di Damiano Palano
Ci sono pochi dubbi sul fatto che l’ingresso di Matteo Renzi sulla scena politica italiana abbia rappresentato una cesura radicale, e non soltanto perché a Palazzo Chigi è arrivato il più giovane presidente del Consiglio della storia unitaria. La sequenza che in rapidissima successione ha visto Renzi conquistare la guida del Partito democratico e raccogliere il testimone del governo di Enrico Letta ha infatti segnato per molti versi la chiusura dell’esperienza ventennale della ‘Seconda Repubblica’, oltre che la definizione di un nuovo quadro, dalla fisionomia ancora incerta.
Benché i ritmi dell’ascesa al vertice della politica nazionale da parte dell’ex sindaco di Firenze fossero difficilmente prevedibili, in chiave di analisi retrospettiva è ora facile riconoscere nel successo di Renzi una conseguenza dei molti nodi irrisolti che hanno segnato il crepuscolo della Seconda Repubblica: innanzitutto, l’implosione della coalizione di centro-destra, logorata dalle traversie giudiziarie e politiche di Silvio Berlusconi e, al tempo stesso, dall’impossibilità di individuare una leadership in grado di prendere il posto del fondatore di Forza Italia; in secondo luogo, la debolezza del Partito democratico (Pd); infine, il trionfo elettorale del Movimento 5 stelle, che, rompendo gli equilibri del ‘bipolarismo frammentato’, ha fatto sì che il sistema partitico assumesse una configurazione tripolare. Probabilmente, senza il successo ottenuto dal M5S nel 2013, la proposta di un drastico cambio del gruppo dirigente - sintetizzata dal fortunato slogan della ‘rottamazione’ - si sarebbe scontrata infatti con le invalicabili resistenze interne al Pd. Ma, d’altro canto, è stata anche la posizione centrale assunta dal Partito democratico nel nuovo assetto tripolare a dare ulteriore alimento all’ascesa di Renzi: per la sua storia personale e per la netta discontinuità che rappresenta rispetto a tutto il vecchio gruppo dirigente, l’ex sindaco può infatti ambire a intercettare voti nel bacino elettorale del centro-destra, e dunque a spostare sempre più marcatamente il partito verso il centro dello schieramento politico.
Sfruttando tutte le potenzialità del frame comunicativo del ‘cambiamento’, Renzi è riuscito a introdurre alcune novità. Sotto il profilo organizzativo Renzi ha definitivamente superato tutte le riserve che, nel campo del centro-sinistra, avevano indotto a guardare con sospetto alla ‘personalizzazione’ e al rafforzamento della leadership. Nel doppio ruolo di segretario del Pd e di premier, Renzi ha anzi fatto del decisionismo una bandiera, tanto sul piano delle riforme istituzionali, quanto sul piano della comunicazione. Sotto il profilo ideologico, ha invece tentato di modificare il profilo identitario del Partito democratico, attaccando in particolare alcuni simboli consolidati della sinistra italiana (per esempio, lo Statuto dei lavoratori) e, più in generale, puntando verso una ridefinizione del bagaglio ideologico, simile a quella operata da Tony Blair nel Partito laburista.
Nel corso del suo primo anno da capo del governo, Renzi ha dovuto condurre la propria battaglia politica su tre fronti. Innanzitutto è stato impegnato a contrastare le opposizioni parlamentari, rappresentate principalmente da Forza Italia, Lega Nord e M5S. Ma, fin dall’inizio, si è soprattutto trovato alle prese con un’opposizione interna, costituita sia da una parte del vecchio gruppo dirigente del Pd, sia dalla Cgil, con cui i rapporti si sono notevolmente deteriorati in occasione del varo della riforma del mercato del lavoro. Infine, Renzi ha dovuto combattere la propria battaglia politica sul terreno europeo, nell’intento di allentare il rigore dell’Eusul rispetto dei criteri fissati dal Trattato di Maastricht. E, per quanto sia ancora difficile formulare previsioni sul futuro politico di Matteo Renzi, si può ritenere che le sue sorti si giochino proprio in Europa. In assenza di una ripresa economica ancora difficile da intravedere, il mantenimento da parte di Bruxelles della linea dell’austerità potrebbe infatti rivelarsi fatale per un leader che, al proprio arrivo, ha promesso agli italiani molto, e probabilmente molto più di quanto potesse credibilmente mantenere. E d’altronde sul piano delle realizzazioni il bilancio del governo Renzi rimane ancora piuttosto critico: se certo l’introduzione del bonus fiscale ha ottenuto un notevole effetto sul piano della comunicazione, le numerose riforme annunciate e parzialmente avviate richiederanno molto tempo prima di produrre qualche effetto.
Nel nuovo assetto tripolare il Pd si trova certo in una posizione di vantaggio, perché, occupando di fatto il centro dello spazio politico, diventa il partner indispensabile per ogni coalizione di governo. Ma la marcia di spostamento verso il centro non è priva di incognite. Innanzitutto perché il tripolarismo favorisce le tendenze centrifughe, ossia la possibilità che partiti esclusi stabilmente dall’area di governo radicalizzino le loro posizioni, spostandosi sempre più verso le ali estreme. Ma in secondo luogo non è neppure detto che il nuovo Pd riesca effettivamente a superare le diffidenze dell’elettorato di centro-destra, che in qualche misura ha finora visto nel Pd una filiazione del vecchio Pci. È d’altronde necessario ricordare che alle elezioni europee del 2014 il Partito democratico è riuscito a conquistare nel bacino degli elettori di centro-destra solo una percentuale ridotta di voti. Proprio per tutte queste insidie rimane ancora molto difficile capire se la ‘rivoluzione’ di Matteo Renzi segnerà davvero l’avvio di un nuovo ciclo, o se invece l’impetuosa ascesa dell’ex sindaco di Firenze si rivelerà solo una meteora nel cielo della politica italiana.