L’attuazione del federalismo fiscale: profili tributari
I nuovi assetti della fiscalità comunale e regionale quali risultano dai decreti attuativi della l. 5.5.2009, n. 42 si caratterizzano, in conseguenza dell’esigenza di garantire il controllo dei flussi di spesa, per la centralità dei tributi istituiti e disciplinati dallo Stato il cui gettito è assegnato alle autonomie (i cd. tributi propri derivati). La fiscalità municipale si impernia così sull’imposta municipale propria, doppione dell’ICI dall’aliquota più elevata in ragione del fatto che l’IMU ingloba anche l’IRPEF sui redditi dei beni immobili non locati, e sull’addizionale comunale all’IRPEF, nella misura massima dello 0,8 per cento, a partire dal 2012. La fiscalità regionale si fonda principalmente sull’IRAP, su cui le regioni possono intervenire dettando deduzioni dalla base imponibile e riducendo le aliquote e sull’addizionale IRPEF, che può arrivare, a regime, fino al 3 per cento. L’obiettivo è duplice: da una parte garantire al sistema tributi sufficientemente omogenei su cui innestare i meccanismi perequativi, dall’altra decentrare poteri tributari di non irrilevante impatto, che difficilmente le autonomie riusciranno a non esercitare per far fronte ai tagli contenuti nelle recenti manovre statali di rientro.
Si è dato corso nella seconda metà del 2010 e nella prima metà del 2011 al processo di attuazione della l. 5.5.2009, n. 421, processo che può dirsi ad oggi completato2, giacché sono già in vigore sette decreti attuativi3 e l’ultimo, sui meccanismi sanzionatori e premiali relativi agli enti territoriali è stato approvato dal Consiglio dei ministri, a seguito del parere favorevole della Commissione bicamerale4, il 28.7.2011. Ci si soffermerà qui di seguito sui provvedimenti che più interessano lo studioso del diritto tributario, e cioè il n. 23 e il n. 68 del 2011, concernenti rispettivamente la fiscalità comunale (il n. 23) e quella delle regioni e province a statuto ordinario5 (il n. 68), il che di certo non implica che non vi sia consapevolezza che il principale tratto di discontinuità della riforma va ravvisato nel tentativo di mettere definitivamente sotto controllo le spese, fiscalizzando i trasferimenti e passando – si tratterebbe di risultato straordinario – dal finanziamento della spesa storica, con tutte le inaccettabili inefficienze che ciò comporta, al finanziamento a costi standard6.
Nel titolo V della parte II della Costituzione è «materia» di esclusiva pertinenza statale il «sistema tributario e contabile dello Stato» (art. 117, co. 2, lett. e), risultando invece attribuito alla potestà legislativa concorrente il «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (co. 3). La conseguenza è che, in virtù del principio sancito nell’art. 117, co. 4, Cost., quello cioè secondo il quale rientrano nella competenza esclusiva del legislatore regionale tutte le materie non espressamente attribuite al legislatore statale, risulterebbe di pertinenza delle regioni la disciplina dei tributi regionali e locali7, fatto salvo il diritto di intervento di comuni e province, promanante dall’art. 119, co. 2, Cost. e comunque limitato dalla perdurante operatività nel sistema del principio di riserva di legge di cui all’art. 23 Cost.8. Due potestà legislative esclusive, quella dello Stato sul sistema tributario statale (art. 117, co. 2, lett. e) e quella delle regioni sui tributi delle autonomie (art. 117, co. 4), debbono dunque, secondo la de- scritta condivisibile prospettazione, coesistere, dipendendo l’ampiezza della seconda rispetto alla prima dal coordinamento del sistema tributario, che l’art. 117, co. 3, come si è visto, assegna alla potestà legislativa concorrente, e, quindi, in definitiva, alle regioni, fatta salva la determinazione dei principi fondamentali, di esclusiva pertinenza statale. Alla legge delega quindi il compito di delimitare i reciproci spazi per mezzo dell’individuazione dei principi fondamentali del coordinamento, che, quindi, escono dall’indistinto che li caratterizza in forza delle scelte legislative operate dal delegante. Si tratta di decisiva funzione, dato che è possibile ipotizzare, in conseguenza della già evidenziata fisiologica indeterminatezza della nozione di principio fondamentale del coordinamento:
• sia che, una volta garantita dall’art. 117, co. 2, lett. e), Cost. la competenza esclusiva dello Stato sui tributi statali (ed erano tali, nel periodo transitorio, anche quelli istituiti e disciplinati dallo Stato il cui gettito era attribuito alle regioni, in tal senso la Corte costituzionale fin dalle sentenze 26.9.2003, n. 296, 27.9.2003. n. 297 e 2.10.2003, n. 311), alle regioni dovrebbe spettare il “governo” dei tributi delle autonomie (che, quindi, andrebbero “regionalizzati”), fatto salvo il rispetto dei principi fondamentali del coordinamento, da considerarsi come essenzialmente finalizzati all’esigenza di impedire la sovrapposizione dei legislatori nell’assoggettamento ad imposizione dei medesimi presupposti;
• sia che dovrebbe essere lo Stato a mantenere il “controllo” dei principali tributi delle autonomie, che quindi, configurandosi come derivati, potrebbero annoverarsi tra le fonti di finanziamento degli enti territoriali, stante la precisa individuazione delle fonti di finanziamento da parte dell’art. 119, co. 4, Cost., proprio in ragione della scelta in tal senso operata dalla legge di coordinamento, che quindi, in definitiva, finisce per sdoganarli.
Il delegante ha optato, prudenzialmente, per quest’ultima soluzione, la meno favorevole per le ragioni dell’autonomia9, riconoscendo comunque alle regioni la possibilità, tutt’altro che irrilevante, ma solo dal lato teorico-dogmatico, data la pervasiva occupazione dei presupposti connessi alle manifestazioni di capacità contributiva da parte del legislatore statale10, di introdurre nell’ordinamento, negli spazi lasciati liberi dal legislatore statale (nell’attuale contingenza, più che esigui) e senza bisogno di una legge statale avente funzione autorizzatoria, tributi regionali e locali. Tale possibilità, peraltro, incontra, discutibilmente, ulteriori limitazioni, nei principi di continenza e di tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio (art. 2, co. 2, lett. p)11. La scelta, in altri termini, non è stata quella della regionalizzazione dei presupposti dei tributi propri derivati (in quanto istituiti e disciplinati dallo Stato), di cui già comuni, province e regioni disponevano. Il che risulta, per le regioni a statuto ordinario, dall’art. 7 della delega, laddove si qualificano come tributi propri delle regioni oltre che i tributi istituiti «con proprie leggi in relazione ai presupposti non già assoggettati ad imposizione erariale», i «tributi propri derivati» e le «addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali», per i comuni e le province, dall’art. 12, co. 1, l. n. 42/2009, a mente del quale la legge statale «individua i tributi propri dei comuni e delle province, anche in sostituzione o in trasformazione dei tributi già esistenti o anche attraverso l’attribuzione agli stessi comuni o province di tributi o parti di tributi già erariali; ne definisce presupposti, soggetti passivi e basi imponibili; stabilisce, garantendo un’adeguata flessibilità, le aliquote di riferimento valide su tutto il territorio nazionale» (lett. a). Una posizione di assoluta preminenza è quindi riservata al legislatore statale, il quale, per i tributi delle municipalità e delle province, agisce in un contesto bilivello Stato-comuni12, spettando alle regioni unicamente l’eventuale istituzione di nuovi tributi comunali (art. 12, co. 1, lett. g), che, ovviamente, in conseguenza del ricordato divieto di sovrapposizione di cui all’art. 2, co. 2, lett. o), della delega, non possono avere ad oggetto i medesimi presupposti già utilizzati dal legislatore statale13.
A) Tale impostazione di fondo trova compiuta realizzazione nel d.lgs. n. 23/2011, nel quale si individuano innanzitutto alcuni tributi statali il cui gettito viene devoluto in tutto o in parte (art. 2, co. 3 e 8) ai comuni, «relativamente agli immobili ubicati nel loro territorio» (imposta di registro ed imposta di bollo sugli atti di trasferimento immobiliare e sui contratti di locazione relativi ad immobili, imposte ipocatastali, IRPEF sui redditi fondiari, tributi speciali catastali, tasse ipotecarie e cedolare secca sugli affitti). La devoluzione andrà nella prima fase a “fiscalizzare” gli attuali trasferimenti (art. 2, co. 8), non più ammessi quale fonte di finanziamento in forza dell’art. 119, co. 4, Cost. Tuttavia, in considerazione della sperequazione territoriale che caratterizza alcune delle imposte devolute, si è previsto che le risorse siano destinate ad un «fondo sperimentale di riequilibrio», che dovrebbe rimanere in vita per tre anni, e comunque fino alla attivazione del fondo perequativo a regime, disciplinato dall’art. 13 del medesimo decreto (art. 2, co. 3)14, i cui criteri di ripartizione sono stati individuati per l’anno 2011 con il d.m. 21.6.2011. Ai comuni è inoltre attribuita una compartecipazione al gettito dell’IVA, in una percentuale da individuarsi «assumendo a riferimento il territorio su cui si è determinato il consumo che ha dato luogo al prelievo» (art. 2, co. 4) con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri15. Tra i tributi il cui gettito viene devoluto ai comuni c’è anche, come si è visto, la cd. cedolare secca sugli affitti, imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali, delle imposte di registro e di bollo sui contratti di locazione, introdotta dallo stesso decreto (art. 3) a decorrere dall’anno 2011, a cui possono essere assoggettati, su opzione, i redditi fondiari conseguiti dai proprietari o dai titolari di diritti reali di godimento di unità immobiliari abitative locate ad uso abitativo. Si tratta di scelta più che discutibile perché si consente la tassazione degli affitti al 21 per cento (ma il tasso scende al 19 per cento nel caso le unità abitative siano affittate a canone concordato), a fronte di un’aliquota IRPEF che può giungere, senza considerare le addizionali, peraltro sbloccate dalla manovra di ferragosto (d.l. 13.8.2011, n. 138), e prescindendo dal recentissimo contributo di solidarietà di cui all’art. 2, co. 2, del testé citato decreto (che, peraltro, non colpisce gli affitti in cedolare secca), fino al 43 per cento (art. 11 del t.u.i.r.). In altri termini, da una parte si favoriscono i rentiers16, senza che ciò trovi giustificazione nella mobilità dell’oggetto da sottoporre a tassazione, dall’altra si attenua ulteriormente la già debole progressività del sistema. Il che genera perplessità non solo con riferimento all’art. 53, co. 2, Cost., ma anche avendo a mente l’art. 2, lett. l), l. n. 42/2009, laddove si individua quale principio e criterio direttivo cui il delegato avrebbe dovuto uniformarsi la «salvaguardia dell’obiettivo di non alterare il criterio di progressività del sistema tributario …»17. Il tutto in un contesto in cui non è di certo impossibile rendere maggiormente incisiva la lotta agli affitti in nero, e ciò anche grazie all’istituto della partecipazione dei comuni all’accertamento, su cui l’art. 2, co. 10, del decreto ulteriormente interviene, innalzando la percentuale da riconoscersi ai comuni dal 33 al 50 per cento delle somme riscosse in conseguenza delle segnalazioni all’Agenzia delle entrate18.
B) Oltre che sui tributi “devoluti” la finanza delle municipalità si fonda sui tributi derivati. Centrale nel nuovo assetto è l’Imposta Municipale Unica (IMU), che, dal 2014, dovrebbe sostituire, nella sua versione “propria”, l’IRPEF e le addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati e l’Imposta comunale sugli immobili (art. 8, co. 1)19. Il presupposto dell’imposta è «il possesso di immobili diversi dall’abitazione principale» (art. 8, co. 2)20, definita come «unica unità immobiliare nella quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente» (art. 8, co. 3). Si innova, quindi, rispetto all’attuale disciplina ICI, in contrasto con quanto previsto nella delega, che imponeva di confermare l’esclusione «della tassazione patrimoniale sull’unità immobiliare adibita ad abitazione principale secondo quanto previsto dalla legislazione vigente alla data di entrata in vigore della presente legge in materia di imposta comunale sugli immobili». Ed invero, l’art. 8, co. 2, d.lgs. 31.12.1992, n. 504, prevede che si intende per tale, salvo prova contraria, «quella di residenza anagrafica» e che «per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale e i suoi familiari dimorano abitualmente». Ai fini dell’esclusione IMU diventa quindi decisiva la dimora abituale del contribuente e non anche quella dei suoi familiari, a differenza quindi dell’attuale situazione, in cui l’abitazione può essere ritenuta principale solo se in essa dimorano abitualmente sia il contribuente che i suoi familiari21. Non cambia la situazione, invece, grazie all’art. 14, co. 6, del decreto, per quel che concerne i poteri delle amministrazioni comunali delineati dall’art. 59 d.lgs. 15.12.1997, n. 446, il quale prevede che «con regolamento adottato a norma dell’articolo 52, i comuni possono: …; d) considerare parti integranti dell’abitazione principale le sue pertinenze, ancorché distintamente iscritte in catasto; e) considerare abitazioni principali, con conseguente applicazione dell’aliquota ridotta od anche della detrazione per queste prevista, quelle concesse in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale, stabilendo il grado di parentela». Per il resto l’IMU propria è molto simile all’ICI, con cui condivide anche la disciplina di accertamento, riscossione coattiva, rimborsi, sanzioni, interessi e contenzioso (art. 9, co. 7). La base imponibile è il valore dell’immobile determinato ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 504/1992 (art. 8, co. 4), i soggetti passivi sono gli stessi attualmente previsti dalla disciplina ICI (art. 9, co. 1). L’aliquota è però più elevata (0,76 per cento, ex art. 8, co. 5), conglobandosi nel nuovo tributo anche l’IRPEF e le addizionali sui redditi fondiari connessi ai beni non locati. Su tale aliquota il comune può intervenire, in più o in meno nella significativa misura dello 0,3 per cento (art. 8, co. 5). Ovviamente, in considerazione del fatto che i redditi degli immobili locati continuano ad essere assoggettati ad IRPEF (o, come si è visto, in alternativa e sussistendone le condizioni, a cedolare secca sugli affitti), è previsto che l’aliquota su di essi è ridotta alla metà (art. 8, co. 6) e che può essere modificata, in più o in meno, dello 0,2 per cento dal comune nell’esercizio della propria autonomia regolamentare. Da segnalare l’art. 8, co. 7, il quale riconosce ai comuni la facoltà di ridurre fino alla metà l’aliquota sui beni non produttivi di reddito fondiario in quanto strumentali all’attività di impresa e su quelli posseduti da soggetti assoggettati ad imposta sui redditi delle società. In queste ultime situazioni, infatti, l’aumento dell’aliquota rispetto a quella attuale dell’ICI non si giustifica, dato che l’IRPEF e l’IRES non confluiscono nel nuovo prelievo. Nel caso quindi in cui il comune non intervenisse, si assisterebbe ad un pesante inasprimento del prelievo sui beni immobili delle imprese. Di minore impatto è l’imposta municipale secondaria, finalizzata a sostituire, pur sempre dal 2014, i prelievi comunali sulla occupazione di spazi e aree pubbliche, quelli sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche affissioni (art. 11). Il sistema si completa con l’imposta di soggiorno (art. 4), l’imposta di scopo (art. 6) e – si tratta di prelievo particolarmente rilevante dal lato quantitativo – l’addizionale comunale all’IRPEF (art. 5). Non mi sembra il caso di intrattenersi sulle ultime due, se non per ricordare, quanto all’imposta di scopo, che la norma (art. 6) rinvia ad un regolamento statale che, recependo quanto indicato nell’art. 6 stesso, modifichi il tributo di scopo di cui già oggi le municipalità dispongono (il prelievo è disciplinato dall’art. 1, co. 145, l. 27.12.2006, n. 296), quanto all’addizionale, che la norma contenuta nel decreto (art. 5) è stata abrogata dall’art. 1, co. 11, d.l. n. 138/2011, in cui si è eliminata, a partire dal 2012, in contropartita della riduzione dei trasferimenti prevista dal co. 8 del medesimo articolo (il quale è intervenuto sull’art. 3, co. 5, d.l. 6.7.2011, n. 98), ogni limitazione sull’addizionale a partire dall’anno 2012 (i comuni potranno quindi dall’anno prossimo innalzare l’addizionale fino allo 0,8 per cento, per un gettito potenziale complessivo di 1,9 miliardi di euro22). È il caso invece, per la novità di tale forma di prelievo, di poco preceduta dall’analogo tributo introdotto per Roma capitale dall’art. 14, co. 16, lett. e), d.l. 31.5.2010, n. 7823, di soffermarsi sull’imposta di soggiorno. Si tratta di tributo, a gettito vincolato24, che può essere introdotto dai comuni capoluogo di provincia e da quelli inclusi nell’elenco regionale delle località turistiche e città d’arte «a carico di coloro che alloggiano nelle strutture ricettive situate sul proprio territorio», nella misura massima di cinque euro per notte di soggiorno. La disciplina della nuova imposta è estremamente lacunosa: si rinvia infatti ad un regolamento (art. 4, co. 3), avente ad oggetto la «disciplina generale di attuazione dell’imposta di soggiorno», da emanarsi nei 60 giorni successivi all’entrata in vigore del decreto (e quindi entro il 6.6.2011), fatta salva la possibilità per i comuni di individuare per via regolamentare «ulteriori modalità applicative» del tributo e di stabilire «esenzioni e riduzioni per particolari fattispecie o per determinati periodi di tempo». Si stabilisce altresì che i comuni hanno la possibilità, nell’assenza del regolamento statale (che non è stato ad oggi emanato), di adottare un proprio regolamento che disciplini i profili applicativi del tributo. L’inerzia statale fa dunque “saltare” gli equilibri tra fonte secondaria statale e fonte comunale, non essendo chiaro oltretutto quale sia il destino dei regolamenti comunali una volta che venga emanato, in ritardo, il regolamento statale. Il tutto in presenza di una disposizione di legge che non stabilisce se il gestore della struttura ricettiva sia o meno obbligato alla rivalsa nei confronti di coloro che alloggiano nella medesima ed in cui nulla si dice per quel che riguarda le sanzioni. Né, con riferimento a quest’ultimo cruciale aspetto, si può immaginare che siano le norme regolamentari a supplire alle carenze della norma primaria, dato che disposizioni siffatte risulterebbero illegittime per contrasto con il principio di legalità in materia di sanzioni amministrative tributarie, di cui all’art. 3, co. 1, d.lgs. 18.12.1997, n. 472.
Quanto si è detto in merito all’atteggiamento particolarmente prudente che si è assunto in sede di attuazione del disegno costituzionale vale anche per la fiscalità regionale e provinciale. Su quest’ultima è appena il caso di soffermarsi, per far rilevare che l’imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, esclusi i ciclomotori, è qualificata, per le ragioni sopra esposte, come tributo proprio derivato (il gettito era già destinato alle province in forza di quanto stabilito nell’art. 60 d.lgs. n. 446/1997). Su tale imposta le province possono intervenire aumentando o diminuendo l’aliquota, fissata nel 12,5 per cento, di 3,5 punti percentuali. Le province dispongono anche di due compartecipazioni: una all’IRPEF (art. 18), da determinarsi in modo tale da compensare il taglio dei trasferimenti e destinata ad alimentare nel periodo transitorio un fondo sperimentale di riequilibrio (art. 21), l’altra alla tassa automobilistica regionale, da quantificarsi in misura corrispondente alla soppressione dei trasferimenti regionali (art. 19). Si individuano inoltre i criteri per il riordino dell’imposta provinciale di trascrizione (art. 17, co. 7). Molto più importanti, ovviamente, sono gli interventi sulla fiscalità regionale, che si fonda in un contesto in cui il varo delle nuove forme di prelievo si accompagna alla soppressione dei trasferimenti erariali di parte corrente a partire dal 2012 (art. 7):
• sulla addizionale regionale all’IRPEF, da adottare con d.p.c.m. in modo da assicurare entrate corrispondenti ai trasferimenti erariali che devono essere soppressi ed alla del pari sopprimenda compartecipazione regionale all’accise sulla benzina (il varo della nuova addizionale dovrà accompagnarsi alla corrispondente riduzione della aliquota dell’IRPEF statale) (art. 2, co. 1);
• sul riconoscimento in capo alle regioni della facoltà di intervenire sull’addizionale IRPEF attraverso la maggiorazione dell’aliquota base, pari allo 0,9 per cento (sino alla rideterminazione di cui si è testé detto), dello 0,5 per cento al massimo per gli anni 201225 e 2013, dell’1,1 per cento al massimo per l’anno 2014, del 2,1 per cento sempre al massimo a decorrere dall’anno 2015, fatto salvo che l’aggravio oltre lo 0,5 per cento non vale per i titolari di reddito che rientrino nel primo scaglione reddituale (art. 6, co. 1, 2 e 3); ��sulla possibilità di stabilire – si tratta di disposizione certamente opportuna nella logica della semplificazione – aliquote dell’addizionale regionale IRPEF differenziate esclusivamente in ragione degli scaglioni di reddito corrispondenti a quelli stabiliti dalla legge statale (art. 6, co. 4)26;
• sulla possibilità di disporre, purché le regioni non siano impegnate nei piani di rientro dei deficit sanitari – la norma si palesa come particolarmente innovativa – detrazioni a favore delle famiglie, sia attraverso la maggiorazione di quelle già previste all’art. 12 del t.u.i.r., sia attraverso la sostituzione di sussidi, voucher, buoni servizio e altre misure previste dalla legislazione regionale (art. 6, co. 5 e 6);
• sulla possibilità di ridurre le aliquote dell’imposta regionale sulle attività produttive, a partire dall’anno 2013, fino anche ad azzerarle, e disporre deduzioni dalla base imponibile nel rispetto, ovviamente, dei vincoli europei, possibilità che sussiste se ed in quanto la regione non abbia deliberato maggiorazioni dell’aliquota regionale all’IRPEF superiori allo 0,5 per cento (non è possibile in altri termini finanziare la riduzione dell’IRAP con l’inasprimento dell’addizionale IRPEF oltre il limite dello 0,5 per cento) (art. 5, co. 1 e 3);
• sulla compartecipazione regionale all’IVA, disciplinata dall’art. 4;
• sul riconoscimento dei tributi propri derivati spettanti sulla base della legislazione vigente (art. 8, co. 3);
• sulla pedissequa riproposizione della norma contenuta nella delega in materia di tributi propri in senso stretto (art. 2, co. 2, lett. q), il tutto però a decorrere dall’anno 2013 (il decreto legislativo sposta dunque in là nel tempo la possibilità di esercitare quella facoltà che la Corte costituzionale aveva ritenuto sussistente, con la fondamentale sentenza 15.4.2008, n. 102, fin dalla fase transitoria).
Il sistema che emerge dal provvedimento attuativo si basa dunque sui tributi propri derivati, che vengono “acquisiti” alla fiscalità regionale, pur restando istituiti e disciplinati dallo Stato, sulla rivista addizionale IRPEF (che può arrivare, se si confermasse con il d.p.c.m. previsto dall’art. 2, co. 1, l’aliquota base dello 0,9 per cento, fino al 3 per cento) e sulla compartecipazione all’IVA. Per quanto riguarda i primi, merita segnalare che su di essi le regioni dovrebbero poter intervenire, disponendo l’art. 7, co. 1, lett. c), della delega che «le regioni con propria legge possono modificare le aliquote e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei limiti e secondo i criteri fissati dalla legislazione statale e nel rispetto della normativa comunitaria …». Tale facoltà – comunque eterodiretta, atteso che nessuno spazio di manovra è riconosciuto alle regioni al di fuori di quanto previsto dalla legge statale (in fase di approvazione della legge di delegazione, è venuto meno il meccanismo, vero e proprio contrappeso, che avrebbe consentito alle regioni di sovrapporsi alla disciplina dei tributi propri derivati, introducendo senza necessità di autorizzazione statale esenzioni, deduzioni e detrazioni) – è espressamente, come si è visto, prevista proprio per il principale tributo regionale, l’IRAP (art. 5, co. 1), potendo le regioni introdurre deduzioni dalla base imponibile e ridurre le aliquote fino al loro azzeramento (sul punto si tornerà nel prosieguo). Resta inoltre fermo il potere di intervenire sull’aliquota previsto dall’art. 16, co. 3, d.lgs. n. 446/1997 (variazione di un punto percentuale in più o in meno, che «può essere differenziata per settori di attività e categorie di soggetti passivi»). Con riferimento all’addizionale IRPEF, non può non evidenziarsi che l’entità precisa di tale forma di prelievo, centrale nel progetto di riforma, aumentata rispetto a quella attualmente vigente (0,9 per cento aumentabile dalle regioni fino all’1,4 per cento, ai sensi dell’art. 50, co. 1, d.lgs. n. 446/1997), non risulta dal testo del decreto, e ciò in considerazione del fatto che l’aliquota base deve essere determinata, come si è visto. con d.p.c.m. Se quest’ultimo stabilisse un’aliquota più elevata rispetto allo 0,9 per cento, l’addizionale regionale potrebbe superare a regime, in virtù della ricordata possibilità per le regioni di intervenire sulle aliquote, il 3 per cento (cfr. art. 6, co. 1). Alla determinazione dell’aliquota base deve comunque corrispondere una riduzione dell’aliquota dell’IRPEF statale, sicché il massimo aggravio che può derivare dall’addizionale è fissato nella misura, assai rilevante, del 2,1 per cento. In secondo luogo, va rilevato che vi è anche la possibilità per le regioni – è una novità assoluta – di diminuire – la legge non pone limiti in questo senso (anche se non è consentito l’azzeramento) – l’aliquota dell’addizionale di base. Può quindi teoricamente accadere che venga fissata l’aliquota di base con d.P.C.m. in modo da assicurare entrate corrispondenti ai trasferimenti erariali che devono essere soppressi ed alla del pari sopprimenda compartecipazione regionale all’accise sulla benzina, che, contemporaneamente, si riduca l’IRPEF statale e che sull’aliquota di base intervenga la regione riducendola, con un risparmio secco per i contribuenti. Resta il limite connesso ai trasferimenti regionali ai comuni (art. 6, co. 3), nel senso che la loro soppressione viene rimpiazzata, ai sensi dell’art. 12, co. 2, da una compartecipazione comunale all’addizionale IRPEF, determinata, fatto salvo l’esercizio del potere sostitutivo ex art. 120, co. 2, Cost., dalle regioni con atto amministrativo d’intesa con i comuni del proprio territorio. Le regioni non possono quindi ridurre l’addizionale scaricandone il peso sui comuni, cui debbono essere garantite, seppur sotto forma di compartecipazione ad un’addizionale, le stesse risorse di cui già oggi dispongono. Non risulta tuttavia chiaro dall’art. 8, co. 2, quando si intenda raggiunto l’accordo con i comuni (quando risulteranno d’accordo la maggioranza di essi, in numero o in popolazione, ecc.) e se la regione possa determinare la compartecipazione in assenza di intesa. In terzo luogo, il limite alla maggiorazione dello 0,5 per cento connesso alla contestuale riduzione dell’IRAP. La logica della disposizione è che non si dovrebbe far pagare ai soggetti IRPEF un’aggressiva politica agevolativa nei confronti delle imprese. Si tratta di scelta discutibile nella logica (federalistica) della realizzazione del principio di responsabilità, atteso che non si vede per quale ragione si debba impedire agli amministratori regionali di “investire” molto sulla riduzione delle aliquote IRAP, finanziandosi con l’inasprimento (fino anche al massimo consentito) dell’addizionale regionale, al fine di attrarre nuove imprese sul territorio nel tentativo di incrementare i livelli occupazionali ed aumentare dunque il reddito a disposizione dei cittadini. Dovrebbero poi essere gli elettori a valutare le scelte degli amministratori regionali, premiandoli qualora la riduzione o l’azzeramento delle aliquote IRAP abbia generato significativi incrementi occupazionali o, punendoli, qualora invece la politica in favore delle imprese non abbia dato i frutti sperati. La norma meriterebbe poi di essere chiarita con riferimento all’estensione del divieto di innalzare l’addizionale sopra lo 0,5 per cento. Ed invero, come si è visto, l’art. 16, co. 3, d.lgs. n. 446/1997, norma espressamente confermata nella sua operatività dal testo del decreto, consente di intervenire sulla aliquota in più o in meno nel limite di un punto percentuale, anche limitatamente a specifici settori di attività e categorie di soggetti passivi. Ebbene, se una regione riduce l’aliquota per una particolare categoria di contribuenti, incontra il limite alla maggiorazione oltre lo 0,50? Dalla disposizione sembrerebbe di no, atteso che la condizione che limita le possibilità di manovra sull’addizionale è la «riduzione dell’Irap», con il che il legislatore pare volersi riferire all’abbassamento dell’aliquota che trova generale applicazione nei confronti di tutti i soggetti passivi e al riconoscimento di deduzioni dalla base imponibile. Sulla disciplina della compartecipazione regionale all’IVA di cui all’art. 3, mi pare particolarmente importante la scelta di ancorare, a partire dal 2013, le modalità di attribuzione del gettito della compartecipazione IVA al principio di territorialità, principio che «tiene conto del luogo di consumo», da identificarsi «con quello in cui avviene la cessione di beni; nel caso dei servizi il luogo della prestazione può essere identificato con quello del domicilio del soggetto fruitore» (art. 4, co. 3). È chiaro dunque che il livello di evasione di una determinata regione dovrebbe risultare inversamente proporzionale rispetto alla quota di compartecipazione regionale all’IVA di cui la regione potrà disporre: se in una regione il tasso di evasione è particolarmente elevato, vi saranno meno cessioni di beni e prestazioni di servizi regolarmente fatturate e dichiarate e, quindi, quella regione otterrà minori risorse a titolo di compartecipazione27. Non è tuttavia immediato individuare il luogo in cui avvengono le cessioni di beni e le prestazioni di servizi. La norma parrebbe rinviare alle regole sulla territorialità dell’imposta sul valore aggiunto (artt. 7-7 sexies d.P.R. 26.10.1972, n. 633), dovendosi sostituire a «territorio dello Stato» la locuzione «territorio della Regione». Sul punto si rinvia in ogni caso ad un futuro d.P.C.m. Si segnala oltretutto che l’ultima specificazione («nel caso dei servizi il luogo della prestazione può essere identificato con quello del domicilio del soggetto fruitore») costituisce trasposizione letterale dell’art. 7, co. 1, lett. d), n. 1, ultimo periodo, l. n. 42/2009: non c’è quindi un passo avanti rispetto alla delega, risultando le decisioni sul punto, molto importante, rinviate a un futuro atto governativo, che quindi potrebbe scegliere di non adottare tale opzione. Infine, i tributi propri in senso stretto. Dal decreto, lo si è già detto, non emerge nessuna ulteriore specificazione rispetto alla delega, se non il blocco, per il vero incomprensibile, di qualsivoglia possibilità di introduzione degli stessi fino al 2013 (art. 38). Il che costituisce palese ed ulteriore dimostrazione della residualità di tale forma di finanziamento regionale: i margini di manovra per l’introduzione degli stessi, negli spazi lasciati liberi dal legislatore statale, sono assai esigui, tanto più dopo che anche l’imposta di soggiorno, assegnata ai comuni, ha trovato la sua disciplina nel decreto sulla fiscalità comunale. A diverse conclusioni non può indurre senz’altro l’art. 8, co. 1, il quale dispone la trasformazione in tributi regionali in senso stretto a far data 2013, fatta salva la facoltà di sopprimerli, di tutta una serie di microtributi il cui gettito è destinato alle regioni, attualmente in vigore.
1 I tempi per l’esercizio della delega, originariamente fissati (art. 2, co. 1) in due anni dalla data di entrata in vigore della legge, sono stati successivamente prorogati di 6 mesi dall’art. 1, co. 1, lett. a), l. 8.6.2011, n. 85.
2 Fatto salvo che l’art. 2, co. 7, così come modificato dall’art. 1 l. n. 85/2011, stabilisce che entro tre anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi possono essere adottati, con la medesima procedura, ulteriori decreti legislativi «recanti disposizioni integrative e correttive» nel rispetto dei principi e criteri direttivi recati dalla legge delega.
3 Sono i seguenti: d.lgs. 28.5.2010, n. 85 (Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell’articolo 19 della l. 5 maggio 2009, n. 42 (il cd. federalismo demaniale); d.lgs. 17.9.2010, n. 156 (Disposizioni recanti attuazione dell’articolo 24 della l. 5 maggio 2009, n. 42, in materia di ordinamento transitorio di Roma capitale); d.lgs. 26.11.2010, n. 216 (Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province); d.lgs. 14.3.2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale, il cd. federalismo municipale); d.lgs. 6.5.2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario); d.lgs. 30.5.2011, n. 88 (Disposizioni in materia di risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali, a norma dell’articolo 16 della legge 5 maggio 2009, n. 42); d.lgs. 23.6.2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge n. 42/2009).
4 È il caso di ricordare che l’art. 1, co. 3, della delega stabiliva che gli schemi dei decreti attuativi dovessero essere inviati, previa intesa da sancire in sede di Conferenza unificata, alle Camere per il parere della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale di cui all’art. 3 della medesima legge. Diversa la funzione della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, «sede di condivisione delle basi informative finanziarie, economiche e tributarie» (art. 4, co. 2): quest’ultima doveva infatti «acquisire ed elaborare elementi conoscitivi per la predisposizione dei contenuti dei decreti legislativi …» (art. 4, co. 1), promuovere «la realizzazione delle rilevazioni e delle attività necessarie per soddisfare gli eventuali ulteriori fabbisogni informativi » (art. 4, co. 2) e «svolgere attività consultiva per il riordino dell’ordinamento finanziario di comuni, province, città metropolitane e regioni e delle relazioni finanziarie intergovernative ». In argomento, cfr. Traversa, Termini e modalità procedurali per la predisposizione dei decreti delegati di attuazione del federalismo fiscale (commento all’art. 2 e altri), in Nicotra-Pizzetti-Scozzese (a cura di), Il federalismo fiscale, Roma, 2010, 47 s.
5 È quasi superfluo ricordare che la legge delega prevede, all’art. 27, un procedimento di attuazione diverso per le regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e Bolzano. Sul punto cfr. De Martin- Rivosecchi, Coordinamento della finanza territoriale e autonomie speciali alla luce della legge n. 42 del 2009 (commento all’art. 27), in Nicotra-Pizzetti-Scozzese (a cura di), Il federalismo fiscale, cit., 335 s., nonché Marongiu, Note a margine del federalismo fiscale, in La Scala (a cura di), Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, Torino, 2010, 10-11 e 15, e, per quel che riguarda la Regione Sicilia, Sammartino, Federalismo fiscale e autonomia finanziaria della Regione siciliana, ibid., 19 s.
6 In argomento, cfr., da ultimo, Antonini, Le linee essenziali del nuovo federalismo fiscale, in La Scala (a cura di), Federalismo fiscale, cit., 49-53, nonché, mi sia consentito, Giovanardi, Federalismo fiscale, in Enc. giur., 2010, 6.
7 In tal senso si pone la dottrina prevalente, tra cui, senza pretesa di esaustività, Gallo, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 della Costituzione, in Rass. trib., 2002, 588; Perrone, La sovranità impositiva tra autonomia e federalismo, in Riv. dir. trib., 2004, I, 1177; Fantozzi, Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2005, I, 43; Del Federico, Orientamenti di politica legislativa regionale in materia di tributi locali, in Fin. loc., 2003, 514, anche se solo per i tributi regionali; Carinci, Autonomia tributaria delle Regioni e vincoli del trattato dell’Unione europea, in Rass. trib., 2004, 1203 s.; Giovanardi, L’autonomia tributaria degli enti territoriali, Milano, 2005, 191; Fregni, Riforma del Titolo V della Costituzione e federalismo fiscale, in Rass. trib., 2005, 705; Tosi-Giovanardi, Federalismo fiscale (diritto tributario), in Diz. dir. pubbl. Cassese, 2006, III, 2478; Tosi, La fiscalità delle città d’arte¸ Padova, 2009, 5; Boria, I rapporti tra ordinamenti autonomi: finanza statale e finanza locale, in La Scala (a cura di), Federalismo fiscale, cit., 71. Contra, Tesauro, Le basi costituzionali della fiscalità regionale e locale, in Fin. loc., 2005, n. 9, 20-21. La tesi è condivisa anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 102/2008, laddove si sostiene che sulla norma da ultimo citata si fonda la facoltà delle regioni, anche in assenza della legge di coordinamento, di introdurre propri tributi negli spazi lasciati liberi dal legislatore statale. Su tale sentenza cfr., inter alios, Falsitta, Le imposte della regione Sardegna sulle imbarcazioni ed altri beni di “lusso” nelle secche dei parametri costituzionali e comunitari, in Corr. giur., 2008, 893-894; Giovanardi, Riflessioni critiche sulla ripartizione delle competenze legislative in materia tributaria tra Stato e Regioni alla luce della sentenza della Corte costituzionale sui tributi propri della Regione Sardegna, in Rass. trib., 2008, 1433, e i contributi contenuti in Ficari (a cura di), L’autonomia tributaria delle regioni e degli enti locali tra Corte costituzionale (sentenza n. 102/2008 e ordinanza n. 103/2008) e disegno di legge delega, Milano, 2009.
8 Su tale principio, proprio con riferimento al processo di trasformazione federalistica cui stiamo assistendo, Fedele, Federalismo fiscale e riserva di legge, in Rass. trib., 2010, 1525 s.
9 Osserva Perrone, I tributi regionali propri derivati, in Rass. trib., 2010, 1602, che «la legge delega … sembra delineare un ordinamento in cui l’ipotizzata equiordinazione legislativa (Stato-Regione) è piuttosto imperfetta (e limitata) a scapito delle Regioni». Analogamente, Uricchio, L’attuazione dell’art. 119 della Costituzione nella legge delega n. 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale, 2009, in www.giustiziacontabile.com; Amatucci, L’attuazione del federalismo fiscale solidale attraverso i principi contenuti nella delega n. 42/2009, in La Scala (a cura di), Federalismo fiscale, cit., 102 e, avendo a riferimento lo «stato di bisogno della macro-regione Sud», La Scala, L’attuazione del c.d. “federalismo fiscale” nei rapporti Stato-Regioni, ibid., 177.
10 Resterebbe la possibilità, adombrata da Gallo, I capisaldi del federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., 2009, I, 223, e Stevanato, I “tributi propri” delle regioni nella legge delega sul federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., 2010, I, 403-407, e sostenuta con convinzione da Bizioli, Il divieto di doppia imposizione nelle legge delega in materia di federalismo fiscale: elementi ricostruttivi e profili costituzionali, in La Scala (a cura di), Federalismo fiscale, cit., 195, che il tributo regionale colpisca fattispecie impositive (es. il reddito) nelle manifestazioni non assoggettate ad imposizione dal legislatore statale. Sul punto cfr. anche Salvini, I tributi propri di Regioni, Province, Comuni. Profili tributari (Commento agli artt. 11 e 12), in Nicotra-Pizzetti-Scozzese (a cura di), Il federalismo fiscale, cit., 229 e, sia consentito, le osservazioni critiche di Giovanardi, La fiscalità delle Regioni a statuto ordinario nell’attuazione del federalismo fiscale, in Rass. trib., 2010, 1631-1632.
11 Sia consentito rinviare sull’argomento a Giovanardi, Il riparto delle competenze tributarie tra giurisprudenza costituzionale e legge delega in materia di federalismo fiscale, in Riv. dir. trib., 2010, I, 42 s.
12 Rileva Salvini, Federalismo fiscale e tassazione degli immobili, in Rass. trib., 2010, 1610, che «questo schema normativo disegna un sistema che è sempre bilivello e non trilivello: in altri termini, non è previsto che nella delineazione normativa di un singolo tributo comunale possano intervenire, in via di successiva definizione, sia lo Stato che la Regione». Si tratta di approdo a cui si è giunti con estrema consapevolezza: riferisce infatti Bizioli, Il peccato originale del federalismo comunale, in «Il Riformista», 26.2.2011, 6, che il Ministro Calderoli ha affermato che il decreto sulla fiscalità municipale mira a produrre un effetto «calmierante delle potenzialità che la Costituzione assegna alle Regioni».
13 Sulla riserva di presupposto e sul divieto di doppia imposizione, cfr. i recenti contributi di Russo-Fransoni, Ripartizione delle basi imponibili e principi di coordinamento del sistema tributario, in Rass. trib., 2010, 1585- 1587; Fransoni, Il presupposto dei tributi regionali e locali. Dal precetto costituzionale alla legge delega, in Riv. dir. trib., 2011, I, 282-284 e Bizioli, Il divieto, cit., 187 s.
14 Da segnalare che, a regime, resta comunque una compartecipazione del 30 per cento al gettito dei tributi dovuti in caso di trasferimento immobiliare (art. 7, co. 1), rimodulati ai sensi dell’art. 10 del decreto.
15 Per il 2011, il decreto è il d.P.C.m. 17.6.2011.
16 In merito ai problemi di equità che l’introduzione di una cedolare necessariamente determina, cfr. Muraro, Dal federalismo alla riforma fiscale, in Rass. trib., 2010, 1666-1667.
17 Su tale principio, con particolare riferimento al ruolo dei tributi regionali e locali ai fini della valutazione della progressività del sistema, v. Russo-Fransoni, Ripartizione delle basi imponibili, cit., 1582-1583.
18 Da segnalare che la cd. manovra di ferragosto (d.l. n. 138/2011) innalza la quota di partecipazione dei comuni all’accertamento prevista dall’art. 2, co. 10, d.lgs. n. 23 per gli anni 2012-2013 e 2014 al 100 per cento, a condizione che venga istituito entro il 31.12.2011 il consiglio tributario previsto dall’art. 44 d.P.R. 29.9.1973, n. 600.
19 Ha trovato dunque conferma l’ipotesi di Salvini, Federalismo fiscale, cit., 1611, formulata sulla base degli scarni principi contenuti nella delega, secondo la quale era del tutto probabile che il “nuovo” tributo immobiliare originasse da un accorpamento delle attuali forme di tassazione immobiliare.
20 Sulla conferma dell’esclusione della prima casa nella delega e sulle possibilità, per ora non sfruttate dal delegato (ma v. nel testo, paragrafo 2A), di introdurre una sorta di taxe d’habitation, cfr. Muraro, Dal federalismo, cit., 1665-1666.
21 In tal senso, anche Cass., 15.6.2010, n. 14389.
22 La fonte è il paper dell’IFEL del 25.8.2011 sull’Impatto delle manovre sul comparto dei comuni, 11, reperibile nel sito dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani.
23 Si tratta del «contributo di soggiorno » a carico di coloro che alloggiano nelle strutture ricettive della città da applicare secondo criteri di gradualità in proporzione alla loro classificazione fino all’importo massimo di 10 euro per notte di soggiorno. Su tale imposta cfr. Salvini, Federalismo fiscale, cit., 1615-1616.
24 Il gettito è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, di manutenzione, recupero e fruizione dei beni culturali e ambientali locali, nonché dei relativi servizi pubblici locali.
25 La possibilità di intervenire sull’addizionale, originariamente prevista a far data 2013, è stata spostata al 2012, a compensazione del taglio dei trasferimenti di cui all’art. 1, co. 8, d.l. n. 138/2011, dall’art. 1, co. 10, del medesimo decreto.
26 Analoga disposizione è stata introdotta per l’addizionale IRPEF comunale con l’art. 1, co. 11, d.l. n. 138/2011.
27 Specifica che è proprio questo l’obiettivo, Antonini, Le linee essenziali, cit., 54.