L'autocelebrazione della Repubblica nelle arti figurative
Lo Stato veneziano ha sempre fatto tutto il possibile per costruire e divulgare un'immagine di sé in cui il ruolo svolto tanto dallo Stato che da gruppi o da singole personalità fosse conforme all'ideale del Buon Governo (1). Come la storiografia ufficiale, promossa e controllata dallo Stato, così anche le arti figurative dovevano contribuire ad accrescere la "reputazione" che costituiva "un dei principal fondamenti di cadaun stato", come è detto nel decreto di nomina di Andrea Navagero a "storiografo ufficiale" (1516) (2). Pertanto anche la scelta delle historie da dipingere per il palazzo Ducale dopo l'incendio del 1577 venne compiuta in base al messaggio che esse sarebbero state in grado di trasmettere al di là dei confini della Repubblica: "havendo riguardo di far chiaro al mondo che dal nascimento della città fino à li tempi presenti sempre è stata illustrata questa Republica così da vittorie, come da atti virtuosi de suoi cittadini" (3). Tuttavia nel giudicare le opere d'arte come strumento politico si dimentica spesso che la trasposizione in immagini dei programmi scritti avveniva ad opera di estrosi e caparbi artisti che solo raramente la realizzavano senza porre nuovi accenti o senza cambiare addirittura il messaggio voluto. Sbaglieremmo quindi considerando i messaggi espressi dai quadri del palazzo Ducale o delle Scuole grandi come versioni letterali dei testi. Pittori come il Tintoretto o il Veronese, o anche come Francesco Bassano, nel rappresentare personaggi o avvenimenti si sono concessi delle libertà che gli oratori e gli storiografi ufficiali, attentamente controllati dagli organi statali, non si sarebbero potuti permettere.
Senza l'aiuto di fonti scritte è molto difficile, se non impossibile, riuscire a comprendere il significato che i quadri avrebbero dovuto avere secondo le intenzioni dei committenti. L'ambiguità di molti soggetti e i loro specifici riferimenti allo Stato veneziano rendevano necessarie spiegazioni stampate ed accessibili al pubblico, come quelle edite nel 1567 dallo Zani sui quadri della Sala dell'antipregadi (detta anche Sala delle quattro porte) in palazzo Ducale (4). In precedenza già Pietro Contarini, nel contesto della sua opera Argo Volgar (circa 1542), aveva illustrato i rilievi di Alessandro Leopardi sui portapennoni bronzei di piazza S. Marco (1505) (5). Carattere di guida ufficiosa avevano anche i passaggi dedicati alla decorazione del palazzo Ducale in Venetia città nobilissima et singolare di Francesco Sansovino (1581) (6) e la Dichiaratione di tutte le Istorie che si contengono nei quadri posti nuovamente nelle Sale dello Scrutinio, et del Gran Consiglio del Palagio Ducale della Serenissima Repubblica di Vinegia di Girolamo Bardi (1587) (7).
Va detto che il pubblico era costituito in prima istanza dai frequentatori assidui di tali ambienti; osservando i quadri essi dovevano venir istruiti sulla versione ufficiale degli avvenimenti e, in generale, spronati ad agire secondo gli ideali della Repubblica. In questo senso i compiti della pittura erano affini a quelli della storiografia.
L'elaborazione dei programmi pittorici veniva affidata a personalità che offrissero sufficienti garanzie in virtù della loro origine, della loro cultura antiquaria o di particolari competenze, per esempio nell'ambito della storia veneziana (8). I soggetti dei quadri delle sale del consiglio dei dieci, tuttora interpretati solo in parte, erano stati ideati da Daniele Barbaro, mentre un'"Accademia Veneziana" aveva formulato intorno al 1560 per la Sala dell'antipregadi un programma decorativo di cui tuttavia si ignora se sia mai stato trasposto in quadri. Dopo gli incendi del 1574 e del 1577 venne deciso di affidare l'ideazione del nuovo programma per la Sala del maggior consiglio e per quella dello scrutinio a Giacomo Contarini, coltissimo aristocratico di orientamento romano, ad un Giacomo Marcello, dal profilo meno spiccato, e al monaco camaldolese Girolamo Bardi che godeva di buona fama come storico grazie alla sua conoscenza degli avvenimenti connessi alla pace di Venezia (1177). Fu dunque un piccolo gruppo di persone a scegliere, per il governo aristocratico, i soggetti dell'autocelebrazione della Repubblica.
Nel Cinquecento i principali argomenti in lode della città di Venezia erano già stati formulati da tempo. Tuttavia in precedenza i pittori e gli scultori avevano avuto più raramente occasione di trasporli in opere d'arte. Eccezioni di rilievo sono due cicli pittorici relativi al ruolo di Venezia durante il conflitto fra papa Alessandro III e l'imperatore Federico Barbarossa. Già nel primo di questi due cicli, quello della cappella di S. Niccolò in palazzo Ducale (il decreto di procedere alla decorazione pittorica risale al 1319) e poi in quello della Sala del maggior consiglio, circa dal 1360 in poi, era stata assegnata un'importanza determinante alle insegne ("quaedam regalia insignia") concesse alla Repubblica in quell'occasione (9). Sempre nel Trecento (fra il 1341 e il 1355) era stata scolpita da Filippo Calendario sulla facciata occidentale di palazzo Ducale la prima rappresentazione allegorica di Venezia (10), era stata iniziata la serie dei ritratti dei dogi nella Sala del maggior consiglio (prima del 1354, data dell'esecuzione capitale del doge Marino Faliero, che vi era ritratto), e sembra che già in quell'epoca fossero in uso i paliotti con immagini votive dei dogi come ornamento dell'altare maggiore di S. Marco. È curioso che durante il Cinquecento, nelle sale del palazzo Ducale e in quelle delle magistrature, sia stato assegnato solo un ruolo marginale al santo patrono e alle immagini del leone (11). Sembra che l'esemplare più tardo sia il leone di S. Marco del Carpaccio (1516), in origine nel palazzo dei Camerlenghi. Fuori dal palazzo Ducale, invece, a Venezia e in tutto il territorio della Repubblica, si trovava un numero sterminato di leoni di S. Marco.
Nell'ambito di una storia dell'autocelebrazione della Repubblica, sarebbe comunque sbagliato limitarsi all'arredo pittorico e scultoreo del palazzo Ducale. L'immagine di Venezia veniva plasmata e definita anche dalle processioni solenni e dai cortei, nei quali un ruolo importante era svolto dalle Scuole grandi (12), dall'attività edilizia e dalla politica artistica delle Scuole e di numerosi magistrati, in particolare dei procuratori e dei camerlenghi, nonché dalle rappresentazioni grafiche della città e della vita veneziana, sicuramente diffusissime. Anche nobili, cittadini e a volte persino popolani hanno contribuito a coniare l'immagine di Venezia e della vita dei Veneziani servendosi dell'arte come strumento.
Nei quadri del palazzo Ducale sono molto frequenti i ritratti di singoli nobili - "uomini e donne illustri veneziani" (13) - mentre invece esiste un unico caso (nella Sala delle quattro porte) di rappresentazione allegorica della Nobiltà, nel ruolo di fondatrice di Venezia (14). Al visitatore non si presenta l'ordinamento sociale e governativo della città, bensì l'intera comunità, personificata dalla Venetia in sempre nuove forme. Singoli Veneziani, uomini politici o condottieri, poeti e pensatori avevano già dal Quattrocento (e forse anche prima) il loro posto nelle historie della Sala del maggior consiglio, ma per lo più ai margini, fra il pubblico, e solo molto di rado come protagonisti. La critica rivolta da Lodovico Dolce (15) all'abitudine di non tener conto dell'unità di luogo, di tempo e dei personaggi, ignorando così le regole della "convenevolezza", colpiva anche i quadri eseguiti prima della metà del Cinquecento.
Nei programmi pittorici ideati dopo gli incendi del 1574 e del 1577 fu assegnato uno spazio maggiore alle imprese di singoli personaggi. Nella Sala del collegio doveva venir raffigurato, come esempio di giustizia incorruttibile, l'atto orientato ad antichi ideali di virtù compiuto dal doge Antonio Venier facendo condannare all'ergastolo i suoi figli. Dopo il 1577, sul soffitto della Sala del maggior consiglio, accanto a tante battaglie vinte e a soggetti allegorici, vennero rappresentati anche "atti virtuosi" (16). Salta agli occhi che i membri della famiglia Contarini vi figurano con particolare frequenza. Giacomo Contarini fu anche corresponsabile della decisione di assegnare un posto di rilievo, di fronte al tribunale del doge, alla rappresentazione del ritorno del doge Andrea Contarini dopo la vittoria sui Genovesi a Chioggia (1380). Esiguo è invece il numero delle donne effigiate. In rappresentanza di tutte le Veneziane in palazzo Ducale compaiono solo Caterina Cornaro e un gruppo di donne anonime ritratte nell'atto di consegnare i loro gioielli allo Stato.
Gli autori dei programmi dovevano ben sapere che la scelta dei protagonisti avrebbe suscitato delle critiche; non sorprende che fra i cataloghi a stampa di uomini e donne illustri si riscontrino delle differenze notevoli. Comunque le famiglie veneziane avevano anche al di fuori di palazzo Ducale la possibilità di forgiarsi una immagine gloriosa illustrando i loro meriti e la loro fedeltà agli ideali repubblicani. Le facciate di numerosi palazzi erano ornate da vasti affreschi con rappresentazioni di virtù romane; in memoria dei capitani e dei condottieri venivano eretti monumenti anche al di sopra dei portali delle chiese; i quadri dei palazzi di famiglia o delle ville della Terraferma ricordavano talvolta le origini e le imprese gloriose degli antenati.
Le rappresentazioni del doge (il "supremo magistrato") (17) si prestano a chiarire il contrasto esistente fra la realtà dei diritti e dei doveri connessi a questa carica, così come essi erano formulati nella promissio ducale, e l'idealizzazione espressa nelle opere di teoria dello stato di Gasparo Contarini (18) e del Giannotti (19) nonché nello sterminato numero di scritti di occasione degli oratori. In particolare la promissio e il cerimoniale limitavano a tal punto la libertà di azione e di scelta del doge che un maligno osservatore arrivò a paragonare la carica ducale ad un'insegna di taverna (20). Negli scritti panegirici invece il doge veniva messo sullo stesso piano di altri principi regnanti e celebrato in immagini esaltanti come "simile a Dio benedetto" (21), "imagine di Dio in terra" (22), "sacro idolo nostro" (23). Alcuni dogi, come Andrea Gritti, cercarono di sfruttare appieno il loro influsso a fini autocelebrativi, tuttavia nemmeno il Gritti riuscì a realizzare il progetto di farsi erigere (dal Sansovino?) un secondo palazzo accanto al palazzo Ducale, alla stregua di un principe assoluto, così come in precedenza non vi era riuscito Agostino Barbarigo. Alla luce di questi fatti non sorprende che gli altri magistrati nei rapporti quotidiani non si rivolgessero più al doge con l'appellativo "domine noster" come un tempo, ma semplicemente chiamandolo "Misier" o "Misier lo doxe" (24). Al contrario, nelle orazioni in occasione della sua nomina il doge veniva celebrato come "princeps".
Con il passare degli anni vennero limitate sempre di più anche le possibilità dei dogi di tener vivo il ricordo della loro persona e della loro famiglia mediante immagini ed iscrizioni al di fuori del palazzo Ducale. Da Michele Steno in poi venne proibito, sotto pena di una severa ammenda, di collocare gli stemmi dei dogi "in aliquo loco", eccezion fatta per il palazzo Ducale. Tale regola venne ribadita, sicuramente non senza motivo, nella promissio del doge Pietro Lando nel 1539 (25). Nel 1477 si tornò ad esigere che su tutte le monete il doge venisse raffigurato solo flexis genibus. Sembra però che questa norma, che si estendeva anche agli altri magistrati, non comprendesse i conii privati, come è dimostrato dalle medaglie di Agostino Barbarigo, Leonardo Loredan e Andrea Gritti.
Nel Cinquecento avevano assunto ormai un valore quasi canonico tre tipi di raffigurazioni dei dogi: la serie dei ritratti dei dogi, iniziata verso il 1354 sul fregio della Sala del maggior consiglio e proseguita dopo l'incendio del 1577, per mancanza di spazio, nella Sala dello scrutinio; le immagini dell'investitura, ricorrenti dal 1400 in poi sulle facciate degli edifici pubblici nell'ambito di piazza S. Marco; i quadri votivi, il cui tipo forse può venir testimoniato già dal Trecento nei paliotti di S. Marco. Tuttavia queste definizioni dei tre tipi di ritratti dei dogi sono moderne e non sono in grado di riassumere tutti gli aspetti e i significati di tali rappresentazioni. Ai dogi veneziani non erano permesse nel Cinquecento le statue, i ritratti allegorici o altre forme di raffigurazione del principe, diffuse invece, per esempio, nella Firenze di Cosimo I.
La prima serie di questi ritratti (26) nella Sala del maggior consiglio venne realizzata dopo il 1341 e sicuramente prima del 1366, anno in cui il ritratto del doge Marino Faliero, giustiziato nel 1355, venne cancellato e sostituito da un drappo nero e dalla famosa iscrizione "Hic est locus Marini Faletri decapitati pro criminibus". È probabile che la decisione di esporre una serie completa di ritratti dei dogi veneziani fosse stata presa ispirandosi alle serie di ritratti papali, ma non è escluso che fossero stati presi a modello anche i ritratti di personalità di rilievo degli ordini religiosi o le genealogie delle case principesche. È sorprendente, e probabilmente lo era anche per i contemporanei colti, che la nuova serie dei ritratti eseguita dopo il 1577 inizi solo con Obelerio Astenoreo (804), "quasi ch'egli fosse stato il primo doge di questa città" (27), mentre, a prescindere dalle tradizioni contrastanti, il primo ritratto avrebbe dovuto essere almeno quello di Paoluccio Anafesto che era stato eletto "a voce" dal popolo nel 697. Probabilmente l'intento era quello di instaurare un collegamento fra la serie dei ritratti ed i quadri storici sugli avvenimenti più antichi della storia di Venezia, che cominciavano dalla rappresentazione dei Veneziani scampati alle truppe di Pipino, nella Sala dello scrutinio. In ogni caso, dunque, non ci si prefiggeva di ricostruire all'indietro nel tempo la serie dei ritratti fino alla fondazione della città, la cui data era anch'essa controversa.
In palazzo Ducale esisteva più di una serie di ritratti dei dogi. Fino all'incendio del 1483 sembra che fosse ornata da un ciclo del genere anche una "camera di doxi" (Sanudo); secondo una descrizione del 1561, un'altra serie si trovava negli ambienti del consiglio dei XXV, vicino alla Sala dello scrutinio. Non si sa con sicurezza da che ambiente provenga un ritratto di due dogi in trono che oggi si conserva al Museo Correr (28).
A molti visitatori del palazzo Ducale non sarà sfuggito che cicli di ritratti di magistrati veneziani, paragonabili a questi, ornavano gli uffici dei procuratori, dei camerlenghi, degli avogadori e dei censori (però in quest'ultimo caso si tratta solo di una serie di stemmi e di iniziali). Tuttavia negli uffici dei magistrati menzionati mancavano le iscrizioni che invece, nel caso dei dogi, ne esaltavano la persona e ricordavano i principali avvenimenti verificatisi durante il loro dogato.
Sopra alla grande finestra della Sala del maggior consiglio, al centro di una ricca decorazione scultorea che ricorda un tabernacolo, era raffigurato, in ginocchio davanti al leone di S. Marco, il doge Michele Steno (1400-1413). Probabilmente anch'egli in origine reggeva tra le mani il "vexillum S. Marci", come i suoi successori ritratti in ginocchio davanti al leone, Francesco Foscari (1423-1457) sulla Porta della carta, Pasquale Malipiero (1457-1462) e Cristoforo Moro (1462-1471) sull'Arco Foscari, Agostino Barbarigo (1486-1501) sulla Torre dell'orologio e Andrea Gritti (1523-1538) sopra alla finestra della Sala dello scrutinio. Tale stendardo veniva consegnato al doge dal primicerio nel corso della sua incoronazione in S. Marco come "signum investicionis et victorie"; in un'altra fonte esso viene definito "signum veri et perpetui ducatus".
Sulle monete e sui sigilli erano in uso da tempo le raffigurazioni del santo patrono nell'atto di consegnare in persona il vessillo al doge. Una consegna da parte del leone ("imagine Sancti Marci in forma leonis") era difficilmente raffigurabile in gruppi monumentali di questo genere, ma il vessillo ricordava comunque l'investitura.
Nel Cinquecento la rappresentazione del doge genuflesso sulle facciate degli edifici pubblici doveva venir vista anche sullo sfondo del potere sempre maggiore esercitato dai principi nei confronti dei comuni. Durante il dogato di Andrea Gritti, chi conosceva i ritratti di un Cosimo I de' Medici si rendeva conto che qui l'intento era quello di documentare pubblicamente il ruolo del doge come servitore della Repubblica, anziché dissimularlo e trasporlo in celebrazione, come negli scritti panegirici.
La frequenza di ritratti di questo tipo palesa inoltre il ruolo secondario del singolo rispetto alla continuità della forma di governo e lo spazio limitato concesso alle ambizioni dei dogi. Sembra che questa forma di rappresentazione, come gli stemmi dei dogi sulla facciata dell'ala orientale del cortile, venisse realizzata solo quando durante un dogato si rendevano necessari vasti interventi edilizi su uno degli edifici pubblici. Quindi tale tipo di ritratto non si presenta in una serie ininterrotta né costituiva un obbligo per ogni doge, come nel caso dei quadri votivi.
Uno degli ingrati doveri del doge appena eletto era quello di far eseguire a sue spese un paliotto per l'altar maggiore della chiesa di S. Marco, uno stemma per la Sala dello scudo e, a partire al più tardi dall'inizio del Cinquecento (il passo seguente è del 1556), "un quadro in Collegio o in Pregadi, ove si fa una nostra Donna, e il ritratto del Doge in ginocchioni, con alcun'altre figure" (30). Poiché si trattava di una donazione privata, ogni doge, purché restasse nell'ambito delle convenzioni, aveva la possibilità di far rappresentare ciò che gli fosse sembrato più significativo per la sua personalità, per i suoi ideali e per gli avvenimenti storici nei quali egli aveva svolto un ruolo importante per la Repubblica. La mancanza di interesse e il ritardo con cui spesso i dogi adempivano a tale obbligo sembra dimostrare che a questi quadri non veniva attribuito un grande significato come mezzi atti ad esprimere un messaggio sulla persona del doge. Lo Stato dovette perciò intervenire più volte, provvedendo anche alla realizzazione postuma di alcuni quadri votivi, come nel caso della Fede di Tiziano. È significativo che tali integrazioni venissero spiegate come atti doverosi "verso la felice memoria [del doge] sicome è stato fatto di quelle delli altri" (31).
Il tipo delle raffigurazioni scelte era quello tradizionale dell'immagine sacra con il ritratto del committente. Forse il modello erano i paliotti, testimoniati già dal Trecento, anche se la raffigurazione del doge in ginocchio vi è documentata solo da Antonio Grimani (1521-1523) in poi. Sarebbe necessario appurare se i frontespizi delle promesse ducali (ad esempio quello della promissio di Cristoforo Moro [1463], che raffigura il doge al cospetto della Madonna e di alcuni santi, oppure quello con Nicolò Marcello [1473] davanti a Padre Eterno, Madonna e santi) costituissero un pendant formale e iconografico dei quadri votivi, oppure se - non è da escludere - i quadri votivi stessi potessero venir interpretati come un monumentale memento alla promessa formulata nell'atto di entrare in carica. In ogni caso è notevole che lo stesso tipo di rappresentazione non solo fosse da tempo usuale nei monumenti funebri, ma, al più tardi già dal 1468, potesse venire adottato anche dai magistrati veneziani ad ornamento dei loro uffici. La scelta dello stesso tipo doveva dunque ribadire una volta di più il ruolo di "magistrato" svolto dal doge; le differenze di "dignità" venivano espresse solo dalle insegne e dall'abbigliamento.
Quasi tutti i quadri votivi dei dogi furono distrutti dai due incendi del 1574 e del 1577. Fanno eccezione la Fede di Tiziano (quadro votivo di Antonio Grimani) e il dipinto eseguito dal Tintoretto per Girolamo Priuli (nell'Atrio Quadrato). Di tutti gli altri è possibile farsi un'idea approssimativa grazie ad alcuni disegni preparatori, di cui però non si sa fino a che punto fossero simili alla versione realmente eseguita, e ad una xilografia che riproduce il quadro di Tiziano per il doge Gritti. Non è documentabile con sicurezza che il rilievo della Sala degli scarlatti (Leonardo Loredan davanti alla Madonna), per lo più attribuito a Pietro Lombardo, appartenesse alla lunga serie delle immagini votive o addirittura la inaugurasse. Dopo gli incendi del 1574 e del 1577 evidentemente esso fu considerato come facente parte della serie, dato che non venne sostituito da un nuovo ritratto di quel doge.
Oltre agli elementi costanti e caratteristici per questo tipo di rappresentazione, meritano particolare interesse i messaggi individuali espressi dai singoli quadri, ad esempio la presenza del santo di cui il doge portava il nome, o di riferimenti alla data dell'elezione, o di ritratti di personalità che avevano esercitato un certo influsso sull'elezione stessa. Più di una volta ricorrono anche accenni ad avvenimenti nei quali il doge, quasi sempre in veste di capitano, aveva svolto un ruolo memorabile. In alcuni casi si trattava di eventi di primaria importanza per la storia della Repubblica, come nei quadri votivi di Andrea Gritti (la riconquista di Padova nel 1509), di Alvise Mocenigo e di Antonio Venier (la vittoria di Lepanto nel 1571).
Anche agli osservatori dell'epoca riusciva assai difficile decifrare questi messaggi nascosti relativi alla persona del doge e alla sua funzione storica, mentre la rappresentazione del doge in ginocchio veniva recepita subito da tutti come un chiaro indizio della religiosità del "principe" e quindi dello Stato. Era d'uso conversare sui quadri, spiegarne il contenuto ed apprezzarne le interpretazioni. Il resoconto del Sanudo su un colloquio svoltosi davanti al quadro votivo di Tiziano per Andrea Gritti, appena collocato nella Sala del collegio, ci illumina sia sulle intenzioni del committente che sulla perplessità del pubblico (32).
Accenni al giorno dell'entrata in carica del signore o alle sue vittorie in battaglia si riscontrano anche nei programmi pittorici di principi regnanti come Cosimo I (Sala di Cosimo I in palazzo Vecchio a Firenze). Le immagini del paliotto votivo di Andrea Gritti (il cui programma è tramandato dal solito Sanudo) rivelano che probabilmente egli intendeva mettersi in vista più degli altri dogi (33). Elementi come i trofei di armi, gli accenni alla riconquista di Padova, alla prigionia del Gritti a Costantinopoli, alla funzione di mediatore di pace da lui svolta ripetutamente e alla sua incoronazione fanno di questo paliotto un prodotto paragonabile ai discorsi panegirici degli "oratori". Non sorprende quindi che i suoi successori si siano autocelebrati - nolens volens - con maggior discrezione.
Il quadro votivo del Gritti, di Tiziano, arso dalle fiamme nel 1574, è riprodotto in xilografia nei suoi elementi essenziali (anche se il protagonista della xilografia non è il Gritti, ma Francesco Donà). Tiziano aveva scelto il tradizionale e severo ritratto di profilo che conferisce alla figura del doge una stereotipata immobilità (34). Un angelo pone la corona di alloro del trionfo sulla testa del leone di S. Marco, a significare che viene onorato lo Stato e non il singolo individuo. S. Marina, la santa del giorno della riconquista di Padova da parte delle truppe veneziane guidate dal Gritti, è parzialmente nascosta dalla figura della Madonna; lo svettante ramo di palma allude al successo militare. Un progetto di Andrea Schiavone per il quadro votivo del doge Francesco Donà (1545-1553) ricorda il modello di Tiziano, ma senza i santi raggruppati intorno alla Madonna. La veduta della città, inserita sullo sfondo come accenno al dominio territoriale, si trovava già nel paliotto del Gritti.
Diversamente da questi quadri votivi dalla disposizione convenzionale, la Fede di Tiziano, eseguita solo fra il 1554 e il 1556 come quadro votivo di Antonio Grimani (1521-1523), introduce un'interpretazione completamente nuova del ruolo del protagonista. Nel 1499 Antonio Grimani era stato sconfitto a Zonchio dai Turchi e ricondotto in città in catene. Solo dopo una lunga attesa era stato riabilitato e infine elevato alla dignità dogale.
Il vero soggetto di questo quadro è la commossa e fervida venerazione della croce da parte del Grimani, miles christianus. Dando a questa religiosità un carattere privato, Tiziano l'ha nettamente distinta dagli atteggiamenti puramente convenzionali dei quadri precedenti. Probabilmente non è casuale che l'atteggiamento del doge in ginocchio davanti alla gigantesca croce ricordi quello di s. Francesco che riceve le stimmate. Al confronto con la figura del Grimani, quella di s. Marco diventa marginale, sebbene il suo portamento, i gesti e lo sguardo siano del tutto adeguati al suo ruolo di patrono della città.
Già una volta, nella sua Famiglia Vendramin (Londra, National Gallery), Tiziano aveva posto l'accento sulla devozione individuale, ma quel quadro era destinato ad essere collocato nel palazzo dei Vendramin e quindi in un ambito privato. In un ambiente pubblico tale connotazione rappresentava un'assoluta novità che tuttavia non fece scuola, almeno per quel che se ne può giudicare oggi. Il Tintoretto, ad esempio, mostrò di avere una concezione del ruolo del doge completamente diversa da quella di Tiziano.
La notevole serie dei ritratti di dogi usciti dalla bottega del Tintoretto inizia con il quadro votivo di Girolamo Priuli (1559-1567) sul soffitto dell'Atrio Quadrato. Anche il Tintoretto liberò la figura del Priuli dai legami del tipo tradizionale, tuttavia senza caratterizzarne l'atteggiamento e l'espressione in modo esplicito. Lo sguardo e l'atteggiamento del doge sembrano esprimere la sua professione di fede negli ideali di giustizia e di pace le cui personificazioni gli appaiono di fronte, ma l'intensità del suo fervore appare moderata, conforme alle regole non scritte dell'etichetta che consigliavano di non manifestare sentimenti troppo intensi.
Fra i compiti assegnati ai pittori dopo gli incendi rientrava anche la sostituzione dei quadri bruciati, ai quali veniva attribuito un valore documentario. A questo scopo vennero replicati i soggetti dei dipinti originali e, in più di un caso, anche tratti essenziali della composizione.
La replica del quadro votivo del doge Gritti testimonia la concezione del Tintoretto sul ruolo del doge e al contempo rivela che le esigenze dei committenti erano mutate. Tintoretto ha eliminato l'incoronazione del leone di S. Marco e introdotto al suo posto, accanto al doge, una coppia di angeli che si trastulla con fronde di alloro, mentre altri angeli, al margine inferiore destro del quadro, incoronano lo stemma del Gritti. La figura di s. Marina è stata collocata al centro, fra il doge e la Madonna, sullo sfondo di uno squarcio di cielo azzurro. In questo modo, con assoluta naturalezza, nel quadro viene ad assumere una posizione centrale un'importante impresa del doge, la liberazione di Padova (1509), avvenuta nel giorno dedicato alla santa. Anche il rapporto fra il doge e s. Marco ha subìto una trasformazione. Il solenne atteggiamento di dignitosa superiorità del santo di Tiziano ha lasciato il posto ad un movimento vivace, ad un affabile gesto di intercessione che, secondo le convenzioni, non sarebbe stato appropriato nei confronti del doge. La figura di s. Marco è meno austera ed autorevole, ed è il doge a rivolgersi verso l'osservatore e ad assurgere così ad intermediario fra la Madonna e il pubblico della Sala del collegio.
Un altro passo avanti fu compiuto dal Tintoretto in un suo modello, in seguito scartato, per il quadro votivo di Alvise Mocenigo (1570-1577; New York, Metropolitan Museum). In questo modello s. Marco era raffigurato di spalle - contro tutte le regole del decoro - chino in avanti nell'atto di salire una scala verso il doge inginocchiato. Sia i quattro santi nella parte destra del quadro, che la figura fluttuante del Salvatore sembravano rendere omaggio al doge genuflesso e messo in risalto da una colonna. Anche nella versione definitiva del quadro (Sala del collegio), ideata da un collaboratore del Tintoretto (forse suo figlio Domenico?), sembra che l'oggetto della venerazione non sia il Cristo, ma il doge genuflesso e rivolto verso l'osservatore.
Anche il ritratto del doge Pietro Loredan (1567-1570) nella Sala del senato dimostra che il Tintoretto non rinunciò ad esprimere la sua opinione personale sul modo più consono di raffigurare i dogi. Nel suo quadro votivo il Loredan è ritratto in ginocchio, rivolto verso l'osservatore, su un palco eretto davanti alla Piazza, mentre la Madonna e s. Marco calano fluttuando dal cielo e due figure di santi contemplano rapiti l'apparizione celeste. Al doge è assicurato l'appoggio divino senza che egli debba compiere alcuno sforzo per procurarselo. "Flexis genibus" in obbedienza alle norme veneziane, ma pieni di dignità, i dogi del Tintoretto sono divenuti un punto di riferimento per tutti, anche per le divinità. Senza incorrere nel pericolo di varcare i limiti imposti dalle "leggi", il Tintoretto si è avvicinato alle immagini degli "oratori".
Anche in alcune opere di Jacopo Palma il Giovane è messa in risalto la figura del doge. Nel quadro votivo dei due dogi Priuli per la Sala del senato, il Palma ha rielaborato un suo primo disegno, trasformandolo secondo la concezione del Tintoretto che probabilmente, e non solo in questo caso, coincideva con i desideri dei committenti. Tuttavia non tutti i pittori seguirono questa strada, come dimostra il quadro votivo di Marino Grimani (1595-1605) dipinto da Giovanni Contarini per la Sala delle quattro porte. Sarebbe interessante sapere se il Contarini, nell'orientarsi al Tiziano del ritratto Gritti e nel prendere chiaramente le distanze dalla concezione del Tintoretto e di Palma, avesse compiuto una scelta consapevole, nata dalla riflessione sul modo più consono di rappresentare il "supremo magistrato", o se invece si fosse lasciato semplicemente ispirare dal quadro votivo di Tiziano.
Paolo Veronese compì una scelta diversa nel suo quadro votivo per il doge Sebastiano Venier (1577-1578), collocato nella Sala del collegio: nel disegno preparatorio (circa 1577; Londra, British Museum) il vincitore di Lepanto (1571) è raffigurato in armatura inginocchiato davanti ad una Venetia che, ritta al centro del quadro, gli mostra il corno ducale. La Fede, nel cui segno era stata vinta la battaglia, è raffigurata di schiena e in ginocchio a sinistra di Venetia, come pendant del Venier. Il calice della Fede e il corno ducale sono molto vicini (forse troppo?) l'uno all'altro. Gli abitanti del cielo sono presenti, ma non partecipano all'azione.
Rispetto al disegno preparatorio nel quadro è subentrato uno spostamento di accento. Il posto di Venetia è stato preso da s. Giustina, la santa del giorno della battaglia di Lepanto, mentre Venetia stessa (col corno ducale in mano) e s. Marco, che in origine era seduto in cielo su una nuvola, hanno assunto il ruolo di intercessori. Nel disegno la carica dogale era il premio per un'impresa compiuta nel segno della Fede, nel quadro invece è la Fede stessa a venir indicata come forza motrice nella battaglia contro gli infedeli e come ideale dell'azione politica. S. Giustina e la flotta sullo sfondo accennano al trionfo della Repubblica e del suo ammiraglio, mentre la concordanza di atteggiamento fra le figure della Fede e del Venier assegnano al miles christianus un ruolo nel gruppo dei protagonisti. Il quadro ha il valore di uno statement di politica estera e di politica ecclesiastica. Nel 1573 Venezia aveva concluso una pace separata con i Turchi, attirando in tal modo su di sé violente critiche da ogni parte. Il richiamo alla fede come forza ispiratrice delle azioni dell'ammiraglio e della Repubblica è la reazione alle critiche su questa decisione che per Venezia era stata inevitabile.
Fra il doge e gli altri magistrati, almeno secondo la versione ufficiale, non esistevano differenze sostanziali riguardo alla osservanza delle leggi (35). "Un principe veramente assoluto, all'altrui vista, ma infatti legato dalle leggi, di modo che non è punto differente da gli altri posti in alcun magistrato" (F. Sansovino) (36). Tale parità di diritti e di doveri si rispecchia nelle arti figurative in modo da cancellare le notevoli differenze nella "dignità" della carica e quindi anche nei poteri che ne derivavano. I visitatori dovevano ricavarne l'impressione che nella seconda metà del Cinquecento i procuratori fossero riusciti ad ottenere che la loro carica venisse celebrata in campo pittorico ed architettonico con più lustro di quella del doge. È probabile quindi che ai procuratori non siano giunte inaspettate le misure prese nel 1556 per limitare il fasto della loro sfrenata attività edilizia (37).
Le cariche pubbliche venivano distribuite sia a nobili che a cittadini, ma questi ultimi rimanevano in carica più a lungo dei nobili che erano costretti dal principio della rotazione e dalla contumacia ad avvicendarsi con maggiore frequenza. Il numero elevatissimo delle cariche e dei funzionari spiega come mai siano tanti i ritratti tuttora conservati.
Ritratti di magistrati si trovano, fra l'altro, in numerosi uffici del palazzo Ducale, delle Procuratie e del palazzo dei camerlenghi. La preferenza veniva data alle serie di ritratti in ordine cronologico e ai quadri votivi, paragonabili a quelli dei dogi. Sono frequenti anche rappresentazioni di carattere religioso e allegorie riferentesi ai compiti specifici dei funzionari (ad esempio negli uffici del magistrato delle Biade). La qualità artistica di questi dipinti è non di rado superiore a quella di numerosi quadri esposti nelle sale consiliari del palazzo Ducale. Sembra che non pochi dei funzionari dessero molta importanza a tali opere e che anche pittori come il Tintoretto e il Veronese dedicassero una cura particolare a questi incarichi.
Uno dei cicli più importanti è quello dei ritratti dei camerlenghi, la cui esecuzione venne affidata dal 1529 in poi a Bonifacio de' Pitati, alla fine di ogni periodo di magistratura (38). I dipinti rappresentano il santo di cui il magistrato recava il nome, a figura intera e con i tratti del volto del magistrato stesso. L'identificazione è facilitata dallo stemma di famiglia e dalle iniziali dei magistrati. Alcuni ritratti si trovano anche in tele di grande formato raffiguranti alcuni santi (sempre con i lineamenti dei magistrati) in adorazione davanti alla figura del Cristo, mentre altri santi fungono da intercessori. Le pretese e l'orgogliosa coscienza di sé di questi funzionari addetti alle finanze vengono sottolineate da iscrizioni recanti motti ed accenni a meriti personali.
Poco dopo la metà del secolo, alla morte di Bonifacio, venne lentamente abbandonato l'uso di "cammuffare" i magistrati da santi e venne data la preferenza a ritratti in abito da ufficio. Nel 1551/1552 il Tintoretto sfruttò il doppio ritratto di Alvise Foscarini e di Giorgio Venier (Venezia, Gallerie dell'Accademia), destinato a inserirsi nella serie di quadri di Bonifacio, per introdurvi un accento ambiguo, godibile solo da un pubblico di intenditori d'arte. In questo quadro s. Giorgio e s. Luigi non fanno una figura molto brillante, mentre la principessa liberata è seduta trionfalmente sulla groppa del drago.
Nei seguenti quadri della serie il Tintoretto spiegò tutta la sua maestria di ritrattista. Il dipinto con la Madonna e quattro provveditori (Gallerie dell'Accademia) riunisce armoniosamente gli elementi tipici dell'immagine di devozione e quelli del rappresentativo ritratto di gruppo, mentre nel quadro Tre camerlenghi e i loro segretari (Berlino, Stiftung Preußischer Kulturbesitz) la responsabilità del compito comune prevale sulle caratteristiche individuali dei protagonisti.
Nella Madonna dei Tesorieri, eseguita dal Tintoretto nel 1566 (Gallerie dell'Accademia), i funzionari si presentano nell'atteggiamento dei Re Magi alla Madonna e ai santi che le fanno corona. Due di essi sono ritratti in piedi, il terzo è inginocchiato, come il doge nei quadri votivi del palazzo. Nei quadri votivi i magistrati e i dogi ritratti in piedi sono un caso molto raro. Se ne trovano esempi nel quadro votivo del doge Francesco Venier (1554-1556), dipinto da Palma il Giovane intorno al 1593 per la Sala del senato, dove al doge è assegnato il ruolo di intermediario, e nel dipinto raffigurante tre camerlenghi e i loro segretari (Museo Correr), in cui il Tintoretto si è servito del margine inferiore del quadro per dissimulare la posizione eretta dei protagonisti. E così anche gli avogadori Michele Bon, Francesco Pisani e Ottaviano Valier sono stati ritratti in ginocchio al cospetto del Cristo risorto.
Nei ritratti dei magistrati, come nei quadri votivi dei dogi dipinti dopo gli incendi del 1574 e del 1577, si riscontra la tensione fra le pretese avanzate dai protagonisti e le caratteristiche imposte dal tipo tradizionale di raffigurazione. In alcuni casi al funzionario ritratto è assegnato uno spazio tale da ridurre le persone sacre al ruolo di comparse, come testimonia L'Annunciazione e tre censori di Domenico Tintoretto (Sala dei censori). Invece Leandro Bassano nel suo Tre avogadori davanti alla Madonna (Sala dell'avogaria) si è orientato ai quadri del Tintoretto ed ha creato un ritratto di gruppo basato sulla serietà, la dignità e il forte sentimento religioso dei protagonisti.
Fra i magistrati veneziani furono i procuratori a mettersi particolarmente in vista con l'arredo dei loro uffici e in alcuni casi (quelli di Agostino Barbarigo e Andrea Gritti, com'era prevedibile) anche con il conio di medaglie recanti i loro ritratti. Dal 1551 in poi il Tintoretto eseguì una serie di ritratti di procuratori, a cominciare da Giacomo Soranzo (eletto nel 1522). Questi dipinti, come nel caso dei dogi e dei camerlenghi, potevano raccogliere i ritratti di più funzionari (sino a tre). Nel 1572 Federico Contarini fu incaricato di far collocare in uno degli uffici i ritratti dei dogi che in precedenza avevano rivestito la carica di procuratori de supra. L'esecuzione fu affidata nel 1573 al Tintoretto, il quale secondo il Manfredi (1602) si limitò a far copiare i ritratti della Sala del maggior consiglio. Il motivo di questa decisione viene specificato nel contratto del 1572: "[...] Federigo Contarini degnissimo procurator [...] debba far poner li retratti delli serenissimi Principi che sono stati procuratori della presente procuratia, accioche ancho in essa procuratia ne resti degna memoria delle loro sublimità per debito honore ancho d'essa procuratia, li qual retratti siano fatti fare dalli autentici che si trovano presso li heredi delli Serenissimi Loredan, Grimani, Gritti e Lando" (39). Nel 1577 vennero collocati in un altro ambiente quindici ritratti di dogi (probabilmente anch'essi erano stati in precedenza procuratori).
Negli uffici dei procuratori, oltre ai ritratti, si trovavano immagini sacre e una raffigurazione dell'investitura, purtroppo ora perduta, con chiari accenni alla consegna delle chiavi a s. Pietro: "nel secondo luogo sopra la porta di dentro il Ser. Pascale Cicogna che porge le chiavi ad Antonio Bragadino fatto Procuratore in luogo di S. Serenità" (40). Qui il rapporto con i documenti ufficiali, ad esempio con le commissioni, è altrettanto evidente come quello fra le immagini dell'investitura dei dogi e le illustrazioni della promissio ducale.
In dipinti di altro genere sembra che la smania di inserire ritratti dovunque abbia dato luogo ad equivoci. Secondo un testimone (1613) il procuratore Marchiò Michiel era ritratto "vestito da pastor descalzo con done che non mi ricordo la qualità delle done" e il procuratore da Legge (Lezze) "teniva uno specchio" in mano davanti ad una donna che un'altra fonte asserisce esser stata "nuda" (41).
Nel corso del Cinquecento la Repubblica di Venezia ha espresso la sua orgogliosa coscienza di sé in rappresentazioni allegoriche in cui Venetia appare personificata in molteplici sembianze ("forme"), soprattutto negli ambienti del palazzo Ducale (42). Nei cicli pittorici cinquecenteschi ebbero sempre un'importanza centrale quelle qualità precipue della Repubblica menzionate già da secoli nei testi letterari (ad esempio da Jacopo Piacentino): Venetia come "fidei basis, iusticie cultrix, pacis et quietis amatrix, veritatis et constancie mater, maris custos, ministra mercaturarum et portus, fonsque pietatis egenis" (43). Precursore delle raffigurazioni allegoriche era stato il tondo di Filippo Calendario sul lato occidentale del palazzo Ducale (posteriore al 1341) con la sua ricchezza di messaggi politici.
In questo tradizionale ambito tematico si inserirono senza cesure tanto la Venetia-Astrea ("laurea verzene del polo", P. Contarini, circa 1542) (44), sul mediano dei tre portapennoni di piazza S. Marco, fusi dal Leopardi nel 1505 su commissione dei procuratori, quanto la "Venetia in forma di Giustitia sotto alla quale sono distesi i fiumi [...] [che] rappresentano le città di terra" (45), scolpita dal Sansovino sull'attico della Loggetta (1537). Spesso è però molto difficile, se non addirittura impossibile, riuscire ad interpretare queste allegorie senza l'aiuto delle spiegazioni scritte semiufficiali. Tale riserva riguarda soprattutto il programma figurativo ideato da Daniele Barbaro per gli ambienti del consiglio dei dieci (Sala della bussola, Sala del tribunale, Stanza dei tre capi), nel quale Venetia ricorre più volte (46).
Il quadro centrale del Veronese (oggi al Louvre) raffigura la cacciata dei vizi da parte di Giove e si riferisce chiaramente ai compiti e alle competenze specifiche del consiglio dei dieci, mentre Venetia compare più volte nei quadri periferici, dipinti dal Veronese, dal Ponchino e dallo Zelotti. In un dipinto del Veronese ella riceve dalle mani di Giunone le insegne del potere, fra cui il corno ducale, la corona di alloro e alcune monete d'oro: in una tela dello Zelotti è affiancata a Marte e a Nettuno che alludono al dominio territoriale. Tuttavia non pochi di questi dipinti non sono ancora stati interpretati; sembra che persino Francesco Sansovino nello scrivere la sua opera Venetia città nobilissima et singolare non disponesse di informazioni sufficienti sul loro significato. Anche se la difficoltà di lettura di tali raffigurazioni è tipica per quell'epoca (basti pensare ai Ragionamenti del Vasari sulla sua decorazione di palazzo Vecchio a Firenze), tuttavia fra le persone colte si avvertiva la necessità di spiegazioni dettagliate e ufficiose che fornissero la chiave per decifrarle. Francesco Zane, ad esempio, pubblicò nel 1567 una lunga poesia latina con la spiegazione dei quadri dipinti da Giuseppe Salviati per il soffitto della Sala delle quattro porte, distrutti poco dopo dall'incendio del 1574. L'avevano preceduto Francesco Sansovino nel 1556 (con lo pseudonimo Anselmo Guisconi) e Pietro Contarini nel 1542, inserendo nell'ambito di testi più estesi alcune spiegazioni di singole opere.
Dopo i due incendi del 1574 e del 1577, nei quali andò distrutta quasi l'intera decorazione del palazzo Ducale, Venetia assurse a figura centrale dei cicli pittorici delle sale consiliari. Gli ideatori dei programmi dei nuovi quadri misero in rilievo in ogni ambiente un aspetto diverso di Venetia, facendo passare rispettivamente in secondo piano altri elementi non meno importanti. Di solito questi temi centrali non si riferiscono alle molteplici e intricate competenze dei singoli organi consiliari, ma illustrano aspetti dell'immagine di Venezia o particolari prerogative della Repubblica.
Alla mitica fondazione della città, ad esempio è dedicato il programma decorativo della Sala delle quattro porte, una specie di anticamera dalla quale si accedeva al collegio, al senato e al consiglio dei dieci provenendo dalla Scala d'Oro. Sulla fondazione di Venezia esistevano numerose e contrastanti tradizioni, una delle quali, ad esempio, riferisce che il primo nucleo di abitanti di Venezia sarebbe stato composto da profughi troiani. Il solo Francesco Sansovino enumera almeno tre diverse "origini", tutte risalenti al quinto secolo dopo Cristo. Tuttavia, per la Sala delle quattro porte, lo stesso Francesco Sansovino ideò una origine divina che naturalmente esula dalle competenze degli storici: "Venetia è mandata da Giove in queste acque, perchè ella fù fatta per dispotione di Dio accioché vi si conservi la religione et la libertà christiana" (47). I1 testo del Sansovino pubblicato nel 1581, è in aperto contrasto con il quadro del Tintoretto raffigurante Giove e Venetia che, tenendosi per mano e guardandosi negli occhi, sono in procinto di muovere dall'Olimpo per una meta che nel dipinto non compare, ma che non può essere altro che la laguna veneta. L'interpretazione del Tintoretto è invece conforme ad altri testi, come quello dello Sforza del 1585 (48) e quello del Consalvi del 1614 (49), che fanno risalire la fondazione di Venezia ad una decisione presa da tutti gli dei riuniti in consesso.
Altri due postulati cari ai Veneziani sono quello della fondazione avvenuta ad opera di nobili ("non da pastori, come ave Roma, ma da potenti e nobili", così il Sanudo) (50) e quello della libertà ininterrotta sin dalle origini. Ad essi alludono due tondi della Sala delle quattro porte. Per chi si sforza di leggere i dipinti è piuttosto sconcertante il fatto che in uno di essi Giunone consegni a Venetia il pavone, simbolo della nobiltà, non diversamente che se si trattasse di un pollo venduto al mercato. Invece la Libertà rappresentata sull'altro tondo, con le catene infrante, il giogo spezzato ed il pileo, è più aderente alle convenzioni iconografiche. Naturalmente la promessa di spezzare il giogo della schiavitù era rivolta ai vari "popoli" che nel linguaggio ufficiale veneziano venivano "liberati" e non asserviti da Venezia.
Una fonte di interminabili conflitti con il papato fu la pretesa della Repubblica di Venezia di conferire alte cariche ecclesiastiche. Nel quadro centrale della Sala dell'anticollegio, un'anticamera nella quale era costretto ad attendere anche il nunzio papale prima di ricevere udienza in collegio, il Veronese rappresentò Venetia nell'atto di conferire come "gratie" il pastorale e la mitra e arricchì il dipinto di un'ulteriore frecciata facendo distribuire queste preziose insegne da giocosi putti alati.
Le pretese di dominio e la loro legittimazione sono determinanti anche per i temi dei quadri sul soffitto della Sala del collegio, eseguiti dal Veronese poco dopo il 1574. I soggetti dei quadri lungo l'asse centrale, affiancati da rappresentazioni di esempi di atti virtuosi dell'antichità, sono Marte e Nettuno ("Robur imperii"), Fides et Religio ("Rei publicae fondamentum - numquam derelicta"), e Justitia et Pax ("Custodes libertatis") al cospetto di Venetia. È possibile che in un primo tempo gli accenti fossero stati ben diversi (a meno che le iscrizioni leggibili oggi non siano più quelle originali); in un disegno del Veronese (conservato a Kassel) la prima versione del quadro centrale della Sala dell'anticollegio è corredata da iscrizioni che conferiscono al soggetto una connotazione chiaramente "cattolica" ("Numen forti robur", "Religio ex operibus vera rignoscitur" e "In tuto iustus").
A quell'epoca le raffigurazioni di Marte e di Nettuno erano già piuttosto frequenti sia in edifici pubblici che in ambienti privati. Le figure del balcone della Sala dello scrutinio rivolto verso la Piazzetta, scolpite intorno al 1537, e i "giganti" del Sansovino sulla scala omonima nel cortile del palazzo Ducale (1567) alludono al dominio territoriale, mentre senza l'appoggio di fonti questa interpretazione non può venir estesa anche alla stessa coppia di dei che, dipinta dallo Schiavone, ornava un tempo una facciata del palazzo Zen presso la chiesa dei Gesuiti.
La Fede come fondamento della Repubblica era un soggetto talmente radicato nella coscienza veneziana che questa scelta per il quadro centrale del collegio non avrà suscitato alcuno stupore. Non ben definiti sono invece i punti di contatto e di demarcazione fra Fides e Religio. Un quadro di Tommaso Dolabella sul soffitto della Sala del senato rivela che Venezia si considerava posta sotto la protezione celeste in grazia della sua fede. Il calice e l'ostia sull'altare, davanti al quale è inginocchiato anche il doge, sono illuminati da un raggio di luce divina. Ma non basta; Dolabella si è spinto ancora più avanti ed ha dipinto in primo piano la riconciliazione fra poveri e ricchi sotto l'egida del calice, una scena commovente destinata a dare un valore del tutto nuovo al tema della responsabilità sociale dei ricchi e a quello dell'armonia fra le classi che costituivano la Repubblica.
Nel quadro collocato sul soffitto sopra al tribunale della Sala del collegio il Veronese dipinse Pace e Giustizia intente a salire una ripida scala per consegnare i loro attributi ad una Venetia assisa in trono sul globo terracqueo. Venetia è divenuta oggetto di deferente omaggio, una distanza insormontabile la separa dalle due donne. Il leone pacificamente adagiato sulla gradinata assiste indifferente alla scena, come Venetia stessa che, simbolo imponente di un potere incontestato, anzi incontestabile, in atteggiamento regale lascia vagare lo sguardo in lontananza, al di là delle due Virtù. Nella stessa sala un quadro attribuito allo Zelotti, nascosto fra due finestre, dimostra tuttavia che, capovolgendo il soggetto, Venetia poteva venir rappresentata anche nell'atto di rendere omaggio alle Virtù (in questo caso Giustizia, Fortezza, Temperanza).
La decisione di collocare i quadri votivi dei dogi sulle pareti della Sala del collegio costituì una variante al programma originario che prevedeva pareti decorate da arazzi da eseguire su disegni del Veronese. I soggetti avrebbero dovuto riferirsi a quelli dei quadri del soffitto.
Ad esempio, come simbolo dell'inflessibile senso per la giustizia di un doge veneziano, era raffigurato Antonio Venier nell'atto di condannare all'ergastolo i suoi figli. Esempi di virtù di uomini illustri veneziani si trovano in gran numero sul vastissimo soffitto della Sala del maggior consiglio.
Nei programmi figurativi ufficiali avevano una grande importanza, già dal Trecento, le rivendicazioni territoriali di Venezia (51). Sulla facciata occidentale di palazzo Ducale troneggia sul mare la Venetia del Calendario (circa 1341-1355), i rilievi dell'attico della Loggetta simboleggiano il "dominio et la Signoria di terra ferma et di mare", e lo stesso significato hanno anche le onnipresenti raffigurazioni di Marte e di Nettuno.
In palazzo Ducale già a partire da una data abbastanza precoce, probabilmente dal dogato di F. Dandolo (1329-1339), erano esposte anche carte geografiche dei dominii veneziani (52). Nel 1479 fu fatta eseguire per l'anticamera della Sala dell'udienza, insieme ad una carta dell'Italia, una "cosmographia [del] nostro dominio". Tale uso non presentava nulla di insolito e non differiva da quello vigente in altri palazzi comunali italiani. Nel 1578, quando Cristoforo Sorte fu incaricato di dipingere per le pareti della Sala del senato una "corografia di tutto lo stato di Terraferma" distribuita su sei tele, evidentemente non era ancora stata abbandonata l'idea di istituire strette relazioni fra le rappresentazioni del soffitto e quelle delle pareti. Tuttavia già prima del 1590 Giacomo Contarini espresse delle critiche sulle carte geografiche che egli "per qualche convenienti rispetti" - indubbiamente di carattere politico - considerava inadatte ad un ambiente accessibile al pubblico. E così le carte vennero relegate sotto chiave in un armadio della cosiddetta Chiesetta dietro la Sala del senato.
Oltre a documentare una realtà politica, alcuni elementi delle rappresentazioni del dominio territoriale sembrano voler giustificare rivendicazioni non sempre incontestate. Ciò si riscontra soprattutto nelle raffigurazioni dell'egemonia marittima di Venezia, la cui legittimità veniva negata da molti, anche con validi argomenti. A Venezia per lo più ci si appellava ad un privilegio papale piuttosto dubbio risalente al 1177, ma le teste più sagge e chiaroveggenti, ad esempio il Chizzola (1562-1563) e soprattutto Paolo Sarpi, sostenevano il principio che si trattasse piuttosto di un diritto consuetudinario acquisito da Venezia per aver esercitato sin dalle origini e per secoli il dominio sui mari.
Il quadro centrale della Sala del senato, ideato dal Tintoretto ed eseguito con l'aiuto di collaboratori, rispecchia in sostanza la concezione del Sarpi, anche se non ne segue punto per punto l'argomentazione. Venetia è assisa in trono sulle nuvole, circondata da divinità, mentre sotto di lei, a grande distanza e spostato verso destra, appare l'enorme globo terrestre. Dalle sue acque sono emersi Tritoni e Nereidi, accompagnati da Marte e da Nettuno, per portare a Venetia i preziosi doni del mare. In questo caso la scelta del Tintoretto è caduta su un tipo già diffuso per rappresentare la gloria dei santi in paradiso, come ad esempio la "gloria" dipinta da Tiziano per Carlo V.
Nel quadro del Tintoretto il dominio sui mari viene presentato come incontestabile e consono al carattere divino di Venetia che, grazie all'aureola luminosa che le circonda il capo, è molto simile alle immagini della Regina Coeli. In confronto a questo quadro anche la rappresentazione di Venetia "Maris Adriaci Regina" su una bella medaglia dello Spinelli, ispirata a monete romane, è una allegoria piuttosto convenzionale della sovranità. Il dipinto del Tintoretto non ha niente in comune con la rappresentazione di Venetia in trono sul globo dipinta dal Veronese per la Sala del collegio, che non nega la sua provenienza da monete romane.
È molto probabile che il Tintoretto conoscesse alcuni dei testi degli oratori, stampati in tirature abbastanza alte, inneggianti al doge e all'ordinamento della Repubblica. Il ponte vistosamente introdotto nel quadro votivo del doge Niccolò da Ponte (Sala del collegio) rivela che il Tintoretto aveva compreso la tecnica delle allusioni usata dagli oratori ed era in grado di farne buon uso. È stato supposto che nelle figure vestite di porpora raffigurate al di sotto della Venetia nel quadro del senato vadano visti dei membri della classe dirigente veneziana o addirittura dei senatori. Un'associazione del genere sarebbe stata tutt'altro che astrusa per gli oratori, tuttavia il quadro non presenta elementi atti a confermare che questa fosse l'interpretazione voluta dal Tintoretto.
Prima degli incendi del 1574 e del 1577 in palazzo Ducale le raffigurazioni di avvenimenti storici erano sorprendentemente rare (53). Facevano eccezione gli avvenimenti connessi alla pace di Venezia (1177), illustrati ampiamente già nel 1319 nella cappella di S. Niccolò (che faceva parte del palazzo Ducale e fu distrutta nel Cinquecento) e in seguito, dal Trecento in poi, anche nella Sala del maggior consiglio. Nel 1464 furono poi raffigurati nella Sala dell'udienza alcuni episodi relativi alla crociata, un'impresa fallita miseramente già in Ancona, prima ancora della partenza. Questi dipinti furono distrutti dal fuoco già nel 1483 e non vennero rimpiazzati. Nel 1571, infine, il Tintoretto ricevette l'incarico di immortalare il trionfo di Lepanto in una tela enorme destinata alla Sala dello scrutinio. Tutti questi quadri furono distrutti dai due incendi del 1574 e del 1577, ma la composizione di alcuni di essi ci è nota grazie ai disegni preparatori e alle copie.
Per quanto dolorosa fosse stata la perdita di tante opere d'arte, tuttavia gli incendi fornirono un'occasione per arricchire di nuove tematiche le sale consiliari. I temi da illustrare nella Sala dello scrutinio e in quella del maggior consiglio furono ideati dopo il 1577 da Giacomo Contarini, da Giacomo Marcello e da un frate camaldolese, il fiorentino Girolamo Bardi. Giacomo Contarini disponeva di un'ottima cultura antiquaria, mentre Girolamo Bardi sembra essere stato scelto come esperto della versione veneziana degli avvenimenti connessi alla pace di Venezia del 1177. Gli stretti rapporti del Contarini con Daniele Barbaro e con il Palladio e la sua intensa attività di collezionista lo rendevano particolarmente qualificato come ideatore di programmi per cicli figurativi. Il suo atteggiamento piuttosto conservatore nei confronti dei temi tradizionali rivela che da parte di questa équipe non c'era da aspettarsi sorprese.
La narrazione parte da un evento relativamente tardo, cioè dall'"assedio che Carlo Magno et Pipino Re d'Italia posero intorno alla nascente città l'anno di Christo 809" (54) e termina con due piccoli scontri militari avvenuti nel 1572. Si decise inoltre di far "restaurare" le pitture bruciate della Sala del maggior consiglio, rinunciando però all'illustrazione degli antefatti romani della pace di Venezia (1177) per far posto a raffigurazioni della quarta crociata. Questa procedura, che a quei tempi veniva chiamata "restauro" e fu usata più volte anche per i mosaici di S. Marco, si prefiggeva di salvare il valore documentario dei quadri distrutti, recuperandone con l'aiuto di materiale grafico gli elementi centrali e integrandoli nelle nuove opere. Come d'uso, gli incarichi vennero affidati a numerosi pittori, alcuni dei quali non erano all'altezza del compito da svolgere.
Una conseguenza di questo "restauro" furono incongruenze formali appena dissimulate, soprattutto nella disposizione delle figure e dei gruppi. Tuttavia tale scelta poteva venir giustificata da argomenti che avevano una certa importanza anche nell'ambito delle discussioni sull'ars historica. Nel 1612 l'Olmo, a proposito dei quadri della Sala del maggior consiglio, menzionò il contrasto fra un'"impresa di favole" e l'"historia" (55): "Et se bene ponno gli pittori in tali cose fingervi cani di lepra, orsi che non vi fossero, Hirocervi, Satiri et altri Mostri; habiti diversi à loro capriccio negli Capitani, Soldati et altri, gioie infinite, fiori e frutti fuori del tempo; nel Serio però d'una historia sacra, non profana, quando è contrastata con armi una potestà Pontificia, ch'è diffesa da un Prencipe Ziani, e Republica di Venetia christianissima, non si può scherzare, ma vi si dipinge il vero". Poiché solo pochi dei quadri distrutti sono conservati in disegni, la ricostruzione ("restauro") è documentabile solo raramente. Ma come potrebbe essere spiegata altrimenti, nel primo quadro del ciclo (Il doge Ziani riconosce Papa Alessandro III travestito davanti a S. Maria della Carità, eseguito da Carlo e Gabriele Caliari), la dissonanza fra l'"antiquato" gruppo centrale (la parte "seria") e le capricciose figure in primo piano? La scena centrale, esatta anche topograficamente, aveva lo scopo di tener vivo il ricordo del "documento" originale formulato da Giovanni Bellini, ma al contempo gli haeredes Pauli non vollero rinunciare a composizioni "moderne". Contrasti altrettanto forti si trovano solo di rado, ma mi sembrano spiegabili così anche le incongruenze compositive e gli elementi arcaizzanti nel quadro di Francesco Bassano Alessandro III consegna la spada al doge Ziani e nell'Atto di sottomissione dell'imperatore Barbarossa al Papa di Federico Zuccari.
Se è vero che le historie venivano considerate come rappresentazioni del reale svolgimento dei fatti e che persino a dipinti di epoche molto più antiche, come quelli della cappella di S. Niccolò, veniva attribuito dagli storici un valore documentario, occorrerà allora interpretare con grande attenzione i messaggi dei quadri così come sono stati formulati dai pittori. Questa attenta analisi rivela che spesso le enunciazioni centrali dei quadri differiscono da quelle dei testi del programma.
Mettendo a confronto il quadro di F. Zuccari con il racconto della sottomissione del Barbarossa contenuto nel testo del programma ci si rende conto che il pittore ha attribuito al doge un ruolo di cui il testo non fa alcun cenno. Lo Zuccari ha collocato la figura del doge in modo tale che il prosternarsi del Barbarossa davanti al papa possa venir interpretato anche come atto di sottomissione al doge che gli sta accanto. Così facendo il pittore si è servito di una tecnica che ricorda quella dei retori che, astraendo dalla realtà veneziana, assegnavano al doge il ruolo di un principe assoluto. Questa ambiguità manca nel disegno preparatorio dello stesso Zuccari e anche in tutte le altre raffigurazioni contemporanee di quell'evento, nelle quali al doge era assegnata una parte meno importante. Cambiamenti del genere non erano dovuti alle indicazioni ricevute dai pittori. Infatti nel Congedo degli ambasciatori veneziani, dipinto da Carlo e Gabriele Caliari (forse trasponendo un disegno paterno?), Sebastiano Ziani è ritratto di schiena e in parte nascosto, dunque in una posizione tutt'altro che eminente secondo le convenzioni vigenti.
Dal confronto fra quadri e testi emergono non solo tagli e aggiunte, ma a volte anche notevolissimi spostamenti di accento. Nell'ultimo quadro del ciclo Giulio Angolo detto il Moro ha omesso parti essenziali del programma che prevedeva la consegna di "otto stendardi et sei trombe d'argento" nonché della "cadrega" (cattedra). Vi ha invece raffigurato l'atto di omaggio reso dal doge al pontefice, lasciando così incompiuta la serie delle famose insegne "quaedam regalia insignia" concesse da Alessandro III, e conferendo al racconto una conclusione opportuna, forse, dal punto di vista politico, ma piuttosto banale.
Mentre la decisione di rimpiazzare parti del ciclo di Alessandro III-Ziani-Barbarossa era del tutto conforme alla tradizione veneziana sul "restauro" delle testimonianze distrutte, sono tuttora oscuri i motivi per cui venne scelta una rappresentazione così dettagliata della quarta crociata (1202-1204) (56). Sembra proprio che si basi su un equivoco la notizia risalente a Paolo Ramusio, secondo la quale immagini della crociata avevano già ornato anche la cappella di S. Niccolò, distrutta nel 1525. Nel 1556 i "riformatori dello Studio di Padova", dando il benestare alla traduzione latina del Ramusio della Conquête de Constantinople del Villehardouin, vi videro solo la "gran reputation e gloria di questo excellentissimo Dominio" e non si soffermarono sui particolari. Probabilmente avevano perso importanza le critiche negative alla Realpolitik dei Veneziani che era stata seguita con orrore dai contemporanei. Nella sua introduzione il Ramusio fa un'osservazione che da sola non ha valore di prova, ma può servire a spiegare l'accostamento di questo ciclo a quello, ben più ricco di tradizione, relativo alla pace di Venezia (57): "Et se bene il titolo dell'Imperio del mare fu da Papa Alessandro Terzo donato à Sebastiano Ziani [...] quello nondimeno fù titolo di scrittura, ne si dee paragonare con questo del Doge Dandolo, che con l'armi aggiunse alla Republica un quarto et mezzo dell'Imperio di Costantinopoli, onde fu vero titolo d'Imperio, per via di questa guerra acquistato".
Il ciclo raffigura le tappe principali di quest'impresa: la riunione dei crociati in S. Marco, la presa di Zara, il voltafaccia compiuto dai Veneziani nei confronti dei loro alleati, che, con un espediente tipico per gli usurpatori, venne giustificato con la richiesta di aiuto da parte di Alexios IV Angelos (che allora era ancora un bambino), la conquista di Costantinopoli e infine l'elezione del nuovo sovrano. Le scene di battaglia sono piuttosto banali, mentre maggior interesse meritano il primo quadro del ciclo e gli ultimi due. Nella Riunione dei crociati veneziani e francesi in S. Marco Giovanni Leclerc ha posto l'accento sulla devozione del vecchio doge Dandolo, che dal pulpito contempla assorto l'altare, e sulla commozione del clero. Il rumoroso andirivieni dei soldati in primo piano rende molto bene l'agitazione della partenza, ma non rivela nulla del calcolo politico dei Veneziani che traspare invece dal giuramento comune sulla "capitolatione" (così il testo del programma).
Negli ultimi due quadri del ciclo è assegnata un'importanza centrale al ruolo svolto dal doge nella divisione dell'impero bizantino. Sono evidenti e notevoli le divergenze fra i quadri e il testo del programma che si basa sul racconto del Ramusio. Sia l'Aliense che Andrea Vicentino hanno messo in risalto la figura del doge: nel primo caso Baldovino, appena eletto imperatore, gli rende omaggio, e nell'altro riceve dalle sue mani la corona. Sarebbe interessante sapere soprattutto a chi si debba quest'ultima innovazione. E, ammesso che essa sia stata introdotta dal pittore, rimane da chiarire come mai sia stata tollerata una versione dei fatti tanto diversa da quella delle fonti.
Il cambiamento verificatosi nella coscienza collettiva dei Veneziani dopo il trionfo militare sui Turchi a Lepanto (1571) si rispecchia con particolare evidenza nei dipinti della Sala del maggior consiglio e della annessa Sala dello scrutinio. Mentre in precedenza le rappresentazioni di battaglie (58) erano state solo parte integrante di cicli più vasti (Alessandro III-Ziani-Barbarossa), in queste sale furono riempiti i soffitti e le pareti (scrutinio) con tutte le battaglie possibili e immaginabili. La decorazione di questi ambienti venne ad assumere così un accento marziale e trionfalistico che era stato del tutto estraneo a quella precedente. Gli autori del programma considerarono la battaglia dell'anno 809 contro Pipino e Carlo Magno come la prima vittoria della storia veneziana degna di essere rappresentata, un punto di vista che in seguito non venne accettato dai compilatori di cataloghi dei trionfi veneziani, ad esempio dal Carusio (59) che iniziò la sua opera dalla battaglia di Ravenna del 540. È evidente che questo susseguirsi di scontri militari fra Venezia ed alcuni "Stati" che nel 1577 facevano parte del territorio a lei sottomesso era destinato inevitabilmente a creare dei problemi di incompatibilità con uno dei postulati fondamentali dell'ideologia veneziana. In effetti Venezia aveva conquistato e - in parte - anche conservato i suoi dominii per lo più con le armi e solo di rado grazie alla superiorità del suo sistema politico e quindi pacificamente, come invece veniva sempre asserito.
La decisione di fare della Sala dello scrutinio, l'immenso vestibolo della Sala del maggior consiglio, una specie di sacrario commemorativo dei trionfi militari della patria si ispirò alla diffusa convinzione che rappresentazioni del genere avessero il potere di stimolare gli osservatori a compiere imprese eroiche. Se si pensa che in precedenza la decorazione di questo ambiente era costituita sul soffitto dalle dodici grandi allegorie di virtù (Pordenone) e sulle pareti dal Giudizio Universale e dalla Battaglia di Lepanto (entrambi del Tintoretto) si dovrà constatare che gli obiettivi veneziani avevano subìto una profonda trasformazione.
Per molti la vittoria di Lepanto segnò il definitivo superamento del trauma della sconfitta subita dai Veneziani ad Agnadello all'inizio del secolo (1509) (60). L'entrata a Padova di Andrea Gritti nel 1509 (sul soffitto della Sala del maggior consiglio) e l'allegoria della riconquista di Padova di Jacopo Palma il Giovane (Sala del senato) ricordano la riconquista dei territori perduti senza suscitare tormentosi problemi di autocritica come le opere degli storici. Le espressioni usate dagli autori del programma rivelano chiaramente che l'intento era quello di dare un rilievo particolare alle imprese e al valore militare di singoli Veneziani. I testi iniziano con i loro nomi ed è a loro che va attribuito il successo.
L'uso di distribuire l'esecuzione dei numerosissimi quadri fra molti pittori ha avuto per conseguenza non solo interpretazioni assai diverse del ruolo dei protagonisti, ma anche contrastanti visioni dello svolgimento di un singolo scontro armato. Nelle battaglie del Tintoretto sul soffitto della Sala del maggior consiglio i condottieri sono collocati ai margini in atteggiamenti convenzionali e piuttosto impacciati, mentre i veri protagonisti dei quadri sono i combattenti anonimi. La lotta è raffigurata come scontro di forza e di abilità fisica; ai problemi psicologici il Tintoretto non sembra aver rivolto alcun interesse. È significativo che i combattenti siano in gran parte visti di spalle o abbiano il volto in ombra, come se svolgessero la loro opera senza alcuna partecipazione emotiva. La scelta della prospettiva da sotto in su fa sì che l'osservatore partecipi al fragore e all'atroce tumulto della battaglia e al contempo si senta piccolo piccolo. Il Lomazzo nel suo capitolo sulla "Composizione delle guerre e battaglie" ha dato dei consigli che sembrano riferirsi espressamente ai quadri del Tintoretto e anzi forse ne erano state ispirati (61):
la principale proporzione che si ha da servare ha da essere ne i corpi de i migliori soldati, i quali hanno da essere di otto o di sette teste e di spalle larghe et ample e rilevate de membra e muscoli, con le braccia e gambe grosse e muscolose; di modo che non si vegga ne i suoi corpi morbidezza alcuna, né dolcezza, ma siano d'uomini fieri, forti e terribili, in quella guisa che già dipinse il Buonarrotto nel suo Giudicio della cappella del papa, dove certo egli non servò il decoro che si conveniva a corpi di santi glorificati, ma più tosto a sopradetti corpi forti e robusti. E questo intendo generalmente de gl'uomini militari; perché la ragione dimostra poi che i capitani generali de gl'esserciti, gli imperatori e molti altri signori che militano non si hanno da dipingere a questo modo, ma con proporzioni ragionevoli, che gli rappresentino leggiadri e morbidi, non senza fierezza però, ma tutta nobile e piena di maestà.
Fra tutti i pittori Francesco Bassano fu forse quello che si distaccò maggiormente dal testo del programma. Il suo spiccato interesse per la vita degli umili si rivela anche in un genere come quello delle battaglie, che tradizionalmente veniva associato ad uno stile sublime. Il Bassano illustrò soprattutto lo sforzo fisico compiuto dai soldati nell'arrampicarsi sulle montagne e nel liberare carri impantanati o i tentativi delle giovani reclute di distrarsi, per esempio giocando con un cagnolino. Il soggetto principale dei quadri è il quotidiano affanno della vita militare, mentre vi cercheremmo invano eroi nel senso tradizionale. Nella Sconfitta di Massimiliano I in Cadore la rappresentazione del condottiero che si trascina faticosamente, a testa scoperta, annulla le distanze fra il comandante e i subalterni. Francesco Bassano rifuggiva da ogni esaltazione della guerra, anzi la rifiutava.
Diversamente dal Tintoretto e da Francesco Bassano, il Veronese si accostò con prudenza ad un genere che gli era nuovo, dando grande spazio al paesaggio e ad episodi marginali e evitando il tumulto della battaglia anche laddove esso era previsto dal programma. Nella Difesa di Scutari, un quadro che presenta ancora molti aspetti poco chiari, il Veronese assegnò il ruolo di protagonisti al condottiero avversario a cavallo e a una donna giovane e molto bella, anziché raffigurarvi gli innumerevoli morti e feriti fra le file nemiche di cui parla il testo. Ogni elemento marziale è relegato ai margini o addirittura passato sotto silenzio.
Jacopo Palma ha seguito il Tintoretto per quanto riguarda la preferenza data ai virtuosismi compositivi, ispirandosi però al Veronese nella rinuncia ad una marcata prospettiva da sotto in su. Anche gli altri pittori cercarono delle vie di mezzo e realizzarono opere piuttosto noiose, che probabilmente, per la fedele trasposizione pittorica del testo, rispondevano molto bene alle aspettative degli autori del programma.
Quando il Tintoretto, il Veronese e il Bassano si misero al lavoro avevano ancora presente, anche grazie alle riproduzioni grafiche, La battaglia di Spoleto di Tiziano che a Venezia era stato senz'altro il quadro più importante e ammirato del secolo in questo genere pittorico. Tiziano vi aveva raffigurato la vittoria riportata dalle truppe imperiali su quelle papali durante il conflitto fra papa Alessandro III e il Barbarossa. Lo sguardo dell'osservatore viene guidato in un movimento rotatorio lungo l'azione che inizia drammaticamente al margine inferiore sinistro col colpo di lancia vibrato nella schiena di un soldato in fuga, particolare che mette subito in chiaro chi sarebbe uscito vincitore dalla battaglia ancora in corso, e termina sulla destra soffermandosi sul comandante che, con l'aiuto di uno scudiero, è intento ad indossare l'armatura, mentre accanto a lui alcuni soldati si accingono ad entrare in campo. Si ha l'impressione che Tiziano si fosse prefisso di rielaborare e di superare due "battaglie" che forse erano le più famose del secolo, La battaglia di Anghiari di Leonardo e La partenza dei soldati per la battaglia di Cascina di Michelangelo. È evidente l'ambizione dell'artista di sgombrare il campo da ogni concorrente - tipo Pordenone - per mezzo di una spettacolare prestazione artistica.
Fra le opere arse dall'incendio del 1577, è particolarmente dolorosa la perdita della Battaglia di Salvore di Giovanni Bellini e della Battaglia di Lepanto, dipinta dal Tintoretto nel 1573. Del quadro del Bellini si è conservata solo una lunga e dettagliata descrizione di Giacomo Contarini (62), mentre di quello del Tintoretto sembra che non sia rimasta traccia.
Anche a Venezia la battaglia di Lepanto ha lasciato abbondanti tracce nelle arti figurative (63). Accenni a questo trionfo militare si trovano nei quadri votivi del doge allora in carica, Alvise Mocenigo, e del suo ammiraglio, il futuro doge Sebastiano Venier (Sala del collegio), in un paliotto per l'altar maggiore di S. Marco donato da Alvise Mocenigo, in un'incisione raffigurante la processione che festeggiò il trattato di alleanza con l'imperatore e con il papa, e in numerose e diffusissime riproduzioni a stampa della battaglia. Un ciclo di Lepanto decorava la cappella del Rosario, una donazione dei "mercanti" veneziani, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Alla sommità del portale dell'Arsenale, nel quale venivano costruite le galere veneziane, spicca una statua di s. Giustina, la santa del giorno in cui era stata vinta la battaglia, e altre sue immagini figurano in diversi programmi decorativi, ad esempio nel fregio intagliato della Sala del senato.
La monumentale rappresentazione della battaglia navale, eseguita da Andrea Vicentino per la Sala dello scrutinio dopo l'incendio del 1577, mette a dura prova la pazienza degli osservatori. Il groviglio delle navi incagliate l'una nell'altra e l'enorme numero dei combattenti probabilmente corrispondono sia al reale svolgimento della battaglia che all'immagine che i contemporanei se ne potevano esser fatta, ma tuttavia non facilitano davvero l'orientamento. Un posto di rilievo è assegnato alle figure di Sebastiano Venier e dell'ammiraglio turco Ali Pascià, rintracciabili, con un po' di pazienza, sulla prua delle loro galere. Essi sono rivolti l'uno verso l'altro, ma situati a grande distanza. In questa confusione non restava spazio per uno studio psicologico del vinto e del vincitore e quindi i veri protagonisti del quadro finiscono con l'essere le navi popolate dai loro equipaggi. A differenza della battaglia di Lepanto dipinta dal Vasari per la Sala regia in Vaticano (diffusa nella stampa del Bertelli), che ha un carattere chiaramente diffamatorio nei confronti degli avversari turchi, il quadro dello scrutinio esprime rispetto per l'ammiraglio nemico sconfitto. Purtroppo non sappiamo se il Tintoretto nel suo quadro, dipinto subito dopo la vittoria, avesse seguito una concezione simile, ma è probabile che il Vicentino si sia orientato all'opera perduta.
Sull'asse longitudinale dell'immenso soffitto della Sala del maggior consiglio sono rappresentati in tre grandi quadri allegorici i "risultanti" dalle "imprese et esempi di virtù" che decorano le pareti ed innanzitutto il soffitto (64). Anche in questo caso si trattava di illustrare i concetti-chiave del dominio veneziano sul mare e sulla terraferma. L'esecuzione rivela sorprendenti e inconciliabili contraddizioni con alcuni luoghi comuni dell'apologia di Venezia. Anche fra i contenuti dei singoli quadri esistono delle discrepanze. Mentre le battaglie dovevano illustrare lo svolgimento e l'esito di uno scontro e quindi permettevano al pittore una notevole libertà nella scelta del momento e della disposizione, per le allegorie agli artisti erano stati prescritti i soggetti ed anche alcuni elementi della composizione.
Attenendosi strettamente alle indicazioni dei committenti, Giacomo Palma il Giovane ha raffigurato la sottomissione delle "provincie" come un "trionfo" in senso classico ("come solevano esser dipinte da gl'antiqui"). Alcuni disegni preparatori rivelano l'impegno con cui il Palma ha tentato di risolvere i notevoli problemi compositivi derivanti non solo dalla collocazione su un soffitto non molto alto, ma anche dalla prescrizione di dipingere "priggioni incatenati sedenti, et in piedi, con atto mesto" e al tempo stesso "alcune donne le quali rappresentino le provincie [veneziane] unite". Alcuni anni più tardi, nel 1587, il Bardi, che era stato uno degli autori del programma scritto, precisò questo passo assai delicato perché contrastante con l'immagine ufficiale di Venezia: "[...] diverse donne [...] presentategli da diversi soldati sotto nome delle provincie, che hanno acquistate i Venetiani alla città loro". Nel 1648 il Ridolfi giunse addirittura a parlare di "donne piangenti che infieriscono le città soggiogate" (65). Questa evidente contraddizione con il "mito" del volontario atto di sottomissione delle province ad una pacifica Repubblica, nel quale molti credevano, anche fuori di Venezia, prova che gli ideologi almeno in questo caso seppero prendere le distanze da un luogo comune dell'apologia veneziana.
Il Palma si limitò a raffigurare un "trionfo all'antica" e rinunciò a rendere riconoscibili le singole province venete. In questo modo il trionfo della Repubblica venne privato dell'elemento scottante e le contraddizioni con il quadro centrale, affidato al Tintoretto, vennero ad essere quasi eliminate. Chi non conosce il testo del programma crede di assistere al trionfo seguito ad una vittoria sui nemici della Repubblica.
Il soggetto del quadro centrale è il volontario atto di sottomissione alla Repubblica da parte di vari popoli:
il quadro di mezo doverà haver una Venetia in aria vestita di bianco con due ninfe, cioè Cibele, et Tetide, dal'una, et l'altra mano un Leone gli vole appresso, et in una branca habbi una palma la qual mostri di porgerla a Venetia, et tenga in bocca una corona di lauro, pocco sotto vi sia un tribunale altissimo, et ornatissimo finanzi la chiesa di S. Marco, sopra il quale stando il Doge con le insegne tutte bianche, et con i magistrati con gl'habiti loro riceva ambasciatori de vari populi come Greci, Dalmati, jstriani, et jtaliani, che spontaneamente dandosi a la Republica appresentino chiave, scritture, et sigilli con l'arme de le città loro quali tutti loro siano vestiti de l'habito proprio de loro paesi.
Come si è visto, gli autori del programma avevano addirittura dato indicazioni sulla composizione, orientandosi in sostanza a quadri già esistenti a Venezia. Fra i loro modelli si pensi in primo luogo alla Consegna dell'anello al doge, dipinto da Paris Bordone nel 1534 per la Scuola grande di S. Marco.
Nel trasporre in pittura questo testo dettagliato il Tintoretto vi ha introdotto alcuni rilevanti spostamenti di accento. Il "tribunale" venne trasformato in una complessa e ripidissima scalinata al cui vertice il doge accoglie le chiavi delle città sottomesse. Dietro di lui, ma decisamente più in basso, stanno tredici importanti personalità (nel testo "magistrati"), nessuna delle quali finora ha potuto essere identificata. Tintoretto ha raffigurato il doge come intermediario fra Venetia e i rappresentanti dei popoli, risolvendo così in modo convincente il compito di illustrare la sottomissione alla Repubblica per mezzo della consegna di oggetti simbolici al doge. Inoltre, come già nel quadro votivo di Andrea Gritti, egli si è servito di scelte compositive per assegnare al doge un ruolo non previsto dal testo. Il leone offre la corona di alloro a Venetia ed essa si china a raccoglierla, ma il doge sembra partecipare a questa consegna. Il suo sguardo, il suo atteggiamento e la mano aperta di Venetia sembrano alludere ad un conferimento della corona al doge. Come in altri quadri del Tintoretto, anche qui l'esaltazione del doge ha maggiori affinità con gli scritti panegirici che con il testo al quale l'artista si sarebbe dovuto attenere.
Nel quadro più importante, quello al di sopra del tribunale, il Veronese doveva dipingere
una Venetia che sedendo sopra città, et torri, a imitatione di Roma sedente sopra il mondo, habbia sopra la sua testa una piccola vittoria alata, che voli, et che la incoroni di lauro, intorno la qual Venetia siano la Pace, l'abundanza, la fama, la felicità, l'honor, la sicurtà, et la libertà [...] con moltitudine de populi festeggianti de diversi habiti, et forme, come homini vecchi, putti et donne.
Come nei quadri del Palma e del Tintoretto, anche qui ritroviamo i "populi", che questa volta non sono assoggettati o volontariamente sottomessi, ma cittadini "festeggianti". Più tardi il testo parla anche di "felicità, et contento universale de' populi".
Per la messa in scena dei felici sudditi, della Venetia incoronata di alloro e assisa sulle nuvole e delle Virtù che le fanno corona il Veronese ha ideato una fastosa architettura che ricorda un arco di trionfo. Fra le Virtù egli ha ritratto anche, forse su suggerimento di Giacomo Contarini o del francofilo doge Niccolò da Ponte, il re francese Enrico III, in abiti moderni, come personificazione dell'Onore. Nel 1574 durante il suo viaggio dalla Polonia in Francia, dove sarebbe stato incoronato, Enrico III era stato ricevuto a Venezia con un cerimoniale fastoso e solenne. Questo esempio di chiaroveggente diplomazia veneziana è documentato fra l'altro in molti scritti d'occasione, in riproduzioni grafiche e in un grande quadro di Andrea Vicentino nella Sala delle quattro porte, riprodotto in più copie di formato minore che probabilmente un tempo ornavano i palazzi veneziani (66).
Nella parte inferiore del quadro il Veronese ha aggiunto dei soldati a cavallo, delle armature, un tamburo e attrezzature da guerra, alludendo così all'origine tutt'altro che pacifica delle annessioni veneziane, che in realtà avrebbe dovuto essere illustrata solo nella "Venetia trionfante" del Palma. Quindi la Pax Veneta del Veronese è affine alla Pax Romana, anch'essa fondata sulla forza militare.
Fra la politica praticata in campo artistico dal governo aristocratico e quella dei cittadini si riscontrano alcuni elementi comuni, ma anche notevoli differenze. L'attività delle Scuole (67) non comprendeva solo la costruzione e la decorazione, spesso molto fastosa, delle loro sedi di riunione, ma anche la donazione alle chiese veneziane di numerosi altari (68), molti dei quali di notevole livello artistico. Mentre in palazzo Ducale le decisioni relative al contenuto dei quadri e alla scelta degli artisti venivano delegate dal senato ad alcuni specialisti, nelle Scuole grandi erano la "banca" e in particolare il guardian grande in carica ad esercitare una notevole influenza sull'architettura degli edifici e sull'assetto degli ambienti (69). Ciò può venir testimoniato sia dalla caotica storia della costruzione della Scuola grande di S. Rocco che dai quadri del Tintoretto donati da Tommaso Rangone (dopo il 1562) alla Scuola grande di S. Marco.
Per la scelta dei soggetti ci si rivolse più volte a persone competenti (che nei documenti vengono definite anche come "periti"), probabilmente membri delle Scuole stesse, i cui nomi purtroppo non sono stati tramandati (70). La proposta del Pordenone di dipingere uno Sposalizio della Vergine invece di un'Ascensione nella Sala dell'albergo della Scuola grande della Carità dimostra che agli artisti era possibile intervenire anche in decisioni già prese (71). Per la valutazione dei disegni o modelli presentati nell'ambito di un concorso potevano venire istituite commissioni giudicatrici (72).
Sembra che già nel Quattrocento costituissero un'eccezione i cicli pittorici omogenei e completi (73). Quindi la scelta dei soggetti da dipingere in seguito venne lasciata più volte in sospeso. È noto che nel 1575 il Tintoretto avanzò la proposta di riempire la cornice centrale del soffitto ancora completamente vuoto della Sala del capitolo della Scuola grande di S. Rocco "[...] con una historia da lui ditta [a] boccha over altra historia" (74). Da questo passo si è dedotto che sia stato il Tintoretto stesso a concepire il programma per le sue pitture della Sala del capitolo, che è senza precedenti per la sua complessità.
Nonostante la sua approfondita conoscenza della Bibbia (75), mi sembra improbabile che il Tintoretto abbia potuto compiere tale impresa senza ricorrere alla stretta collaborazione di un teologo.
Per lo più i committenti sapevano che la scelta di un architetto, di uno scultore o di un pittore di gran fama avrebbe arrecato onore e gloria anche alle Scuole e quindi cercavano di ottenere la collaborazione di artisti che si fossero già distinti in opere eseguite per lo Stato. Tuttavia lo spettacolare Miracolo di S. Marco dipinto dal Tintoretto nel 1548 per la Scuola grande di S. Marco è anteriore ai suoi quadri per il palazzo Ducale e fu determinante per la commissione al Tintoretto di due quadri per la Sala del maggior consiglio, anch'essi destinati a far furore. I responsabili della Scuola si erano resi conto prima degli altri del valore di questo nuovo astro. La storia del S. Pietro Martire, dipinto da Tiziano per l'altare della Scuola omonima nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo (76), rivela che anche Scuole molto piccole e dotate di scarsi mezzi erano in grado di assicurarsi l'opera di eminenti pittori. Nel 1525 il gastaldo e altri membri in vista di questa Scuola si erano rivolti al consiglio dei dieci deplorando il fatto che "alchuni de dicta Schola cerchano et instano de dar et far depenzere dicta palla a persona non suffiziente a tal impresa [...]". La conseguenza fu un concorso fra Palma il Vecchio, Pordenone e Tiziano (77). L'esito di un altro concorso, bandito nel 1539 dalla Scuola grande della Carità, dimostra che a volte non era la qualità artistica ad avere il sopravvento: fra i concorrenti, vale a dire Paris Bordone, Bonifacio de' Pitati, Vettor Brunello e Gian Pietro Silvio, il successo arrise al mediocre Silvio (78).
Indubbiamente gli incarichi delle Scuole erano molto ambiti. Persino il grande Tiziano nel 1533 Si adoperò per ottenere un incarico della Scuola grande di S. Rocco (79). È ben nota la campagna condotta con notevole astuzia dal Tintoretto per assicurarsi l'esclusiva nella decorazione pittorica di questa Scuola. In quel frangente gli fu d'aiuto il fatto che l'uso corrente, pur senza avere valore di norma, prevedesse la scelta di un solo artista, mentre in palazzo Ducale di solito gli incarichi di grande portata venivano suddivisi fra più pittori.
Si sa ben poco sui criteri seguiti dalle commissioni e dagli organi responsabili per giungere ad una decisione. Per esempio non sappiamo se fosse frequente da parte dei membri delle Scuole il far dipendere le loro donazioni dalla scelta dell'artista, come tentò di fare nel 1564 Zani di Zignoni: "[...] et fazendo el Tenttoretto non vol dar niente" (80). In quell'occasione il Tintoretto riuscì a spuntarla approntando a sue spese un modello in grandezza naturale del quadro centrale del soffitto della Sala dell'albergo. Al contempo questo quadro costituiva il manifesto artistico del Tintoretto e la sua risposta al S. Giovanni a Patmos dipinto da Tiziano per il soffitto della Scuola grande di S. Giovanni Evangelista (1544-1548). Nel quadro del Tintoretto s. Rocco sale al cielo, accompagnato da angeli, mentre il Padre Eterno gli si fa incontro a braccia aperte. I piedi di s. Rocco sfiorano ancora il margine della tela ovale; in questo modo il Tintoretto è riuscito a mantenere un certo contatto fra la figura del santo, dipinta da sotto in su, e l'osservatore. L'incontro fra s. Rocco e il Padre Eterno acquista una intensità commovente grazie alla corrispondenza dei gesti e alla vicinanza dei volti più che in virtù della loro espressione, abbastanza indefinibile.
Nei quadri delle Scuole sorprende la mancanza quasi assoluta di soggetti relativi all'ideologia dello Stato, eccezion fatta per le vedute di alcuni luoghi della città, nelle quali si rispecchia l'armoniosa coesistenza delle diverse classi sociali. In occasione delle "andate" solenni le Scuole grandi manifestavano apertamente punti di vista talora anche fortemente polemici su personaggi alleati e avversari e sulle loro decisioni politiche, mentre nella decorazione delle loro sale da riunione mostravano un notevole riserbo. Occorre tenere gli occhi ben aperti per cogliere qua e là dei sottintesi. Un'eccezione è costituita da un rilievo sulla facciata della piccola Scuola degli Albanesi che raffigura l'assedio di Scutari e reca l'iscrizione: "MCCCCLXXIV SCODRENSES EGREGIAE SUAE IN VENETAM REM P. FIDEI ET SENATUS IN VENETI BENE FICIENDI SINGULARIS AETERNUM HOC MONUMENTUM P.".
Il riserbo nei confronti di argomenti politici può venire spiegato, ma solo in parte, con il carattere sacrale della sala di accesso (Sala terrena), nella quale fra l'altro venivano celebrate funzioni funebri in memoria dei confratelli defunti (81), e della Sala del capitolo, anch'essa fornita di un'altare. Nel 1544 all'ingresso della Scuola grande di S. Rocco vennero collocati "una pilla d'aqua santa et uno christo in chroxe [...] come ale altre tute squole [...]" (82). L'analogia con le chiese è evidente e immediatamente comprensibile da ogni visitatore.
Quindi nel Quattrocento e all'inizio del Cinquecento i soggetti dei quadri si riferivano soprattutto al patrocinio della Scuola, ad esempio i miracoli del legno della croce (Scuola grande di S. Giovanni Evangelista), scene tratte dalla vita di s. Marco (Scuola grande di S. Marco) o di s. Orsola (Scuola di S. Orsola), oppure anche temi del Vecchio e del Nuovo Testamento (già ad una data piuttosto precoce nella Scuola grande di S. Giovanni Evangelista, più tardi anche in quella di S. Rocco). Inoltre, per esempio nella Scuola grande di S. Marco, si trovavano anche scene della Vita Christi accanto a soggetti veterotestamentari (83). L'unica a scegliere un programma figurativo dal contenuto politico, accentrato sulla vittoria di Lepanto (1571), fu la Scuola di S. Maria del Rosario nella cappella fatta allestire nel 1575 da mercanti veneziani nel transetto della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, in ricordo della battaglia (84).
Oggetto delle pagine seguenti sarà soprattutto la decorazione delle Scuole grandi dopo il 1530, mentre alle confraternite minori ("scolae comunes"), diverse da quelle degli "artigiani, dei gruppi nazionali" (85), posso dedicare solo accenni marginali.
La Scuola grande di S. Marco sembra aver assunto una posizione particolare. È possibile che fosse stato scelto in riferimento ad eventi attuali il soggetto della Tempesta (86), un quadro attribuito dal Vasari dapprima a Giorgione e poi a Palma il Vecchio, che si trova tuttora nella Sala dell'albergo e che rappresenta un miracolo compiuto da s. Marco nel 1342 (87). I1 Sohm crede di riconoscervi un accenno alla resistenza opposta con successo dai Veneziani agli alleati della lega di Cambrai (1509) (88) e giunge alla conclusione che questo miracolo "must have been understood, at least on a secondary level, as an allegory of the salvation of Venice". Sarebbe bello trovare nelle fonti la conferma che questa era l'interpretazione voluta. Richiamandosi ad un passo scritto da Andrea Mocenigo già nel 1519 (in Le guerre fatte a nostri tempi in Italia nelle quali si narra il fatto d'arme di Ghiera d'Adda l'assedio di Padova e di Bressa [...], Vinegia 1544) il Sohm dimostra l'esistenza del paragone fra Venezia ed una nave che minaccia di naufragare ("Tuttavia in tale stempramento di cose e naufraggio vicino, la nave Vinitiana e la costante vertù è stata, come la rupe del Caucaso monte soda e immobile, e ha rizzato le cose cadute, e le perse ricuperate"). Se questa interpretazione allegorica fosse veramente quella intesa dai committenti (89), allora la Scuola grande di S. Marco - allo stesso modo delle Scuole nei loro "soleri" per le processioni solenni - sarebbe stata la prima ad alludere a questo evento traumatizzante, precedendo di molti anni i responsabili della decorazione del palazzo Ducale. Non sorprende che al santo patrono dello Stato e della Scuola in questa visione dei fatti venga attribuito un ruolo che egli non riveste nei quadri del palazzo Ducale.
Intorno al 1534 Paris Bordone riuscì a spuntarla sul Pordenone e ricevette dalla stessa Scuola l'incarico di dipingere un quadro, da collocare vicino alla Tempesta, raffigurante la consegna al doge di un anello donato da s. Marco ad un "barcharuol", vale a dire un evento che secondo la tradizione si era verificato nel 1342 durante il dogato di Bartolomeo Gradenigo (90). Paris Bordone dette al doge i lineamenti di Andrea Gritti, il doge in carica, e accanto a lui, sul tribunale, raffigurò "il Senato; in fra quali Senatori sono molti ritratti di naturale [...]" (91). Tale identificazione del doge in carica con un personaggio storico era insolita a Venezia. Un altro esempio è il ritratto del doge Marino Grimani nel quadro dipinto da Leandro Bassano per la Sala del maggior consiglio, raffigurante la consegna del cero al doge Ziani da parte di Alessandro III (92). Nella Consegna dell'anello probabilmente il gruppo ai piedi del tribunale ritrae eminenti personaggi della Scuola, capeggiati dal guardian grande Zuan Alvise Bonrizzo. Quindi, caso rimasto unico nella pittura veneziana, in questo quadro Paris Bordone avrebbe messo a confronto i due "governi", quello aristocratico della città e quello della Scuola, formato da cittadini. Due dipinti della Scuola dei Calzolai, che commemorano incontri fra i rappresentanti della Scuola e il doge (il primo quadro risale all'incirca al 1557), non sono altro che testimonianze di un momento memorabile nella storia della Scuola (93).
La Consegna dell'anello del Bordone costituì una svolta in quanto, da allora in poi, la Scuola grande di S. Marco scelse più volte dei miracoli significativi per il rapporto fra il santo e la sua città. In precedenza tali raffigurazioni erano riservate alla chiesa di S. Marco. Per esempio Andrea Schiavone nel 1562 aveva raffigurato l'apparizione di s. Marco che mostra il luogo della basilica nel quale erano nascoste le sue ossa. Un disegno preparatorio conservato a Windsor e un frammento del quadro a Vienna (94) mostrano un doge inginocchiato e raccolto in preghiera simile a quelli dei quadri votivi in palazzo Ducale. Pochi anni dopo il Tintoretto ha adottato questa allusione dello Schiavone inserendo nel contesto di altri episodi della vita di s. Marco i ritratti del guardian grande Tommaso Rangone genuflesso.
Dopo il 1585/1586 fu data la preferenza a soggetti di importanza centrale per il culto di s. Marco a Venezia (95). L'apparizione delle reliquie in S. Marco, il Trafugamento del corpo di s. Marco, Le spoglie di s. Marco giungono a Venezia, la Visione in sogno di s. Marco ed una Benedizione del luogo di Fondazione di Venezia (?) erano connessi ad una pala da altare che in seguito venne sostituita da un dipinto di Palma (96). Nel 1568 il Vasari (97) menziona "all'altare [...] un s. Marco" del Tintoretto; all'inizio del Seicento fu deciso di sostituire questo quadro, forse a causa del suo soggetto. Tuttavia nel 1614 non ci si era ancora accordati né sul pittore né sul tema da scegliere, come risulta da un documento molto significativo per i metodi seguiti nell'assegnare incarichi (98):
far far essa palla dal s.r. Tentoretto sudetto [Domenico] o da altri pittori delli principalli con quali si possano convenire per quel precio che potrano et con quelle figure che stimeranno esser più a proposito per bellezza, et adornamento di essa palla dovendovi però esser dipinti, et descritti in essa uno o più miracoli di San Marco, et altri Santi, o altro, come stimeranno meglio, escludendovi a fatto ogni figura, et retratto de fratelli di scola [...].
Si sono conservati due disegni di Domenico Tintoretto, di contenuto diverso, realizzati probabilmente fra il 1612 e il 1614. In entrambi è compreso un ritratto del committente, in uno forse anche una Venetia (99). Comunque anche in questo caso il nuovo guardian grande, Girolamo Locadello, poco più tardi revocò l'incarico, verosimilmente già affidato a Domenico Tintoretto, per conferirlo a Palma il Giovane (100).
Nel quadro del Palma s. Marco accompagnato da s. Pietro e da s. Paolo, è assiso sulle nuvole al di sopra di una veduta di Venezia, mentre il Salvator Mundi gli si avvicina circondato da un nimbo di angeli. S. Marco è messo chiaramente in rilievo dalla posizione centrale ed elevata; s. Pietro alza su di lui uno sguardo commosso, mentre s. Paolo guarda verso s. Pietro. Pietro, Paolo e Marco erano stati effigiati insieme già intorno al 1400 sopra al balcone della Sala del maggior consiglio, a dimostrazione del ruolo eminente del patrono di Venezia.
Già nel Quattrocento i responsabili delle Scuole sapevano bene che l'architettura, la scultura e la pittura erano in grado di accrescere l'attrattiva delle Scuole grandi, eternamente in competizione fra loro nel tentativo di procacciarsi nuovi e facoltosi membri. Si teneva d'occhio la politica artistica delle Scuole rivali e si cercava di imitarne o di superarne i risultati. Il contratto per la "predica di s. Marco" stipulato con Gentile e Giovanni Bellini dalla Scuola grande di S. Marco (1504) dichiara senza mezzi termini questa intenzione pretendendo un "lavoro de più perfetion et bontà [...] che non il gran quadro della processione" che era stato dipinto da Gentile nel 1496 per la Scuola grande di S. Giovanni Evangelista (101). Il fatto che nelle immagini di vita cittadina dei cicli pittorici delle Scuole venisse tematizzata l'armoniosa convivenza di tutti gli strati della popolazione rispecchia uno dei luoghi comuni cari all'ideologia veneziana.
Purtroppo non si è conservato il programma figurativo per la decorazione scultorea delle quattro (!) facciate "inventate" dal Sansovino per la Scuola grande della Misericordia (la progettazione ebbe inizio nel 1532) (102). Un disegno attribuito al Palladio purtroppo non ci aiuta a chiarire la tematica figurativa dell'invenzione del Sansovino. Il suo progetto, anteriore alla Loggetta e alla Libreria e atipico anche dal punto di vista urbanistico, lasciava ampio spazio ad una decorazione esterna che, con il gran numero delle sue sculture, avrebbe superato di gran lunga quelle delle altre Scuole e sarebbe stata paragonabile solo alla decorazione scultorea o pittorica di alcuni palazzi privati o di edifici pubblici come quelli intorno alla Piazza o come il fondaco dei Tedeschi.
Nella maggior parte delle historie delle Scuole sono inseriti numerosi ritratti. Usuali e assai diffusi dal Quattrocento in poi erano quadri nei quali il guardian grande e i membri della "banca" figuravano fra il pubblico presente ad un avvenimento. Lo dimostrano i cicli pittorici delle Scuole grandi di S. Giovanni Evangelista e di S. Marco, anche se finora sono stati identificati solo pochi dei personaggi. L'uso di inserire nelle historie i ritratti di Veneziani illustri, anche contemporanei, seguiva l'esempio dei quadri della Sala del maggior consiglio, ripetutamente rifatti dal Quattrocento in poi e arsi dal fuoco nel 1577. Un'attenta analisi della Processione in Piazza S. Marco di Gentile Bellini ha dimostrato che i ritratti sono stati inseriti all'ultimo momento nel quadro già quasi finito (103). Tuttavia, sia per i quadri del palazzo Ducale che per quelli delle Scuole, non si conoscono i criteri in base ai quali veniva compiuta la scelta dei personaggi da ritrarre.
Nel 1544 era stata avviata l'esecuzione dei quadri della Sala del capitolo della Scuola grande di S. Marco (104), che completavano il ciclo marciano della Sala dell'albergo. In questo caso ai pittori non vennero riproposti gli stessi soggetti dei quadri precedenti, distrutti dall'incendio del 1485. Il salvataggio dello schiavo da parte di s. Marco, del Tintoretto, e Il ritrovamento miracoloso delle reliquie di s. Marco, di Andrea Schiavone (105), ornavano già la Sala nel 1562, allorché Tommaso Rangone propose di offrire "a tutte sue spese li tre quadri con i miracoli del nostro Santissimo protetor" (106). "Et intende far dipinger del suo tuto il resto della Salla con lj sette peccati mortali et con le sette virtù resistenti ovver contrarie [...] et il nostro confalon mess. s. Marco trionfante nell'ottavo quadrante del laj zancho. Et altro secondo il bisogno, et convenevole religiosa correspondentia, non obstante alcuna parte jn contrario". Solo pochi mesi più tardi il Rangone avanzò l'ardita proposta di far collocare la sua "statua [...] sotto il capo del lion in un nichio" sulla facciata della Scuola, a condizione che "non si possino per modo alchuno ni per via alchuna in eterno levar via di quel luogo" (107). La relazione fra i voti a favore e quelli contrari al progetto (31 : 24) rivela una seria opposizione. La decisione venne annullata poco dopo, probabilmente su intervento del consiglio dei dieci che esercitava il controllo sulle attività delle Scuole. Secondo le fonti il Rangone compì altri tentativi del genere, che ebbero anch'essi esito negativo, allo scopo di far collocare un suo ritratto sulla facciata di S. Geminiano, di fronte alla basilica di S. Marco. Riuscì invece a far collocare sulla facciata della chiesa del S. Sepolcro una statua di s. Tommaso che recava i suoi lineamenti e che venne eseguita da Alessandro Vittoria (ora al Seminario Patriarcale). La facciata di S. Giuliano venne eretta per ospitare il suo epitaffio figurato, in conformità con una tradizione veneziana affermatasi dalla seconda metà del Quattrocento.
Al Rangone, come guardian grande della Scuola, dopo il prevedibile fallimento del tentativo di far porre il suo ritratto sulla facciata, non rimaneva che il ciclo pittorico sulla vita di s. Marco per assicurarsi uno spazio conforme alla sua smisurata ambizione. Nel Ritrovamento del corpo del santo il Tintoretto ha raffigurato al centro del quadro il Rangone in ginocchio rivestito del sontuoso abito della sua carica. Il guardian grande, come il doge in certi ritratti di palazzo Ducale, funge da intermediario, invitando l'osservatore a rivolgere lo sguardo all'evento miracoloso. Nel Salvataggio del Saraceno s. Marco e il Rangone insieme traggono in salvo dalle acque un uomo in procinto di annegare. Al contempo il Rangone richiama l'attenzione degli osservatori del quadro e del malcapitato, già quasi sommerso, sull'aspetto miracoloso dell'evento.
Nel Trafugamento del corpo il Tintoretto ha affidato al Rangone un ruolo di particolare rilievo. Mentre Fermo e Rustico trasportano il corpo del santo egli ne sorregge con delicata attenzione il capo, in un modo che ricorda le raffigurazioni della deposizione di Cristo.
In quadri del genere era del tutto insolito assegnare un rilievo così accentuato alla figura del committente e farla partecipare attivamente all'evento miracoloso; di norma il committente, sia che fosse un doge, un magistrato o un parroco (108), conservava la debita distanza rispetto al soggetto principale del quadro. Il Tintoretto qui, all'inizio degli anni Sessanta del secolo, ha oltrepassato i limiti che il Concilio, riunito proprio in quegli anni, gli avrebbe imposto nel contesto di una "storia sacra".
Per il successore del Rangone fu probabilmente assai facile convincere i confratelli a farne eliminare i ritratti da questi quadri. È sorprendente - ma non troppo - che il Tintoretto stesso si dichiarasse disposto a mettere in atto tale damnatio memoriae, che tuttavia per fortuna non fu realizzata. È probabile che la proposta del nuovo guardian grande non fosse dettata tanto da un'austera avversione controriformistica nei confronti dei ritratti quanto dall'intenzione di cancellare il ricordo di una personalità prepotente e spesso estremamente scomoda anche per i suoi confratelli.
Nella Scuola grande di S. Marco "la questione dei ritratti" rimase acuta anche nei decenni seguenti, come rivela il secondo ciclo con scene della vita del santo (109), iniziato da Domenico Tintoretto nel 1585/1586. Nell'Apparizione delle reliquie di s. Marco sono stati contati 66 ritratti di dignitari laici ed ecclesiastici. Invece nel 1614, trent'anni dopo, fu stabilito che dalla pala d'altare venissero esclusi "à fatto ogni figura, et retratto de fratelli di scola [...]" (110), mentre la pensavano ancora diversamente i responsabili della Scuola dei Mercanti che si fecero ritrarre da Domenico Tintoretto in compagnia di numerosi confratelli sulla pala d'altare della loro Scuola, in atto di adorazione perpetua.
Dall'Apparizione di s. Marco di Domenico Tintoretto risulta in modo palese che per i committenti i ritratti avevano un'importanza prioritaria. Il pubblico presente al miracolo è numerosissimo, ma ad accorgersi dell'apparizione del santo sono solo i pochi personaggi al centro del quadro che non presentano le caratteristiche del ritratto. La distinzione fra il ritratto di gruppo e l'historia è ben netta. Qui si è concluso, nell'ambito delle Scuole, quel processo già avvertibile "in nuce" nell'opera di Gentile Bellini e superato da Tiziano nella sua Presentazione di Maria al tempio (S. Maria della Carità). Sono evidenti le affinità con certi ritratti di magistrati in palazzo Ducale.
Verso la fine del Cinquecento in alcune Scuole erano esposti dei ritratti del guardian grande, ma non si hanno notizie sicure sul luogo in cui essi si trovavano. Per esempio Antonio Vassilacchi detto l'Aliense aveva inserito nell'angolo inferiore di un quadro il guardian grande della Scuola degli Schiavoni ritratto a mezzo busto in preghiera davanti al Salvatore (111). Ciò significa che in quegli anni, rispetto alla prima metà del secolo, anche nelle Scuole al primus inter pares poteva venir concessa una maggiore libertà di mettersi in vista. Va notato che tali quadri non erano donazioni obbligate come i quadri votivi dei dogi e dei magistrati, e in effetti essi rivelano anche un'osservanza meno rigida delle convenzioni dal punto di vista del tipo della rappresentazione.
Sorprende che i dipinti e le sculture illustrino solo di rado le opere di carità svolte dalle Scuole. Gli accenni più evidenti a tali compiti si trovano nella Presentazione di Maria al tempio di Tiziano (1534-1538) (112), nella Sala dell'albergo della Scuola della Carità, con il famoso particolare dell'elemosina, e nelle Ultime Cene del Tintoretto (113). Le allusioni alla carità nello Sposalizio della Vergine di Gian Pietro Silvio (iniziato nel 1539) e nell'Annunciazione di Girolamo Dente (1557-1561) (oggi entrambi a Mason Vicentino) furono dettate in primo luogo dal nome della Scuola (114). La liberazione dell'umanità dalla fame, dalla sete e dalle malattie per mezzo del pane (Caduta della manna), dell'acqua (Mosè fa scaturire l'acqua dalla roccia) e di salutari rimedi (Il serpente di bronzo) divenne un tema centrale dei dipinti solo nei quadri del Tintoretto per la Sala del capitolo della Scuola grande di S. Rocco: "[...] qui la sintesi del Nuovo e del Vecchio Testamento, comune in età medioevale, è stata messa al servizio di un preciso concetto sacramentale scaturito direttamente dalla situazione reale, cioè dal desiderio di esaltare l'attività pratica della Scuola. Le opere di misericordia corporale, come il nutrire gli affamati, dar da bere agli assetati e curare gli infermi diventano metafore dell'acquisto di un corpo immortale attraverso il battesimo, l'eucarestia e la resurrezione" (115). Probabilmente una concordantia veteris et noni testamenti paragonabile a quella della Scuola grande di S. Rocco era già stata dipinta nel 1421 nella Scuola grande di S. Giovanni Evangelista ("[...] de far jnstoriar la sala della nostra chaxa atorno atorno del testamento vechio e nuovo"), ma non abbiamo notizie sui singoli soggetti di questo precedente ciclo pittorico (116).
Completamente legato ai compiti della Scuola è il ciclo che Palma il Giovane dipinse e portò a termine nel 1600 sul soffitto della Sala terrena (fornita di due altari) della Scuola di S. Fantin (detta anche di S. Girolamo) (117). Tale Scuola esercitava la virtù della Carità assistendo i condannati a morte e accompagnandoli al luogo dell'esecuzione. Pio V concede le indulgenze per le anime dei morti, Messa per le anime del Purgatorio, Distribuzione delle elemosine ai poveri per le anime dei morti sono i soggetti dei quadri centrali del soffitto, circondati da raffigurazioni del Purgatorio, e da immagini di santi e di dottori della chiesa.
Dunque anche le Scuole contribuirono con i loro cicli pittorici al consolidarsi dell'immagine di una Repubblica la cui politica era fondata sulla fede cristiana. "The Scuole had become the public expression of Venetian piety" (B. Pullan). Il desiderio delle Scuole, in particolare di quelle grandi, di mettersi in vista servendosi dell'architettura, della scultura e della pittura le portò spesso a trascurare le loro opere di carità. Tuttavia i coraggiosi critici di questa scelta, come il Caravia, non furono numerosi. Sia per i nobili che per i cittadini l'arte era divenuta ormai uno strumento insostituibile di autocelebrazione.
Traduzione di Benedetta Heinemann Campana
1. La bibliografia delle questioni affrontate in questa sede è immensa e pertanto è impossibile citarla in extenso. Sul palazzo Ducale e sulla sua decorazione: Francesco Zanotto, Il palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1853-61; Staale Sinding-Larsen, Christ in the Council Hall. Studies in the Religious Iconography of the Venetian Republic, with a Contribution of A. Kuhn, Roma 1974 (Istitutum Romanum Norvegiae. Acta ad archeologiam et artium historiam pertinentia, V); Wolfgang Wolters, Der Bilderschmuck des Dogenpalastes. Untersuchungen zur Selbstdarstellung der Republik Venedig im 16. Jahrhundert, Wiesbaden 1983 (trad. it. Storia e politica nei dipinti di palazzo Ducale, Venezia 1987); Id., La scultura di palazzo Ducale, in Umberto Franzoi - Terisio Pignatti - Wolfgang Wolters, Il Palazzo Ducale, Treviso 1990, pp. 118-224. Un elenco pressoché completo delle pitture del palazzo Ducale si trova in Umberto Franzoi, Storia e leggenda del palazzo Ducale di Venezia, s.l. 1982. Nelle note seguenti è stata data la preferenza ad opere di recente pubblicazione e a quelle fornite di buone bibliografie. I precisi rinvii a fonti che qui non vengono specificate singolarmente si trovano tutti in W. Wolters, Der Bilderschmuck e in Id., Storia e politica ai capitoli indicati nelle note.
2. Gaetano Cozzi, Cultura politica e religione nella "pubblica storiografia" veneziana del '500, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 5-6, 1963-64, p. 226 (pp. 215-294)
3. W. Wolters, Der Bilderschmuck, p. 308.
4. Francisci Zannii Veneti explicatio picturae quam nuperrime Iosephus Salviatus Venetiis in aula ducali exaravit, Venetiis 1567.
5. Pietro Contarini, Argo Volgar, Venetia s.a. (circa 1542).
6. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIIII libri, Venetia 1581.
7. Girolamo Bardi, Dichiaratione di tutte le Istorie che si contengono nei quadri posti nuovamente nelle Sale dello Scrutinio e del Gran Consiglio del Palagio Ducale della Serenissima Repubblica di Vinegia, Venetia 1587.
8. Su quel che segue cf. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 31 ss.
9. Ibid., pp. 164 ss.
10. Id., La scultura veneziana gotica (1300-1460), Venezia 1976, cat. 49.
11. Cf. Id., Der Bilderschmuck, pp. 231 ss.
12. La sintesi più recente in Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton, N.J. 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984).
13. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 65 ss.
14. Ibid., pp. 57 ss.
15. Lodovico Dolce, Dialogo della Pittura intitolato l'Aretino [...], Venetia 1557, in Trattati d'Arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di Paola Barocchi, I, Bari 1960, pp. 168-169 (pp. 141-206).
16. W. Wolters, Der Bilderschmuck, p. 308.
17. Su quel che segue cf. in particolare ibid., pp. 75 ss.
18. Gasparo Contarini, La Republica e i magistrati di Vinegia di Gasparo Contarini nuovamente fatti volgari, Vinegia 1551.
19. Donato Giannotti, Libro de la Republica de' Vinitiani, Roma 1540.
20. Mario Brunetti, Il doge non è "segno di taverna", "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 17, 1917, p. 353 (pp. 351-355).
21. Bartolomeo Spatafora, Quattro orationi di M. Bartolomeo Spatafora di Moncata, gentil'huomo venetiano ecc., Venetia 1554, pp. 73-74.
22. Francesco Sansovino, Delle orationi recitate a Principi di Venetia nella loro creatione dagli ambasciatori di diverse città [...] libro primo, Venetia 1562, c. 1r.
23. Cornelio Frangipane, Oratione dell'Ill. Sig. Cornelio Frangipani di Castello gentil'homo Furlano, et dottor delle leggi recitata al Sereniß. Principe Francesco Veniero, Venetia 1577, c. A 8r.
24. Vittorio Lazzarini, I titoli dei dogi di Venezia, in Id., Scritti di Paleografia e Diplomatica a cura di colleghi, discepoli, ammiratori, Venezia 1938, p. 217 (pp. 183-219).
25. Su ciò che segue cf. la documentazione in W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 77 ss.
26. Sulla serie dei ritratti dei dogi ibid., pp. 84 ss.
27. F. Sansovino, Venetia, c. 215v.
28. Cf. la documentazione in W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 98 ss.
29. Su ciò che segue ibid., pp. 87 ss.
30. Su ciò che segue ibid., pp. 92 ss.; Anselmo Guisconi, Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia ecc., Venetia 1556, p. 14 (non numerata).
31. Giambattista Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del palazzo Ducale di Venezia ovvero serie di atti pubblici dal 1253 al 1797, I, Dal 1253 al 1600, Venezia 1868, doc. 619.
32. Marino Sanuto, I diarii, LV, a cura di Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi-Marco Allegri, Venezia 1900, col. 19.
33. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 98 ss.
34. Id., Qualche ipotesi sui quadri votivi di Tiziano in palazzo Ducale, in AA.VV., Tiziano e Venezia, Convegno internazionale di Studi (Venezia 1976), Vicenza 1980, pp. 563-566.
35. Su ciò che segue cf. la documentazione in Id., Der Bilderschmuck, pp. 137 ss.
36. F. Sansovino, Venetia, c. 175r.
37. W. Wolters, Der Bilderschmuck, p. 27. Sui cicli pittorici dei procuratori cf. Thomas Hirthe, Die Libreria des Jacopo Sansovino. Studien zur Architektur und Ausstattung eines öffentlichen Gebäudes in Venedig, "Münchner Jahrbuch der Bildenden Kunst", 37, 1986, pp. 131-176.
38. Gustav Ludwig, Bonifazio di Pitati da Verona, eine archivalische Untersuchung, "Jahrbuch der Königlich Preußischen Kunstsammlungen", 22, 1901, pp. 61-78 e 180-200; 23, 1902, pp. 36-66.
39. Detlev Freiherrn von Hadeln, Beiträge zur Tintorettoforschung, "Jahrbuch der Königlich Preußischen Kunstsammlungen", 32, 1911, pp. 49 ss., doc. 8 (pp. 25-58).
40. Fulgentio Manfredi, Degnità Procuratoria di San Marco di Venetia, descritta da Fra Fulgentio Manfredi Venetiano de' Mi. Oss. Teologo e generale Predicatore all'ill.mo S.or M. Antonio Memmo creato degnamente Procuratore, Venetia 1602, p. 24.
41. Giulio Lorenzetti, Di un disperso ciclo pittorico cinquecentesco nel Vestibolo della Libreria di San Marco a Venezia, "Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 102, 1942-43, p. 441 (pp. 419-470).
42. Su ciò che segue per i dettagli e la documentazione cf. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 236 ss.; cf. anche David Rosand, Venetia figurata. The Iconography of a Myth, in AA.VV., Interpretazioni veneziane. Studi di Storia dell'arte in onore di Michelangelo Muraro, Venezia 1984, pp. 177-196; Id., Venezia e gli dei, in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 201-215.
43. La citazione è tratta da Luigi Simeoni, Jacopo Piacentino, Cronaca della guerra Veneto-Scaligera con introduzione e note di Luigi Simeoni, "Miscellanea della Deputazione Veneta di Storia Patria", 5, 1931, p. 33 (pp. 3-200).
44. P. Contarini, Argo Volgar, cc. E IIv ss.
45. F. Sansovino, Venetia, cc. 111r ss.
46. Charles Hope, Veronese and the Venetian Tradition of Allegory, "Proceedings of the British Academy London", 81, 1985, pp. 389-428.
47. F. Sansovino, Venetia, c. 122r.
48. Mutio Sforza, Panegirico del Sig. Mutio Sforza detto a Venetia sotto nome di Reina, Venetia 1585, cc. 11r ss.
49. Antonio Maria Consalvi, Il consiglio delli Dei per la fondatione dell'Inclita città di Venetia e dell'eccellentissima sua Republica. Favola Maritima di Antonio Maria Consalvi al Ser.mo Prencipe Marc'Antonio Memmo, Vicenza 1614.
50. Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-11, p. 1.
51. Su ciò che segue cf. l'estesa documentazione in W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 269 ss.
52. Jürgen Schulz, Maps as Metaphors: Mural Map Cycles in the Italian Renaissance, in Art and Cartography. Six Historical Essays, a cura di David Woodward, Chicago-London 1987, pp. 97-122, 223-229.
53. Su ciò che segue cf. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 161 ss.
54. Il testo del programma, conservato in diverse copie, fu pubblicato da Girolamo Bardi nel 1587. Sul testo manoscritto cf. ibid., pp. 307 ss.
55. Fortunato Olmo, Historia della Venuta a Venetia occultamente nel 1177 di Papa Alessandro III e della Vittoria ottenuta da Sebastiano Ziani Doge. Comprobata da D. Fortunato Olmo Casinese, Venetia 1629, pp. 16 ss.
56. Su ciò che segue cf. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 182 ss.
57. Paolo Ramusio, Della Guerra di Costantinopoli per la restituzione de gl'imperatori comneni fatta da' sig. Venetiani et Francesi l'anno 1204; libri sei, Venetia 1604, p. 4.
58. Per esteso e con la relativa documentazione W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 190 ss.
59. Giacomo Carusio, Historia dell'origine, grandezza, bellezza et gloriose vittorie della Serenissima Republica di Venetia ove si legge il simbolo della Nobilissima Arma Gentilitia dell'Illustriss. Carlo Contarini, e la Nobiltà civile della sua famiglia, Verona 1624.
60. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 207 ss.
61. Gio. Paolo Lomazzo, Trattato dell'Arte de la Pittura, Scoltura et Architettura, Milano 1584, in Gian Paolo Lomazzo, Scritti sulle arti, II, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Firenze 1974, p. 307.
62. P. Contarini, Argo Volgar, cc. B IIIIr ss.
63. Su ciò che segue cf. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 213 ss.
64. Ibid., p. 315 con ulteriori testimonianze. G. Bardi, Dichiaratione, c. 62v.
65. Carlo Ridolfi, Le maraviglie dell'Arte, Venezia 1648 (a cura di Detlef Freiherrn von Hadeln, I-II, Berlin 1914-24: II, p. 177).
66. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 223 ss.
67. Sulle Scuole prevalgono gli studi monografici. Trattazioni complessive: Le Scuole di Venezia, a cura di Terisio Pignatti, Milano 1981; Patricia Fortini Brown, Venetian Narrative Painting in the Age of Carpaccio, New Haven-London 1988. Scuole del SS. Sacramento: Maurice E. Cope, The Venetian Chapel of the Sacrament in the Sixteenth Century, New York-London 1979 (Outstanding Dissertations in the Fine Arts). Singole questioni: W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 153 ss. (ritratti); Peter Humphrey, Competitive Devotions: The Venetian Scuole Piccole as Donors of Altarpieces around 1500, "The Art Bulletin", 70, 1988, pp. 401-423.
68. Sull'attività edilizia delle Scuole è importante: Raban von der Malsburg, Die Architektur der Scuola Grande di San Rocco in Venedig, Heidelberg 1976 (Diss.-Druck); Philip Lindsay Sohm, The Scuola Grande di San Marco, 1437-1550, The Architecture of a Venetian Lay Confraternity, New York-London 1978 (Outstanding Dissertations in the Fine Arts), pp. 3 ss.
69. Cesare Augusto Levi, Notizie storiche di alcune antiche Scuole d'arte e mestieri scomparse o esistenti ancora in Venezia, Venezia 18953.
70. Stefania Mason Rinaldi, Contributi d'archivio per la decorazione pittorica della Scuola di San Giovanni Evangelista, "Arte Veneta", 32, 1978, p. 300 (pp. 293-301) (doc. del 1580); Rosanna Tozzi Pedrazzi, Le storie di Domenico Tintoretto per la Scuola di S. Marco, "Arte Veneta", 18, 1964, p. 76 (pp. 73-88) (doc. del 1580).
71. David Rosand, Painting in Cinquecento Venice: Tiziano, Veronese, Tintoretto, New Haven-London 1982, pp. 141 ss.
72. Wladimir Timofiewitsch, Ein Entwurf für den Altar der Scuola di San Rocco in Venedig, in Festschrift für Ulrich Middeldorf, a cura di Antje Kosegarten-Peter Tigler, Berlin 1968, pp. 342-349.
73. Pompeo G. Molmenti, I Pittori Bellini, "Nuova Antologia", ser. III, 16, 1888, pp. 305 ss.; P.L. Sohm, The Scuola Grande di S. Marco, p. 260 (doc. del 1482).
74. Rudolf Berliner, Die Tätigkeit Tintorettos in der Scuola di San Rocco, "Kunstchronik und Kunstmarkt", 55, 1919-20, p. 473 (pp. 468-473, 492-497).
75. Dagmar Knöpfel, Sui dipinti di Tintoretto per il coro della Madonna dell'Orto, "Arte Veneta", 38, 1984, pp. 149-154; Erasmus Weddingen, Zur Iconographie der Bamberger "Assunta" von Jacopo Tintoretto, in Die Bamberger "Himmelfahrt Mariae" von Jacopo Tintoretto, a cura di Michael Petzet ("Arbeitschefte des Bayerischen Landesamtes für Denkmalpflage, 42"), München 1988, pp. 77 ss.(pp. 61-110).
76. Giuseppe Giomo, San Pietro Martire di Tiziano, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 3, 1903, pp. 55-68.
77. Charles E. Cohen, The Drawings of Giovanni Antonio da Pordenone, Firenze 1980, pp. 73 ss.
78. D. Rosand, Painting in Cinquecento Venice, pp. 142 ss.
79. R. Berliner, Die Tätigkeit Tintorettos, p. 469.
80. Ibid.
81. Gustav Ludwig - Pompeo G. Molmenti, Vittore Carpaccio. La vie et l'oeuvre du peintre, Paris 1910, pp. 200 ss.
82. R. von der Malsburg, Die Architektur, p. 170. Sull'architettura e sulla funzione degli ambienti cf. P.L. Sohm, The Scuola Grande di S. Marco, passim.
83. Pietro Paoletti, La Scuola Grande di S. Marco, Venezia 1929, pp. 122 ss.
84. Sui soggetti dei quadri perduti cf. Giambattista Soravia, Chiesa parrocchiale de' SS. Gio. e Paolo, in Id., Le Chiese di Venezia descritte ed illustrate, I, Venezia 1822, pp. 111 ss.; W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 217.
85. Lia Sbriziolo, Per la storia delle confraternite veneziane: Dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci. Scolae comunes, artigiane e nazionali, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 126, 1967-68, pp. 405-442.
86. Philip Rylands, Palma il Vecchio. L'opera completa, Milano 1988, pp. 256 ss., con datazione al 1527-28.
87. Luigi Bailo - Gerolamo Biscaro, Della vita e delle opere di Paris Bordon, Treviso 1900, pp. 174 ss.
88. Philip L. Sohm, Palma Vecchio's Sea Storm: A Political Allegory, "Revue d'Art Canadienne - Canadian Art Review", 6, 2, 1979-80, p. 94 (pp. 85-96).
89. Così anche Lionello Puppi, La "consegna dell'anello al Doge". Anatomia di un dipinto, in AA.VV., Paris Bordon e il suo tempo, Atti del convegno internazionale di Studi, Treviso 28-30.10.1985, Treviso s.a. (ma 1987), p. gg (pp. 95-108). Questa interpretazione non è stata accettata da Peter Humphrey, The Bellinesque Life of St. Mark for the Scuola Grande di San Marco in Venice in its Original Arrangement, "Zeitschrift für Kunstgeschichte", 48, 1985, pp. 236 ss. (pp. 225-242).
90. L. Ballo - G. Biscaro, Della vita e delle opere di Paris Bordon, pp. 176 ss.; P. Paoletti, Scuola Grande di San Marco, pp. 164 ss.; Caterina Furlan, Il Pordenone, Milano 1988, pp. 290 ss.
91. Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori ed architettori, a cura di Gaetano Milanesi, I-VIII, Firenze 1878-85: VII, p. 463.
92. W. Wolters, Der Bilderschmuck, pp. 176.
93. Ibid., pp. 155 ss.
94. Detlev Freiherrn von Hadeln, Über zwei Zeichnungen des Andrea Schiavone, "Jahrbuch der Preußischen Kunstsammlungen", 44, 1925, pp. 135-139; Francis L. Richardson, Andrea Schiavone, Oxford 1980, nrr. 145 e 317.
95. Sul culto di s. Marco e sui cicli più antichi cf. Otto Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, I-II, Chicago-London 1984: I, pp. 57 ss.; II, pp. 199 ss.; cf. anche Giuseppe Pavanello, San Marco nella leggenda e nella storia, "Rivista della città di Venezia", 7, 1928, pp. 293-324.
96. Rosanna Tozzi, Disegni di Domenico Tintoretto, "Bollettino d'Arte", 31, 1937, pp. 19-31; Sandra Moschini Marconi, Gallerie dell'Accademia di Venezia, Roma 1955-70, passim; Ead., Nuovi documenti sulla Pala della Scuola Grande di San Marco, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 124, 1965-66, pp. 88 ss. (pp. 85-96); R. Tozzi Pedrazzi, Le storie di Domenico Tintoretto, pp. 84 ss.
97. G. Vasari, Le vite, VI, p. 593.
98. S. Moschini Marconi, Nuovi documenti, p. 90.
99. R. Tozzi Pedrazzi, Le storie di Domenico Tintoretto, pp. 84 ss.
100. Questa disputa è esposta dettagliatamente in S. Moschini Marconi, Nuovi documenti, p. 94.
101. P. Paoletti, La Scuola Grande di San Marco, pp. 137 ss.
102. Manfredo Tafuri, Jacopo Sansovino e l'architettura del '500 a Venezia, Padova 1972, pp. 16 ss.; Deborah Howard, Jacopo Sansovino: Architecture and Patronage in Renaissance Venice, New Haven-London 1976, pp. 96 ss.
103. Cf. al proposito: Jürg Meyer zur Capellen, Gentile Bellini, Stuttgart 1985, pp. 77 ss.
104. P.L. Sohm, The Scuola Grande di San Marco, pp. 289 ss.
105. F.L. Richardson, Andrea Schiavone, nrr. 145 e 317.
106. P. Paoletti, La Scuola Grande di San Marco, pp. 173 ss.
107. Cf. Erasmus Weddingen, Thomas Philologus Ravennas, Gelehrter, Wohltäter, Mäzen, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 9, 1974, pp. 8-76.
108. W. Wolters, Der Bilderschmuck, con testimonianze nei capitoli dedicati ai quadri votivi e ai ritratti di magistrati.
109. R. Tozzi Pedrazzi, Le storie di Domenico Tintoretto.
110. S. Moschini Marconi, Nuovi documenti, p. 90.
111. Le Scuole di Venezia, p. 118.
112. D. Rosand, Painting in Cinquecento Venice, pp. 121 ss.
113. Ibid., pp. 212 ss.
114. Sul Silvio: Giovanna Scirè, Appunti sul Silvio, "Arte Veneta", 23, 1969, pp. 210-217, che attribuisce al Silvio entrambi i dipinti, e D. Rosand, Painting in Cinquecento Venice, pp. 142 ss.
115. Henry Thode, Tintoretto. Kritische Studien über des Meisters Werke. Die Bilder in den Scuolen, "Repertorium für Kunstwissenschaft", 27, 1904, p. 42 (pp. 24-45).
116. P.L. Sohm, The Scuola Grande di San Marco, p. 315.
117. Nicola Ivanoff, Il ciclo pittorico della Scuola di San Fantin, "Ateneo Veneto. Fascicolo speciale per il 150° anniversario 1812-1962", Venezia s. a. (1962), pp. 65-81; Stefania Mason Rinaldi, Palma il Giovane. L'opera completa, Milano 1984, nrr. 574-586.