Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Diretto interlocutore del drammaturgo è da sempre l’attore. Definitosi come figura professionale nel corso del Seicento e del Settecento, l’attore europeo nel corso del XIX secolo assume sempre più peso nella gestione del teatro materiale, portando nel contempo l’arte dell’interpretazione scenica a notevolissimi livelli.
Nelle Lezioni sull’estetica Hegel circoscrive teoricamente il problema dei limiti della creatività dell’interprete in rapporto alla parola del drammaturgo. La prospettiva idealista induce infatti Hegel a difendere il partito dei poeti, anche se questo non gli impedisce di comprendere l’enorme valore dell’apporto soggettivo dell’attore nella creazione scenica. La conflittualità potenziale immanente al rapporto tra autore e attore è in realtà all’origine delle più fortunate creazioni teatrali dell’arte moderna. Spezzando il vincolo di interdipendenza tra poeta e attore, la drammaturgia letteraria del primo Ottocento avvia un processo di ridefinizione del sistema teatrale che non tarda a produrre conseguenze negative per la stessa scrittura scenica. Già nelle pagine della sua La Germania Madame de Staël, che ha sotto gli occhi le magistrali interpretazioni di Talma, attribuisce all’incapacità degli autori di stare al passo con l’arte combinatoria degli attori il primo motivo che spiega la debolezza della drammaturgia di inizio secolo.
Nel corso dell’Ottocento il pubblico europeo assiste entusiasta alle rappresentazioni di attori prestigiosi, come Edmund Kean, Charles Kemble, William Macready, Henry Irving ed Ellen Terry in Inghilterra, Talma, Marie Dorval, Frédérick Lemaître, Jean Mounet-Sully e Sarah Bernhardt in Francia e ancora Marija Nikolaevna Ermolova e Vera Fëdorovna Kommisarževskaja in Russia, Ludwig Devrient, Sophie Schröder e Wilhelmina Schröder-Devrient nei Paesi di lingua tedesca. Nel mondo germanico la tradizione attoriale viene addirittura "istituzionalizzata" dalla trasmissione "ereditaria" dell’anello di August Wilhelm Iffland che, passando per le mani di tutti i primi attori tedeschi, arriva sino ad Alexander Moissi. Ma è soprattutto in Italia che l’arte attoriale vive nell’Ottocento una stagione particolarmente fortunata.
Gli attori che calcano i palcoscenici italiani a cavallo tra XVIII e XIX secolo si nutrono della drammaturgia di Alfieri: Anna Fiorilli Pellandi trionfa come Elettra in Oreste e come protagonista di Mirra, mentre Antonio Morrocchesi è un acclamato interprete di Saul. Ritiratosi dalle scene nel 1811 per ricoprire la cattedra di declamazione presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, Morrocchesi si accinge a riformare il pensiero teatrale italiano sforzandosi di fornire agli attori una cultura degna della poesia alfieriana. È proprio alla scuola di Morrocchesi che la diciottenne Carlotta Marchionni si reca per prepararsi a dar vita al personaggio di Mirra.
Negli anni Venti nel firmamento teatrale italiano sorge l’astro di Gustavo Modena. Attore ex lege di fede repubblicana – patirà anche l’esilio tra il 1832 e il 1839 e diventerà in quegli anni uno dei più stretti collaboratori di Mazzini – Modena supera definitivamente il canone di verità ideale della rappresentazione scenica e lotta per affermare la centralità personale dell’attore.
Famoso per le sue interpretazioni delle tragedie alfieriane (Polinice, Oreste, Saul, Filippo) e per i recital danteschi, sperimentati per la prima volta a Londra presso il Queen’s Theatre nel 1839, Modena include nel repertorio delle sue compagnie anche il racconto del diacono Martino e la scena della morte di Ermengarda dall’ Adelchi di Manzoni.
Durante gli anni Cinquanta si afferma la generazione dei cosiddetti grandi attori: Ernesto Rossi, Tommaso Salvini – entrambi allievi diretti di Modena – e Adelaide Ristori. Il fenomeno del grande attore italiano acquista ben presto rilevanza internazionale; la consacrazione ufficiale dei tre straordinari interpreti arriva infatti da Parigi: nel 1855 l’ultima tournée della Reale Sarda, compagnia stabile creata a Torino nel 1821, porta nella capitale francese Rossi e la Ristori, mentre Salvini conquista Parigi nel 1857 con il suo Otello. Anche i sostenitori del nascente teatro di regia stimano i grandi attori italiani: La morte civile interpretata da Salvini a Parigi nel 1878 entusiasma Zola, Rossi stupisce Stanislavskij per la genialità del suo mestiere. Da un punto di vista strettamente letterario il repertorio dei grandi attori è incredibilmente discontinuo e comprende tanto i capolavori della drammaturgia europea quanto opere di modesto valore artistico. Tra le più celebri interpretazioni della Ristori si ricordano: Medea di Legouvé, Adriana Lecouvreur di Scribe-Legouvé, Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco, Giuditta ed Elisabetta regina di Inghilterra di Giacometti, Mirra di Alfieri, Maria Stuarda di Schiller, Fedra di Racine, Macbeth di Shakespeare e Camma di Giuseppe Montanelli. In realtà il grande attore è autore di una drammaturgia di secondo grado: l’opera letteraria è ricreata attraverso l’arte dell’interprete e la performance che ne risulta, capace di un forte impatto emotivo sul pubblico grazie a un sapiente uso di sfasature tra orizzonte di attesa degli spettatori e interpretazione attoriale, ha un valore estetico che prescinde da quello del testo di partenza. Il grande attore demiurgo può dunque rivendicare la propria supremazia sull’autore: estremamente significative sono in tal senso le pressioni che Adelaide Ristori esercita su Giacometti mentre questi, su commissione della stessa attrice, attende alla stesura di Maria Antonietta (1868). Lo spettacolo del grande attore è quindi progettato in funzione della sua performance individuale: la gestione corale della messa in scena è sacrificata all’epifania del personaggio, a cui il grande attore dà vita secondo la propria personale concezione poetica.
Konstantin Stanislavskij
Elogiando il talento attoriale di Rossi
La mia vita nell’arte
Quanto più recitavo, quanto più tenacemente cercavo la mia vera strada, tanto più cresceva la mia confusione. E non c’era una persona competente che potesse guidarmi.
Restava una sola cosa da fare: andare al Malyj Teatr a imparare dall’esempio dei bravi; ciò che feci. E quando a Mosca arrivavano in tournée artisti celebri, io, naturalmente, mi gettavo su di loro e non mi lasciavo sfuggire un solo spettacolo.
Feci così anche con Rossi. (...)
Rossi mi stupì per la sua straordinaria plasticità e per il suo ritmo. Non era un attore di temperamento spontaneo come Salvini o Mocalov; era un genio del mestiere. Anche il mestiere richiede un talento speciale, mediante il quale si può arrivare fino alla genialità. Tale era Rossi. Ciò non significa che Rossi non facesse impressione, non avesse temperamento, espressività ed efficace forza interiore. Al contrario, egli possedeva tutto questo in alto grado, e più di una volta abbiamo gioito e pianto insieme con lui a teatro. Ma non erano lacrime che si versano per un turbamento profondo. Rossi era irresistibile, ma non per questa forza spontanea, bensì per la logicità del sentimento, per la coerenza del disegno della parte, per la calma dell’interpretazione, la sicurezza del mestiere e la presa sul pubblico. Quando Rossi recitava, voi sapevate che vi avrebbe convinti perché la sua arte era veritiera. E la verità convince più di tutto! Nel parlare e nel gestire egli era straordinariamente semplice. Io lo vidi la prima volta nella parte di Re Lear. E, confesso, la prima impressione quando entrò in scena non fu molto favorevole. Dal punto di vista pittorico era assai debole: egli non vi prestava sufficiente attenzione: un banale costume operistico, una barba male incollata, una truccatura di scarso effetto.
Il primo atto non parve rivelare niente di particolare. Lo spettatore si adattava semplicemente a seguire la recitazione dell’attore che parlava una lingua incomprensibile. Ma a mano a mano che il maestro svolgeva davanti a noi il piano della parte come l’aveva creata e ne disegnava i contorni interni ed esterni, essa cresceva, si allargava e si approfondiva nella nostra immaginazione. Senza che ce ne accorgessimo, placidamente, in maniera conseguente, passo per passo, come su per i gradini di una scala spirituale, Rossi ci conduceva al punto culminante. Ma là egli non ci dava il colpo di un temperamento prepotente che produce il miracolo nella mente e nell’animo dello spettatore; egli, quasi volendo risparmiarsi, non di rado passava ad un tono di pathos naturale o ricorreva a un espediente di mestiere, ben sapendo che non ce ne saremmo accorti, poiché avremmo portato a compimento naturalmente ciò che lui aveva incominciato e grazie alla spinta ricevuta ci saremmo sollevati in alto per forza di inerzia, da soli, senza di lui. Di tale metodo si serve la maggior parte dei grandi attori, ma non tutti lo conducono e lo portano a termine allo stesso modo. Nei passaggi lirici, nelle scene amorose, nelle descrizioni poetiche Rossi era impareggiabile. Egli aveva la prerogativa di parlare semplicemente e lo sapeva fare, cosa tanto rara tra gli attori. Per usarla disponeva di una bella voce, di una singolare capacità di dominarla, di una insolita chiarezza di dizione, di una giusta intonazione, di una plasticità portata a tal punto di perfezione da diventare la sua seconda natura. Ma adatti alla sua natura erano soprattutto i sentimenti e le emozioni liriche.
E tutto questo, nonostante che le sue doti fisiche non fossero di prim’ordine. Era piccolo di statura, grosso, con i baffi tinti, le mani tozze, il viso rugoso, ma con magnifici occhi, vero specchio dell’anima. E con tali doti fisiche, già vecchio, Rossi interpretava Romeo. Egli non poteva recitarlo, ma ne disegnava meravigliosamente l’immagine interiore. Era un disegno ardito, quasi impudente. Per esempio, nella scena presso il monaco, Romeo, cioè Rossi, si rotolava per terra dal tormento e dalla disperazione. E un vecchio con la pancetta tonda, riusciva ad agire in tal modo senza rendersi ridicolo, perché era necessario al disegno interiore della parte, all’interessante linea psicologica giustamente tracciata. Noi comprendevamo la bellissima idea, la ammiravamo e simpatizzavamo per Romeo.
Mi resi conto del valore reale del talento e dell’arte di Rossi solo in seguito, allorché divenni io stesso attore. Al tempo di cui sto parlando, ammiravo inconsciamente il grande attore e cercavo di imitarlo esteriormente.
K. Stanislavskij, La mia vita nell’arte, trad. it. di M. Borsellino Di Lorenzo, Torino, Einaudi, 1963
Ancora una volta Adelaide Ristori può fornire un esempio significativo: convinta da Carcano a portare in scena Macbeth, l’attrice finisce col riplasmare il testo shakespeariano in funzione della propria interpretazione.
Grazie ai tagli e a una calibratissima partitura di microazioni, la Ristori fa di Lady Macbeth il baricentro della tragedia; snodandosi tra la colpa iniziale e l’espiazione finale, lo sviluppo drammatico del personaggio della regina-criminale è poi impostato secondo il classico percorso edificante che accomuna le eroine rappresentate dalla Ristori.
Alla stagione dei grandi attori, negli ultimi decenni del secolo subentra quella dei mattatori: Ermete Zacconi, Ermete Novelli e la divina Eleonora Duse. Il repertorio dei mattatori continua a presentare gli stessi scarti letterari già evidenziati per quello dei grandi attori. Un elenco dei drammaturghi più rappresentati mette subito in evidenza l’evoluzione dei gusti del pubblico: i testi di Dumas figlio e Sardou si alternano ai drammi borghesi di Praga e Giacosa; mentre scendono le quotazioni di Shakespeare salgono quelle di Ibsen (Spettri è il "cavallo di battaglia" di Ermete Zacconi e la Duse, incoraggiata da Lugné Poë, accosta diversi drammi ibseniani da Casa di bambola a La donna del mare). Parallelamente al repertorio, anche l’arte dell’attore subisce una naturale evoluzione. Nel 1899, rispondendo a una lettera di Salvini, Adelaide Ristori giudica la nuova arte "falsa" e "acrobatica"; certo il suo è un giudizio di parte, ma il rapporto che ella coglie tra il virtuosismo mattatoriale e la "nevrosi" che pare sconvolgere i cervelli umani sul finire del secolo non è privo di interesse. La sensibilità affettata e morbosa tipicamente fin de siècle lascia infatti una traccia profonda nelle interpretazioni dei mattatori.
Tommaso Salvini
Chiedendo un parere sull’interpretazione dell’arte del periodo
Lettera ad Adelaide Ristori
Carissima Marchesa,
(...) Se avete un po’ di tempo da perdere (il che non sarà facile) ditemi sinceramente che ne pensate di questa nuova forma d’interpretare la nostra arte! Ai nostri tempi si faceva meglio o peggio? Sono peggiorati gli Artisti, o il pubblico? Siamo noi che avemmo torto, o lo hanno loro? Io non me ne so formare un’idea; e siccome non pretendo di dare un parere giusto, essendo parte interessata, così per rendermene conto vi consulto. Prendete pure il tempo che vorrete per rispondermi. Non ho fretta, visto che, come sono le cose, non si possono variare. Conservatevi.
Vostro affezionato amico
Tommaso Salvini
in M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Bologna, Il Mulino, 1992
Adelaide Ristori
Critica sulla percezione di arte ed artisti del periodo
Lettera a Tommaso Salvini
Mio carissimo amico,
io ho vergogna di leggere la data della vostra buona lettera rispondendo solo un mese dopo! (...)
Volete sapere quello che io penso di questa nuova interpretazione dell’arte nostra? Molto male!
La nevrosi è la malattia che sconvolge il cervello umano in questo fin di secolo! Il pubblico è attaccato da questa orribile malattia e guasto il vero gusto del bello nell’Arte rappresentativa.
In genere gran colpa ne ha la politica scapigliata che guasta il cervello e ne sconvolge i sensi.
La moda delle toilette, il lusso degli abbigliamenti, colpiscono lo spettatore e non gli fanno riflettere se quello che vede sulla scena promuovono degli scatti giusti e naturali.
Io, modestamente, sono d’avviso che l’attuale forma di interpretazione è falsa e acrobatica! e che noi dobbiamo essere orgogliosi di essere stati quello che fummo, seguaci della verità e della manifestazione della grand’arte.
A me fa tanto piacere vedere qualche volta una vostra apparizione sulle scene – il teatro rigurgita di spettatori d’ogni nazione, ammiratori del vero bello – ed esserne tutti entusiasmati. E sembra, dai grandi trionfi che ottiene il vostro Gustavo per la vera, intelligente ed alta interpretazione dei capi d’opera antichi (che non possono essere interpretati se non da chi aveva per modello voi) si trovi ad avere dei pubblici non di mente ottusa.
Ma non ridete quando si leggono sull’Arte Drammatica, i nuovi epiteti che si danno alle stelle del giorno?
La Duse "la maggiore artista".
Novelli "il gran mago".
La Mariani "la gran strega".
Benini (?) "il grande".
La Di Lorenzo "l’unica".
La Reiter "l’artista meravigliosa".
La Di Lorenzo "unica, affascinante".
Zacconi "straordinario"
Sono epiteti che non hanno altro risultato che muovere al riso le persone come noi.
Ma per carità scusate questa cicalata! (...)
Mille buoni auguri, anche per parte dei miei figli, vi mando pel nuovo anno. Che possiate ottenere tutto quello che desiderate.
Abbiatevi una buona stretta di mano dalla vostra affezionata amica
Adelaide Ristori del Grillo
in M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Bologna, Il Mulino, 1992
Nella prima metà del secolo il fallimento delle compagnie "privilegiate", quali la Vicereale Italiana di Milano (1808-1814) e la Reale Sarda di Torino (1821-1855), fa naufragare il sogno di dare all’Italia istituzioni teatrali stabili analoghe a quelli degli altri paesi europei.
Nel secondo Ottocento la solidità della grande tradizione attorica e mattatoriale, assicurando all’attore il controllo della creazione teatrale, ostacola l’avvento del teatro di regia.
Il rapporto tra la Duse e D’Annunzio è un po’ il simbolo dell’irriducibilità dell’attore italiano alle istanze registiche: nonostante le dichiarazioni di principio e la dedizione al poeta, la Duse non intende piegarsi al nuovo "signore della scena".
Negando all’ultimo momento il proprio appoggio a D’Annunzio, autore-regista della Francesca da Rimini che debutta a Roma presso il Teatro Costanzi il 9 dicembre 1901, la Duse – interprete di Francesca – è infatti in parte responsabile del sostanziale fallimento dello spettacolo.
In assenza di registi e sedi stabili, alle soglie del nuovo secolo il teatro italiano si presenta strutturato secondo un sistema gerarchico di compagnie di giro – a gestione capocomicale, sociale o mista – organizzate al loro interno secondo il sistema dei "ruoli".
Al principio e alla fine dell’Ottocento la figura dell’attore si riflette in un "doppio" inquietante: la marionetta.
Il grande danzatore protagonista del saggio di Kleist Sul teatro delle marionette (1810) tesse un entusiastico elogio della marionetta: essendo totalmente privo di coscienza, il fantoccio inanimato possiede una grazia preclusa all’essere umano.
L’uomo può solo fortuitamente scivolare in momenti di grazia inconsapevole ma, appena riacquista il dominio razionale sulle proprie azioni, subito distrugge l’incanto. Trasformandosi da personaggio (come la Kunigunde di Caterina von Heilbronn o l’Olimpia di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann) a paradigma dell’arte del performer (la marionetta di Kleist), la creatura "artificiale", tipica dell’immaginario romantico, perde la propria connotazione diabolica; nel suo automatismo la marionetta kleistiana è infatti un adamantino riflesso della perfezione divina.
All’estremo opposto del secolo la marionetta si trova a contendere nuovamente la scena all’attore. Nel 1888 a Parigi Henri Signoret apre il Petit Théâtre de Marionnettes e riesce subito a destare interesse mettendo in scena The tempest di Shakespeare. Sotto la successiva direzione di Maurice Bouchor vengono rappresentati con successo Abrahm l’Ermite (1889) di Rosvita e Noël ou Le mystère de la nativité (1890) dello stesso Bouchor.
Tra gli spettatori piacevolmente sorpresi dagli spettacoli del teatro della rue Vivienne incontriamo Anatole France. Parallelamente alle sperimentazioni "pratiche" si sviluppano le elaborazioni teoriche: Maeterlinck sogna una scena dalla quale l’uomo sia completamente bandito (Le théâtre, 1890); Jarry ritiene che gli attori ingombrino i teatri senza utilità e ipotizza di sostituire all’interprete umano la marionetta, capace di aderire integralmente alla volontà dell’autore (De l’inutilité du théâtre au théâtre, 1896 e Conférence sur les pantins, 1902).
La possibilità di sostituire gli attori con le marionette è contemplata anche da Aurélien Lugné-Poë.
Nella Lettre-programme, in cui enuncia la poetica del Théâtre de l’Oeuvre (1893), accanto all’utilizzo di "figure ombra" di dimensioni superiori a quelle della vita reale o alla sperimentazione della "pantomima dei clown", macabra o allegra, Lugné-Poë prevede infatti di ricorrere all’uso delle marionette per le proprie messe in scena dei drammi simbolisti.
Il progetto di Lugné-Poë non viene in realtà attuato, ma il terreno di sperimentazione per la ricerca teatrale novecentesca è ormai preparato.
All’inizio del nuovo secolo il mito della marionetta è codificato nelle riflessioni di Gordon Craig (The actor and the Über-Marionette, 1908).
Essendo priva della capacità di autodeterminazione dell’attore, la marionetta è l’interprete ideale della poesia dell’autore o, a seconda dei punti di vista, del regista.