L'astronomia ellenistica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I modelli astronomici di Eudosso, Callippo e Aristotele presentano gravi limiti nella spiegazione qualitativa dei fenomeni celesti e appaiono poco pratici per calcolare le posizioni planetarie. L’astronomia ellenistica appare caratterizzata dalla ricerca di modelli geometrici alternativi alle sfere omocentriche. Le varie proposte delineano le due strade maestre dell’astronomia occidentale: i modelli epiciclici porteranno al trionfo l’ipotesi geocentrica del cosmo; i modelli eliocentrici torneranno invece in auge dalla prima metà del XVI secolo.
I modelli omocentrici elaborati da Eudosso di Cnido, perfezionati da Callippo di Cizico e adottati da Aristotele per comporre la macchina del cosmo costituiscono il primo esempio noto di teoria scientifica del mondo occidentale. Con questa definizione si intende che i modelli omocentrici nascono da una base osservativa dei fenomeni celesti (uno studio del corso dei pianeti protrattosi per più anni) e utilizzano una serie di enti matematici (parametri numerici) e geometrici (figure piane o solide) in grado di rappresentare sufficientemente bene una parte della realtà. Una volta definiti, i modelli ambiscono a rendere conto sia dei fenomeni già osservati che di quelli ancora da osservare (le posizioni future dei pianeti) e contengono così il seme della confutazione.
È soprattutto quest’ultimo aspetto a contraddistinguere una teoria scientifica da altri tipi di assunzioni che l’uomo può ritenere valide, quali per esempio le verità date e indimostrabili di una fede religiosa. In qualunque momento, nuove osservazioni possono evidenziare fenomeni che la teoria scientifica non spiega in modo soddisfacente o non spiega affatto.
Nel caso dei modelli di Eudosso e di Callippo, il seme della confutazione non attende molto per germogliare. Così come si presentano attraverso le parole di Aristotele e di Simplicio e la ricostruzione eseguita da Giovanni Virginio Schiaparelli, i modelli a sfere omocentriche presentano due limiti piuttosto evidenti.
Il primo limite riguarda la particolare curva che ciascun pianeta classico dotato di moto retrogrado (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) esegue sullo sfondo dello Zodiaco. Questa curva è talora una sorta di cappio rivolto verso l’alto o verso il basso, o una “S” diritta o speculare. Cappi e “S” appaiono talora molto ampi sia in longitudine (parallelamente all’eclittica) che in latitudine (perpendicolarmente all’eclittica), oppure corti ed estremamente schiacciati. Forma e ampiezza della curva volta per volta eseguita dipendono dal pianeta considerato e dalla costellazione zodiacale dove esso appare con moto retrogrado. In proposito, i modelli di Eudosso offrono solo una prima approssimazione delle apparenze. L’ampiezza e la larghezza dell’ippopeda che costituisce il cuore di un modello omocentrico sono legate all’inclinazione reciproca delle sfere più interne del modello: due per Giove e Saturno, tre per Mercurio, Venere e Marte. Inoltre, la sfera del moto medio trascina l’ippopeda uniformemente lungo lo Zodiaco. Da tutto ciò segue che l’ampiezza e la larghezza dell’ippopeda di ciascun pianeta sono costanti e che la curva aperta derivante dal trascinamento dell’ippopeda lungo lo Zodiaco è sempre uguale a se stessa. Sebbene un modello omocentrico contenga una spiegazione per il moto retrogrado e in latitudine di un pianeta, la curva che ne deriva non assomiglia affatto a quella che si osserva in cielo.
Il secondo limite, già notato da Polemarco di Cizico, allievo di Eudosso e maestro di Callippo, riguarda la luminosità apparente di ciascun pianeta classico dotato di moto retrogrado. In particolare Marte, Giove e Saturno presentano variazioni di luminosità non trascurabili. Quando uno di questi pianeti si muove di moto diretto (da ovest verso est rispetto alle stelle) – cosa che avviene subito dopo la congiunzione con il Sole – presenta una luminosità piuttosto bassa. La luminosità aumenta man mano che il pianeta si avvicina all’opposizione con il Sole e al primo punto stazionario. Il massimo di luminosità si verifica al centro della curva di moto retrogrado (da est verso ovest rispetto alle stelle). Specialmente nel caso di Marte, il pianeta guadagna alcune grandezze rispetto a quando si muove di moto diretto. Superata la fase retrograda e ripreso il moto diretto, la luminosità del pianeta torna ad attenuarsi.
Il fenomeno può essere spiegato in due modi. Uno consiste nel supporre, in contrasto con l’assunto aristotelico dell’immutabilità dei cieli, che il pianeta modifichi la propria luminosità intrinseca; l’altro consiste nel supporre che la distanza del pianeta dalla Terra aumenti e diminuisca periodicamente. Purtroppo, anche questa seconda spiegazione è in contraddizione con la struttura del cosmo aristotelico. In ciascun modello omocentrico il pianeta si trova incastonato sull’equatore della sfera più intera: la quarta per Saturno e Giove, la quinta per Marte, Venere e Mercurio. La distanza del pianeta dalla Terra è, per definizione, invariabile ed è sempre pari al raggio della sfera che lo contiene. Non è perciò possibile far dipendere una variazione di luminosità da una variazione di distanza.
Di solito, l’evidenziazione dei limiti di una teoria scientifica porta a introdurre alcuni elementi in grado di perfezionarla, alla revisione e sostituzione di alcuni dei suoi aspetti, o, a lungo andare, alla sua completa dismissione. Nel caso dei modelli a sfere omocentriche di Eudosso, l’elaborazione di ipotesi alternative si svolge già a partire dal III secolo a.C. per opera di alcuni matematici attivi nell’area mediterranea soggetta all’influenza culturale greca. Le nuove teorie rientrano tutte nell’ambito del principio di circolarità e uniformità dei moti planetari enunciato da Platone. Alcune di esse si aprono tuttavia a radicali cambiamenti di prospettiva, ipotizzando non soltanto la rotazione della Terra sul proprio asse, ma anche la rivoluzione della Terra intorno al Sole.
La cosiddetta età ellenistica rappresenta un periodo di formidabile evoluzione scientifica. Dopo la fondazione di Alessandria d’Egitto nella seconda metà del IV secolo a.C., fra il III e il II secolo a.C. si formulano una serie di modelli planetari in grado di spiegare i fenomeni celesti con una precisione e una capacità di previsione adeguate ai dati desumibili dalle osservazioni. I dettagli dell’opera astronomica dei matematici impegnati in questa impresa sono tuttavia di problematica definizione, tanto da suscitare accese controversie fra gli storici della scienza antica.
Il successo di alcune teorie astronomiche fa sì che esse siano riprese e perfezionate dai matematici nell’arco di diverse generazioni. L’articolarsi di questo processo in una età in cui la pubblicazione dei testi avviene esclusivamente in forma manoscritta ha una conseguenza drammatica. Le opere successive, specialmente quando assumono la forma di trattati sistematici, sono di gran lunga preferite a una miriade di piccoli trattati su argomenti specifici. Per un senso di economicità e praticità, le opere sistematiche continuano a essere trascritte e tramandate, mentre quelle specifiche o in parte superate finiscono per scomparire. A causa di questo fenomeno, quello che si conosce del lavoro degli autori ellenistici più antichi è limitato a quanto viene loro attribuito nei lavori sistematici posteriori. Diverso nelle premesse, ma uguale nell’esito, è il caso dei lavori di quegli autori che, pur esponendo teorie rivoluzionarie, non sono in grado di dotarle di un apparato dimostrativo convincente o, in alternativa, di superare lo scoglio della fisica aristotelica.
Un filosofo attivo ad Atene e che influenza alcuni dei matematici ellenistici è Eraclide Pontico. Dopo aver studiato il pensiero platonico, pitagorico e aristotelico, egli formula la propria concezione di un universo infinito dove ogni pianeta è un corpo di natura terrestre circondato da un’atmosfera. Poiché questa concezione è considerata alla stregua di una favola dai contemporanei, tutte le opere di Eraclide sono andate presto perdute. Quanto di esse si dice nei lavori degli autori posteriori permette tuttavia di ricavare indicazioni essenziali su due importanti idee astronomiche. La prima idea consiste nello spiegare il moto diurno delle stelle fisse da est verso ovest mediante la rotazione della Terra intorno al proprio asse in verso opposto. In altri termini, non la Terra, ma le stelle sono perfettamente immobili. Il loro moto diurno, soltanto apparente, è prodotto dal continuo mutare di posizione dell’osservatore terrestre. Questa idea, intrisa di pitagorismo, non è originale, ma Eraclide la abbina a una seconda idea intesa a spiegare le particolari apparenze di due dei pianeti classici. Mentre Marte, Giove e Saturno assumono una intera gamma di aspetti rispetto al Sole, passando dalla congiunzione (0°), all’ottante (45°), alla quadratura (90°), al trigono (120°) fino a toccare l’opposizione (180°), Mercurio e Venere si comportano in modo molto diverso. Il loro moto medio lungo lo Zodiaco coincide sempre con quello del Sole, dal quale non appaiono mai allontanarsi oltre un certo limite (elongazione massima). Eraclide ne conclude che mentre gli altri tre pianeti orbitano direttamente intorno alla Terra, Mercurio e Venere seguono il Sole girandovi intorno su due circonferenze concentriche.
Nel complesso si delinea un sistema cosmologico “misto”, perché in esso vi sono due centri principali e distinti di rotazione: la Terra e il Sole. Al primo centro competono la rotazione della Terra sul proprio asse e le lente rivoluzioni da ovest verso est della Luna, del Sole, di Marte, Giove e Saturno. Nella mutata prospettiva data dalla Terra in rotazione, la cinematica degli astri è ribaltata rispetto al sistema cosmologico di Platone e Aristotele; gli astri più veloci sono adesso quelli più vicini alla Terra e non quelli più lontani. Al secondo centro di rotazione competono invece le rivoluzioni di Mercurio e di Venere, anche esse con velocità crescente al diminuire della distanza dal Sole. È tuttavia incerto se Eraclide fosse convinto della struttura materiale del proprio sistema o se invece, come insinuano alcune testimonianze antiche, egli per primo la considerasse un artificio geometrico buono per salvare i fenomeni.
Per certo l’idea di Eraclide viene condotta alle estreme conseguenze da Aristarco di Samo allo scopo di spiegare tutti i fenomeni celesti – sia i moti retrogradi, sia le variazioni di luminosità e di distanza dei pianeti – in un sistema di sfere concentriche ruotanti uniformemente. Impossibile da realizzare nel sistema di Aristotele, nel quale tutti i pianeti si trovano a distanza costante dalla Terra, la spiegazione trovata da Aristarco passa per un riassetto generale dell’architettura del cosmo. Di Aristarco si è purtroppo conservato soltanto un breve lavoro, Sulle dimensioni e la distanza del Sole e della Luna. In esso l’autore stima su base osservativa le principali grandezze cosmologiche. Aristarco non è il primo a imbarcarsi nell’impresa, ma è senz’altro il primo a chiarire i metodi utilizzati. Egli determina il rapporto fra i diametri della Terra e della Luna in base a quante volte il disco lunare entra nell’ombra proiettata dalla Terra durante una eclisse. Il risultato del confronto è che la Terra ha un diametro pari a circa tre volte quello della Luna. Aristarco non ci riferisce invece nulla sulla grandezza assoluta dei due astri. Il primo a tentare una stima della circonferenza della Terra è infatti Eratostene di Cirene. Quest’ultimo utilizza la diversa lunghezza dell’ombra proiettata da uno gnomone ad Alessandria e a Siene nel giorno del solstizio d’estate per abbinare una differenza di latitudine alla distanza fra le due città. La stima di Eratostene, pari a 252 mila stadi (che in unità moderne significa assegnare alla Terra un diametro di circa 12.640 km) rimarrà in auge per diversi secoli. Quanto alla determinazione del rapporto fra le distanze Terra-Luna e Terra-Sole, Aristarco procede stimando l’angolo sotto cui si presentano il Sole e la Luna all’osservatore terrestre quando il disco lunare appare illuminato a metà.
Secondo Aristarco questo angolo è minore dell’angolo retto e, più esattamente, pari a 87°. Il dato, decisamente sottostimato, lo porta a concludere che il Sole è molto vicino alla Terra, distandone appena fra le 18 e le 20 volte più della Luna.
Dell’operazione più rivoluzionaria di Aristarco, vale a dire della prima formulazione dell’ipotesi eliocentrica, rimangono scarsissime tracce. Quanto se ne conosce oggi si deve quasi esclusivamente a un’opera di Archimede di Siracusa che tratta di una notazione numerica utile per calcolare grandissime quantità, come per esempio il numero di granelli di sabbia che il cosmo potrebbe contenere. “Aristarco di Samo” – ricorda Archimede in apertura dell’Arenario (I, 0) – “espose per iscritto alcune ipotesi, secondo le quali si ricava che il cosmo è più volte maggiore di quello suddetto. Suppone infatti che le stelle fisse e il Sole rimangano immobili, e che la Terra giri, seguendo la circonferenza di un cerchio, intorno al Sole, che sta nel mezzo dell’orbita; e che la sfera delle stelle fisse, intorno allo stesso centro del Sole, abbia tale grandezza che il cerchio lungo il quale suppone che giri la Terra, abbia rispetto alla distanza delle fisse la stessa proporzione che il centro della sfera ha rispetto alla superficie.”
Anche da questi pochi cenni si comprende in quale modo Aristarco risolve i problemi cosmologici. Se tutti i pianeti, inclusa la Terra, girano intorno al Sole, le loro posizioni e distanze reciproche cambiano ciclicamente nel tempo. Nella nuova architettura del cosmo, le retrogradazioni, le variazioni di luminosità e le circostanze in cui tali fenomeni avvengono acquistano il carattere di fatti necessari. Per esempio, circa ogni due anni la Terra passa accanto a Marte e lo sorpassa.
Durante il sorpasso Marte sembra rimanere indietro sullo sfondo delle costellazioni zodiacali (moto retrogrado). Poiché, durante il sorpasso, la Terra tocca il punto di minima distanza dal pianeta, Marte appare massimamente luminoso proprio in coincidenza del massimo di velocità retrograda. E ancora, durante il sorpasso, la Terra viene a trovarsi esattamente fra Marte e il Sole, cosicché questi due astri appaiono in punti opposti dello Zodiaco (opposizione).
Se l’idea eliocentrica spiega così bene i fenomeni, perché non viene subito presa in migliore considerazione dai contemporanei di Aristarco? Perché essa si perde quasi subito per essere recuperata solo nell’Europa del Cinquecento? Dalle opere intese a confutare la mobilità della Terra sappiamo che la nuova architettura del cosmo deve affrontare tre ostacoli principali. Il primo riguarda la necessità, evidenziata da Archimede, di ingrandire eccessivamente la sfera delle stelle fisse. Nel sistema geocentrico, le stelle si trovano relativamente vicine alla Terra. Per il più grande astronomo matematico dell’antichità, Claudio Tolomeo, basta infatti che la Terra sia come un punto rispetto alla sfera delle stelle. Se così non fosse, due stelle sottenderebbero un arco minore quando sono all’orizzonte rispetto a quando sono alte nel cielo, poiché nel secondo caso si troverebbero sensibilmente più vicine all’osservatore.
Nel sistema di Aristarco è invece l’orbita della Terra a dover essere come un punto rispetto alla sfera delle stelle. In caso contrario, due stelle sottenderebbero archi diversi a seconda della posizione occupata dalla Terra lungo la propria orbita. In definitiva, la sfera delle stelle deve avere un raggio almeno un migliaio di volte più grande nel cosmo eliocentrico che nel cosmo geocentrico.
Un simile aumento di dimensioni inquieta i filosofi, imbarazzati dal dover trovare un significato a un così grande spazio “vuoto”. Un secondo ostacolo riguarda invece l’impossibilità di spiegare perché, nonostante la Terra ruoti intorno al Sole e al proprio asse con velocità vertiginose, le cose sulla sua superficie si comportano come se fosse immobile. Per la fisica aristotelica, un corpo non soggetto al moto naturale secondo la verticale, proprio della regione terrestre, deve subire l’azione di una forza motrice. Se la Terra si muovesse, tutti gli oggetti non mantenuti nella direzione del moto da qualcosa in grado di esercitare su di essi una qualche forza dovrebbero mostrare uno stesso comportamento. Né le nuvole, né altri oggetti volanti o gettati in aria potrebbero mai dirigersi verso est, poiché il moto della Terra in quella stessa direzione li sopravanzerebbe. Tutti questi oggetti rimarrebbero sistematicamente indietro e sembrerebbero sfrecciare verso ovest. In definitiva, per risultare convincente, la concezione di Aristarco comporta l’elaborazione di una nuova fisica del moto da sostituire alla fisica aristotelica.
Un terzo ostacolo è infine costituito dalla rottura di simmetria insita nel nuovo sistema cosmologico. Diversamente dal sistema geocentrico, nel quale tutti gli astri ruotano intorno alla Terra, nel sistema di Aristarco tutti i pianeti, inclusa la Terra, orbitano intorno al Sole, tranne la Luna, che gira intorno alla Terra. Si tratta di un’eccezione non banale, dato che le considerazioni di simmetria e di bellezza di una teoria scientifica affascinano da sempre la mente umana.
In aggiunta agli ostacoli intrinseci, nel III secolo a.C. il sistema di Aristarco vede anche profilarsi l’elaborazione di altri modelli planetari alternativi alle sfere omocentriche. I nuovi modelli si dimostrano in grado di salvare tutti i fenomeni osservati, incluse le variazioni di luminosità dei pianeti, senza con ciò rinunciare alla centralità e alla immobilità della Terra. In mancanza di ragioni osservative e filosofiche per fare altrimenti, i nuovi modelli spazzano via sia le concezioni rigidamente omocentriche, sia le concezioni eliocentriche.
Il merito di questa impresa spetta a due grandi matematici, Apollonio di Perge e Ipparco di Nicea. Nel corso della propria esistenza entrambi hanno rapporti con la città di Alessandria e con il Museo che vi si trova. Quest’ultimo è un luogo, come dice il nome, consacrato alle Muse. In esso si coltivano le arti e la scienza, dando agli studiosi tutti i mezzi culturali e materiali utili per progredire nelle loro ricerche. Purtroppo, l’unica opera di Apollonio parzialmente sopravvissuta riguarda lo studio delle particolari curve che si ottengono tagliando un cono circolare retto con un piano – ellisse, parabola e iperbole – e che perciò sono dette “sezioni coniche”. Tutto quanto si conosce sulle scoperte astronomiche di Apollonio si deve ad alcuni passi della Mathematiké syntaxis (Composizione matematica) di Tolomeo. Paradossalmente, quest’opera riassuntiva dello scibile astronomico dell’antichità, destinata a restare ineguagliata per complessità e precisione fino alla pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Niccolò Copernico, è anche il lavoro che contribuisce a far calare nell’oblio gli specifici lavori di Apollonio, di Ipparco e di altri autori alessandrini.
Da Tolomeo apprendiamo che secondo Apollonio è possibile spiegare il moto retrogrado di un pianeta grazie alla sovrapposizione di due circonferenze.
Una prima circonferenza concentrica alla Terra, e per questo motivo denominata “concentrico”, porta sopra di sé una seconda circonferenza più piccola, detta epiciclo (“cerchio di sopra”), sulla quale si trova il pianeta. Questo scorre di moto uniforme lungo l’epiciclo da ovest verso est, mentre il centro dell’epiciclo scorre a sua volta di moto uniforme lungo il concentrico, sempre da ovest verso est. Le posizioni di Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio lungo lo Zodiaco possono riprodursi assegnando valori opportuni alle velocità di rotazione e al rapporto fra i raggi delle due circonferenze. Più in dettaglio, il centro dell’epiciclo compie una rivoluzione con il periodo siderale del pianeta: un anno per Mercurio e Venere, circa due anni per Marte, 12 per Giove e 29 per Saturno. Il pianeta compie invece una rotazione sull’epiciclo in modo da ritornare all’apogeo, il punto di massima distanza dalla Terra, dopo un periodo sinodico: circa quattro mesi per Mercurio, un anno e mezzo per Venere, due anni per Marte e poco più di un anno per Giove e Saturno. Nel corso della propria rivoluzione geocentrica, ogni pianeta tocca un punto di massima distanza dalla Terra quando è in congiunzione con il Sole. In questa situazione il pianeta appare assai poco luminoso. Inoltre, poiché il moto del pianeta lungo l’epiciclo e il moto dell’epiciclo sul concentrico hanno la stessa direzione, il pianeta appare spostarsi da ovest verso est con la massima velocità.
Progressivamente il pianeta passa dall’apogeo al perigeo dell’epiciclo e la condizione di minima distanza dalla Terra si realizza esattamente in opposizione al Sole. In questa situazione il pianeta appare estremamente luminoso. Inoltre, in questo caso, il moto del pianeta lungo l’epiciclo e il moto dell’epiciclo sul concentrico hanno direzioni opposte. Poiché il primo moto è superiore al secondo, il pianeta appare retrogradare per alcuni giorni.
Per essere più precisi, Tolomeo attribuisce ad Apollonio un teorema di equivalenza fra due modelli alternativi, quello dell’epiciclo-concentrico appena esposto e quello dell’eccentrico mobile. Questa precisazione dell’autore della Mathematiké syntaxis ha scatenato l’arguzia interpretativa degli storici. Alcuni ritengono infatti che, a rigore, si possa attribuire ad Apollonio soltanto il teorema in senso stretto, ma non l’applicazione dell’uno o dell’altro modello al moto dei pianeti, merito che spetterebbe per intero a Tolomeo. Altri ritengono invece che, così come Apollonio è l’artefice dei modelli planetari a epiciclo-concentrico, egli è anche l’artefice dei modelli planetari a eccentrico mobile. Indipendentemente da quale delle due posizioni storiografiche rappresenti la realtà dei fatti, un modello a eccentrico mobile non rappresenta altro che l’inversione di un modello a epiciclo-concentrico. Una piccola circonferenza concentrica alla Terra porta sopra di sé una seconda circonferenza più grande, detta “eccentrico” (fuori del centro), sulla quale si trova il pianeta. Questo scorre di moto uniforme lungo l’eccentrico, mentre il centro dell’eccentrico scorre a sua volta di moto uniforme lungo la piccola circonferenza.
Il Sole e la Luna, che percorrono lo Zodiaco a velocità variabile, ma senza mai essere retrogradi, costituiscono casi particolari che non si possono descrivere né con un modello a epiciclo-concentrico ordinario né, di conseguenza, con un modello a eccentrico mobile. Secondo Tolomeo il primo autorevole interprete del moto di questi due astri è un altro illustre matematico, Ipparco.
Oltre a essere in contatto con gli ambienti alessandrini, Ipparco è il primo autore ellenistico sul quale appare netta l’influenza dell’astronomia mesopotamica di età seleucidica. In particolare, sembra che a lui sia ascrivibile l’importazione in Occidente del sistema di numerazione sessagesimale applicato alla misura degli angoli. Ipparco divide infatti l’angolo giro in 360 parti uguali (moroi), divise ciascuna in 60 parti (primi), divise ancora in 60 parti (secondi), e via dicendo. Egli è inoltre noto come uno dei più grandi osservatori dell’antichità. Anche se non vi sono prove certe, egli sembra avvalersi di un osservatorio attrezzato con strumenti graduati di vario genere e localizzato sull’isola di Rodi.
Grazie alle osservazioni Ipparco è il primo astronomo a compilare un catalogo stellare del quale ci rimane traccia all’interno dell’analogo catalogo inserito nella Mathematiké syntaxis di Tolomeo. A Ipparco sembra del resto che si possano attribuire i due principali criteri di rappresentazione del cielo sulla sfera e sul piano. Nel primo caso, egli realizzò un globo celeste che Tolomeo dichiara di aver esaminato. Nell’altro caso è ormai luogo comune assegnare a Ipparco la concezione della proiezione stereografica che verrà impiegata per costruire diversi strumenti cronometrici, dagli orologi anaforici agli astrolabi piani.
L’unica opera che di Ipparco ancora ci rimane, il Commentario ai fenomeni di Arato ed Eudosso, non è a tutti gli effetti un catalogo stellare, ma presuppone l’attenta osservazione degli astri con strumenti graduati aventi una precisione di circa mezzo grado. Il Commentario, scritto a confutazione di alcune tesi di Eudosso e di Arato di Soli, espone i tempi del sorgere, culminare e tramontare delle stelle le une rispetto alle altre. Da Tolomeo sappiamo che la precisione non eccelsa delle osservazioni basta comunque a Ipparco per scoprire, mediante il confronto con le coordinate di alcune stelle registrate in Mesopotamia alcuni secoli prima, un nuovo fenomeno celeste. Con il trascorrere del tempo la longitudine eclittica delle stelle aumenta in modo progressivo, come se la sfera che le contiene non ruotasse soltanto da est verso ovest in un giorno intorno ai poli dell’equatore celeste, ma anche di un grado ogni cento anni da ovest verso est intorno ai poli dell’eclittica. Ipparco tratta di questo fenomeno, noto come “precessione degli equinozi”, in due diversi lavori andati perduti, Sullo spostamento dei segni solstiziali e equinoziali e Sullo spostamento delle stelle fisse. I punti di intersezione dell’eclittica con l’equatore celeste (gli equinozi), sembrano spostarsi verso ovest e precedere di anno in anno rispetto alle stelle fisse, o, in alternativa, dal punto di vista propriamente antico, le stelle fisse sembrano ruotare tutte insieme e aumentare le proprie longitudini, misurate a partire dall’equinozio di primavera.
Il genio di Ipparco è riconosciuto da Tolomeo soprattutto nello studio dei moti del Sole e della Luna. Nel primo caso, misurazioni ripetute degli istanti degli equinozi e dei solstizi inducono Ipparco ad accertare che le stagioni non hanno tutte uguale durata (vedi figura qui a fianco).
Il periodo autunno-inverno è di alcuni giorni più breve del periodo primavera-estate. In altri termini, il Sole appare percorrere la metà dell’eclittica che va dall’equinozio di primavera all’equinozio d’autunno con velocità minore rispetto alla metà opposta.
Per tener conto di questa differenza di velocità, Ipparco introduce due ipotesi equivalenti: un sistema epiciclo-concentrico di tipo particolare o un eccentrico fisso. Nel primo caso, il Sole si muove su un piccolo epiciclo che scorre lungo un concentrico. Tuttavia, diversamente dai pianeti, il Sole compie uniformemente un giro sull’epiciclo da est verso ovest nel medesimo tempo in cui il centro dell’epiciclo compie uniformemente un giro da ovest verso est lungo il concentrico. La composizione dei due movimenti dà come risultato un ulteriore movimento uniforme lungo una circonferenza eccentrica alla Terra, che corrisponde di fatto al modello alternativo dell’eccentrico fisso proposto da Ipparco. In questo secondo caso, scelta opportunamente la direzione e l’ammontare dell’eccentricità, vale a dire della distanza fra il centro della Terra e il centro dell’eccentrico, è possibile rappresentare con buona approssimazione il moto in apparenza ineguale del Sole lungo l’eclittica (anomalia zodiacale). Allo stesso modo è possibile spiegare le lievi variazioni del diametro apparente del Sole, più grande in inverno e più piccolo in estate, che Ipparco misura con un apposito strumento.
Il caso della Luna, che presenta anch’essa una anomalia zodiacale, è risolto da Ipparco in maniera analoga. Anche per questo astro è possibile scegliere fra un modello epiciclo-concentrico di tipo particolare e un eccentrico fisso. Tuttavia, mentre l’anomalia zodiacale del Sole appare sincronizzata con il moto dell’astro lungo l’eclittica, lo stesso non può dirsi per l’anomalia zodiacale della Luna. Il moto lunare è molto più complicato di quello solare e a Ipparco si devono tre scoperte che lo riguardano. La prima consiste nella constatazione che l’orbita della Luna non è complanare all’eclittica, ma inclinata di un angolo pari a circa 5°.
La seconda riguarda una ulteriore particolarità del piano dell’orbita lunare. La linea dei nodi, vale a dire la congiungente fra i due punti in cui l’orbita della Luna interseca l’eclittica, non mantiene sempre la stessa orientazione rispetto alle stelle dello Zodiaco, ma appare ruotare in modo retrogrado (da est verso ovest), compiendo un giro completo in quasi 19 anni. Infine, l’apogeo dell’orbita lunare non è fisso, ma si muove progressivamente da ovest verso est rispetto alle stelle fisse compiendo un giro dello Zodiaco in circa nove anni.
Per tenere in debito conto questi fenomeni peculiari della Luna, Ipparco scarta il modello a eccentrico semplice in favore del modello a epiciclo-concentrico. Il piano in cui colloca le due circonferenze componenti non è più coincidente con l’eclittica, come nel caso del Sole, ma inclinato di 5° su di essa. Inoltre, il piano del modello ruota regressivamente in 19 anni, in modo da spiegare la precessione dei nodi lunari. Quanto al moto progressivo dell’apogeo, Ipparco introduce una lieve differenza fra il periodo di rotazione uniforme della Luna da est verso ovest sull’epiciclo e il periodo di rotazione uniforme dell’epiciclo da ovest verso est lungo l’eccentrico. Se il primo periodo è leggermente più lungo del secondo, la Luna arriverà di volta in volta leggermente in ritardo all’apogeo, spiegandone così il progressivo avanzamento.
I modelli geometrici di Apollonio e di Ipparco iniziano a delineare un sistema del cosmo che nell’essenza geocentrica è analogo a quello di Eudosso, Callippo e Aristotele, ma ne differisce enormemente nei dettagli. Non solo i nuovi modelli spiegano molto meglio le apparenze dei fenomeni celesti da entrambi i punti di vista qualitativo e quantitativo; essi hanno potenzialità di calcolo inimmaginabili rispetto ai modelli a sfere concentriche e sono trasformabili in dispositivi meccanici (planetari). Nell’astronomia omocentrica, calcolare la posizione di un pianeta lungo lo Zodiaco richiede la soluzione di un complicato problema di trigonometria sferica che ha per oggetto alcune sfere mutuamente inclinate e ruotate. Nell’astronomia degli epicicli, calcolare la posizione di un pianeta richiede invece la soluzione di un più semplice problema di trigonometria piana che ha per oggetto alcune circonferenze mutuamente ruotate. I vantaggi pratici sono notevoli e indirizzano gli astronomi antichi verso la ricerca di una precisione di calcolo e di previsione dei fenomeni celesti sempre maggiore.