L'astronomia mesopotamica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In età babilonese si delineano i due scopi dell’indagine astronomica che attraversano le epoche storiche fino al XVII secolo. L’astronomia non è una materia astratta esercitata per il gusto di conoscere la natura e il comportamento di oggetti lontani. È invece una materia vitale per condurre la vita dello stato e degli individui che lo compongono. In particolare, l’astronomia mesopotamica si inserisce in una serie di tecniche volte a conoscere il futuro e si pone come scienza chiave per misurare il tempo.
Cosmologie e cosmogonie
La conoscenza dell’astronomia mesopotamica rimane embrionale fino alla seconda metà dell’Ottocento. A tale epoca, le fonti già note sul livello raggiunto dalle conoscenze astronomiche nella regione compresa fra i fiumi Tigri e Eufrate consistono nei cenni di qualche autore classico, come Erodoto o Polibio, o in esigui passi biblici. Gli astronomi babilonesi sono per esempio ricordati, con connotazione negativa, nel Libro di Isaia. E ancora, i re magi che giungono in Palestina guidati da un segno celeste, suggeriscono come l’osservazione degli astri sia in auge nel Vicino Oriente. Da dove gli astronomi sumeri, babilonesi e assiri attingono la pratica astronomica, con quali mezzi la esercitano, quali livelli raggiungono nei loro studi e quali effettivi scopi si prefiggono con l’esame del cielo resta un mistero fino a quando alcuni studiosi, fra i quali i gesuiti Joseph Epping e Franz Xaver Kugler, iniziano a decifrare con successo le tavolette di argilla, scritte in caratteri cuneiformi, ritrovate negli scavi archeologici dell’area mesopotamica.
L’interesse dei popoli mesopotamici per il cielo trova le prime sporadiche testimonianze in poche tavolette in cuneiforme risalenti al III millennio a.C., quando il territorio fra il Tigri e l’Eufrate è abitato dai Sumeri. La scarsità dei documenti non permette di formare un quadro dettagliato delle prime concezioni dell’astronomia mesopotamica. Quanto tuttavia emerge è la precoce tendenza a sviluppare lo studio degli astri in funzione della divinazione. Questo tipo di impostazione nasce dall’identificazione delle stelle e dei pianeti con le divinità che, attraverso le loro mutue posizioni, mostrano all’uomo dei segni. Non a caso, il carattere cuneiforme utilizzato per indicare un dio è identico a quello utilizzato per indicare il cielo ed è costituito da una stella. Con pratiche opportune, l’uomo è in grado di cogliere e interpretare i segni celesti per trarne indicazioni su come affrontare il futuro. È quindi proprio in questa area geografica e in epoca così remota che si delinea la sostanziale identità fra astronomia e astrologia destinata a caratterizzare lo studio dei fenomeni celesti fino all’inizio del XVII secolo.
L’abbinamento fra divinità e astri si appoggia alle idee che i popoli mesopotamici hanno sulla forma e sulla genesi del cosmo, nonché sul legame di causa effetto fra il cielo e la Terra. Le due entità sono strettamente connesse, motivo per cui se qualcosa accade in cielo, allora deve succedere di necessità qualcos’altro in Terra. La divinità fondamentale è la Luna, chiamata Nanna dai Sumeri (che le dedicano un importante santuario a Ur) e identificata nel dio Sin dagli Accadi. Per meglio marcarne la natura celeste, il nome del dio appare spesso scritto con il numero 30, che corrisponde grossomodo ai giorni del mese lunare. Nanna è il padre del dio Sole, chiamato Utu dai Sumeri e Shamash dagli Accadi. Si tratta di una divinità ora maschile, ora femminile, che tutto vede lungo il proprio cammino giornaliero al di sopra della Terra e, proprio per questo, presiede alla giustizia. Di grande rilievo è anche il pianeta Venere, identificato dai Sumeri con la dea Inanna e dai popoli semiti con la dea Ishtar, figlia anch’essa della divinità lunare. Altre divinità competono a singole stelle o a costellazioni e contribuiscono a delineare la dipendenza di una società agricola dall’osservazione degli astri. Dalla corretta lettura dei segni celesti dipende infatti la bontà dei raccolti e la sopravvivenza degli uomini.
La formazione di un mito unitario sulla creazione dell’universo, quella che si suole definire una cosmogonia, è successiva al culto di queste prime divinità e si ritrova nel poema Enuma elish (dalle prime parole che compongono il testo: “Quando in alto...”). Il poema è noto attraverso tavolette assire del VII secolo a.C., ma la sua prima stesura risale probabilmente al XII secolo a.C. La genesi del mondo è delineata a partire da un’epoca in cui i cieli e la Terra non esistono perché ancora privi di un nome. Nel silenzio primordiale esiste un caos originario dovuto alla commistione di acqua dolce (l’elemento maschile) e di acqua salata (l’elemento femminile). La situazione perdura per molto tempo, durante il quale si generano numerose coppie di dei. Con la nascita del dio Marduk le cose mutano drasticamente. Quando la dea Tiamat decide di annientare gli dèi più giovani, il padre di Marduk, il dio Ea, chiede al figlio di correre in loro difesa. Marduk affronta Tiamat in un epico duello, la sconfigge e ne taglia il corpo in due. In questo modo egli crea il cielo con la metà superiore del corpo della rivale e la Terra con la metà inferiore. Con la vittoria Marduk riceve dal padre anche il potere di ordinare il mondo. È perciò Marduk a collocare nel cielo la sede delle divinità, a fissare l’orientamento delle costellazioni, a far comparire la Luna e il Sole, a stabilire i movimenti dei pianeti e dare ordine al tempo. A tale specifico fine egli fissa l’anno composto da 12 mesi. Per quanto riguarda la Terra, Marduk crea i fiumi e le montagne e fissa la sede della città di Babilonia. Quando tutto è finalmente pronto, allora crea l’uomo.
Questo mito della creazione, con la generazione del cielo e della Terra da un’unica entità, sintetizza con notevole evidenza il concetto di corrispondenza fra le cose astrali e quelle terrene proprio della cultura mesopotamica. L’epoca di prima composizione del poema indica inoltre che una vera astronomia osservativa nasce solo in età babilonese, in conseguenza di una maggiore attenzione per i fenomeni celesti. Per quanto infatti si cerchi di risalire indietro nel tempo, le prime osservazioni di un corpo celeste, il pianeta Venere, datano all’inizio del XVII secolo a.C. Tale fatto è testimoniato dal più tardo compendio di astrologia babilonese Enuma Anu Enlil (“Quando gli dèi Anu e Enlil...”).
L’Enuma elish e gli altri testi babilonesi e assiri non sono invece molto chiari nel definire la struttura del cosmo, che sembra suddiviso in più livelli (da tre fino a sei, a seconda dei documenti considerati). Per certo, l’unica mappa rinvenuta negli scavi archeologici raffigura il mondo abitato come una superficie circolare e piatta circondata dall’acqua. Ai confini del mondo abitato si elevano sette montagne cosmiche, alle quali spetta il compito di sostenere un cielo simile a una calotta sferica.
In età babilonese si delineano con chiarezza i due scopi dell’indagine astronomica che attraversano invariati le epoche storiche fino a circa tre secoli fa. L’astronomia non è una materia astratta esercitata per il gusto di conoscere la natura e il comportamento di oggetti lontani; è invece una materia di vitale importanza per la buona conduzione della vita di uno stato e degli individui che lo compongono. L’utilità sociale fa sì che l’astronomia mesopotamica sia esercitata da una ristretta cerchia di scribi che lavorano nel palazzo reale o nei principali templi. All’altezza del II secolo a.C. si ha addirittura testimonianza della piena regolamentazione di tale attività: l’astronomo è assunto dall’autorità politica o religiosa ed è debitamente remunerato con denaro o terreni.
Il primo scopo dell’indagine astronomica consiste nella divinazione. Per l’esattezza, l’astronomia rientra in una più ampia scienza della previsione del futuro che i mesopotamici esercitano in tutte le forme possibili: dall’esame del fegato di una pecora, al volo degli uccelli o alla disposizione delle gocce d’olio versate sull’acqua. Le tavolette di auspici tratti dall’osservazione dei fenomeni celesti compaiono a partire dalla fine del II millennio a.C., in epoca babilonese, e, con maggiore frequenza, nel VIII secolo a.C., cioè dall’epoca di costituzione delle biblioteche e degli archivi reali dell’Impero assiro.
Nell’archivio della capitale Ninive sono state ritrovate molte tavolette cuneiformi pertinenti a varie materie e databili fra il 674 e il 648 a.C. Fra di esse compaiono molte lettere indirizzate al sovrano dove gli astronomi espongono i segni celesti osservati durante la notte e le conclusioni che se ne possono trarre. I segni sono sia positivi che negativi, ma in genere riguardano i pericoli a cui il re e lo stato sono esposti. Per consentire una puntuale ed esauriente informazione in proposito, sotto i regni di Esarhaddon e di suo figlio Assurbanipal si giunge addirittura a creare una rete di posti di osservazione situati in varie parti dell’impero. Gli astronomi che vi lavorano sono tenuti a inviare periodicamente i loro rapporti alla capitale.
I presagi ricavabili dagli astri e dalle altre forme di divinazione non segnano eventi inevitabili. Opportuni riti o preghiere, noti agli stessi individui che sanno leggere gli astri, permettono di cancellare gli influssi negativi. In proposito, le tavolette rinvenute a Ninive contengono una grande quantità di testi sulla divinazione e, allo stesso tempo, sulle più efficaci formule di scongiuro. Da questi documenti si evince come i sovrani del VII secolo a.C. conferiscano agli astronomi il potere implicito di influire sulle scelte politiche. Basti pensare che uno dei rituali concepiti per far fronte al presagio di prossima morte del re, costituito da una eclisse di Luna, consiste nella temporanea sostituzione del re medesimo con un altro individuo scelto fra i funzionari di corte. Il sostituto regna finché il presagio di morte non si compie, cioè finché il sostituto non viene eliminato!... Solo allora il vero re può tornare a sedere sul trono in tutta sicurezza.
In origine i pronostici riguardano esclusivamente la monarchia (il re e la corte), lo stato (la politica e l’economia) e i templi. Solo alla fine del V secolo a.C. iniziano a comparire oroscopi individuali preparati in concomitanza della nascita di un bambino. Non si deve però intendere il termine “oroscopo” nel senso odierno, bensì come la registrazione delle posizioni degli astri all’istante della nascita. Le previsioni sul futuro dell’individuo sono conseguenza di questa particolare configurazione celeste, ma anche degli altri segni mostrati in seguito dalle divinità.
Le pratiche divinatorie sono la manifestazione più appariscente del legame cosmico fra cielo e Terra in cui confidano i popoli mesopotamici. Gli astri stabiliscono l’ordine del regno e giudicano della sua corretta conduzione; proprio per questo, oltre a manifestare segni di favore o sfavore, sono invocati come testimoni nella definizione di atti civili di varia natura. Una serie di documenti molto diffusa in Mesopotamia a partire dal IV millennio a.C. è per esempio costituita dai kudurru. Si tratta di cippi in pietra che registrano l’assegnazione di terre e che di solito, accanto a un contenuto specifico sui confini delle proprietà, raffigurano pianeti e costellazioni. Di fatto, il testo inciso su un kudurru riporta i nomi dei funzionari che trasferiscono la proprietà, i nomi degli ufficiali che garantiscono la transazione e i nomi delle divinità celesti che tutelano l’atto.
Il secondo scopo dell’astronomia mesopotamica è rappresentato dalla necessità di misurare il tempo e di definire un calendario utile nella vita agricola, civile e religiosa dello stato. Il calendario mesopotamico è di tipo luni-solare; si fonda cioè sul susseguirsi dei cicli della Luna e del Sole. Il primo ciclo inizia dal giorno della prima comparsa di una falce di Luna molto sottile nel cielo serale; il secondo dal giorno in cui il Sole occupa un certo punto dello zodiaco. Purtroppo i due cicli non sono formati da numeri interi di giorni, né sono l’uno il multiplo dell’altro. L’anno tropico (il tempo che il Sole impiega per tornare allo stesso equinozio o solstizio) dura poco più di 365 giorni, mentre il mese sinodico (il tempo che la Luna impiega per tornare alla stessa fase) dura poco più di 29 giorni.
L’astronomia è perciò invocata per risolvere due problemi pratici. Il primo consiste nel determinare l’inizio del mese constatando l’apparizione della prima falce di Luna dopo il novilunio. Solo a partire dal V secolo a.C. si pensa di rinunciare all’osservazione diretta e di affidarsi per intero ai calcoli astronomici. Il secondo problema consiste nel coniugare al meglio le durate incommensurabili del mese e dell’anno e, in definitiva, nello stabilire quanti e quali mesi durano 29 o 30 giorni e quanti e quali anni durano 12 o 13 mesi. Il problema è risolto introducendo un anno amministrativo formato da 12 mesi di 30 giorni (Nisannu, Ayaru, Simanu, Du’uzu, Abu, Ululu, Tashritu, Arahsamnu, Kislimu, Tebetu, Shabatu, Addaru) che, nell’insieme, dura 360 giorni. Per evitare lo slittare delle stagioni rispetto alla data indicata dal calendario viene occasionalmente inserito un mese intercalare dopo Ululu (sesto mese) o dopo Addaru (dodicesimo mese). La decisione di aggiungere un secondo mese Ululu o Addaru compete al re in persona. Soltanto all’inizio del V secolo a.C. inizia l’applicazione di un ciclo fisso – in seguito noto come ciclo “metonico”, dal nome dell’astronomo greco Metone di Atene – composto da 19 anni, di cui 7 con mese intercalare.
Quanto al giorno, esso corre da alba a alba o da tramonto a tramonto. In contesto astronomico il giorno è misurato in uš, o gradi temporali, ciascuno pari a 1/360 di giorno. Per la notte si usa inoltre una divisione in tre veglie di uguale lunghezza. Ciascuna veglia è più lunga in inverno e più corta in estate, in dipendenza delle variazioni stagionali sulla durata della notte.
La scienza mesopotamica rivela una spiccata tendenza all’accumulazione: le nozioni raccolte in epoca più antica non si perdono, ma confluiscono nel bagaglio dei dati a disposizione delle generazioni successive. La circostanza rende possibile individuare alcuni stadi di sviluppo dell’astronomia mesopotamica contraddistinti da tipologie specifiche di documenti.
Alla fine del II millennio a.C., in età babilonese, risalgono i primi elenchi delle posizioni e dei periodi di visibilità delle costellazioni. Si rinvengono anche tavolette sulla visibilità della Luna, importanti per stabilire l’inizio del mese, e tavolette con schemi delle posizioni e dei fenomeni che interessano i pianeti. La scarsa precisione di queste tavolette porta alla successiva definizione di 31 stelle della fascia zodiacale da usare come punti di riferimento per meglio determinare le posizioni della Luna e dei pianeti. Alcune di queste stelle appartengono a costellazioni destinate a restare in uso fino a oggi: Toro, Gemelli, Leone, Vergine, Scorpione ecc.
Il grande sviluppo dell’astronomia mesopotamica inizia però alla metà dell’VIII secolo a.C. A questo periodo risalgono le prime testimonianze di una osservazione sistematica dei fenomeni celesti e, in particolare, delle eclissi lunari. Come è facile immaginare dalle finalità divinatorie e calendariali dell’astronomia, le tavolette degli archivi di Ninive prestano particolare attenzione alla lunghezza del mese, alle eclissi, alla visibilità dei pianeti, al loro corso diretto o retrogrado, e alle loro varie configurazioni (congiunzioni, opposizioni e elongazioni).
Nel compendio Mul Apin (Grande Carro o Orsa Maggiore), risalente al VII secolo a.C., si trovano liste di costellazioni ordinate secondo tre “sentieri”, in dipendenza del loro apparire a nord, a sud o al centro di un’ampia fascia dell’orizzonte centrata sull’est geografico. Altre liste delineano insiemi di relazioni celesti: le costellazioni visibili al mattino nei vari mesi, le stelle che insieme sorgono e tramontano, quelle che insieme sorgono e culminano, e via dicendo. Ancora un’altra lista individua il sentiero della Luna, corrispondente all’attuale zodiaco, formato però da 17 costellazioni, in quanto il sistema dei 12 segni compare solo alla metà del V secolo a.C.
Nel Mul Apin il moto del Sole fra le costellazioni è descritto in relazione alla differente lunghezza del giorno e della notte nel corso dei mesi. In proposito compare anche il primo riferimento ai due strumenti in uso per misurare lo scorrere del tempo. Il primo è l’orologio a acqua (dibdiddu o clessidra): un contenitore riempito d’acqua e lasciato svuotare attraverso un piccolo orifizio collocato alla base. Il secondo strumento è l’orologio a ombra (o gnomone): un’asta di lunghezza assegnata piantata verticalmente nel terreno e della quale si misura la direzione e la lunghezza dell’ombra proiettata su un piano orizzontale. Il Mul Apin fornisce tavole sia sulla quantità d’acqua da immettere nella clessidra nelle varie stagioni, sia su come leggere le indicazioni dello gnomone.
Le tavolette del VII secolo a.C. che registrano osservazioni dei pianeti fanno parte di veri e propri diari astronomici, alcuni dei quali rivenuti a Babilonia. Esse comprendono di norma: dati sulla posizione e la visibilità della Luna, dati sulla visibilità e il cosiddetto “aspetto” (la posizione reciproca) dei cinque pianeti, le date degli equinozi e dei solstizi, dati sulla distanza apparente della Luna e dei pianeti da alcune stelle. Le registrazioni sono accompagnate da un sistema di misurazione in kush (cubiti) e shusi (dita). Si tratta di unità di misura lineari che indicano una metodologia di osservazione in cui si pone a una certa distanza dall’occhio un regolo graduato. Dall’analisi dei dati registrati nei diari astronomici è oggi possibile stabilire che un kush corrisponde a circa 2,5° mentre un shusi, che ne è la trentesima parte, corrisponde a 5’ d’arco.
A partire dalla prima metà del III secolo a.C., in età seleucidica, l’esame degli archivi di osservazione permette agli astronomi di individuare dei cicli dopo i quali i fenomeni già osservati per un dato pianeta si ripetono quasi allo stesso modo. Per esempio, se Giove è apparso retrogrado all’inizio della costellazione del Sagittario, esso vi riappare retrogrado dopo 83 anni. E se, ancora, Mercurio è apparso alla massima elongazione occidentale alla fine della costellazione del Cancro, esso vi riappare alla massima elongazione dopo 46 anni. Su questa base sono composti i cosiddetti “testi dell’anno scopo”, contenenti previsioni di fenomeni celesti. Tali testi non presuppongono alcun calcolo, ma ripropongono i fenomeni già registrati per un pianeta nel diario astronomico di un certo anno come i fenomeni previsti per quel pianeta in un altro anno.
Il contributo mesopotamico più originale all’astronomia è però costituito dall’elaborazione, a partire dal V secolo a.C., di veri e propri metodi di calcolo delle posizioni planetarie. Mentre nel mondo greco antico si affaccia l’idea che per descrivere un moto occorre un modello formato da una serie di figure geometriche, gli astronomi mesopotamici delineano modelli planetari astratti costituiti da serie aritmetiche. I numeri sono espressi in notazione sessagesimale posizionale; si contano cioè con cifre diverse da 1 fino a 60, anziché da 1 fino a 10 come nella notazione decimale. Raggiunto 60 si ricomincia, annotando a parte il numero delle sessantine da 1 fino a 60, e così via. Per esempio, il numero 2 12 57 (che in notazione babilonese sarebbe espresso da tre cifre) indica 57 unità, più 12 sessantine, più 2 sessantine di sessantine, ed equivale al nostro 7977. Un formalismo analogo si applica alle frazioni e alla misura di angoli. L’angolo giro è composto da 6 sezioni di 60° l’una, per complessivi 360°. Ogni grado è a sua volta diviso in 60 parti, e via dicendo. Anche la misura del tempo segue lo stesso principio. Il giorno è diviso in sei sezioni di 60 parti, per complessive 360 parti chiamate uš (gradi temporali, corrispondenti ciascuno a quattro dei nostri minuti). Questi sono a loro volta divisi in 60 parti, e via di seguito. Nel complesso si delinea un sistema coerente nel quale il cielo ruota di 1° ogni uš e inoltre si presenta spostato di 1° in più verso ovest dopo ogni giorno.
Circa 400 tavolette cuneiformi, per la maggior parte provenienti dagli archivi di Ninive, contengono testi astronomici per calcolare le posizioni celesti. Lo studio di questi documenti, approfondito in tempi recenti da Otto Neugebauer, rivela che le tavolette contengono testi sulle procedure di calcolo oppure tavole di effemeridi del Sole, della Luna e dei pianeti. I dati inseriti nelle tavolette sfruttano ancora le relazioni periodiche fra i cicli già riscontrati nei movimenti dei diversi corpi celesti. Tuttavia, anziché riproporre quanto si è verificato in passato, le relazioni periodiche sono trasformate in rapporti numerici. Questi, a loro volta, esprimono incrementi o decrementi costanti nell’unità di tempo per i singoli aspetti del moto di un pianeta. Sommando gli incrementi e i decrementi si ottengono i dati di previsione riportati in ciascuna colonna delle tavolette rinvenute. Alcune tavolette permettono di eseguire calcoli elementari, come quelli relativi alla durata del giorno nei vari periodi dell’anno e contengono due sole colonne. Le più complesse, come quelle per trovare la posizione, i periodi di visibilità e le eclissi della Luna, contengono invece fino a 18 colonne distinte.