L’astrologia
La riscoperta della cultura antica, tratto caratterizzante dell’età dell’Umanesimo, si verificò anche sul terreno degli studi di astrologia: grande importanza rivestirono il ritrovamento di antichi manoscritti latini, per secoli dimenticati nelle biblioteche, e l’entrata in circolazione di testi in greco, giunti in Italia a partire dagli anni Trenta del Quattrocento. Nel 1417 fu l’umanista toscano Poggio Bracciolini (1380-1459), che si trovava in Svizzera per il concilio di Costanza, al seguito del papa, a rintracciare nella biblioteca del monastero di S. Gallo gli Astronomica di Marco Manilio (1° sec. a.C.-1° sec. d.C.), il più grande poema astrologico romano, il cui testo era rimasto ignoto ai medievali. Lo stesso Bracciolini ritrovò nel 1429, nell’abbazia di Montecassino, una versione completa dei Matheseos libri VIII di Giulio Firmico Materno (4° sec.), l’ultimo manuale astrologico dell’antichità latina, che il Medioevo aveva potuto leggere solo a partire dal 12° sec., in forma mutila. Dal canto suo, la venuta dei dotti bizantini rese disponibile gran parte dei manoscritti greci cui era consegnato il patrimonio astronomico-astrologico del mondo tardoantico e bizantino. In quei contesti, non diversamente da quanto sarebbe poi avvenuto nella cultura di lingua araba, e in quella latino-medioevale, le due discipline erano state coltivate come i due lati di un’unica ricerca, la scienza delle stelle. Aveva fatto testo l’orientamento tracciato alla metà del 2° sec. da uno dei massimi scienziati alessandrini, Claudio Tolomeo: accanto allo studio dei moti planetari, ricondotti a leggi rigorose e previsti con geometrica esattezza, l’indagine astrale comprende la ricerca congetturale sugli effetti che tali moti possono esercitare sulle materie terrestri (Tolomeo, (Tetrabiblos), Proemio, I, 1-10).
Il processo di assimilazione di tale sapere fu particolarmente stimolato dal cardinale Basilio Bessarione (1403-1472), che si stabilì a Roma nel 1443, portando con sé una cospicua biblioteca astronomico-astrologica, riflesso fedele dei suoi interessi di studioso. Fra i più notevoli manoscritti in suo possesso si possono citare sei codici dell’Almagesto, quattro della (Tetrabiblos), quattro del Centiloquium, oltre a diverse copie dei principali commenti a questi ultimi due testi, e a opere di Arato, Doroteo, Vettio Valente, Paolo di Alessandria, Teone, Efestione, Eliodoro, Retorio, Teofilo. Alla biblioteca di Bessarione si deve l’avvio della riscoperta occidentale dell’astrologia di lingua greca, oltre che della summa tolemaica dell’astronomia antica, quell’Almagesto che il cardinale aveva studiato a Mistrà, alla scuola di Giorgio Gemisto Pletone, e del quale fornì il manoscritto a Giorgio da Trebisonda, che lo tradusse in latino nel 1451. Né va dimenticato il ruolo che nella diffusione di tale patrimonio rivestirono le nuove tecniche della stampa a caratteri mobili.
Un frutto importante del ritrovato contatto con le fonti classiche fu una linea di poesia astronomico-astrologica che, nella cultura del Quattrocento, annoverò gli Astronomica libri (1455) di Basinio da Parma, i due poemi De rebus naturalibus et divinis (1469-1472) di Lorenzo Bonincontri, l’Urania (1476-1479; pubbl. postumo 1505) di Giovanni Pontano, con interessanti riprese nella cultura europea del secolo successivo.
Le prospettive di Basinio, Bonincontri e Pontano affondavano solide radici nella cultura umanistica. I tre studiosi provenivano da aree geografiche diverse, quasi a testimoniare il policentrismo di una cultura che investì trasversalmente università, accademie e corti variamente dislocate, ed ebbe fra i propri centri principali Mantova, Ferrara, Venezia, Urbino, Roma, Napoli, Firenze. Basinio (1425-1457) si era formato tra Mantova e Ferrara, presso le biblioteche umanistiche di Vittorino da Feltre e Guarino Veronese, che disponevano ciascuna di un codice del poema astrologico di Arato, il più antico in lingua greca. Ispirandosi ai modelli antichi, il suo poemetto in due libri descrive con eleganza la sfera celeste, le costellazioni zodiacali ed extrazodiacali, i movimenti dei cinque pianeti e gli effetti dei luminari (Sole e Luna). Nato in Toscana, a San Miniato, Bonincontri commenta Manilio, studia la (Tetrabiblos) compilandone degli Excerpta e scrive un commento al Centiloquio. Il De rebus naturalibus et divinis di Bonincontri presenta una descrizione del moto e delle proprietà dei pianeti, nonché del loro influsso sul temperamento umano. Pontano (1429-1503), uno dei massimi intellettuali dell’Umanesimo italiano, scrive e rielabora più volte, nei suoi ultimi anni, l’Urania, il più bel poema astrologico di quell’età, descrivendo con ricca immaginazione gli astri erranti, le costellazioni, i loro influssi sui quattro cardini del tema natale.
Nella poesia astrologica del Quattrocento e del Cinquecento, il lussureggiante complesso dei moti celesti, che l’antica scienza delle stelle aveva ricondotto a ritmi e regolarità geometriche, tornava a dispiegare tutta la sua straordinaria ricchezza mitopoietica, e la sua suggestione immaginativa. In essa riemergeva la dimensione dell’indagine astrologica, che più aveva interessato la cultura greco-ellenistica: quella che, postulando l’esistenza di complesse relazioni di corrispondenza fra gli astri e l’uomo, aveva dato vita alla genetliaca, tecnica raffinata e sottile di analisi dei temperamenti individuali. Ne scaturiva un’immagine del sapere degli astri che ritrovava alcuni dei tratti propri di quella antica, assumendo un profilo diverso da quello consegnato alle grandi summae, le quali, nel tardo Medioevo, avevano impresso alla materia una forma rimasta a lungo canonica. Lo stesso movimento di riappropriazione di una cifra smarrita si sarebbe riprodotto anche nel libro XIX della vasta enciclopedia De expetendis et fugiendis rebus (1501) del grecista ed erudito Giorgio Valla (1447-1500), per molti anni attivo a Venezia, che in esso condensò nozioni sui moti celesti e sulle stelle, e sui giudizi sulle natività, ripresi da Tolomeo, Porfirio, Paolo Alessandrino, Vettio Valente. Veniva meno l’architettura nella quale gli studiosi medievali avevano inserito, classificandole gerarchicamente, le tecniche astrologiche; una sistemazione complessiva, dove a ogni indagine spettavano collocazioni e livelli definiti, cedeva il passo allo sviluppo di temi e punti specifici. Si riplasmava il quadro delle autorità: mentre gli scritti di riferimento diventavano quelli di Manilio, Arato, Igino, Marziano Capella, la (Tetrabiblos) di Tolomeo e altre opere in greco, perdevano una centralità a lungo indiscussa i testi in arabo, la cui traduzione in latino, a partire dal 12° sec., era stata veicolo, dopo secoli di oblio, del ritorno dell’astrologia in Occidente.
La riscoperta dell’astrologia, seguita alle traduzioni dall’arabo realizzate a partire dal 12° sec., aveva aperto in Occidente un processo di assimilazione che ne aveva in breve tempo prodotto una nuova sistemazione. Su tale processo aveva grandemente influito la tolemaica (Tetrabiblos), denominata in latino Opus quadripartitum, il trattato che meglio esprimeva procedure e metodi dell’astrologia antica, tradotto dall’arabo insieme al commento del medico egiziano ‛Ali ibn Ridwān (988 ca.-1061ca.), lo Haly dei latini. Ma molto avevano contato anche il Centiloquium, la raccolta pseudotolemaica di cento sentenze, giunta in Occidente insieme al commento di Ahmed ibn Yusuf (835-912), tanto celebre da essere resa in latino ancor prima della (Tetrabiblos), e le opere in arabo di autori successivi, il più noto e influente dei quali in Occidente era stato chiamato Albumasar (787-886). I dotti medievali avevano coralmente assunto gli astrologi arabi come interpreti autentici e continuatori fedeli di Tolomeo. In verità quella in lingua araba era piuttosto una koinè astrologica, nella quale indicazioni tolemaiche erano mescolate a motivi di derivazione persiana e a temi magico-ermetici. L’aspetto più caratteristico di tale mescolanza era l’inedita proliferazione di riferimenti e tecniche, che in apparenza segnava una integrazione delle scarne indicazioni tolemaiche, ma più in profondità ne modificava sottilmente il senso, tornando a inseguire l’idea della infallibilità della previsione astrologica, e della sua capacità di penetrare integralmente il corso delle cose.
L’immagine stoicizzante dell’astrologia, spesso prevalente fra i suoi studiosi antichi, le assegnava il compito di restituire senza residui la concatenazione necessaria degli eventi. La convinzione che fosse possibile prevedere con esattezza gli eventi futuri non era tuttavia stata condivisa da Tolomeo, per il quale infallibilità e assoluta certezza riguardavano soltanto la previsione dei moti planetari, mentre l’indagine degli effetti particolari doveva necessariamente fare i conti con il margine di indeterminazione proprio degli eventi individuali. L’indagine genetlialogica sui temi natali era una ricerca di tipo congetturale, dalle conclusioni soltanto probabili. L’idea di una congetturalità costitutiva dell’astrologia individuale fu però respinta nell’ambiente arabo, propenso piuttosto a ritenerla un limite. Di qui la creazione di nuove tecniche e riferimenti, nello sforzo mai concluso di assicurare esaustività e certezza alla previsione.
La versione araba dell’astrologia aveva attratto l’attenzione dei medievali, che della materia avevano tracciato una sistemazione complessiva e ordinata. Grandi summae l’avevano presentata come scientia media, inserita tra cosmologia e filosofia naturale, sullo sfondo di un’immagine dell’universo di derivazione aristotelica. All’interno della grande sfera, del mondo, delimitata dal cielo delle stelle fisse, ruotavano i sette cieli, su ciascuno dei quali era incastonato un pianeta: nell’ordine (dall’alto) Saturno Giove Marte Sole Venere Mercurio Luna. L’astrologia aveva il compito di ricostruire gli effetti dell’influsso dei loro moti sulle materie sublunari. Di regola, le procedure astrologiche erano così elencate: rivoluzioni degli anni, natività, elezioni, interrogazioni. Di esse solo la seconda era presente in Tolomeo; le ‘rivoluzioni’ derivavano dagli arabi, mentre ‘interrogazioni’ ed ‘elezioni’ avevano origine ermetica. Tornava così a presentarsi nelle trattazioni occidentali il miscuglio di tecniche caratteristico dell’astrologia araba.
Il recupero dell’astrologia classica non fu un processo lineare né breve. Finché le nuove traduzioni degli scritti astrologici di Tolomeo non resero possibile documentarne anche filologicamente le differenze rispetto alle nugae arabum, l’istanza di recupero della «vera» astrologia sembrò talora mescolarsi ai motivi della polemica antiastrologica vecchia e nuova. Indicativo a tal proposito è il percorso di Marsilio Ficino (1433-1499), in rapporto con l’astrologia.
Il primo scritto di Ficino sull’argomento, la Disputatio contra iudicium astrologorum, stesa nel 1477 e mai pubblicata, muove da una netta presa di distanze dal fatalismo astrologico al quale si erano ispirati gli interpreti arabi, e che la riscoperta di Manilio e Firmico aveva riproposto nella sua versione antica. Descrivendo negli astri i punti di partenza di catene causali, che producono effetti rigorosamente necessari, il fatalismo astrologico comportava la negazione della responsabilità e della libertà umana. Per questo motivo esso era stato respinto nel tardo Medioevo da quanti avevano ammesso la possibilità di un’astrologia cristianizzata, per la quale gli astri non determinano gli eventi, ma inscrivono nei temperamenti individuali una serie di disposizioni naturali; inclinano, dunque, non necessitano. Filosoficamente, nella maggior parte dei casi tale presa di posizione faceva riferimento alla filosofia aristotelica. In Marsilio, il rifiuto del fatalismo aveva radici non tanto aristoteliche, quanto neoplatoniche. Ma insieme al fatalismo stoico il filosofo fiorentino respinse anche le teorie astrologiche sulla storia delle civiltà e delle religioni, alle quali aveva dato forma il De magnis coniunctionibus di Albumasar. Si trattava di speculazioni che dal punto di vista tecnico si appoggiavano alla teoria, di derivazione persiano-sassanide, delle grandi congiunzioni, ma da quello filosofico affondavano le radici proprio in un’antica idea plotiniana, secondo la quale gli astri non possono nulla sull’anima dell’uomo, ma i loro spostamenti possono essere intesi come segni degli eventi generali, che essi preannunciano «come uccelli ignari».
La teoria albumasariana, che vedeva il ritmo della storia scandito dalle periodiche grandi congiunzioni di Saturno e Giove, aveva goduto di grande fama nell’Occidente tardomedievale. Marsilio la respinge fermamente, sembrando puntare, dopo aver condannato il fatalismo astrale, a un integrale rifiuto delle tesi astrologiche. Negli scritti successivi esplora però la possibilità di adoperare la teoria plotiniana degli astri-segni non più in rapporto all’indagine dei grandi eventi del mondo, bensì su un terreno diverso, a suo tempo escluso da Plotino: quello dei temperamenti e delle vicende individuali. Tale idea prende forma in molte lettere del ricco Epistolario, per collegarsi nei libri De vita (1489) a una giustificazione della possibilità di captare gli influssi favorevoli degli astri, per migliorare la salute fisica e psichica dell’uomo. Viene in tal modo accolta la concezione espressa in alcuni trattati del Corpus hermeticum: l’uomo. il cui intelletto ha recepito l’illuminazione divina, può adoperare l’astrologia per ripararsi dal fato, ossia dalla concatenazione delle cause materiali, corporee. La conoscenza dei condizionamenti astrali può consentire al saggio di adottare una condotta di vita che utilizzi al meglio le energie benefiche, distornando quelle nefaste, sia per quanto riguarda la salute del corpo, sia in rapporto al benessere dell’anima.
Questa forma di ermetismo astrologico troverà agli inizi del Seicento un nuovo importante assertore in Tommaso Campanella (1568-1639). Nella Città del Sole (1602), lo Stilese si richiamerà infatti alla tecnica ermetica delle electiones, volta alla scelta del momento migliore per dare inizio a un’azione, sia in rapporto alla costruzione della città ideale, iniziata in un momento scelto dagli astrologi per cogliere le più favorevoli posizioni degli astri; sia nel contesto della particolare eugenetica praticata a Taprobana, dove il tempo adatto per le unioni destinate alla procreazione viene scelto su base astrologica (La Città del Sole e questione quarta sull’ottima repubblica, 1996, pp. 74, 61).
Assai diverso, in rapporto alla pratica delle elezioni e a quella congenere delle interrogazioni, fu l’orientamento che prevalse fra Cinquecento e Seicento presso i protagonisti del ritorno a quel Tolomeo che di ambedue quelle tecniche, incompatibili con l’astrologia razionalistica da lui difesa, non aveva parlato. Girolamo Cardano bandì le elezioni e cercò di assorbire la tecnica delle interrogazioni all’interno di quella delle natività (De interrogationibus libellus, in Opera omnia, 5° vol., 1663, pp. 553-60); Francesco Giuntini (1523-1590) sconsigliò di occuparsene (Tractatus iudicandi revolutiones mundi, in Speculum astrologiae, 2° vol., 1583, p. 1154); Gerolamo Vitali (1623-1698) inserì nel suo lessico il lemma electiones, solo in chiave di astrologia medica, in rapporto alla scelta del momento astrologicamente più adatto alla somministrazione dei farmaci e alle variazioni della terapia (Lexicon mathematicum astronomicum geometricum, 2003, pp. 165-69).
Si tenne rigorosamente lontana dai temi ermetici la genetliaca di Pontano, che all’astrologia dedicò anche due scritti teorici: il Commento alle Cento sentenze di Tolomeo, nuova traduzione commentata del Centiloquium, e il De rebus coelestibus in quattordici libri. Molto importante fu il lato propriamente umanistico dell’approccio pontaniano, sorretto da un ampio ricorso alle fonti greche e, in particolare, ai commenti tardoantichi e bizantini di Tolomeo, come l’Isagoge di Porfirio, il cosiddetto commento anonimo alla (Tetrabiblos), la versione bizantina del commento al Centiloquio di Ahmed ibn Yusuf. Pontano intese interpretare il condizionamento astrale come una forza che agisce dall’interno del mondo naturale, senza risvolti provvidenzialistici né implicazioni magiche, e l’astrologia come indagine congetturale nel senso tolemaico, utile a comprendere la grande varietà dei temperamenti umani. La sua lettura del Centiloquium si volse dunque a conciliare i cento aforismi con il contenuto dottrinale della (Tetrabiblos), depotenziando in particolare, come vedremo fra poco, quelli che in alcuni aforismi sembravano essere punti di appoggio del congiunzionismo, e la giustificazione della magia, adombrata nella nona sentenza. Per quanto riguarda la magia dei talismani, costruiti dagli operatori nel momento propizio, astrologicamente determinato attraverso la tecnica delle elezioni, sostiene dunque che essi utilizzano proprietà naturali degli elementi, e non implicano alcun ricorso a energie soprannaturali. Importante è infine, nel dodicesimo libro del De rebus coelestibus, un lungo brano teso a respingere gli argomenti antiastrologici delle Disputationes adversus astrologiam divinatricem di Giovanni Pico della Mirandola, stampate postume nel 1496. Il valore dell’astrologia è per Pontano quello di uno strumento di analisi raffinata e sottile dei temperamenti individuali.
Nella cultura astrologica italiana, fra Quattrocento e Cinquecento, il ritorno alla genetliaca non cancella l’interesse per l’astrologia mondiale, che tanto aveva attratto gli arabi e i medievali avevano assunto come fondamento dell’intero edificio astrologico. Assai frequentato continua a essere il terreno dei pronostici annuali, vero e proprio genere letterario, la cui diffusione è ampliata dalla stampa. Nel 1466, Pietro Bono Avogario, che insegnò a Ferrara dal 1467 al 1506, pubblica un pronostico astrologico, accanto al quale nel 1469 se ne registra uno analogo, dovuto al bolognese Girolamo Manfredi (1430 ca.-1493). Si inaugura in tal modo un filone accademico il cui prestigio è tale che a Bologna dal 1476 formulare «giudizi dell’anno» diventa obbligatorio per i docenti di astronomia, che ne saranno liberati solo agli inizi del Settecento. Molto famoso è il giudizio De eversione Europae, più volte ristampato, di Antonio Arquato, autore fra il 1490 e il 1495 di diversi pronostici; molto importanti anche quelli di Domenico Maria Novara (1454-1504), ferrarese di nascita e docente a Bologna, dove ebbe tra i suoi allievi e più stretti collaboratori Nicola Copernico.
Tale genere di letteratura non ha alcun precedente nell’astrologia greca, poiché era stato soltanto in ambiente persiano-sassanide che si era iniziato ad applicare le tecniche dell’astrologia individuale all’analisi degli eventi generali. Da questa linea di sviluppo era scaturito il tema della rivoluzione dell’anno, che applicava alla previsione degli eventi generali di ogni singolo anno le tecniche varate dall’astrologia greca in rapporto alla previsione di eventi individuali. In apertura del giudizio per l’anno 1484, il maestro di Copernico dichiara dunque di volersi servire sia delle congiunzioni solilunari, delle eclissi e delle comete, raccomandate da Tolomeo, sia delle rivoluzioni dell’anno, di provenienza persiano-sassanide, sia delle grandi congiunzioni, care agli astrologi di lingua araba.
Sulle differenze fra Tolomeo e gli arabi insiste invece Lucio Bellanti (1460 ca.-1499), che nelle sue Responsiones (1498) confuta le tesi del voluminoso trattato antiastrologico di Pico della Mirandola. Il tema troverà nuovo sviluppo nei numerosi commenti a Tolomeo, che si susseguiranno nella cultura europea fra Quattrocento e Cinquecento.
Gli arabi, però, non scompaiono dall’orizzonte degli studi. Albumasar, per es., continua a presentarsi come uno dei referenti essenziali dell’opera del ferrarese Pellegrino Prisciani (1435-1518), che conosce Manilio e ne riprende alcuni temi, ma annovera fra i propri maestri ideali anche Pietro d’Abano (1250-1318), grande ammiratore dell’astrologo arabo. Attivo presso la corte di Borso d’Este, in quella Ferrara nel cui Studio avevano insegnato Avogario e Giovanni Bianchini (1410 ca.-1469), autore di importanti Tabulae astronomicae, Prisciani elabora per Borso il programma iconografico del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia (1470 ca.), utilizzando sia Albumasar sia Manilio. Ma è ancora da Albumasar, attraverso la mediazione di Pietro d’Abano, che attinge il tema della congiunzione tra Giove e la Testa del Drago come momento favorevole alla preghiera, svolto in due famose lettere del 1487 e del 1509, a Eleonora d’Aragona e a Isabella d’Este (Pompeo Faracovi 2012, pp. 71-76). E Albumasar continuerà a essere considerato da molti un maestro lungo tutto il Cinquecento, anche per quanto riguarda la discussa teoria delle grandi congiunzioni.
La rinnovata centralità della genetliaca è testimoniata, lungo tutto il Cinquecento, dal moltiplicarsi dei trattati e delle raccolte di geniture. Si inserisce in questo quadro il Tractatus astrologiae judiciariae de nativitatibus di Luca Gaurico (1475-1558), dato alle stampe nel 1540 a Norimberga, insieme con il De judiciis nativitatum di Antonio da Montolmo, risalente al 1394, quasi a far risaltare quanto il tema delle geniture, o natività, fosse stato coltivato anche in passato. A quel libro, Gaurico fece seguire nel 1552 un Tractatus astrologicus diviso in sei capitoli che raggruppano le geniture per generi, quelle delle città, dei papi, dei re, dei grandi intellettuali. Fra loro quelle di Pico, Achille Achillini, Francesco Petrarca, Ermolao Barbaro, Poliziano, Regiomontano, Erasmo da Rotterdam, Cornelio Agrippa, Melantone, Albrecht Dürer, Michelangelo e Martino Lutero. Quest’ultima, per la quale Gaurico era stato interpellato da Filippo Melantone (1497-1560), ebbe un certo rilievo e fu occasione di un contrasto fra Gaurico da una parte, Erasmus Reinhold (1511-1553) e Johannes Carion (1449-1537), collaboratori di Melantone, dall’altra.
La genitura di Lutero, la cui data di nascita non era certa (si sapeva che il giorno era l’11 novembre, ma si discuteva sull’anno, 1483 o 1484), fu eretta da Gaurico per le ore 1.10 post meridiem del 22 ottobre 1484. In tal modo, la congiunzione Saturno-Giove (in rapporto alla quale Paolo di Middelburg, vescovo di Fossombrone, aveva preannunciato l’avvento di un piccolo profeta), insieme a Mercurio, Venere e Sole, ne occupava la nona casa, «che gli arabi assegnavano alla religione». Tale configurazione, concludeva Gaurico, aveva reso il monaco agostiniano «sacrilego, eretico, nemico acerrimo della religione cristiana» (Tractatus astrologicus, 1552, f. 69v).
Più dettagliate e approfondite, soprattutto dal punto di vista dell’astrologia medica, volta a cogliere le predisposizioni patologiche e le malattie correlate ai transiti planetari, sono le geniture presentate da Cardano, sia nel De exemplis centum geniturarum, pubblicato in versione definitiva nel 1547, sia nel successivo Liber duodecim geniturarum (1554). Nel suo approccio all’astrologia, il medico-filosofo si era inizialmente attenuto alle forme sancite dalla tradizione, pubblicando un Pronostico per l’anno 1534, con previsioni sull’andamento del tempo, le epidemie e le malattie, e i principali eventi dell’anno, sul terreno della storia religiosa e in rapporto alle principali potenze europee. In quel testo giovanile, la presa di distanze dalla pratica astrologica corrente ne aveva ascritto i limiti alla mancanza di conoscenze adeguate, e alla cortigianeria di molti astrologi, preoccupati più di compiacere il principe di turno che non di applicare correttamente i principi dell’arte. L’istanza critica si era espressa nella forma collaudata della polemica dell’astrologia dotta nei confronti dell’astrologia volgare, incolta e superficiale: era respinta la qualità delle previsioni annuali generalissime, non la loro utilità. Tale punto di vista fu abbandonato presto, senza che l’autore facesse più menzione di quello scritto. Fu infatti alla genetliaca che Cardano rivolse poi il massimo dell’attenzione, commentando minutamente le sue raccolte di geniture, soprattutto in rapporto all’indagine sulle predisposizioni patologiche e sulle malattie dei soggetti esaminati; e incentrando sull’astrologia individuale il proprio nuovo commento a Tolomeo.
Letta la traduzione completa della (Tetrabiblos), resa da Antonio Gogaca, Cardano si convinse che il rinnovamento dell’astrologia dovesse passare attraverso il recupero del vero volto dell’opera di Tolomeo. Decise allora di scrivere un commento che fu pubblicato nel 1554, ristampato nel 1555 e uscì nuovamente, postumo, nel 1578. In esso affermò che il Centiloquium non era opera di Tolomeo, ma di un interprete che ne aveva mal compreso e anzi sfigurato la dottrina. Lo scritto avviliva l’astrologia e, ricorrendo a tecniche inaffidabili, ne faceva uno strumento di lucro, rendendone sacrilega la dottrina e consegnandola a chi cerca solo il guadagno, con infamia e rovina per l’intera arte. Questa andava intesa come un capitolo della filosofia naturale, e non come superstizione, vaticinio, magia, augurio, auspicio o altre cose simili (G. Cardano, Commentaria, in Opera omnia, 5° vol., 1663, p. 356). Quanto al congiunzionismo, Cardano lo ridimensionò per la sua mancanza di fondamento astronomico. Basandosi sui moti medi dei pianeti superiori, scrisse, i suoi assertori non avrebbero potuto determinare con certezza né il giorno né l’ora della loro congiunzione, e nemmeno la figura e lo stato del cielo. Da ciò si comprende quanto poco significativa sia la scienza di tali congiunzioni, finora tanto celebrate. Se Tolomeo non ha trattato degli eventi di lunga durata, è perché i loro effetti sono troppo lenti e indistinti, dunque sono affare dei profeti, non degli astrologi. Non a caso, Cardano ricondusse all’interno della genetliaca anche il tema natale di Cristo, in contrasto con i congiunzionisti medievali, che avevano eretto l’oroscopo della religione cristiana a partire dalla grande congiunzione verificatasi in Ariete nel 6 a.C. (Pompeo Faracovi 1999, pp. 183-90).
La maggior parte degli studiosi di astrologia fra Cinquecento e Seicento tornò a esporre l’arte secondo Tolomeo. Fu dunque la tecnica degli oroscopi individuali a occupare la massima parte delle duemila pagine del monumentale Speculum astrologiae, pubblicato a Lione nel 1581 da Francesco Giuntini, che vi riunì, accanto ai propri scritti, molti testi della tradizione, ristampando soltanto un breve trattato di astrologia mondiale, il Tractatus iudicandi revolutionum mundi. Di genetliaca, oltre che di astrologia medica, si occupò Giovanni Antonio Magini (1555-1617), successore di Egnazio Danti (1536-1586) sulla cattedra di matematica di Bologna, e protagonista di un’astiosa polemica contro il più anziano Giuntini, accusato di non essersi sufficientemente sottratto al peso della tradizione, soprattutto di quella araba. A sua volta, Magini compose una cospicua introduzione all’astrologia, in quattro trattati, stampata nel 1582 a Venezia insieme a effemeridi molto lodate.
Sebbene si interessasse di previsioni annuali, vista la presenza nella sua biblioteca di alcuni pronostici del suo corrispondente Giovanni Antonio Roffeni (1580 ca.-1643), Galileo Galilei restrinse la propria pratica astrologica allo studio degli oroscopi di allievi, amici e parenti, delle due figlie in particolare. Incentrato sulla genetliaca è anche il trattato di Placido Titi (1603-1668), Physiomathematica seu Coelestis philosophia, poi messo all’Indice.
Il tema delle grandi congiunzioni era emerso nella cultura astrologica di lingua araba allo scopo di integrare le scarne indicazioni tolemaiche, che restringevano l’astrologia mondiale allo studio degli effetti delle congiunzioni solilunari e le eclissi. L’idea che sorreggeva la teoria era quella che le periodiche congiunzioni dei pianeti superiori, Saturno, Giove e Marte, potessero essere adoperate per la previsione dei grandi eventi naturali e dei mutamenti storici. Nella versione del De magnis coniunctionibus di Albumasar, che ebbe in Occidente straordinaria fama, questa teoria sembrò fornire un grandioso strumento per la scansione delle fasi storiche, e del succedersi delle religioni. In ambiente ebraico, generò ripetuti annunci della prossima venuta del Messia, integrando congiunzionismo, richiami a passi biblici e scritturali, calcoli numerologici di sapore cabalistico. Ebbe fortuna anche in ambiente cristiano, in particolare attraverso l’elaborata rivisitazione di Pierre d’Ailly (1350-1420), il cui programma di convergenza fra teologia e astrologia fu oggetto di critiche particolarmente severe da parte di Pico.
Il congiunzionismo non aveva peraltro mancato di suscitare rilievi critici da parte degli astrologi. Come ricordò Lucio Bellanti, erano stati studiosi come Ibn Ezra (1092-1167) e ‛Ali ibn Ridwān i primi a esprimere perplessità sull’affidabilità di quella tecnica che nella versione albumasariana utilizzava le congiunzioni medie, non quelle effettive, dei pianeti superiori. Questa critica conosce ora una rinnovata attualità, in un movimento di reazione nei confronti delle esagerazioni del congiunzionismo e delle sensazionali previsioni, sempre regolarmente smentite dai fatti, di eventi epocali, come la venuta del Messia, o l’eversione dell’Europa, o un nuovo diluvio universale, da molti profetizzato per il 1524, in occasione di una congiunzione Saturno-Giove nel segno dei Pesci. Su questi annunci epocali, regolarmente falliti, avevano molto insistito le Disputationes pichiane, considerandoli una delle ragioni centrali della inattendibilità delle previsioni astrologiche di ogni tipo.
Fra quanti nel Cinquecento presero le distanze dalla teoria delle grandi congiunzioni, insistendo sulla sua dissonanza dalle indicazioni di Tolomeo, va ricordato Agostino Nifo (1473-1538 o 1545 o 1546), che lesse e commentò la (Tetrabiblos) nello Studio di Napoli, e dedicò alla questione il De nostri temporis calamitatum causis (1505) e il De falsa diluvii pronosticatione (1519). Di parere opposto furono Giovan Battista Abioso da Bagnoli (fine del 15° sec.- inizio 16° sec.), autore di un Dialogus in astrologiae defensionem, stampato nel 1494, e Tommaso Giannotti Rangoni (1493-1577), che contrappose all’opera di Nifo un De vera diluvii pergnosticatione (1522). Dal canto suo Giuliano Ristori, in un gruppo di lezioni svolte a Pisa nel 1548, tenne ferma la conciliazione fra Tolomeo e il congiunzionismo, sostenendo con ragioni filosofiche l’importanza delle grandi congiunzioni. Alla domanda: «contano di più i luminari o i pianeti superiori?», rispose, come molti medievali, con un riferimento all’ordinamento del cosmo. Le sfere dei pianeti superiori sono più ampie di quelle dei luminari, e le contengono; perciò gli eventi più duraturi sono da loro causati. L’idea della rilevanza astrologica della grande congiunzione perdurerà in Johannes Kepler (1571-1630): la congiunzione, quanto più è rara, tanto maggiore commozione suscita nella natura (J. Kepler, De stella nova, 1606, p. 35). Critico delle grandi idee albumasariane sul ritmo «matematico» della storia, e partecipe del ritorno a Tolomeo, è Francesco Cigalini (1489-1551), il cui trattato esce a Como soltanto nel 1699 ma è composto un secolo prima. La sua tesi è che «le operazioni delle stelle avvengono secondo natura, non secondo matematica» (Coelum sydereum, p. 176).
Con la questione delle grandi congiunzioni ebbe a che fare anche il dibattito sul Centiloquium. L’egiziano ‛Ali ibn Ridwān lo considera uno scritto ermetico. Nifo non ne mette in dubbio l’autenticità, affermata anche da Ristori. Pontano, come il Trapezunzio, cerca di conciliarlo con la (Tetrabiblos), ma urta, oltre che contro lo scoglio della magia, contro quello delle grandi congiunzioni. Le allusioni che gli aforismi 58, 63, 65 sembrano operare a questo tema vengono da lui riferite non alle congiunzioni Saturno-Giove, ma a quelle tra Sole e Luna (Commentationes, 1531, p. 114), le uniche esaminate da Tolomeo. Anche Cigalini condivide lo sforzo di dare alle indicazioni del Centiloquium.un senso tolemaico; ma è Cardano a chiudere il cerchio, negandone con risolutezza la paternità tolemaica. Pontus de Tyard (1521-1605) andrà poi oltre, attribuendo la paternità del Centiloquium al suo commentatore arabo, Ahmed ibn Yusuf, che definisce «Haly falsario del suo Tolomeo in cento luoghi» (Mantice ou Discours de la vérité de divination par astrologie, 1558, p. 13).
La consapevolezza della sua estraneità al dettato tolemaico e la fragilità dei suoi fondamenti astronomico-astrologici non impedirono alla dottrina congiunzionistica di continuare a esercitare il suo fascino lungo tutto il Cinquecento. Coltivata in Germania nella scuola di Wittenberg, riunita intorno a Melantone, prima che da Kepler essa fu ripresa da Tycho Brahe (1546-1601) negli Astronomiae instauratae progymnasmata (1610), ai quali attinse anche Campanella.
Proprio il caso dello Stilese fornisce importanti indicazioni su alcuni aspetti della parabola del congiunzionismo in Italia. Mosso da una giovanile avversione all’astrologia, Campanella si era poi accostato alle sue tecniche, ma aveva condiviso soltanto in parte gli orientamenti puristici dell’astrologia tolemaica del Cinquecento. Pur facendo propria, negli Astrologicorum libri, pubblicati nel 1629, l’istanza di mettere da parte le superstiziose esagerazioni arabe, aveva continuato a far riferimento sia alla tecnica delle elezioni, sia alla teoria delle grandi congiunzioni. Quest’ultima era stata utilizzata, nella Città del Sole, in rapporto all’annuncio del prossimo avvento di una «grande monarchia nova», legata al prossimo ritorno delle «congiunzioni magne» nella triplicità di fuoco (La Città del Sole, cit., p. 61). Il tema sarebbe tornato nel diciassettesimo degli Articuli prophetales, terminati nel 1617, dove, con dovizia di riferimenti alle Scritture e ai Padri, a Gioacchino da Fiore, Brahe e al De novissimis temporibus di Cusano, la congiunzione Saturno-Giove, che sarebbe iniziata il 24 dicembre 1603 nel segno del Sagittario, fu interpretata come annunciatrice di nuovi grandi eventi per la cristianità, presentandosi come la prima grande congiunzione nel trigono di fuoco, sotto il quale era nato il cristianesimo, dopo che per duecento anni l’evento si era verificato nel trigono d’acqua, favorendo la religione maomettana e le figure femminili.
Campanella continua dunque lungamente a riproporre quel profetismo congiunzionistico, che le testimonianze degli adepti della congiura calabrese del 1599, e le sue stesse parziali ammissioni dopo il tormento del polledro, avevano posto sullo sfondo della congiura che aveva segnato la sua vita. Ma nella tarda Disputatio pro bullis, scritta nel 1632 allo scopo di chiarire il significato della condanna dell’astrologia contenuta nelle bolle papali Coeli et terrae (1586) di Sisto V e Inscrutabilis (1631) di Urbano VIII, lo Stilese non comprende più il congiunzionismo fra gli aspetti dell’arte, dei quali sostiene la conciliabilità con la teologia cattolica, parlando ormai soltanto di false profezie, di fallaci pronostici astrologici smentiti dai fatti, di predizioni pericolose di cataclismi e imminenti fini del mondo, capaci solo di agitare i re e i popoli (Opuscoli astrologici, 2003, p. 221). Tale mutamento è un segno dell’impatto esercitato sull’impostazione delle ricerche astrologiche dalle bolle papali, che rendevano definitive, consacrandole al livello più alto, le condanne fatte sparsamente valere, dopo il Concilio di Trento, da teologi italiani e spagnoli. Il tentativo di difendere l’astrologia dalle condanne teologiche poteva svolgersi soltanto in rapporto alla genetliaca, a patto di intenderla come indagine congetturale delle disposizioni naturali inscritte nei temperamenti individuali. È quanto tentò di fare Titi nel suo Tocco di paragone (1665), programmaticamente dedicato, come suona il suo stesso sottotitolo, a mostrare la validità e utilità dell’astrologia «nelle parti concesse da S. Chiesa»; a esso si ispira anche la voce Astrologia del Lexicon (1668) di Gerolamo Vitali, nel sottolineare che l’arte «procede attraverso congetture ed esperienze» (Lexicon, 1668, p. 71).
L’astrologia compendiata da Titi era tecnicamente agguerrita e sorretta da calcoli astronomici precisi. Dal punto di vista metodologico ed epistemologico, era un punto di arrivo del movimento di ritorno a Tolomeo, che aveva attraversato due secoli di storia della cultura astrologica. Dal punto di vista filosofico, segnava il ritorno a quella conciliazione fra indagine astrologica e libertà dell’arbitrio, che era già stata nelle prospettive degli studiosi tardomedievali di astrologia. Il suo impatto culturale era però assai diverso. L’astrologia cristianizzata degli ultimi secoli del Medioevo era unita da stretti legami a una filosofia naturale di taglio aristotelico, che era stata lungamente al centro della vita intellettuale europea. A Seicento inoltrato, questo stesso tipo di connessione spostava l’astrologia ai margini del mondo della cultura, visto che non era complessivamente riuscita a sottrarsi all’abbraccio soffocante di un aristotelismo che aveva ormai perso la sua posizione dominante. Anche da questa mancanza di una nuova legittimazione filosofica derivò all’arte di Urania, ormai intesa come frammento di una tradizione obsoleta, un discredito dal quale non le sarebbe stato agevole né breve risollevarsi.
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