godono in un determinato periodo storico, la loro posizione sociale, la loro coscienza di sé e del valore del proprio lavoro.
L’antico mondo romano, che giudica l’attività artistica un’occupazione servile, indegna di un cittadino, ci ha tramandato il nome di pochissimi artisti.
Il Medioevo è un’epoca di anonimato. Salvo alcune eccezioni, non conosciamo i nomi di coloro che hanno miniato i codici giunti fino a noi, di chi ha costruito le cattedrali romaniche d’Europa, degli scultori che ne hanno decorato i portali, le guglie, i pinnacoli. Essi sono parte di équipe, inseriti in una logica di lavoro collettivo che non distingue il lapicida, il carpentiere, il muratore dall’architetto o dallo scultore.
Dal XII secolo, e soprattutto nel Duecento e nel Trecento, la situazione muta, non solo in Italia. Firme, iscrizioni, fonti ci hanno lasciato una serie di nomi di autori di opere d’arte. A partire da Lanfranco e Wiligelmo, architetto e scultore del Duomo di Modena, fino ai nomi celebrati di Nicola e Giovanni Pisano e di Arnolfo di Cambio, daipiù famosi (Cimabue, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Giotto, Pietro e Ambrogio Lorenzetti) ai loro allievi meno noti, l’anonimia scompare progressivamente. Giovanni Pisano, anzi, firma nel 1301 il pergamo (pulpito) del Duomo di Pistoia celebrando se stesso come ““colui che non intraprese cose vane, figlio di Nicola ma felice per una migliore sapienza, che Pisa generò dotto più di ogni cosa mai veduta””. Dati come questi farebbero pensare a una trasformazione radicale della concezione e della considerazione sociale dell’artista. Si tratta invece solo di un primo, piccolo passo. La realtà è ben diversa.
Nel Medioevo le arti figurative sono elencate fra le arti meccaniche, gerarchicamente inferiori alle arti liberali. Codificate dal retore latino Marziano Cappella, e consacrate dalla filosofia scolastica, le arti liberali sono distinte in Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia).
Si tratta di attività intellettuali, che richiedono un lavoro mentale e uno studio condotto prevalentemente sui testi, mentre le arti meccaniche sono attività compromesse con la fatica fisica e la pratica manuale. Sono prodotto dell’abilità, non frutto dell’ingegno, e per questo giudicate di basso rango. La parola artista nel Medioevo non designa i pittori, gli scultori o gli architetti, ma i dotti e gli intellettuali. Gli artisti sono artifices, come i sarti, i falegnami, i maniscalchi, coloro che producono oggetti concreti. Nelle raffigurazioni astrologiche dei pianeti, essi compaiono tra i figli di Mercurio, divinità preposta alle persone industriose, al fianco di mercanti, orologiai, fabbricanti di strumenti musicali, osti.
Come gli artigiani e i commercianti, anche gli artisti sono iscritti a corporazioni, associazioni che riuniscono al loro interno varie tipologie professionali, ne regolano l’attività, si fanno loro portavoce sulla scena politica locale. Presenti in ogni contesto cittadino, assumono denominazioni differenti (Arti a Firenze, Matricole a Venezia, Fraglie a Padova, Gilde nel mondo tedesco ). A Firenze i pittori sono iscritti all’Arte dei medici e speziali (in virtù dei materiali utilizzati nel loro lavoro), gli orafi all’Arte della seta, gli architetti e gli scultori all’Arte dei maestri di pietre e legnami, muratori e carpentieri. Il dato è significativo del ruolo assegnato loro all’interno della compagine sociale.
La corporazione scandisce la vita degli artisti, codificando tempi e modi della didattica, stabilendo le regole da rispettare nello svolgimento dell’attività.
La formazione dell’artista inizia presto, fra i 10 e i 13 anni. Un atto notarile regola il rapporto maestro e allievo. Il maestro, regolarmente iscritto alla corporazione, si impegna a insegnare il mestiere al giovane, spesso a fornirgli vitto e alloggio, a volte in cambio di una cifra concordata. L’iter formativo comincia dalle attività più umili (tenere puliti gli ambienti di lavoro, preparare i collanti, macinare i colori), per passare poi al disegno e alla copia dai modelli, e concludersi con la realizzazione di parti secondarie nelle opere finite del maestro. Il periodo di formazione dura dai 3 ai 5 anni, ed è solitamente seguito da altri 3-4 anni di praticantato, durante i quali l’aspirante artista collabora con il maestro affiancandolo come garzone. Sui 20-25 anni, dopo il superamento di una prova prestabilita, il giovane è autorizzato a lavorare in proprio, salvo previa iscrizione alla corporazione. Il costo dell’immatricolazione è inferiore per coloro che appartengono a famiglie del mestiere, già regolarmente iscritte. Ciò aiuta a comprendere perché molto spesso si incontrino botteghe a conduzione familiare, o figli che proseguono l’attività paterna: non predisposizione e talento, come saremmo portati a credere sulla base della nostra mentalità, portano a scegliere l’attività artistica, ma interessi di altro genere, derivati da una concezione che giudica il pittore o lo scultore alla stregua di qualsiasi altro artigiano.
Una volta iscritto, l’artista è tenuto, nello svolgimento dell’attività, a rispettare le norme della corporazione: controllo sulla qualità e l’uso dei materiali, proibizione al lavoro nei giorni festivi, pratiche di protezionismo che favoriscono gli artisti locali a discapito dei forestieri, modalità di comportamento nel rispetto dei contratti stipulati.
Non l’artista, ma il committente è colui che prende le decisioni principali sulla composizione dell’opera. I contratti conservatisi mostrano come, in molti casi, sia il committente a stabilire i materiali da utilizzarsi, i colori, il numero delle figure, l’iconografia, spesso chiedendo di seguire o prendere spunto da un modello ben preciso. Dato curioso, rare sono le richieste esplicite su parti autografe, realizzate effettivamente dalla mano del maestro e non dai collaboratori. Un esempio significativo è il contratto stipulato nel 1308 da Duccio di Buoninsegna per la realizzazione della Maestà del Duomo di Siena (oggi al Museo dell’Opera del Duomo). L’accordo vincola l’artista a non impegnarsi in altre opere prima del compimento di questa, ma prevede che i familiari, in caso di morte, provvedano al suo completamento, anche affidandone l’esecuzione a una bottega differente. La stessa parte del contratto in cui si richiede al pittore un lavoro giornaliero sulla tavola non sottende un suo intervento diretto, ma la sua presenza in bottega nel corso della realizzazione dell’opera. Accordi come questi sono indicativi di un concetto di autografia lontano da quello attuale e, di conseguenza, di una valutazione completamente differente, o meglio, indifferente alla qualità esecutiva. Del resto la suballogazione, la pratica attraverso la quale una bottega affida a un’altra una tavola o un affresco di cui è stata incaricata, non è insolita nel Medioevo. Per questo la presenza della firma su opere del Duecento e del Trecento non sempre acquista il valore di quella di Giovanni Pisano sul pergamo del Duomo di Pistoia, orgogliosa rivendicazione del proprio valore. La firma di Duccio sulla Maestà senese (““ Sancta mater Dei sis causa Senis requiei, sis Ducio vita quia te pinxit ita ””) è il modo in cui il pittore si segnala, al fianco dei suoi concittadini, come offerente di questo ex voto alla Madonna. Le opere firmate di Giotto, quale il polittico della Pinacoteca di Bologna, sono quelle in cui gli esperti meno riconoscono l’intervento diretto del pittore. La firma costituisce una sorta di marchio di fabbrica, di garanzia di quanto prodotto in una determinata bottega, in modo analogo a un qualunque oggetto artigianale.
Giotto è il pittore più celebrato della sua epoca, più volte citato nei testi letterari del Trecento. È universalmente noto il passo della Divina Commedia dantesca in cui Cimabue e Giotto sono chiamati in causa quali esempi della fugacità della fama: ““Credette Cimabue ne la pintura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura”” (Purgatorio, XI, 94-96). Dante affianca l’esempio di questi due pittori a quello di due miniatori (Oderisi da Gubbio, Franco da Bologna) e di due poeti (Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti). L’accostamento è stato considerato la prima attestazione di una diversa concezione della pittura e delle arti figurative in generale, ora degne di affiancare la poesia poiché promosse al rango di arti liberali. In realtà, sotto questo profilo si rivelano ben più significativi passi di Petrarca e Boccaccio. Nel 1370 Petrarca dona al signore di Padova, suo mecenate e amico, una tavola di Giotto “ “cuius pulchritudinem ignorantes non intelligunt, magistri autem artis stupent ”” (la cui bellezza non è compresa dagli ignoranti, ma lascia stupefatti i maestri). Nella quinta novella della sesta giornata del Decamerone, Boccaccio definisce Giotto colui che ha ““quell’arte ritornata in luce, che molti secoli, sotto gli errori di alcuni che più a dilettare gli occhi degli ignoranti che a compiacere allo ’ntelletto de’ savi, dipignendo era stata sepulta””. Papa Gregorio Magno definisce la pittura biblia pauperum (“ “quod legentibus scriptura, hoc idiotis cernentibus praebeat pictura ” “ciò che è la scrittura per coloro che sanno leggere, è la pittura per gli occhi di chi non è istruito””), riconoscendone il valore di strumento per la divulgazione dei concetti dottrinali fra gli illetterati e i semplici.
Nella seconda metà del Trecento, invece, attraverso l’esempio di Giotto la pittura è elevata a materia per i dotti, i soli in grado di comprenderne la bellezza: non più solo frutto di abilità manuale, ma frutto dell’ingegno dell’artista, risultato di speculazione mentale e, come tale, cibo per l’intelletto. Inizia da qui il lungo cammino che, nel corso del Rinascimento, porterà le arti figurative a essere annoverate fra le arti liberali, con conseguente elevazione sociale dell’artista. Il primo passo a Firenze: Filippo Villani, umanista fiorentino, nel suo De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus (1381-1382), annovera fra le glorie della città, a fianco di condottieri, politici, poeti, anche gli artisti, ““stimando molti non a torto che certi pittori non fossero inferiori di ingegno a color che furono maestri nelle arti liberali”.