L'astronomia egizia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La civiltà egizia si sviluppa a stretto contatto con il Nilo, che con inondazioni periodiche rende fertile il terreno e garantisce il buon esito dei raccolti. La constatazione che questo fiume straripa in concomitanza con particolari eventi celesti contribuisce a delineare sia una mitologia dove gli astri navigano su imbarcazioni, sia una straordinaria attenzione alla misura del tempo. Di fatto, in Egitto nascono il calendario di 365 giorni (anno egizio), che rimane in uso fra gli astronomi fino alle soglie del Seicento, e il giorno di 24 ore uguali.
Se le informazioni sull’astronomia mesopotamica restano sopite fino a metà Ottocento, quando i testi cuneiformi sono studiati in età positivista da abili orientalisti e matematici tedeschi, ben diverso è il caso dell’astronomia egizia. Il primo contatto di studiosi moderni con gli edifici egizi e le raffigurazioni del cielo che vi sono contenute avviene alla fine del Settecento, quando gli scienziati al seguito dell’esercito napoleonico riscoprono le rovine della valle del Nilo. Il contesto illuministico post rivoluzionario fa sì che le testimonianze astronomiche rinvenute siano riportate in Francia con precisi intenti anticlericali. In particolare, le varie scoperte sono asservite a dimostrare l’infondatezza della cronologia biblica e, con essa, di tutto il dettato delle Sacre Scritture. Astronomi e matematici di grande fama, come per esempio Pierre-Simon de Laplace, Joseph-Jérôme Lefrançais de Lalande e Jean Baptiste Joseph Fourier, interpretano i reperti archeologici in chiave puramente scientifica. Con questo essi mirano a dimostrare, calcoli alla mano, l’estrema antichità della scienza astronomica, ritenuta vecchia di oltre 13.000 anni, così da far cadere la tradizionale idea cristiana che il mondo sia stato creato solo 6.000 anni prima della nascita di Cristo.
La tesi illuminista si dimostra infondata dopo che la decifrazione della scrittura egizia, operata da Jean François Champollion sulla base delle iscrizioni in geroglifico, demotico e greco antico presenti sulla celebre stele di Rosetta, smentisce gli assunti arbitrari dei calcoli eseguiti e offre la possibilità di leggere il vero contenuto dei documenti astronomici rinvenuti. Purtroppo però, alcuni aspetti della tesi illuminista non cessano ancora oggi di influire sull’aura di estrema antichità e di mistero che avvolge la scienza egizia. Da un lato è ancora possibile incontrare storie della scienza dove le conclusioni errate dei primi studi francesi riemergono a confondere le acque della cronologia. Dall’altro lato il fascino della civiltà egizia continua a suggerire l’idea di un enorme progresso cancellato dallo scorrere dei millenni e da oscure volontà di nascondere nozioni che sarebbero in grado di sovvertire la storia e la scienza “ufficiali”. Nuovi calcoli astronomici, non suffragati o contraddetti dal dettato delle fonti, continuano a formare i presupposti di teorie secondo cui la sfinge, le piramidi e altri monumenti della piana di Giza sarebbero stati eretti oltre 11.000 anni prima dell’era corrente e nasconderebbero tesori di informazione sull’origine della scienza, dell’uomo e del tutto.
La civiltà egizia si sviluppa sulle sponde della parte terminale e sul delta del Nilo, aree rispettivamente note come Alto e Basso Egitto. Il fiume inonda periodicamente la regione dell’Alto Egitto e la rende fertile. Non ci si deve perciò meravigliare se l’elemento di aggregazione agricola costituito dal Nilo favorisce la formazione di un quadro cosmogonico dove l’acqua ha un ruolo essenziale. L’acqua è all’origine di tutte le cose, tant’è vero che il mondo nasce dall’oceano primordiale Nun. Dall’abisso di questo oceano emerge la Terra, che l’acqua periodicamente torna a sommergere e rigenerare. La Terra, che gli egizi considerano piatta, è tutto intorno avvolta da una massa di acqua caotica. Anche il cielo è liquido e per questo motivo gli astri lo solcano su delle imbarcazioni.
Il dio Sole (Ra) è considerato come il dio primordiale, ordinatore del mondo e creatore della vita. Sebbene sia origine di se stesso, il dio Sole stabilisce un ciclo periodico annuale che lo pone in relazione diretta con la dea dei cieli Nut, raffigurata come una figura femminile nuda, talora con il corpo coperto di stelle, distesa a coprire la Terra. Periodicamente il Sole entra nella bocca di Nut all’equinozio di primavera per esserne nuovamente partorito in coincidenza del solstizio d’inverno. Questo mito rielabora il ciclo annuo di spostamento del punto di levata del Sole rispetto all’orizzonte, compreso fra i limiti estremi del solstizio d’inverno e del solstizio d’estate. Il corso annuo del Sole si fa così simbolo della ciclicità della vita e del destino ultraterreno dell’uomo.
La mitologia associata al Sole è così forte da prevalere su quella delle altre divinità celesti e da influire sulla struttura dinastica del regno faraonico. Il faraone è usualmente identificato con il dio Ra, mentre la sua regina, madre del faraone successivo, il dio Ra rinato, è identificata con la dea Nut. Inoltre il cammino del Sole al di sotto dell’orizzonte dopo il tramonto costituisce l’oggetto di una serie di miti collegati al viaggio dei defunti attraverso gli inferi. Uno di questi miti è contenuto in un prontuario di formule magiche noto come il Libro delle Porte. Il testo riferisce che, una volta tramontato, il Sole attraversa dodici portali. Per farlo pronuncia correttamente il nome di ciascun portale, il nome del suo custode e i nomi dei servitori del custode. Allo stesso modo, il faraone morto che desidera ricongiungersi al padre Ra deve varcare tutti i 12 portali. Egli deve perciò pronunciare una serie di formule magiche baste sui nomi dei portali, dei custodi e dei servitori. Probabilmente questo mito simbolizza l’uso di una serie di stelle di riferimento (i custodi) e di alcune altre stelle a esse vicine (i servitori) allo scopo di determinare le dodici ore della notte (i portali).
Nel complicato insieme di divinità egizie, ha anche rilievo la Luna (Osiride), che forma con il Sole una seconda coppia organica alternativa a quella Sole-Nut. La Luna, oltre a essere associata ai cicli della vegetazione, presenta un ritorno mensile e una serie di fasi che si prestano bene a simbolizzare l’idea della sopravvivenza e della rinascita dopo la morte. L’aldilà è dominato dalla divinità lunare e dalla costellazione di Orione. A quest’ultima si collega la stella Sirio (Sepdet o, per i greci, Sothis), nella attuale costellazione del Cane Maggiore. Sirio è identificata con Iside, figlia di Ra, ed è considerata la divinità portatrice della piena del Nilo.
Oltre a essere onnipresente in testi e raffigurazioni, l’insieme di questi miti è responsabile dell’orientamento di alcuni templi e piramidi. Molto spesso, questi edifici sono diretti verso posizioni notevoli del Sole o verso il punto dell’orizzonte in cui sorge Sirio. Per esempio, la credenza che il faraone morto vada a collocarsi in compagnia delle stelle circumpolari, quelle che non conoscono distruzione perché non tramontano mai, oppure sul carro del Sole, che nel suo corso diurno e notturno circumnaviga la Terra, giustifica il particolare orientamento di molte piramidi. Due lati della base quadrata di queste costruzioni sepolcrali seguono con buona approssimazione un allineamento nord-sud. I lati puntano perciò da una parte in direzione del polo nord celeste, dall’altra in direzione della massima altezza del Sole sopra l’orizzonte.
Le piramidi, erette soprattutto fra il XXVI e il XXII secolo a.C. (Antico Regno), sono la prima manifestazione della volontà egizia di rappresentare il cielo, sia pure in una forma simbolica ed estremamente stilizzata. La piramide altro non è che un cammino verso il cielo realizzato a imitazione del diffondersi dei raggi luminosi dal disco del Sole alto nel cielo. L’ingresso delle piramidi è rivolto a nord e i cunicoli interni presentano inclinazioni e orientamenti tali da permettere la visione delle stelle circumpolari. In particolare, alcuni cunicoli sono diretti verso il polo nord celeste, dove al tempo dell’Antico Regno, per effetto del fenomeno della precessione degli equinozi, si trova la stella più brillante della costellazione del Drago. In proposito, la disposizione delle celebri tre grandi piramidi della piana di Giza (Cheope, Chefren e Micerino) – che così tanto è oggetto di interminabili discussioni nelle trasmissioni televisive sui misteri dell’antico Egitto – è essenzialmente ricercata in modo che nessuna impedisca all’altra la visione del polo nord celeste e dei quattro punti cardinali.
L’orientazione delle piramidi è ottenuta con metodi concettualmente semplici, fondati sull’osservazione diretta del corso giornaliero del Sole. L’area dove deve sorgere la piramide è inizialmente resa perfettamente orizzontale. A tal fine si allaga il terreno e lo si sistema in modo che l’acqua presenti ovunque lo stesso livello. Una volta completata l’operazione di livellamento e prosciugata l’area, il corso giornaliero del Sole è registrato sulla superficie orizzontale grazie a un bastone verticale (gnomone). Con questo semplice strumento si individua la direzione in cui il Sole transita al meridiano del luogo dove ci si trova come quella secondo cui il bastone proietta l’ombra più corta. Questa determinazione della direzione nord-sud realizza talora risultati notevoli poiché, da quanto è possibile valutare oggi, i lati di base di alcune piramidi risultano orientati con errori inferiori a 1°.
Le prime rappresentazioni grafiche della volta celeste seguono di pari passo la comparsa della scrittura geroglifica. All’interno dei sarcofaghi risalenti al XIX secolo a.C. (XII Dinastia) che contengono le spoglie di notabili del regno, si ritrovano i cosiddetti “calendari stellari diagonali”. Si tratta di tavole eseguite secondo una forma convenzionale, aventi funzione rituale, intese per permettere al defunto di stabilire l’ora della notte attraverso la culminazione successiva di 36 stelle di riferimento dette “decani”. All’interno della griglia che forma la tavola, una singola stella appare spostarsi di una posizione in orizzontale e di una posizione in verticale (e cioè in diagonale) a causa del suo sorgere anticipato di un’ora nel passare da un mese al successivo. Purtroppo, nessuna di queste stelle è oggi identificabile, tranne Sirio. Mentre alcuni calendari stellari mostrano anche le divinità celesti Osiride, Iside e Nut, in un solo caso si ha la raffigurazione verosimile di una costellazione circumpolare, quella delle sette stelle del Grande Carro, poste però a delineare la “Coscia del bue”.
Fra il XV e il XII secolo a.C. (Nuovo Regno) si ritrova una grande varietà di decorazioni funerarie a sfondo astronomico. All’interno degli edifici della Valle dei Re emergono con evidenza i soffitti delle tombe dei faraoni. In essi gli artisti egiziani si prefiggono di duplicare il cielo dandone una descrizione il più possibile accurata. Tale descrizione non va ovviamente intesa nel senso moderno di una raffigurazione cartografica, ma segue invece un formalismo tradizionale. L’esame dei resti archeologici evidenzia in particolare l’indicazione di gruppi di stelle che nell’ordine delineano tutto lo zodiaco come una successione di figure animali e di divinità. Tutte queste figure sono rappresentate nell’atto di navigare le acque celesti a bordo di imbarcazioni. Ne è un chiaro esempio il soffitto astronomico posto nella sala del sarcofago del faraone Ramesse VI, risalente alla metà del XII secolo a.C., che include anche iscrizioni sul corso dei vari astri.
Le raffigurazioni di zodiaci sembrano seguire l’esempio della mappa celeste contenuta nel Libro del cielo, composto anch’esso fra il XV e il XII secolo a.C. Il contenuto di questa mappa ottiene notevole successo nel mondo egizio ed è trasposto in un trattato su papiro databile fra il 664 e il 525 a.C. (XXVI Dinastia). In seguito è anche tradotto in demotico, la lingua dell’Egitto ellenistico e romano. Tutte le raffigurazioni di zodiaci sembrano però risalire a una unica fonte comune ancora più antica, il cosiddetto Libro di Nut, che tuttavia ci è pervenuto solo in copie molto tarde del II secolo d.C., tutte prive di illustrazioni.
A partire dal IV secolo a.C., la scienza egizia subisce forti influenze mesopotamiche e greche. La commistione porta alla scomparsa di una astronomia propriamente egizia, che cede il passo alla raffigurazione secondo il gusto locale di elementi importati dalle altre due culture. Questa consistente perdita di identità caratterizza gli zodiaci rettangolari e il planisfero circolare del cielo realizzati rispettivamente nel tempio di Khnum a Esna e nel tempio di Hathor a Dendera. I bassorilievi dei due templi sono all’origine di molte controversie sull’Antichità e il grande progresso che l’astronomia egizia avrebbe raggiunto prima dei Greci e dei mesopotamici. Essi risalgono tuttavia a un’epoca molto tarda, compresa fra il I secolo a.C. e il II secolo d.C., quando nella rappresentazione dei cieli affluiscono alcuni elementi di provenienza romana. In questo senso, l’elemento più appariscente è l’introduzione del segno zodiacale della Bilancia in luogo della più antica costellazione dei Cheliceri dello Scorpione.
Come l’astronomia mesopotamica, anche l’astronomia egizia presenta alcune finalità astrologiche. L’intento di prevedere il futuro si esprime tramite l’osservazione del moto del Sole e degli altri pianeti. Sebbene i testi sulla divinazione compaiano già fra il 1300 e il 1000 a.C., l’interesse per questa pratica è meno acceso rispetto all’area mesopotamica. L’attenzione degli Egizi va piuttosto nella direzione di utilizzare i principali fenomeni celesti per meglio definire e misurare il tempo.
La ragione del più marcato legame fra astronomia e calendario rispetto a quanto avviene altrove è individuabile nella dipendenza essenziale dell’agricoltura egizia dai ritmi fluviali del Nilo. Sebbene anche i corsi del Tigri e dell’Eufrate dagli altopiani dell’odierna Turchia verso sud-est siano soggetti a piene, queste sono molto più contenute rispetto alla piena del Nilo. Quest’ultimo fiume attraversa buona parte dell’Africa da sud a nord e raccoglie periodicamente tanta acqua da superare i propri argini e allagare l’Alto Egitto. L’inondazione, essenziale per fertilizzare i terreni agricoli, appare sincronizzata con il ciclo dell’anno e, probabilmente, in origine è proprio l’intervallo fra due piene a stabilire la durata di questa unità di tempo.
Il cielo offre però la possibilità di un riscontro più stabile nella previsione della piena del Nilo. A parte la possibilità di contare i giorni dell’anno individuati da un ciclo solare, un altro segno celeste precede sempre di pochi giorni il verificarsi della piena. Si tratta del sorgere eliaco – vale a dire immediatamente prima dell’alba – della stella Sirio. La circostanza, letta come l’unione della dea della fertilità Iside (Sirio) con Ra (il Sole) nascente, portatore di vita, costituisce un elemento essenziale per passare da un calendario puramente agricolo a un calendario di sfondo religioso basato sull’osservazione diretta del cielo.
La prima definizione di un calendario egizio è documentata dai calendari stellari diagonali presenti nei già menzionati sarcofaghi di notabili del regno databili al XIX secolo a.C. Forse risalenti a una remota matrice concepita circa un millennio prima, questi calendari sono costituiti da una griglia di 14 righe e numerose colonne. Dai calendari si ricava che il cosiddetto “anno egizio” è formato da 365 giorni che, inseriti in un sistema di computo a base decimale, sono raggruppati in decadi. Il primo risultato è un “anno vago” (= errante) formato da 36 decadi. In dipendenza di un arcaico calendario lunisolare, un mese si compone di tre decadi e l’anno vago è diviso in 12 mesi di 30 giorni: Thoth, Phaophi, Athyr, Choiach, Tybi, Mechyr, Phamenoth, Pharmuthi, Pachon, Pauni, Epiphi e Mesore. Le stagioni sono in tutto tre: Akhet (l’inondazione), Peret (l’emersione) e Shemu (la calura), e sono composte da quattro mesi ciascuna. Per evitare il rapido slittare dell’anno di 360 giorni rispetto alla levata eliaca di Sirio, alla piena del Nilo e alle stagioni, l’anno egizio comprende anche cinque giorni aggiunti (in greco epagomeni). Questi giorni si collocano all’inizio del calendario, sono considerati infausti e non compaiono negli atti ufficiali. I giorni epagomeni non bastano tuttavia a esprimere correttamente l’anno, che è in realtà più lungo di quasi un quarto di giorno. Gli egizi giungono perciò a individuare un “ciclo di Sothis”, pari a 365x4 = 1460 anni, dopo il quale la levata eliaca di Sirio si ripresenta esattamente allo stesso giorno del calendario.
Più in particolare, i calendari stellari diagonali contengono le 36 stelle di riferimento che presiedono alle 36 decadi dell’anno e, per questo motivo, sono chiamate “decani”. Una volta introdotto in Egitto lo zodiaco greco-babilonese, si riscontra che i decani dividono ogni segno in tre parti grossomodo uguali di 10° ciascuna. I decani sono alla base della strutturazione in ore del giorno egizio. L’elemento di partenza è costituito dalla notte, divisa in 12 ore in modo che tre decani successivi si susseguono al meridiano (la semicirconferenza che passa per il nord, lo zenit e il sud) del luogo dove ci si trova nell’intervallo di due ore. Per estensione anche la giornata è divisa in 12 ore. Inoltre, poiché l’anno inizia con il sorgere eliaco del primo decano, la stella Sirio, anche il giorno inizia all’alba. La giornata è in più divisa in altre tre parti di quattro ore ciascuna, la mattina, il pomeriggio e la sera.
Nelle tombe di Ramsete VI, Ramsete VII e Ramsete IX, risalenti al XIII-XII secolo a.C. (XIX Dinastia) si ritrovano i primi riferimenti al modo di osservare il transito meridiano di un decano allo scopo di determinare l’ora della notte. L’osservazione avviene per mezzo di una figura umana, seduta in direzione sud davanti all’osservatore, e rispetto alle cui parti del corpo (spalla, occhio, orecchio ecc.) è definito il transito della stella di riferimento. Si sa tuttavia che un’osservazione più precisa dei decani che passano al meridiano è eseguita con l’abbinamento di due particolari strumenti chiamati bay e merkhet. Il primo è una nervatura di foglia di palma con incavata nella parte superiore una fessura verticale. L’osservatore si pone a una certa distanza dal bay piantato perpendicolarmente nel terreno in modo da individuare la direzione nord-sud della linea meridiana e osservare i decani che passano attraverso la fessura. Il merkhet, una sorta di filo a piombo, agevola la posa in opera del bay e, in più, funge da seconda mira.
Per la misura del tempo sia di giorno che di notte gli egizi sviluppano anche altri strumenti cronometrici. Notizia dei due strumenti più diffusi si rinviene in un papiro del XIII-XII secolo a.C. (XIX Dinastia), dove si riscontra anche l’introduzione delle “ore uguali” o “equinoziali”, vale a dire della divisione del giorno in 24 parti della medesima durata. Questo sistema di misura del tempo si affianca a quello delle cosiddette “ore ineguali” o “stagionali”, la cui lunghezza dipende invece dal periodo dell’anno in cui ci si trova. La lunghezza delle ore ineguali è maggiore di giorno rispetto alla notte nel periodo estivo, e minore di giorno rispetto alla notte nel periodo invernale.
Lo strumento da utilizzare di giorno è l’“orologio a ombra” che, nella forma più antica, è costituito da un regolo diviso in sei parti. Un elemento a forma di “T” montato perpendicolarmente a una estremità dell’assicella funge da indicatore. Il regolo viene appoggiato su un piano orizzontale in direzione est-ovest, con la “T” rivolta a est. La barra orizzontale della “T” viene così a trovarsi in direzione nord-sud. Quando il Sole sorge, l’ombra dell’elemento orizzontale inizia a toccare le divisioni più a ovest del regolo e si avvicina progressivamente al piede della “T”. A mezzogiorno, l’ombra cade verticalmente. È l’istante in cui si ruota il regolo in modo che la “T” guardi a ovest. In questo modo, l’ombra dell’elemento orizzontale, allontanandosi dalla base della “T”, indica le ore del pomeriggio. Questo semplice principio proiettivo è alla base dello sviluppo successivo degli orologi a ombra, che assumono nei secoli forme diverse e molto più elaborate.
Quando il cielo è oscurato dalle nubi si utilizza invece l’“orologio a acqua a deflusso”, il cui uso è attestato già alla fine del XVI secolo a.C. Lo strumento è costituito da un vaso tronco-conico munito all’interno di una scala graduata per indicare le ore e di un buco in prossimità della base. Qui è inserito un ugello di pietra dura con un forellino sottilissimo al centro, dal quale l’acqua esce goccia a goccia. La forma tronco-conica compensa la differenza di velocità fra l’uscita dell’acqua quando il recipiente è quasi pieno rispetto a quando il recipiente è quasi vuoto. In questo modo, il livello dell’acqua scende all’interno del vaso in modo pressoché costante.