Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante l’Ottocento, e in particolare nella seconda metà del secolo, gli Stati Uniti sono protagonisti di una straordinaria espansione territoriale, demografica ed economica che, dopo il primo conflitto mondiale, li porterà a subentrare all’Inghilterra come nazione guida dell’economia-mondo. Gli Stati Uniti si pongono all’avanguardia anche per quanto riguarda il progresso tecnologico e quello dell’organizzazione delle imprese.
L’ascesa degli Stati Uniti nel corso del XIX secolo ha caratteristiche peculiari che la differenziano dai processi di modernizzazione e di industrializzazione che hanno luogo nel continente europeo. Negli Stati Uniti lo sviluppo economico e industriale si accompagna infatti a uno straordinario ingrandimento territoriale e a una crescita demografica senza eguali altrove. All’inizio dell’Ottocento la popolazione americana supera appena i cinque milioni di abitanti, in gran parte concentrati nelle originarie 13 colonie della costa atlantica, mentre alla fine del secolo la popolazione raggiunge quasi i 90 milioni, sparsi in un territorio di più di otto milioni di chilometri quadrati.
Il processo di colonizzazione talvolta segue, e talvolta precede, la presa di possesso ufficiale dei nuovi territori. Fino all’inizio dell’Ottocento, il confine orientale degli Stati Uniti corre lungo il Mississippi. Nel 1803 il presidente Jefferson acquista dalla Francia quella che veniva definita la “Louisiana”, in pratica la vastissima striscia di territorio tra il Mississippi, le Montagne Rocciose, il confine messicano e il Canada, entro il quale vengono costituiti gli Stati di Louisiana, Arkansas, Kansas, Missouri, Oklahoma, Iowa, Nebraska, Minnesota, Dakota, Montana e Wyoming; nel 1819 viene annessa anche la Florida, ex spagnola. L’altra tappa fondamentale è l’annessione dei vasti territori a nord del Rio Grande dopo il conflitto con il Messico tra il 1845 e il 1848.
Con la formazione degli Stati della California (1850) e successivamente dell’Oregon e di Washington, gli Stati Uniti acquistano finalmente la loro fisionomia definitiva di Stato affacciato sui due oceani.
La colonizzazione dei nuovi spazi è un fenomeno complesso e diversificato, sempre strettamente legato alle esigenze dei mercati internazionali e che influisce fortemente sull’evoluzione dell’agricoltura. La prima fase dell’avanzata europea nell’interno del continente americano è stimolata dalla domanda di pellicce e legname, mentre in un secondo tempo i prodotti fondamentali sono – a seconda delle diverse zone – il cotone, il grano e il bestiame.
La coltivazione su vasta scala del cotone negli Stati meridionali era iniziata verso la fine del Settecento; un impulso fondamentale aveva dato nel 1793 l’invenzione della sgranatrice meccanica da parte di Eli Withney. All’inizio dell’Ottocento la produzione di cotone annua è di circa 10 mila tonnellate e nel 1810 sale a 50 mila tonnellate. Tra il 1820 e il 1870 il valore delle esportazioni di cotone passa poi da 20 a più di 70 milioni di dollari e gli Stati Uniti producono i sette ottavi del cotone mondiale. La domanda in continua ascesa, soprattutto da parte delle industrie britanniche, stimola la conquista di nuove terre da adibire alla coltivazione di cotone, anche perché questa pianta esaurisce rapidamente i suoli, provocando fenomeni di erosione. Mississippi, Alabama, Louisiana e Texas vedono dunque sorgere nuove piantagioni coltivate da schiavi.
Un’altra merce fortemente richiesta dal mercato mondiale è il grano. Tra il 1875 e il 1890 la superficie coltivata a grano negli Stati Uniti aumenta del 40 percento, grazie alla messa a coltura di vaste porzioni delle pianure centrali. Un’importanza centrale in questo fenomeno ha il miglioramento dei trasporti, terrestri e navali, che permette ai prodotti delle terre di recente colonizzazione di trovare sbocchi sui mercati lontani. Tra il 1870 e il 1885, ad esempio, il costo del trasporto del grano da Chicago a New York si riduce a un terzo circa.
Dopo gli anni Settanta e Ottanta, il grano americano e anche la carne proveniente dagli allevamenti sorti nelle zone semi-aride della prateria conquistano i mercati europei, provocando una grave crisi dell’agricoltura del Vecchio Continente.
L’agricoltura americana, a causa dell’alto costo della manodopera e della vastità delle aziende, si dimostra molto più pronta di quella europea ad adottare i nuovi strumenti meccanici. Nel 1870, ad esempio, l’80 percento del grano americano viene mietuto meccanicamente, mentre alla stessa data la percentuale è del 2 percento per l’Inghilterra e di circa il 3 percento per la Francia e la Germania. Gli Stati Uniti sono anche i primi a introdurre il trattore.
Un altro prodotto grandemente richiesto sui mercati internazionali che dà un notevole impulso alla colonizzazione di certe zone dell’America, come anche dell’Australia e del Sud Africa, è l’oro. Nel 1848 in California vengono scoperti giacimenti auriferi che scatenano la prima grande “corsa all’oro”. Tra il 1850 e il 1860 la popolazione di questo Stato quadruplica, arrivando a poco meno di 400 mila persone.
A partire da metà Ottocento, quindi, la conquista dei territori degli Stati Uniti centrali, abitati da tribù indiane, procede sia dalla costa atlantica sia da quella del Pacifico, e a partire dal 1869 le due coste vengono collegate dalla prima ferrovia transamericana.
All’inizio del secolo, gli Stati Uniti dipendono in larga misura dall’importazione di manufatti dall’Europa; le uniche attività di una certa rilevanza sono la cantieristica e la lavorazione del legname. Durante le guerre napoleoniche, a causa della difficoltà delle importazioni, si registra un certo sviluppo industriale, soprattutto tessile, ma questo si interrompe bruscamente con il ritorno della pace nel 1814. Le vere basi dello sviluppo industriale americano vengono gettate tra il 1820 e il 1860 e rappresentano la premessa della spettacolare crescita che all’inizio del Novecento porterà al primato economico e tecnologico gli Stati Uniti.
Nella seconda parte del secolo il flusso migratorio, in primo luogo dall’Europa, si intensifica e si modifica. Se la crescita demografica è spettacolare, ancora più impetuoso è lo sviluppo dell’urbanizzazione. In un secolo la popolazione di New York aumenta di oltre cinquanta volte e le tappe dell’avanzata verso ovest sono segnate dal sorgere di nuove città in rapidissima crescita, come Chicago, Saint-Louis e San Francisco.
Nella prima parte del secolo la maggior parte degli immigrati negli Stati Uniti provengono ancora dalle isole britanniche: numerosissimi – circa 2 milioni – sono in particolare gli Irlandesi che abbandonano la loro isola dopo la catastrofica epidemia scoppiata nella seconda metà degli anni Quaranta. Non sempre, però, gli emigranti dall’Europa si lasciano alle spalle situazioni così tragiche e ad attirarli sono soprattutto le opportunità di miglioramento sociale ed economico che il Nuovo Mondo sembra offrire.
Nella seconda parte del secolo il numero degli immigrati aumenta, anche in conseguenza del miglioramento dei trasporti navali transatlantici, e la loro provenienza si diversifica. Accanto ai britannici fanno la loro comparsa i tedeschi – più di 4 milioni di persone fino al 1900 – gli scandinavi – che si insediano soprattutto nella zona dei Grandi Laghi – e poi via via i russi, i sudditi della monarchia asburgica e gli italiani.
In particolare nell’ultimo decennio del secolo gli immigrati dall’Europa meridionale e orientale superano quelli provenienti dall’Europa nord-occidentale, ponendo nuovi problemi di inserimento e di assimilazione, soprattutto nelle grandi città della costa atlantica dove in genere i nuovi arrivati si fermano, costituendo comunità compatte.
Le caratteristiche del territorio americano e del suo popolamento, nonché la grande distanza che separa gli Stati Uniti dai Paesi avanzati dell’Europa occidentale influenzano profondamente lo sviluppo americano, costituendo a un tempo un ostacolo e un’opportunità. A causa delle grandi distanze e della bassa densità di popolamento, soprattutto nei primi tempi, il mercato appare troppo asfittico per sostenere un processo di industrializzazione, e inoltre i costi della manodopera risultano considerevolmente più elevati che in Europa. D’altra parte, però, la grande dotazione di risorse, la crescita continua della popolazione e l’elevato livello di produttività del lavoro, grazie a una manodopera particolarmente qualificata e a un’accorta politica protezionistica, si rivelano straordinari fattori propulsivi.
Gli ostacoli più seri all’industrializzazione americana in questa prima fase sono rappresentati dall’esiguità del mercato, che non consente la specializzazione necessaria, e dalle importazioni di prodotti inglesi. Se la prima difficoltà viene progressivamente risolta dal forte aumento demografico, la seconda porta all’adozione di una politica protezionistica – già auspicata da Hamilton nel suo Rapporto sulle manifatture alla fine del Settecento – che si concretizza con la tariffa del 1816 che impone dazi di circa il 35 percento su tutti i prodotti industriali.
La scelta protezionista è comunque motivo di contrasto fra il Nord-Est atlantico sulla via dell’industrializzazione e gli Stati del Sud agricoli e liberisti, un contrasto che sfocia nella guerra di secessione.
I settori chiave dell’industrializzazione, in questa prima fase, sono quello tessile, del cuoio, del ferro e dei macchinari. Tra il 1830 e il 1860 il numero dei fusi attivi nell’industria cotoniera quadruplica e la forte crescita di questo settore stimola a sua volta la produzione di macchinari – filatoi, telai – che originariamente venivano prodotti in laboratori artigianali all’interno delle stesse aziende tessili, ma che progressivamente diventano un settore autonomo e specializzato.
In questo periodo, all’interno degli Stati Uniti, si delinea una specializzazione economica che assegna al Nord la produzione di manufatti, al Sud quella di materie prime industriali come il cotone o il tabacco e all’Ovest quella di prodotti alimentari come grano e carne.
Alla crescita dell’industria americana in questa fase contribuiscono l’abbondante disponibilità di alcune materie prime, come i giacimenti di ferro della Pennsylvania e di fonti di energia idrica. Per quanto riguarda la disponibilità di capitali, inoltre, la prosperità commerciale del periodo delle guerre napoleoniche ha lasciato in eredità capitali e un mercato del credito che vengono utilizzati dalla nascente industria.
Un aspetto particolarmente importante è l’elevato livello di preparazione della manodopera americana, anche grazie a un sistema scolastico particolarmente avanzato, e la forte propensione all’innovazione.
Nella seconda fase dell’industrializzazione il processo investe sempre nuovi settori, la geografia economica degli Stati Uniti si modifica profondamente e anche la struttura dell’impresa cambia radicalmente, soprattutto a causa dell’evoluzione tecnologica. Un dato basta a riassumere lo spettacolare sviluppo dell’economia americana. Pur in presenza di una crescita demografica che praticamente triplica la popolazione tra la metà e la fine del secolo, il reddito pro capite aumenta nello stesso lasso di tempo del 50 percento circa.
Se prima del 1850 il ruolo del carbone era stato modesto, per la mancanza di giacimenti nelle regioni industriali dell’Est, dopo questa data lo sfruttamento dei giacimenti della Pennsylvania orientale offre una nuova fondamentale risorsa all’economia americana: tra il 1850 e il 1900 il consumo di carbone passa da 8,3 a 258 milioni di tonnellate.
Come avviene anche nell’Europa continentale in questo periodo, la costruzione di una rete ferroviaria gioca un ruolo fondamentale, sia direttamente perché stimola la produzione siderurgica e meccanica, sia indirettamente perché riduce i costi di trasporto, ampliando e integrando i mercati. Nel 1860 gli Stati Uniti dispongono di poco meno di 50 mila chilometri di ferrovia che verso la fine del secolo salgono a circa 270 mila, una rete più ampia di quella dell’intera Europa.
Lo sviluppo della ferrovia ha un impatto considerevole anche sui mercati finanziari. Le enormi risorse finanziarie che devono essere mobilitate per realizzare le reti ferroviarie sono infatti all’origine delle banche d’investimento americane e della crescita della borsa di Wall Street. Un altro aspetto della rivoluzione dei trasporti che trasforma i mercati in questa seconda parte del secolo è rappresentato dall’introduzione dei piroscafi e delle navi in ferro.
Nella seconda metà del secolo la produzione di beni strumentali aumenta a un ritmo superiore rispetto a quella dei beni di consumo e le industrie siderurgiche e metallurgiche fanno registrare i progressi quantitativi e tecnologici più rilevanti: tra il 1850 e il 1914, la produttività per addetto in questo settore aumenta di ben trenta volte.
Lo sviluppo tecnologico e la crescita delle dimensioni degli impianti produttivi impone anche radicali cambiamenti nelle forme di organizzazione e gestione delle imprese. Ancora una volta è il settore ferroviario che apre la strada in questo campo, in virtù dei problemi molto complessi di coordinamento e di gestione che pone il traffico ferroviario su lunga distanza. All’inizio del Novecento, quindi, le imprese statunitensi sono all’avanguardia non solo nel campo strettamente tecnologico, ma anche per quanto riguarda la razionalizzazione e il controllo dei processi produttivi. Quest’attenzione è imposta, non per ultima, dall’elevata intensità di capitale delle industrie americane e sfocerà nello scientific management, a cui l’ingegnere americano Taylor legherà il suo nome.
Queste trasformazioni ridisegnano però anche la geografia economica e industriale degli Stati Uniti. Così il New England e in genere il Nord-Est, epicentro dell’industrializzazione americana, perdono terreno – in termini relativi anche se non assoluti – soprattutto rispetto alla regione dei Grandi Laghi (con Cleveland e poi Chicago) che deve la sua fortuna allo sviluppo dell’industria siderurgica e meccanica.