Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Settecento la presenza europea in Asia diviene sempre più rilevante. Dal colonialismo mercantile delle compagnie privilegiate si passa all’imperialismo territoriale, con conseguenze politiche ed economiche di enorme portata sia per l’Europa che per l’Asia. La conquista dell’India sancisce il predominio mondiale dell’Inghilterra nella competizione con la Francia e apre nuovi mercati ai prodotti della nascente industria britannica.
All’inizio del Settecento gli Europei in Asia sono poco numerosi e le potenze europee si limitano in genere a controllare alcune piazze commerciali. Non esistono in Asia colonie europee di popolamento come quelle presenti in America: ancora alla fine del secolo, in India non ci sono più di 30 mila Europei e in Cina quasi tutti gli Occidentali, meno di 5 mila, sono confinati a Canton. Anche dal punto di vista politico l’influenza europea è più limitata. Pur godendo infatti di una significativa superiorità militare, soprattutto per quanto riguarda la guerra sul mare, gli Europei si trovano di fronte a Paesi densamente popolati, spesso organizzati in enormi imperi centralizzati, quali l’impero safavide, quello moghul o quello cinese, o comunque di Stati forti, come quello giapponese, in grado di opporre una strenua resistenza alla penetrazione occidentale.
Fino alla metà del secolo quindi l’Asia sostanzialmente sfugge alla presa dell’Europa e rimane esterna all’economia-mondo da essa controllata. Le compagnie privilegiate, come l’olandese VOC (Vereenigde Oost-Indische Compagnie) o l’inglese EIC (East India Company) che costituiscono lo strumento principale attraverso cui operano gli agenti economici europei, si trovano quindi all’interno di sistemi economici e politici sostanzialmente controllati dagli Asiatici. Nel corso del Seicento la struttura degli scambi tra Europa e Asia era già profondamente mutata. Il pepe e le spezie, che verso il 1650 rappresentano più dei due terzi del valore delle importazioni europee, perdono importanza a favore dei prodotti tessili (41 percento) – cotone indiano e sete cinesi e persiane – e poi delle bevande stimolanti (32 percento), soprattutto il tè cinese e il caffè della penisola arabica.
Ricordiamo però che, accanto alla via marittima, attraverso l’Oceano Indiano e la rotta del Capo, prende forma nel Settecento un altro itinerario commerciale, quello che unisce Russia e Cina, i due più grandi imperi euroasiatici, attraverso la Siberia. Le relazioni fra i due giganti sono regolate dal trattato di Nercinsk (1689) e dal successivo trattato di Kiakhta (1727), che precisano le rispettive sfere d’influenza in Asia orientale e le modalità degli scambi. Da parte russa si esportano soprattutto pellicce provenienti dalla Siberia ma anche dall’Alaska; da parte cinese cotone, seta e tè.
Durante i primi decenni del secolo gli Olandesi conservano il primato soprattutto del traffico di spezie. La compagnia olandese controlla il capo di Buona Speranza, Cochin e altre basi commerciali sulla costa del Coromandel e di Ceylon. Il centro della sua potenza è però l’Insulindia, dove si trova Batavia, capitale dell’impero olandese e sede del governatore, che gode di un’amplissima autonomia. La Compagnia in genere non assume direttamente il controllo dei territori sui cui esercita la sua influenza – Giava e Sumatra, le Molucche, la penisola della Malacca e il Borneo – e preferisce forme di controllo indiretto grazie a trattati stipulati con i potentati della regione per impedire il commercio nella zona ad altre potenze europee e a volte per imporre il pagamento di tributi in prodotti locali e spezie. Nel corso del Settecento però gli Olandesi tendono a estendere la loro sovranità diretta su ampie zone, a cominciare da Ceylon dove tra il 1739 e il 1765 il raja del regno di Kandy viene costretto al pagamento di un tributo. Anche Giava è interamente sottomessa ma gli Olandesi preferiscono sempre ricorrere all’intermediazione politica di dinastie locali.
Gli scambi con l’Oriente sono della massima importanza per l’economia dei Paesi Bassi: ancora verso la metà del Settecento essi costituiscono la metà circa del loro commercio estero e la Compagnia arriva a distribuire dividendi del 30 percento annuo. Dopo la metà del secolo i profitti tendono però a diminuire per la minor richiesta di spezie e per la concorrenza di altri operatori europei. La situazione finanziaria peggiora in primo luogo perché la Compagnia tende a distribuire dividendi troppo alti ricorrendo all’indebitamento, quindi a causa dell’inefficienza amministrativa e della corruzione dei suoi funzionari, che commerciano in proprio eludendo il monopolio della Compagnia stessa. Il coinvolgimento dell’Olanda nelle guerre napoleoniche decreta la fine dell’attività della Compagnia delle Indie Orientali, già oberata dai debiti. I suoi possedimenti asiatici sono in gran parte occupati dagli Inglesi e nel 1798 la Compagnia deve cessare la sua attività. Viene sciolta nel 1800. I suoi possedimenti, in parte recuperati dopo la fine delle guerre napoleoniche, passano sotto il diretto controllo della corona olandese.
All’inizio del Settecento il ruolo delle compagnie privilegiate inglesi e francesi è ancora secondario ma in rapida crescita. Il commercio francese decuplica in mezzo secolo ma resta ancora inferiore a quello degli Inglesi, che alla metà del secolo inviano ogni anno una ventina di navi in Asia.
Escluse dall’Insulindia, Francia e Inghilterra concentrano i loro sforzi sull’India. La nuova East India Company inglese ha le sue principali basi a Bombay, Madras e Fort William (Calcutta), sedi delle tre presidencies cui fanno capo i possedimenti inglesi nel subcontinente. La Compagnia francese delle Indie Orientali, fondata nel 1664 da Colbert, è soggetta alla corona, cui spetta la nomina del direttore. Nel 1723, dopo l’avventura dello scozzese John Law, viene riorganizzata e rilanciata. Nella prima metà del Settecento la Compagnia francese controlla numerose piazze sulle coste del Malabar, del Coromandel e del Bengala, tra le quali Chandernagore e Pondichéry, capitale dell’India francese. In questa fase Inglesi e Francesi limitano la loro presenza alle attività commerciali, che peraltro si rivelano piuttosto proficue. Gli Europei importano dall’India tessuti di cotone che in parte rivendono anche in Cina, da dove importano seta e quantità sempre maggiori di tè. Fino alla metà del secolo la bilancia commerciale europea nei confronti dell’India è però gravemente deficitaria, dato che i prodotti europei non vengono importati in India.
La situazione interna del subcontinente indiano è però in rapido mutamento a causa del progressivo sfaldamento dell’Impero moghul. Durante il lungo regno dell’imperatore Aurengzeb, rigoroso musulmano sunnita, i rapporti fra indù e musulmani si erano deteriorati, minacciando l’unità del’impero che nel frattempo si era eccessivamente esteso nell’India meridionale, al di là delle possibilità di controllo della corte moghul. I nizam (viceré), i nawab (governatori) e i raja (i principi indù) che governano le province si sottraggono di fatto all’autorità dell’impero. Alle spinte centrifughe si aggiungono le minacce esterne. Quella dei maratthi, guerrieri indù stanziati nelle regioni occidentali, e quella degli afghani che, guidati da Nadir Shah, dopo aver conquistato l’impero safavide nel 1736, invadono l’India e saccheggiano Delhi nel 1738. Da questo momento l’Impero moghul, che per due secoli aveva rappresentato la potenza egemone nel subcontinente indiano e uno degli imperi più popolosi e ricchi del globo, cessa in pratica di esistere, aprendo alle potenze europee prospettive del tutto nuove.
Dopo la metà del secolo le caratteristiche della presenza europea in Asia e soprattutto nell’Oceano Indiano mutano radicalmente. Due sono gli aspetti più importanti di questo cambiamento: la definitiva affermazione dell’Inghilterra come principale potenza marittima e coloniale d’Europa e il mutamento strutturale dei rapporti politici ed economici tra Europei e Asiatici. All’origine di questi sviluppi vi è il desiderio degli Europei di controllare più direttamente le risorse economiche dell’Asia e, in particolare, di finanziare le esportazioni verso l’Europa con le risorse interne dell’India oltre alla proiezione oltremare dei conflitti tra le potenze europee e all’indebolimento dell’Impero moghul, causato dai conflitti con i maratthi e dalle invasioni afghane.
Lo scontro fra Francesi e Inglesi prende il via dall’iniziativa dell’intraprendente governatore di Pondichéry, Joseph-François Dupleix che nel 1744, nel quadro della guerra di successione austriaca, si allea con alcuni principi indiani e attacca i possedimenti inglesi nell’India del Sud riuscendo a conquistare Madras nel 1746. Con la fine della guerra in Europa, nel 1748 la Francia deve restituire Madras, ma le ostilità proseguono fino al 1754, quando Dupleix viene richiamato in patria.
Al momento della ripresa delle ostilità, nel 1756, in occasione della guerra dei Sette anni, il quadro politico e militare in India si complica ulteriormente. Nel 1756 il nababbo del Bengala, Siraj-ud-Daula, formalmente soggetto all’imperatore moghul ma di fatto autonomo, attacca e conquista Calcutta. La reazione inglese non si fa attendere. Il generale inglese Robert Clive riconquista Calcutta pochi mesi dopo, occupa il vicino caposaldo francese di Chandernagore e nel 1757 sconfigge definitivamente Siraj-ud-Daula nella battaglia di Plassey. Questa vittoria risolve a un tempo il conflitto franco-inglese a favore di questi ultimi e getta le basi di quello che sarà l’impero britannico in India. Gli Inglesi infatti controllano tutto il Bengala attraverso il nuovo nababbo, Mir Ja’far. La posizione dei Francesi si fa sempre più critica: nel 1760 il comandante francese Lally viene sconfitto da Sir Eyre Coote a Wandiwash e la stessa Pondichéry viene conquistata nel 1761. Nel 1764 la battaglia di Buchsar riconferma il predominio inglese nel Bengala e l’imperatore moghul Shah Alam II è costretto a riconoscere alla Compagnia inglese delle Indie Orientali il controllo di fatto delle province del Bengala, dell’Orissa e del Bihar, mentre la pacedi Parigi del 1763 sancisce in pratica la rinuncia dei Francesi – che comunque conservano insediamenti commerciali – alla competizione coloniale con gli Inglesi. Una nuova fase di conflitti si apre a partire dal 1780, quando Haidar Alì, sovrano di Mysore, cerca di conquistare tutta l’India meridionale con l’appoggio della Francia, in quel momento impegnata contro l’Inghilterra a fianco delle colonie americane ribelli. Haidar Alì viene però sconfitto e la stessa sorte tocca a suo figlio Tipu, che cade combattendo contro gli Inglesi a Seringapatam nel 1799. Tutto il subcontinente indiano è ormai saldamente sotto il controllo, più o meno diretto, della Gran Bretagna.
L’enorme crescita del potere della Compagnia inglese delle IndieOrientali pone gravi problemi. La Compagnia è una sorta di “Stato nello Stato” i cui rapporti con il governo inglese da una parte e con le autorità indiane dall’altra sono molto complessi. La Compagnia è a un tempo una società commerciale privata che gode di una concessione governativa e un ente parastatale che amministra vari territori. Questi territori in certi casi sono amministrati direttamente dai funzionari della Compagnia e in altri governati attraverso i potentati locali, secondo il sistema detto del double gouvernement. Inoltre in Inghilterra gli ambienti liberali, a cominciare da Adam Smith, mettono sotto accusa il monopolio commerciale della Compagnia, i cui risultati economici non sono pari alla crescita di potenza politica anche a causa delle diffuse malversazioni dei suoi funzionari. Un primo tentativo di riforma viene effettuato attraverso il Regulating Act del 1773, dove si stabilisce la divisione dei possedimenti indiani della Compagnia in tre presidenze – Bengala, Bombay, Madras – e al governatore del Bengala vengono assegnate funzioni di supervisione di tutta la politica della Compagnia. Il controllo governativo viene ulteriormente esteso dall’India Act di William Pitt il Giovanedel 1784, che istituisce un Board of Control governativo per l’India composto da quattro commissari nominati dalla corona, dal cancelliere dello scacchiere e da un altro ministro. La riforma di Pitt fissa le strutture di governo dell’India britannica che resteranno in vigore fino alla metà dell’Ottocento. Contemporaneamente alle riforme che modificano il rapporto fra la Compagnia e lo Stato inglese vengono varate, soprattutto da Lord Cornwallis tra il 1786 e il 1793, una serie di riforme amministrative interne per adattare la Compagnia stessa al suo nuovo ruolo politico e restituirle efficienza. Fondamentale è la separazione fra funzioni amministrative e funzioni commerciali, affidate a funzionari distinti, e anche fra le funzioni giudiziarie e di governo. Il nuovo dominio britannico e le successive riforme hanno conseguenze di enorme portata sulla società indiana, in particolare la riforma della proprietà della terra, che sconvolge la complessa stratificazione di diritti sul suolo tipica della società indiana tradizionale. Gli Inglesi introducono il diritto di piena proprietà attribuendolo in genere agli zamindar, ovvero ai signori che esercitano la loro autorità su un certo territorio e ai quali l’Impero moghul affida la riscossione delle imposte, e in certi casi ai ryot, ovvero le famiglie contadine. Nel 1793 viene attuata una riforma fiscale – il Permanent Settlement – che stabilisce che gli zamindar siano i soggetti del prelievo. In qualche modo si tratta di una versione indiana delle recinzioni (enclosures) e gli Inglesi sperano di creare una sorta di gentry capace di dar vita a un’agricoltura moderna ed efficiente. In realtà l’esito di questo processo – rivoluzionario per la società tradizionale indiana – non è la formazione di una classe imprenditoriale agricola, ma il consolidamento di un ceto di proprietari assenteisti e di usurai che opprimono i contadini, i cui diritti consuetudinari vengono ignorati.
Nella seconda metà del Settecento, con l’inizio del Raj britannico in India, anche la fisionomia delle relazioni economiche fra India e Inghilterra, e più in generale fra Asia ed Europa sia avvia verso un mutamento strutturale. Fino alla metà del secolo la presenza europea nelle economie dell’Oceano Indiano e dell’Asia orientale è certo un elemento importante, anzi sempre più importante, ma non decisivo: “Il ritmo profondo dell’economia asiatica” – ha scritto giustamente Guido Abbattista – “specie per quanto riguarda la situazione di vaste regioni interne del continente, restò del tutto inalterato dall’intrusione europea”. Il contrario è forse meno vero. L’impatto del commercio con l’Asia è certamente profondo almeno per alcuni Stati europei – Portogallo, Olanda e poiInghilterra – ma anche in questo caso occorre essere prudenti: alla fine del Settecento il contributo dell’India al reddito nazionale britannico si aggira intorno all’1-2 percento.
Non bisogna però neppure sottovalutare i segni di novità. Il consolidamento del dominio territoriale europeo – diretto o indiretto – su vaste porzioni del subcontinente indiano, la cui popolazione è pari grossomodo a quella dell’intera Europa, comporta una sempre più stretta integrazione della sua economia nel mercato mondiale e detta le condizioni entro le quali questa integrazione – potremmo dire questa globalizzazione – avviene. Per secoli l’India era stato un paese esportatore di manufatti, soprattutto tessuti di cotone, e in questo ruolo si era dimostrato un temibile concorrente per la stessa industria inglese, tanto da indurre il governo britannico ad adottare misure protezionistiche. A partire dall’inizio dell’Ottocento l’India diviene progressivamente un Paese importatore di prodotti finiti ed esportatore di materie prime – cotone e seta greggia innanzi tutto – e importatore di prodotti finiti tra i quali i tessuti di cotone prodotti nelle nuove fabbriche inglesi hanno un posto di rilievo e ovviamente la mancanza di autonomia dell’India politica esclude qualsiasi possibilità di regolare in base ai propri interessi economici gli scambi con la potenza coloniale. Il dominio britannico, che come abbiamo visto modifica radicalmente gli equilibri sociali ed economici interni all’India, impedisce quindi all’India di intervenire in qualsiasi modo sulle forme e le modalità della sua incorporazione nell’economia mondiale.
Il controllo dell’India e delle sue risorse modifica anche le relazioni della Gran Bretagna con quelle regioni dell’Asia sudorientale e orientale come laCina che, per quasi un altro secolo, riusciranno a sottrarsi alla presa degli Europei. La spettacolare crescita delle importazioni dalla Cina – seta, porcellane ma soprattutto tè – è finanziata dall’esportazione di tessuti di cotone indiano e, più tardi, di oppio.