L’aviaria in laboratorio
Il pericolo esiste e ha più facce. L’influenza aviaria può diventare una pandemia mortale attraverso mutazioni naturali del virus ma anche mediante tecniche artificiali. Come gli studi annunciati da Nature e Science. E se qualche nuova particella virale sfuggisse al controllo? E il rischio bioterrorismo?
Nel 2012, la necessità della trasparenza nella ricerca scientifica ha avuto la meglio sulle esigenze della sicurezza. Dopo mesi di acceso dibattito tra autorità ed esperti internazionali, infatti, le due più importanti riviste scientifiche del mondo, Nature e Science, hanno deciso di correre il rischio di pubblicare due studi importanti, nonostante il cattivo uso che qualcuno avrebbe potuto farne: entrambi spiegano, in due modi diversi, come si possa modificare in laboratorio il virus dell’influenza aviaria in modo che acquisisca la capacità di trasmettersi tra i mammiferi, caratteristica che lo renderebbe potenzialmente in grado di scatenare una pandemia catastrofica.
Dai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità infatti risulta che il virus influenzale di tipo A denominato H5N1, anche detto dell’influenza aviaria perché diffuso tra gli uccelli, sarebbe in grado di uccidere più del 60% delle persone che sviluppano la malattia: se finora ha fatto solo 357 vittime in tutto il mondo è soltanto perché non è in grado di passare da un individuo all’altro come tutti gli altri virus influenzali. La notizia che questo limite era stato intenzionalmente varcato dai ricercatori ha quindi destato preoccupazione per la possibilità che tali agenti infettivi potessero sfuggire alle misure di sicurezza o cadere nelle mani di malintenzionati.
Pubblicare le modalità con cui il risultato è stato raggiunto espone poi al rischio che queste informazioni possano essere sfruttate a fini di bioterrorismo. D’altro canto, però, queste ricerche hanno chiaramente mostrato che le mutazioni necessarie alla trasformazione del virus sono poche, e per lo più già presenti in natura: la possibilità che si verifichino spontaneamente e contemporaneamente in un’unica variante del virus, quindi, è tutt’altro che remota e invita a mettere in atto adeguate misure di sorveglianza.
Infine, capire quali sono le caratteristiche che potrebbero rendere il virus così pericoloso significa procedere più speditamente alla ricerca delle cure (per esempio farmaci e vaccini) per non farsi trovare impreparati nel caso in cui un ceppo simile a questo dovesse emergere in natura.
Le varianti capaci di trasmettersi tra furetti, mammiferi che si comportano in maniera simile agli esseri umani nei confronti dell’infezione influenzale, e da una gabbia all’altra, sono almeno due e hanno in comune cinque mutazioni indispensabili per permettere al virus di passare da mammifero a mammifero. Yoshihiro Kawaoka, della University of Wisconsin-Madison, negli Stati Uniti, è giunto a questo risultato creando un ibrido tra un ceppo di virus dell’influenza aviaria e uno di H1N1, il virus responsabile della pandemia, detta impropriamente ‘suina’, del 2009, caratterizzato da un’alta capacità di contagio. Ron Fouchier, dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam ha invece apportato al virus dell’aviaria piccole modifiche prima di ottenere le trasformazioni cruciali con il metodo classico, rispondente a quel che accade in natura: il passaggio da animale ad animale.
È stato il ricercatore olandese, in un convegno dell’European Scientific Working Group che si è tenuto a Malta nel settembre 2011, ad annunciare di avere prodotto nel suo laboratorio un «agente infettivo capace di annientare metà della popolazione mondiale». La dichiarazione ovviamente ha suscitato scalpore e allarme, attirando l’attenzione del National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB), un comitato di esperti indipendenti nominato dal governo statunitense, che ha chiesto ai direttori di Nature e Science, a cui le ricerche erano state sottoposte, di non pubblicarle, oppure di farlo solo dopo aver censurato tutti gli elementi necessari a riprodurre gli esperimenti. La richiesta è stata poi ritirata nel mese di marzo 2012, dando di fatto il via libera alla pubblicazione.
Nel frattempo però i più importanti ricercatori in questo campo si sono resi conto che il problema in effetti esiste, e non può essere sottovalutato.
Si sono quindi imposti una moratoria, un momento di riflessione durante il quale sospendere per un certo periodo le ricerche più pericolose: ciò per avere il tempo di spiegare all’opinione pubblica l’utilità di questi studi e soprattutto per verificare le misure di sicurezza di cui dotare i laboratori, che dovranno essere adeguate a nuove linee guida emesse dall’Organizzazione mondiale della sanità e dalle singole autorità nazionali.
Il virus H5N1
Il virus H5N1 dell’influenza aviaria appartiene al tipo A. Di forma sferica, utilizza l’RNA come materiale genetico, ed è ricoperto da una superficie ‘spinosa’. Le spine della superficie sono proteine: emoagglutinina e neuraminidasi; la prima, H5, aiuta il virus a penetrare nella cellula ospite; la seconda, N1, a disattivare le difese per propagare l’infezione. Il virus in questione non costituisce al momento un vero pericolo per l’uomo perché non possiede la giusta emoagglutinina per attaccare le cellule umane. Già, perché la pericolosità di ogni ceppo di virus influenzale dipende dal tipo particolare di emoagglutinine che possiede.
Per esempio, tre di queste, chiamate H1, H2 e H3 (H è l’iniziale del nome inglese Hemagglutinin), attaccano l’uomo perché sono in grado di riconoscere alcuni particolari zuccheri sulla superficie delle cellule del nostro tratto respiratorio; mentre altri sottotipi, come per l’appunto l’H5 del virus dell’aviaria, attaccano fondamentalmente alcune proteine presenti nel sistema digerente degli uccelli senza interessarsi quasi mai all’uomo.
Il virus si è trasmesso per la prima volta dagli uccelli all’uomo nel 1997 a Hong Kong: 18 persone che avevano avuto stretti contatti con polli infetti furono ospedalizzate, sei di queste morirono. Dal 2003 a oggi il virus ha infettato circa 600 persone. Il virus non è riuscito finora a scatenare una pandemia perché non può diffondersi tra gli umani: comunemente infatti, non può infettare le cellule presenti nelle vie respiratorie dell’uomo. La malattia è quindi rara e insorge solo per contagio diretto da animale a uomo, mentre il contagio fra umani è avvenuto in pochissimi casi, senza diffusione oltre la prima generazione di contagio.
La ricerca olandese
Nella ricerca del team dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam coordinato da Ron Fouchier, si è partiti da un virus di aviaria isolato da un paziente morto per influenza in Indonesia. Sono state effettuate tre mutazioni su di esso, con un duplice scopo: indurre da un lato l’emoagglutinina ad attaccarsi ai recettori umani piuttosto che a quelli dei volatili e dall’altro far sì che il virus fosse capace di replicarsi più facilmente anche a temperature più basse, come avviene tipicamente nei mammiferi rispetto agli uccelli. Successivamente, i ricercatori hanno iniettato il virus nei furetti che hanno fatto da cavie, lasciando che si evolvesse naturalmente, trasmettendosi tramite contatto tra gli animali. Dopo questo periodo di tempo, gli scienziati hanno osservato che anche lasciando le cavie in gabbie separate l’influenza riusciva a passare da una all’altra, dimostrando così la possibilità di contagio per via aerea. È stato fatto notare però che nel momento in cui il virus aumentava la sua capacità di contagio diminuiva la sua pericolosità: non uccideva i furetti che lo contraevano per via aerea, ma solo quelli nelle cui narici veniva spruzzato ad alta concentrazione. Altra nota rassicurante, sottolineata dai ricercatori, è stata quella di rilevare che il virus si è mostrato sensibile alle cure attualmente a disposizione e a potenziali vaccini.
La ricerca americana
Yoshihiro Kawaoka, della University of Wisconsin-Madison, e il suo gruppo di ricerca hanno utilizzato un approccio diverso da quello del team olandese. Per comprendere il ruolo dell’emoagglutinina che fa preferire al virus H5N1 gli uccelli ai mammiferi, gli studiosi statunitensi hanno indagato quali condizioni possano spontaneamente portare il virus ad attecchire anche su questi ultimi. Isolato il gene responsabile della produzione dell’emoagglutinina, sono state realizzate numerose mutazioni del virus fino a ottenere quello che preferiva legarsi ai mammiferi, perdendo la sua originaria capacità di legarsi alle cellule degli uccelli.
A questo punto, invece di indagare il comportamento del gene modificato all’interno del virus H5N1, il gruppo coordinato da Kawaoka lo ha inserito nel virus H1N1 che causò la pandemia influenzale del 2009 (la cosiddetta ‘influenza suina’). La decisione di creare questo ibrido è nata dall’esigenza di studiare meglio il comportamento della proteina mutata, all’interno di un virus, quale l’H1N1, già noto per essere in grado di trasmettersi tra mammiferi. Un meccanismo tutt’altro che artificioso, peraltro, quello della ricombinazione tra virus diversi, che avviene normalmente anche in natura. I test su alcuni furetti, adoperati anche in questa ricerca come cavie, hanno dimostrato che il virus così modificato si può trasmettere attraverso l’aria da animale ad animale, come avviene con la comune influenza stagionale.