Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il cartesianesimo fallisce nel suo tentativo di imporsi come nuova filosofia “ufficiale” delle università e delle istituzioni; riesce tuttavia a proporsi come un buon metodo per l’“arte di pensare” e l’epistemologia delle idee diventa nella seconda metà del Seicento e per tutto il Settecento una sorta di mainstream o di koiné capace di fondersi anche con le correnti lockiane di matrice empiristica. Un ruolo importante lo hanno i giansenisti Arnauld, Nicole e Lancelot con i loro classici manuali di Logica e Grammatica, ma anche autori oggi considerati minori ma all’epoca molto reputati come Jean Le Clerc, Pierre Crousaz, Claude Buffier.
Descartes non elabora soltanto una filosofia, ma concepisce anche una strategia che avrebbe dovuto condurlo a sostituire l’egemonia culturale del sapere scolastico (ancora largamente dominante nelle università, nell’istituzione ecclesiastica e nella cultura ufficiale) con un nuovo tipo di filosofia, aperto alla nuova scienza ma anche capace di salvaguardare le certezze religiose. Questo disegno emerge con chiarezza nelle grandi opere sistematiche, ma determina anche alcune scelte tattiche del filosofo. Le Meditazioni sulla filosofia prima si aprono con una lettera “ai molto saggi ed illustrissimi signori della Sacra Facoltà di Teologia di Parigi” in cui Descartes propone la sua nuova metafisica come una via sicura per accertare “verità” come l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima dal corpo (se non direttamente la sua immortalità). Al momento della seconda edizione Descartes aggiunge al testo le Settime Obiezioni: si tratta delle obiezioni del padre gesuita Pierre Bourdin, già professore al collegio di La Flèche ove lo stesso Descartes ha studiato. Ad esse Descartes replica con particolare attenzione, ma di fronte alle incomprensioni del suo autorevole interlocutore contemporaneamente scrive al padre Dinet, dal 1639 provinciale dei gesuiti di Francia, per difendersi dalla “asprezza” delle critiche e per presentarsi come attaccato su due fronti: da una parte i protestanti olandesi che lo accusavano come cattolico e dall’altra quei gesuiti che vedevano nella sua filosofia una “novità” capace di minacciare la filosofia “antica”. Su quest’ultimo fronte, Descartes ribatte che proprio i “principi della filosofia volgare” sono nuovi, mentre la sua filosofia “è la più antica di tutte”, perché la verità viene prima e perché “nella filosofia volgare non vi è nulla che, essendole contrario, non sia nuovo” (lettera a Dinet, maggio 1642). Nel 1644 pubblica poi i Principi della filosofia, che avrebbero dovuto essere un manuale (o meglio un contro-manuale) da insegnare nelle scuole e tale da soppiantare i manuali aristotelico-scolastici. Per la stessa ragione lo fa tradurre in francese e vi premette la grande lettera-prefazione a Picot in cui rivela apertamente la sua ambizione sistematica: la filosofia (e in primo luogo la sua) è “come un albero le cui radici sono la metafisica, il tronco la fisica, e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che qui si riducono a tre principali: la medicina, la meccanica e la morale”.
Questo disegno egemonico impone a Descartes anche ripiegamenti e scelte tattiche: la più celebre è la decisione di non pubblicare Il mondo o Trattato sulla luce, a causa della condanna di Galileo avvenuta nel 1633. Poiché quel trattato di cosmologia era tutto imperniato sull’ipotesi eliocentrica, preferisce lasciarlo nel cassetto per non scontrarsi direttamente con l’autorità ecclesiastica (e infatti verrà edito solo postumo). Per un altro verso, intende mostrare che la nuova metafisica da lui proposta non minaccia il dogma dell’eucarestia, anche se di fatto abbandona la spiegazione in termini di sostanza e accidenti che era stata codificata dal concilio di Trento: a questo scopo si impegna in una complessa corrispondenza con un altro gesuita, il padre Mesland, che tuttavia non riesce a convincere.
Malgrado tutti questi sforzi, il tentativo cartesiano di proporre la propria metafisica come una base nuova e migliore per l’insegnamento istituzionale va incontro a un sonoro insuccesso. Le università continuano sulla falsariga dei vecchi manuali, sia pure con qualche aggiornamento, soprattutto scientifico; le stesse opere di Descartes vengono messe all’Indice dei libri proibiti nel 1667 (anche se in Francia i decreti dell’Indice non vengono recepiti automaticamente, negli altri Paesi cattolici hanno un’enorme potere condizionante). Anche il suo principale allievo francese, Nicolas Malebranche, che elabora una sintesi originale di cartesianesimo, motivi agostiniani e nuove spiegazioni teologiche (soprattutto nel campo della teodicea, con i complessi problemi della grazia, della libertà e della predestinazione) va incontro a condanne analoghe: nel 1690 viene messo all’Indice il Trattato della Natura e della Grazia , nel 1709 la traduzione latina della Ricerca della Verità, nel 1714 il Trattato di Morale e le Conversazioni sulla metafisica e sulla religione.
Il cartesianesimo fallisce dunque nel suo tentativo di imporsi come nuova filosofia ufficiale delle università e delle istituzioni, tant’è vero che ancora all’inizio del Settecento i philosophes che hanno una formazione scolastica regolare – come Condillac che studia nel seminario di Saint-Sulpice a Parigi –si formano su manuali che integrano aspetti delle nuove scienze entro una compagine di logica e di metafisica largamente tradizionali.
Dove invece il cartesianesimo si rivela un successo, tale da condizionare tutta la cultura, non solo francese ma continentale, dentro e fuori delle università, è nell’imporre quella che Bayle chiama la “cultura dell’evidenza” e che consiste principalmente nell’analisi delle idee come arte del ben ragionare. Sembra anzi che questa cultura dell’evidenza possa separarsi dalla metafisica dualistica in cui si era forgiata e sopravvivere così alla crisi della scienza cartesiana che viene rapidamente sostituita da quella newtoniana. La “via delle idee” diventa un linguaggio comune ai filosofi, agli scienziati e in genere agli uomini di cultura che prendono le distanze dalla filosofia aristotelico-scolastica, anche senza aderire totalmente al controverso sistema di Descartes.
Non a caso, tra le opere più fortunate del cartesianesimo non vi sono i trattati di metafisica, di teologia o di scienza, ma due manuali sull’“arte di pensare” e sull’arte di comunicare: la Logica e la Grammatica di Port-Royal. In verità essi sono preceduti dal cartesiano tedesco Johann Clauberg (1622-1665), che per primo ha l’idea di fondere logica cartesiana e logica scolastica in un manuale che unisce la dottrina dell’evidenza con la logica proposizionale degli aristotelici (Logica vetus et nova, 1654). Ma il grande exploit viene appunto dalla Logique ou Art de penser (1662) scritta da Antoine Arnauld e Pierre Nicole, che possono utilizzare anche il manoscritto dell’opera metodologica lasciata inedita da Descartes (Regulae ad directionem ingenii). Mettendo da parte gli stretti legami che la logica cartesiana ha istituito con l’analisi algebrica, soprattutto nel testo della Géométrie, i due autori giansenisti e cartesiani si concentrano sul linguaggio naturale nell’intento di riformarlo puntando non sui formalismi della sillogistica aristotelica ma sulle caratteristiche tipiche dell’intuizione delle idee. Arnauld e Nicole condividono infatti la convinzione che la maggior parte degli errori sia materiale e non formale; applicano alla logica la distinzione cartesiana tra l’intuizione, che coglie le idee, e il giudizio che le collega con un atto della volontà; riprendono la teoria cartesiana dell’errore e lo imputano principalmente alla cedevolezza del giudizio rispetto a idee confuse, pregiudizi, equivoci veicolati dal linguaggio e dalle tradizioni, oltre che influenzati dalle passioni.
Al centro della Logica di Port-Royal sta una teoria che riprende la definizione cartesiana di idea. Se Descartes è stato il primo filosofo a chiamare “idee” tutto ciò su cui si effettua il lavoro dello spirito, essendo le idee l’oggetto immediato della mente, i due portorealisti insistono sulla funzione di intermediazione tra la mente e la realtà che è svolta dalle idee. L’idea è “la forma mediante la quale ci rappresentiamo le cose che si presentano allo spirito” (Logique ou Art de penser, premessa). Il nome idea indica “tutto ciò che si trova nella nostra mente quando possiamo dire con verità di concepire una cosa, in qualunque modo la concepiamo” (ivi, I, i). La Grammaire générale et raisonnée (1660) scritta da Arnauld e Claude Lancelot estende il metodo dell’arte di pensare allo studio della grammatica, intesa come ordinamento del linguaggio in cui avrebbe potuto rivelarsi la sottostante struttura logica della frase. La proposizione non è altro che la formulazione linguistica del giudizio e pertanto è possibile evidenziare in essa sia il ruolo dell’intelletto (nella percezione delle idee corrispondenti al soggetto e predicato) sia il ruolo della volontà nel congiungerli, ruolo che a livello linguistico si manifesta nella funzione attribuita alla copula. Attraverso la duplice influenza della Logica e della Grammatica si affermerà una concezione del linguaggio che dominerà a lungo non solo nel Seicento ma ancora per tutto il Settecento. Questa concezione è caratterizzata da un approccio mentalistico (per cui per esempio il significato di un termine viene unanimemente indicato nell’idea a esso corrispondente) e psicologistico (la logica è descrittiva prima ancora che normativa, in quanto descrive il buon funzionamento del pensare: ogni arte, anche l’“arte di pensare” è innanzitutto lo sviluppo e il perfezionamento di procedimenti che sono già operanti nella natura della mente). Inoltre, in quanto privilegia i linguaggi naturali rispetto ai linguaggi artificiali delle matematiche, rivolgendosi all’honnête homme e non allo specialista, la logica cartesiana di Port-Royal consente di regolamentare anche i campi che erano rimasti ai margini della rivoluzione scientifica, ma che interessano tanto di più gli uomini colti impegnati nella politica, nella società, nella Chiesa. Così, la trattazione dei giudizi di probabilità contenuta nell’Arte di pensare affronta problemi di storia, questioni di testimonianza e di tradizione che sono diventati cruciali nel campo delle controversie religiose della fine del Seicento.
Dietro opere come la Grammatica e la Logica di Port-Royal sta una precisa metafisica, quella del dualismo cartesiano, e un’altrettanto precisa epistemologia, quella dell’innatismo. Tuttavia, la cosiddetta “via delle idee” si presta a essere estesa ben al di là dei confini del cartesianesimo. Così avviene con John Locke che, pur rifiutando la scienza cartesiana delle sostanze e pur adottando l’empirismo invece dell’innatismo, ha tuttavia fatto proprio il lessico e il metodo dell’indagine sulle idee, “essendo questo termine, a quanto mi sembra, il meglio appropriato a significare tutto ciò che è ‘oggetto’ della nostra intelligenza quando pensiamo” (Saggio sull’intelligenza umana, Intr. § 8). La stessa semantica lockiana e la teoria del linguaggio che la contiene si basano sulle idee come significati dei termini, anche se sottolinea il carattere sociale e intersoggettivo della comunicazione.
Si può dunque dire che con Locke e i lockiani l’uso del termine e della nozione di “idea” si generalizza, al di là delle intenzioni di Descartes e dei cartesiani. Mentre questi avevano nettamente distinto l’idea dal “sentimento” e dalla “sensazione”, Locke designa come idea qualunque rappresentazione mentale in genere, a prescindere dalla provenienza interna o esterna (sensazione o riflessione) e dalla natura dell’oggetto (materiale o spirituale). In questo modo la via delle idee diveniva compatibile con l’empirismo e a essa si allineeranno sia Berkeley e Hume in Inghilterra, sia Condillac e gli enciclopedisti in Francia, naturalmente con intenzioni e filosofie tra loro diverse.
La sola variante significativa è quella originata da Nicolas Malebranche: questi, con la sua tesi epistemologica della visione in Dio distacca le idee dalla mente percipiente e le concepisce come entità distinte. Questa versione marcatamente teologica va tuttavia contro le tendenze dominanti della cultura filosofica del tempo e si perderà del tutto nel corso del Settecento.
Anche nella cultura di lingua francese l’influsso lockiano è determinante, soprattutto grazie alla traduzione del Saggio da parte di Pierre Coste; ma già in precedenza autori di “logiche” come Jean Le Clerc e Pierre Crousaz combinano l’approccio lockiano con l’eredità cartesiana di Port-Royal. Soprattutto la Logique (1712) di Crousaz contiene un’interessante riflessione volta a evitare di concepire le idee come intermediari che si frappongono tra la mente che le pensa e la realtà che rappresentano. Per Crousaz “il pensiero sente se stesso, è a sé medesimo il proprio oggetto immediato, e sentendosi in questo modo, si rappresenta nel contempo cose differenti da sé”. Crousaz respinge dunque la metafora dell’idea come “quadro spirituale”, che implica una distinzione tra l’oggetto e l’atto del percepire e che secondo lui viene da un’impropria applicazione del modello della vista ai contenuti della mente.
Il culmine massimo della via delle idee coincide con la sua consacrazione nella celebre Encyclopédie, diretta da D’Alembert e Diderot, una sorta di “summa”, ma anche di “media” della cultura dell’Illuminismo. Lontana da estremi come quelli di Malebranche o di Berkeley, vicina alle teorie di Locke e di Condillac, segnata dalle speculazioni di Diderot, la voce “Idea” ne dà una definizione perfetta per il senso comune della mentalità dei Lumi: “Idea: troviamo in noi la facoltà di ricevere delle idee, di percepire le cose, di rappresentarcele. L’idea o la percezione è il sentimento che l’anima ha dello stato in cui si trova”. L’alleanza tra la filosofia delle idee e quella dell’esperienza è sancita da un altro passaggio dello stesso articolo: “noi prendiamo la parola idea o percezione nel significato più esteso, comprendendo sia la sensazione, sia l’idea propriamente detta”.
La via delle idee fa breccia anche tra le correnti “moderate” del Settecento che tentano di ricostruire una metafisica accettabile dalla cultura cattolica, recuperando quanto di buono e di utile era stato messo in luce dall’empirismo lockiano. Così il padre gesuita Claude Buffier negli Elémens de Métaphysique à la portée de tout le monde (1732) adotta il linguaggio delle idee, ma intende restituire al tempo stesso verità alla concezione del senso comune. Così distingue tra “oggetto esterno” e “oggetto interno” dell’idea e traccia un netto discrimine tra la “verità esterna, obiettiva” (che comporta la conformità all’oggetto “fuori di noi”) e la “verità interna, logica o di conseguenza”, che scaturisce unicamente dalla relazione fra idee. Inoltre, nel Cours des sciences Buffier introduce alcuni elementi che saranno ripresi anche nella successiva “riforma” dell’empirismo proposta da Condillac. Si tratta di tesi come quella della chiarezza intrinseca dell’idea: non esistono idee che sarebbero di per sé oscure, ma esse diventerebbero tali soltanto per la presenza di un tacito giudizio di conformità con l’oggetto esterno, quando questa conformità in realtà non è tale. Con questi aggiornamenti, la via delle idee è pronta per entrare a far parte del mainstream della cultura dei Lumi.