L’avventura Olivetti
«Prima fabbrica nazionale macchine per scrivere» (1908-1932)
La società in accomandita semplice Ingegnere Camillo Olivetti & c. venne fondata a Ivrea (Torino) il 29 ottobre 1908 da Camillo Olivetti e da altri soci, quasi tutti di Ivrea.
Camillo era nato a Ivrea nel 1868 e si era laureato in ingegneria elettrotecnica nel 1891 a Torino, dopo aver effettuato studi al Museo industriale italiano e alla Scuola di applicazione per gli ingegneri. Suo maestro era stato il professor Galileo Ferraris, scopritore del campo magnetico rotante e costruttore del primo esemplare di motore elettrico. Nell’estate del 1893 Camillo aveva accompagnato negli Stati Uniti Ferraris, il quale era stato invitato a pronunciare un discorso al Congresso internazionale di elettrotecnica (che si doveva tenere in autunno nell’ambito dell’Esposizione universale di Chicago). Si era poi fermato in quel Paese per un anno, visitando fabbriche e lavorando come assistente di elettrotecnica alla Stanford University di Palo Alto (California).
Al rientro in Italia aveva avviato un’attività di produzione di strumenti elettrici di misura (la prima in Italia), fondando a Ivrea nel 1896 la società in accomandita semplice Camillo Olivetti & c.; nel novembre di quello stesso anno aveva effettuato un secondo viaggio negli Stati Uniti, per affari relativi agli strumenti prodotti. Nel 1903 aveva trasferito la sua azienda a Milano e nel 1905 l’aveva trasformata in società anonima CGS (Centimetro Grammo Secondo). La vicinanza all’industria elettrica e in generale a uno dei grandi poli industriali del Paese non aveva però interamente persuaso Camillo, contrario per intima convinzione alla crescita indiscriminata delle aziende e al ricorso al sistema creditizio. Da qui, nel 1907, la sua uscita dalla CGS, di cui rimarrà comunque socio e presidente sino al 1917.
Il ritorno a Ivrea gli aveva consentito anche di dedicarsi all’altra grande passione della sua vita, la partecipazione alla lotta politica – nel Canavese e a Torino – tra le fila del Partito socialista, fondato nel 1892 da Filippo Turati, con il quale Camillo ebbe rapporti personali. A un riformismo gradualistico, municipalistico, tutto sommato etico con venature cristiane, Camillo rimarrà fedele per tutta la vita, anche nel corso di due successive, e pur diverse, crisi: quella dell’intervento italiano nella Prima guerra mondiale e quella relativa alle violenze del dopoguerra. Fu per molti anni consigliere comunale nei gruppi socialisti di Ivrea e di Torino, e fondò e diresse testate regionali, come si vedrà in seguito. Nella continua, personale attenzione alle condizioni materiali e spirituali dei lavoratori della sua azienda, inizialmente pochi e privi di cultura tecnica, alla loro formazione e alla messa in atto di provvidenze assistenziali, si coglie il nocciolo profondo di un’imprenditorialità singolare che il figlio Adriano raccoglierà e, anzi, porterà al suo più alto sviluppo in Italia nella forma della ‘responsabilità sociale d’impresa’.
Dopo il ritorno di Camillo a Ivrea, nel 1907-1908 avevano cominciato a prendere corpo i germi di un’idea la cui sintesi è nella scritta che egli volle innalzata sul frontone dell’edificio industriale da lui fatto costruire alla periferia di Ivrea, subito e per sempre noto come la fabbrica dei mattoni rossi: «Ing. C. Olivetti & C. Prima fabbrica nazionale macchine per scrivere».
A quell’epoca, le macchine per la dattilografia negli uffici venivano prodotte dalle statunitensi Remington e Underwood e, in Europa, quasi solo da aziende tedesche. Quando, vent’anni dopo, ormai affermato industriale del settore, Camillo renderà pubblico omaggio all’avvocato novarese Giuseppe Ravizza (1811-1885), inventore nel 1855 del ‘cembalo scrivano’ (così detto per la sua forma) – un apparato che precorreva persino la prima macchina per scrivere al mondo, quella brevettata nel 1867 negli Stati Uniti da Christopher L. Scholes –, indicherà come causa di fondo della mancata fortuna di Ravizza il limite, storicamente italiano, che «non può un’invenzione maturare e dare i frutti di cui è capace, se non è integrata da un sano e adeguato organismo industriale» (cit. in Caizzi 1962, p. 49).
Quando Camillo iniziò a stendere i disegni per il progetto della sua macchina per scrivere, si ingegnò in particolare a trovare soluzioni per il ‘cinematico’ (ovvero le leve mediante le quali l’impulso dato al tasto da parte del dattilografo viene trasmesso al martelletto che andrà a imprimere il carattere sul foglio di carta). Evitò così di dover pagare i brevetti statunitensi e, per contro, ne depositò due propri. Effettuò anche un terzo soggiorno negli Stati Uniti – durato dal novembre 1908 (quindi subito dopo la fondazione della sua seconda azienda) al febbraio 1909 – allo scopo di visitare le principali fabbriche del settore. Messi infine a punto i disegni del progetto, li diede per l’attrezzaggio al capofficina Domenico Burzio (1876-1932), che aveva istruito da quando era un giovane provvisto solo della licenza elementare. Il primo esemplare della macchina – denominata M1 – fu presentato nel 1911 all’Esposizione universale di Torino (organizzata per celebrare il cinquantenario dell’Unità d’Italia). Le prime ordinazioni arrivarono dalla marina e dalle poste; nel 1912 fu aperta a Milano una filiale di vendita, prima tappa di uno sviluppo commerciale a cui Camillo diede subito grande importanza.
Negli anni della Prima guerra mondiale, la fabbrica, che contava allora già più di 100 operai, fu adattata alla produzione di componenti per armi, e soprattutto di magneti per motori di aerei, che erano una specialità tedesca.
Finita la guerra, la riconversione fu rapida, e Camillo si dedicò alla progettazione di un nuovo modello di macchina per scrivere, chiamato M20, che uscì nel 1920 e fu presentato a un’esposizione internazionale a Bruxelles; negli anni Venti insidiò la supremazia dei produttori stranieri in un mercato italiano che la Olivetti stessa aveva contribuito a far crescere. Al tempo stesso, Camillo riprese, nella durezza del periodo, le sue iniziative editoriali-politiche, pubblicando due riviste, «L’azione riformista» (1919-1920) a Ivrea e «Tempi nuovi» (1922-1925) a Torino; quest’ultima venne soppressa dalle leggi speciali del nuovo regime fascista.
Agli inizi del 1926, Camillo fu affiancato in fabbrica dal figlio primogenito Adriano (1901-1960), laureatosi in ingegneria chimica presso il Politecnico di Torino. Questi cominciò subito a mettere in pratica sia nuove misure di organizzazione industriale – ispirate a quanto aveva osservato in un viaggio di studio effettuato negli Stati Uniti nel 1925, poco dopo la laurea – sia progetti di nuovi prodotti.
Dalla crisi economica mondiale del 1929 la Olivetti uscì abbastanza bene, forte di 500 operai, in grado di produrre 12.000 M20 l’anno. Nel 1926 era stata aperta la consociata Hispano Olivetti (produzione e vendita) ed era stata sancita l’autonomia relativa della OMO (Officine Meccaniche Olivetti), che Camillo avrebbe voluto si chiamasse OSO (Officine Scuola Olivetti): un particolare sintomatico delle sue idee. Dalla OMO e dalla collaborazione con l’ingegnere Gino Levi (1901-1996, il quale, dopo le leggi razziali del 1938, avrebbe cambiato il proprio cognome in Martinoli), uscì nel 1931 il terzo modello di macchina da scrivere della Olivetti, la M40. Nel 1932 si costituirono consociate in Belgio e in Argentina; in quel momento i dipendenti della Olivetti superavano ormai le 800 unità, le filiali in Italia erano tredici, i concessionari una settantina.
È interessante esaminare com’erano in quell’anno le scale di grandezza dell’industria delle macchine per scrivere nel mondo: gli Stati Uniti producevano, in nove stabilimenti, circa 900.000 macchine, di cui la metà per l’esportazione; la Germania, in diciassette stabilimenti, oltre 100.000, di cui i quattro quinti per l’esportazione; l’Italia circa 20.000, di cui i tre quarti in una sola fabbrica, naturalmente la Olivetti; la Gran Bretagna era poco sotto l’Italia, e la Francia a un terzo. Nei segmenti delle macchine portatili e delle macchine calcolatrici, l’Italia – ossia la Olivetti – era totalmente assente, mentre gli Stati Uniti fornivano la gran parte della produzione mondiale.
Il 1932 fu anche l’anno in cui la Olivetti divenne società anonima, con capitale di 13 milioni di lire, e in cui Adriano venne nominato direttore generale. Camillo mantenne la presidenza dell’azienda e la direzione della OMO (che negli anni Settanta diventerà OCN, Olivetti Controllo Numerico).
Impresa responsabile, leader mondiale (1932-1960)
Adriano avrebbe così scritto nel 1949, rievocando i suoi anni di studente a Torino, quando aveva visto crollare la democrazia liberal-parlamentare e imporsi la violenta marcia trionfale del fascismo:
Mi domandavo sin da allora perché la società avesse saputo trovare in molti campi forme di organizzazione di sorprendente efficienza e perché invece la struttura politica apparisse così poco adatta ad assolvere i suoi compiti (Appunti per la storia di una fabbrica, «Il ponte», 1949, 8-9, poi in Olivetti 1908-1958, a cura di R. Musatti, L. Bigiaretti, G. Soavi, 1958, p. 9).
Nel convincimento della divaricazione tra processo storico e sviluppo economico, e nel conseguente tentativo di trovare soluzioni capaci di ricondurre a pratiche unitarie la politica e la società, le istituzioni e il progresso industriale, si trova la matrice della singolarità di Adriano: imprenditore di successo, pensatore, editore, guida intellettuale di urbanisti, architetti e designer. Singolarità, in Italia, sia nell’ambito dell’imprenditorialità industriale sia in quello della cultura. È lungo questi due piani connessi, e non seguendo uno solo di essi, che dev’essere compresa la storia della Olivetti di Adriano, cresciuto dal padre non nella religione degli avi bensì in un’etica della responsabilità, seppure intrisa di tensione spirituale.
Una volta al comando effettivo, Adriano trasformò la Olivetti, si può dire, da azienda con un padre-fondatore e pochi e bravi operai-allievi, in società modernamente strutturata, rafforzata dall’ingresso di quadri professionali, che si dispiegava secondo obiettivi di prodotto e piani di sviluppo. Ma a tutto questo aggiunse qualcosa in più: le sue scelte – inclusa l’introduzione di una non rigida organizzazione scientifica del lavoro – furono permeate di riflessioni culturali, attuate all’esterno secondo uno spettro ampio e inusuale e, circolarmente, arricchite all’interno dall’apporto di intellettuali del progetto e della comunicazione.
Vennero così istituiti in parallelo la Direzione tecnica, affidata a Levi/Martinoli, e l’Ufficio sviluppo e pubblicità, affidato prima a Renato Zveteremich e poi, dal 1938, a Leonardo Sinisgalli (1908-1981), ingegnere e poeta. Nella grafica pubblicitaria, le figure forti del periodo furono lo svizzero Alexander Schawinsky, detto Xanti (1904-1979) – in esilio dalla scuola tedesca del Bauhaus, soppressa nel 1933 dai nazisti – e Costantino Nivola (1911-1988).
Furono messi allo studio progetti di macchine per scrivere portatili e di calcolatrici. Nel 1932 uscì la portatile MP1 – ai cui progettisti, Riccardo Levi e Aldo Magnelli, si affiancò significativamente il fratello di quest’ultimo, Alberto, pittore –; tuttavia, questo modello, a causa della sopraggiunta crisi economica e della ristrettezza, all’epoca, del potenziale mercato italiano per un prodotto di questo tipo, non ebbe il successo sperato. Per le calcolatrici si dovette attendere il 1940, con l’addizionatrice MC4S (Summa); essa rappresentò il debutto di due personalità che sarebbero state importanti nel mondo olivettiano per un trentennio, il progettista Natale Capellaro (1902-1977) e il designer e grafico Marcello Nizzoli (1887-1969). Capellaro era entrato in azienda, quattordicenne, come apprendista operaio.
Nel 1937 uscì una macchina nuova per l’Italia, capostipite di un genere fortunato, la telescrivente T1. La progettarono Massimo Olivetti (1902-1949), secondogenito di Camillo, e l’ingegnere Giuseppe Beccio.
Adriano intrecciò le iniziative in fabbrica con scritti sull’organizzazione del lavoro industriale, nei quali manifestò significative aperture culturali. Segno di tali aperture furono le collaborazioni con le pubblicazioni dell’ENIOS (Ente Nazionale Italiano per l’Organizzazione Scientifica del lavoro) e, soprattutto, la fondazione, nel 1937, della rivista «Tecnica e organizzazione», di cui usciranno sei numeri. In essa Adriano trattò un tema non abituale nell’ambito degli studi degli ‘ingegneri-programmatori’ dell’epoca, ovvero l’urbanistica. Un termine che è da intendere come governo del territorio in cui un’industria è inserita e al quale si rapporta sui piani sociale e politico, piani che allora si sintetizzavano nella formula corporativismo fascista.
Queste riflessioni di Adriano furono accompagnate da due mosse significative, una imposta dalle circostanze e l’altra del tutto originale.
La prima mossa fu la costruzione a Ivrea di una nuova fabbrica, resa necessaria dai nuovi prodotti e dalle nuove forme di organizzazione del lavoro. Adriano ne affidò la progettazione a due architetti milanesi allora poco più che trentenni, Luigi Figini (1903-1984) e Gino Pollini (1903-1991), esponenti di quel razionalismo architettonico europeo che in Italia stava in quel periodo iniziando la sua battaglia contro il monumentalismo classicistico fascista. L’edificio, inaugurato nel 1936, aveva sul fronte stradale una lunga facciata fatta di grandi vetrate: vi entrava la luce e dall’interno si potevano guardare la città, i colli, i monti. A Figini e Pollini venne affidata anche la progettazione di abitazioni e di unità di servizi sociali per i dipendenti.
La seconda mossa, del 1937, aveva un profilo culturale eccezionale per l’epoca: lo studio del piano regolatore della Valle d’Aosta (che, come Ivrea, faceva allora parte della provincia di Torino). Per realizzarlo, Adriano scelse un gruppo di giovani architetti, lo studio BBPR di Milano (così chiamato dalle iniziali dei cognomi dei suoi componenti, Gian Luigi Banfi, Lodovico Belgioioso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers), e lo guidò personalmente. Fu un esempio, rimasto raro per anni, di urbanistica territoriale a scala sovracomunale, in cui le scelte a favore delle attività turistiche volevano rappresentare anche un riscatto della tradizionale povertà delle zone alpine.
Le leggi razziali del 1938 obbligarono l’azienda – benché da tempo gli Olivetti non facessero più formalmente parte della comunità ebraica locale – a effettuare una serie di ‘contromosse’, che coinvolsero non soltanto la famiglia del fondatore, ma anche alcuni dirigenti e collaboratori di origine ebraica. Camillo – benché ‘esentato’ dalle sanzioni contro gli ebrei «per eccezionali benemerenze», nella fattispecie per il contributo dato allo sforzo bellico italiano negli anni 1915-18 – passò la carica di presidente ad Adriano; quest’ultimo passò la sua carica di direttore generale al direttore amministrativo Giuseppe Pero; vari dirigenti vennero riallocati in mansioni apparentemente minori o all’estero.
Allo scoppio della guerra, la Olivetti aveva un capitale di 23 milioni di lire e 2300 dipendenti, che producevano oltre 40.000 macchine, di cui un quarto per l’esportazione; al termine del conflitto, nel 1945, questi dati scenderanno di poco, ma con una crescita relativa del settore calcolatrici. Erano state nel frattempo aperte una fabbrica a Massa Apuana e delle consociate in Francia e a Barcellona. Negli anni della guerra, la Olivetti non effettuò in pratica alcuna conversione alla produzione bellica.
Noi oggi sappiamo che gli ultimi anni Trenta e i primi anni Quaranta furono per Adriano anche anni di inquieto fervore meditativo, dall’intenzionalità pubblico-pratica taciuta, per anni inedita. Tutta una serie di letture, condotte in solitario alla fine degli anni Trenta, Adriano le portò a un primo risultato fondando a Milano nel 1941 la casa editrice NEI (Nuove Edizioni Ivrea). Come dire, un’editoria saggistica assunta a leva per la trasformazione di un divenire storico sempre meno tollerabile, sempre più avvertito come bisognoso di contromisure profonde, che guardassero lontano, al ‘dopo’: dopo la fine del fascismo in Italia, dopo la fine del nazismo in Europa.
Olivetti scelse come collaboratori alcuni giovani intellettuali destinati a diventare eminenti personalità dell’editoria italiana del secondo Novecento: Bobi Bazlen, Augusto Foà e suo figlio Luciano, Erich Linder. Il catalogo che idearono per la NEI andava da Walter Rathenau a Søren Kierkegaard e a Carl Gustav Jung, ed è indicativo delle passioni profonde di Adriano; ma la guerra limitò la produzione della casa editrice a tre soli titoli, l’ultimo dei quali – stampato in Svizzera nella primavera del 1945, nei giorni della Liberazione – resterà la principale opera teorica dello stesso Adriano: L’ordine politico delle Comunità. Risale agli anni 1942-45 anche la stesura di alcuni suoi scritti, che allora rimasero inediti, contenenti progetti pratico-politici per il dopoguerra, tra cui spicca il Memorandum sullo Stato federale delle Comunità in Italia.
A partire dal 1942, Adriano avviò contatti riservati con esponenti politici e militari antifascisti, a cui seguì, nel maggio 1943, un viaggio in Svizzera per sottoporre ad Allen W. Dulles – capo della sezione europea dell’OSS (Office for Strategic Services), allora il principale servizio informazioni degli Stati Uniti – un piano per la fuoriuscita dell’Italia dalla guerra e il suo schieramento a fianco degli alleati; tuttavia l’offerta fu lasciata cadere. Il 25 luglio vi fu la caduta del regime fascista, ma cinque giorni dopo Adriano venne arrestato dal controspionaggio su ordine del nuovo presidente del Consiglio, il maresciallo Pietro Badoglio. Liberato dal carcere romano di Regina Coeli il 22 settembre, nel febbraio 1944 riparò in Svizzera. Dove appunto, tra incontri con altri esuli – quali Luigi Einaudi, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Ignazio Silone –, scrisse e poi fece pubblicare L’ordine politico delle Comunità.
Le premesse di questo libro – nel quale Adriano illustrò il suo radicale rifiuto della guerra e dei fascismi che l’avevano voluta, la sua critica nei confronti delle democrazie le cui debolezze l’avevano favorita, e le sue proposte per l’Italia da ricostruire e l’Europa da costruire – erano rappresentate, come egli stesso scrisse, da «disparate esperienze e umane vicende: prima di essere costruzione teorica fu vita» (L’ordine…, cit., 19703, p. 4). Ma tra le premesse vi erano anche le sue letture (per un industriale davvero inusuali), che comprendevano, tra l’altro, i filosofi personalisti e comunitaristi francesi Emmanuel Mounier (1905-1950) e Jacques Maritain (1882-1973), filosofi del diritto quali Hugo Preuss (1866-1925) e Hans Kelsen (1881-1973), gli illuministi, i federalisti autori della Costituzione degli Stati Uniti.
L’ordine contiene sia materiale per la nuova Costituzione che l’Italia dovrà darsi con la pace, sia la trama di una società – liberale e socialista insieme – basata sulla centralità della «Persona» nella «Comunità». La Comunità è un organo di autogoverno locale; è lo spazio di relazioni vissute non fra individui, ma fra persone; prenderà il nome dalla maggiore unità produttiva presente nel territorio. Per questa densità di valenze, è «concreta». È la cellula fondativa dello Stato, che per via federalistica sarà appunto lo «Stato federale delle Comunità». Adriano delinea nel suo libro ogni ordinamento di questo Stato, i suoi tre poteri fondamentali (rappresentanza democratica, lavoro, cultura), gli statuti, le procedure. Implicitamente, cerca i contrappesi che evitino all’Italia rinnovata di ripetere la catastrofe della Repubblica di Weimar.
Essendo contrario ai partiti – non a caso all’inizio degli anni Cinquanta farà tradurre, con il titolo Appunti sulla soppressione dei partiti politici («Comunità», genn.-febbr. 1951, pp. 1-5), il saggio della filosofa francese Simone Weil Note sur la suppression générale des partis politiques (scritto nel 1943, ma pubblicato postumo in «La table ronde», febbraio 1950, pp. 9-28) –, ritiene che la lotta politica debba svolgersi tra «coerenti associazioni fondate su programmi concreti […], fra una destra realista e una sinistra idealista» (L’ordine…, cit., p. 188). Perciò si preoccupa particolarmente del tema classico della formazione delle élites, per le quali è necessario «associare esperienza a valore» (p. 42). L’accesso alle massime cariche esige «la comprovata competenza specifica dell’eletto e la provata sua preparazione morale e culturale» (p. 41).
A questo fine, Adriano auspica la creazione di un’alta istituzione culturale, che chiama «Istituto politico fondamentale» e di cui traccia persino i programmi e le modalità dell’esame di ammissione e di quello finale. Si tratta di un’idea tutt’altro che eccentrica o astratta, se consideriamo che nell’ottobre del 1945, cioè pochi mesi dopo la pubblicazione de L’ordine, in Francia l’allora capo del governo provvisorio Charles De Gaulle, consapevole che la débacle del 1940 non era stata soltanto una sconfitta militare, istituì l’ENA (École Nationale d’Administration), destinata a diventare una fucina di futuri primi ministri e alti funzionari.
Nella Roma dei primi anni del dopoguerra, dove Adriano nel frattempo si era iscritto al Partito socialista (allora PSIUP, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) ed era entrato in una sottocommissione dell’Assemblea costituente, L’ordine non ottenne alcun riconoscimento. Adriano fece allora ritorno a Ivrea e riprese la presidenza della Olivetti, che era stata affidata a suo fratello Massimo dopo che, nel maggio 1945, al rimpatrio dalla Svizzera Adriano aveva elogiato gli operai e ringraziato i dirigenti che avevano retto la fabbrica durante i ‘600 giorni’ della cosiddetta Repubblica di Salò: Giovanni Enriques (1905-1990), Pero, Levi/Martinoli e Guglielmo Jervis (1901-1944); quest’ultimo aveva partecipato alla lotta partigiana ed era stato fucilato dai tedeschi. Nell’estate del 1945 Adriano aveva inoltre avanzato con discrezione, ai dirigenti locali della sinistra (allora) socialcomunista, l’idea della socializzazione della fabbrica suscitando stupore e rifiuto. Perfettamente simmetrico (pur se altrimenti motivato) era stato il rifiuto degli azionisti della Olivetti, massime se appartenenti alla famiglia.
La riassunzione della guida dell’azienda da parte di Adriano coincise, per un verso, con una decisa ripresa degli investimenti e dei progetti – uno slancio che si faceva forte del generale processo di ricostruzione postbellica – e, per un altro verso, con la riaffermazione del complesso ideale di «Comunità», seppure in forme diverse da quelle espresse ne L’ordine. Tale riaffermazione si concretò, tra il 1946 e il 1947 e tra Torino e Milano, nella fondazione di tre organismi aventi lo stesso nome: una rivista, una casa editrice, un movimento culturale-politico.
Nel frattempo, Adriano agiva mediante la leva più importante, la fabbrica. Tra il 1946 e il 1947, vennero aperti stabilimenti a Torino e a Glasgow, quello di Ivrea venne ampliato, quello di Massa ricostruito; a Londra nacque la British Olivetti. I dipendenti superarono i 4000.
Uscirono tre prodotti che si attagliavano molto bene alla generale ripresa del lavoro d’ufficio in Italia e in Europa. Innanzitutto, nel 1948, la Divisumma 14, prima calcolatrice meccanica capace di eseguire le quattro operazioni, e la macchina per scrivere standard da ufficio Lexikon 80; il designer di entrambe era Nizzoli, mentre il progettista della prima era Capellaro e quello della seconda Beccio. Poco dopo, nel 1950, uscì la macchina per scrivere portatile Lettera 22, capolavoro di Nizzoli, con la quale si riscattava più che ampiamente, sul piano commerciale e di prestigio nel mondo, quella portatile MP1 che nel 1932 si era dimostrata prematura. La Lettera 22 venne costruita nel nuovo stabilimento di Agliè, presso Ivrea. Il grafico che con originalità e freschezza curò la pubblicità di questo e di altri prodotti Olivetti degli anni Cinquanta fu Giovanni Pintori (1912-1999). Con la Vespa, la Lambretta e la Fiat 500, la Lettera 22 entrò tra i prodotti simbolo di un’Italia che era passata da Paese agricolo a nazione industriale (e che in seguito, con i trattati di Roma del 1957, sarà tra gli Stati fondatori dell’unità europea).
La Lettera 22 ricevette nel 1954 il Compasso d’oro (un premio istituito in quello stesso anno, e che è oggi il più antico e il più autorevole nel campo del design), mentre l’anno successivo la Olivetti ne ricevette un altro per il ruolo importante da essa assegnato «all’estetica industriale».
Dal 1955 circa, la principale linea di produzione della Olivetti fu tuttavia quella del calcolo, che appunto in quell’anno superò la scrittura per numero di esemplari costruiti e per fatturato. La calcolatrice Divisumma 24 (1956) di Capellaro e Nizzoli segnò il passaggio dalla meccanica all’elettromeccanica, e nella storia della Olivetti rappresentò il maggiore risultato economico (e di diffusione nel mondo, dove per anni non ebbe rivali). Vennero sviluppate anche le macchine contabili: la linea Audit nello stesso 1956, la linea Mercator quattro anni dopo. In quel periodo, peraltro, anche la scrittura passò all’elettromeccanica (linee Tekne e Praxis).
Nel frattempo, andava crescendo l’attenzione alle condizioni di lavoro dei dipendenti. Nel 1947 nacque il Consiglio di gestione, con compiti consultivi in merito alla produzione, ma con poteri distributivi per quanto riguardava i finanziamenti ai servizi sociali; nel 1951 una colonia marina affiancò quella montana, che risaliva al 1939. Le paghe erano costantemente superiori alla media nazionale, e nel 1956 l’orario di lavoro scese da 48 a 45 ore settimanali a parità di salario, e l’anno successivo la durata della settimana lavorativa passò da 6 a 5 giorni. Erano condizioni di lavoro che entreranno nel contratto nazionale dei metalmeccanici soltanto nel 1970, dopo le asprezze dell’‘autunno caldo’. Tra il 1952 e il 1958 i dipendenti della Olivetti aumentarono notevolmente, passando da 6000 a 24.000, di cui circa il 60% in Italia (nel 1961 si sarebbe giunti a 47.000, ma con percentuali invertite). Il capitale sociale salì da 2,4 a 40 miliardi di lire; ma era pur sempre, come vedremo, sottodimensionato rispetto ai costi e ai traguardi.
Una crisi di sovrapproduzione, determinata nel 1953 dalle conseguenze della guerra di Corea, venne contrastata da Adriano e poi rovesciata in successo mediante l’assunzione di venditori e la loro professionalizzazione – una novità per l’Italia – tramite il CISV (Centro Istruzione Specializzazione Vendite), installato a Firenze. I corsi iniziarono nel 1955, contemporaneamente alla creazione della Direzione commerciale Italia, che fu ospitata in un edificio in via Clerici a Milano.
Adriano inoltre investì nel Sud d’Italia, e senza l’aiuto della Cassa per il Mezzogiorno. Fece infatti costruire all’ingegnere napoletano Luigi Cosenza (1905-1984) uno stabilimento a Pozzuoli, presso Napoli, «di fronte al golfo più singolare del mondo […] in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno» (in Ai lavoratori, 2012, p. 30), come ebbe modo di dire nel discorso Ai lavoratori di Pozzuoli, pronunciato il 23 aprile 1955 in occasione dell’inaugurazione. E nello stesso discorso si chiedeva (e ci chiedeva): «può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?» (p. 28). La risposta ricalcava nella sostanza quanto aveva scritto dieci anni prima ne L’ordine:
Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto, è […] creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo; [essa] pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende; […] la nostra Società crede che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro (L’ordine…, cit., pp. 29-30).
Adriano, intellettuale ‘comunitario’ a tutto tondo, si rivolse verso il Sud con competenze culturali che negli anni precedenti si erano rinnovate e ampliate, come dimostra la sua nomina, nel 1950, a presidente dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica); aveva in precedenza contribuito anche al rinnovamento della rivista dell’INU, «Urbanistica», al punto che nel 1949 ne era diventato direttore.
In qualità di presidente dell’UNRRA-Casas (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), un ente preposto alla ricostruzione di case per i sinistrati, prima fece eseguire ricerche sociologiche sulla ‘città dei sassi’, Matera, e poi fece costruire nei suoi pressi il villaggio La Martella (1951-54), di cui aveva affidato la progettazione a un gruppo di architetti capeggiato da Ludovico Quaroni (1911-1987).
L’idea alla base di questo progetto era che il trasferimento della popolazione delle grotte di Matera non dovesse avere come destinazione quartieri-dormitorio, bensì delle «comunità» dotate di servizi, permettendo così a questa popolazione di mantenere le relazioni tra le «persone» e il rapporto con il lavoro nei campi. Il modello, esemplare per metodo e risultati, venne realizzato, ma non sarà duplicato altrove. Rimarrà come simbolo delle idee e del nome di Adriano, quale sempiterna stella polare degli urbanisti e architetti italiani. Gli stessi obiettivi di armonia fra lavoro industriale e lavoro agricolo spinsero Adriano a fondare nel 1955 nel Canavese – la zona del Piemonte che fa capo a Ivrea – l’IRUR (Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale).
Quello di Comunità, nelle sue diverse articolazioni, era dunque un movimento di cultura moderna, laica, ma non laicista, nel quale le idee si misuravano con i problemi reali della società italiana e della cultura europea e mondiale. La rivista omonima, a periodicità mensile, proponeva le firme migliori della sociologia, dell’urbanistica e della critica letteraria, oltre a corrispondenze dal resto d’Italia. La casa editrice, da parte sua, si inserì subito nella fascia alta degli editori di libri di saggistica, qualificandosi in particolare per i titoli di politologia, europeismo e regionalismo; ma Adriano non intendeva certo rinunciare alle opere sulla filosofia della libertà. Furono infatti le Edizioni di Comunità a far tradurre due opere fondamentali sull’argomento: nel 1950, The God that failed: six studies in communism (1949), una raccolta di testi di sei scrittori più o meno celebri (André Gide, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Richard Wright, Louis Fischer e Stephen Spender); nel 1967, in tre volumi, The origins of totalitarianism (1951) di Hannah Arendt. Responsabile della rivista e della casa editrice fu per anni Renzo Zorzi (1921-2010).
Alla Olivetti entravano anche persone provenienti da studi umanistici. Anzi, nel periodo d’oro l’azienda assumeva i laureati ‘a terne’: un tecnico, un amministrativo, un umanista. Non tutti gli umanisti erano ‘comunitari’, ma a molti di loro vennero affidati ruoli-chiave. Paolo Volponi (1924-1994), uno dei maggiori romanzieri italiani del secondo Novecento, divenne capo della Direzione del personale; ma lavorarono alla Olivetti anche lo scrittore Ottiero Ottieri (1924-2002) e i poeti Franco Fortini (1917-1994) e Giovanni Giudici (1924-2011). Il letterato Geno Pampaloni (1918-2001) fu segretario di Adriano. Nel laboratorio di psicologia diedero il loro contributo il celebre psicoanalista Cesare Musatti (1897-1989) e lo psicologo del lavoro Francesco Novara (1923-2009); furono a contatto con il lavoro in officina l'economista Franco Momigliano (1916-1988) e i noti sociologi Franco Ferrarotti (n. 1926) e Luciano Gallino (n. 1927).
Dal lato dell’articolazione politica vi era il Movimento di Comunità, che si radicò, com’è naturale, soprattutto nel Canavese, ma aprì sedi anche in altre parti d’Italia. I partiti di massa di allora (la Democrazia cristiana, il Partito comunista) non lo amavano; del resto, nemmeno la Confindustria amava Adriano, specie negli anni della presidenza di Angelo Costa, dal 1945 al 1955. Adriano, da parte sua, fu sempre ben attento a non confondersi e a non farsi confondere con le cosiddette terze forze, che giudicava laiciste ed elitarie. Le sue posizioni di fondo sulla guerra fredda erano in ogni caso chiare: lo dimostra tra l’altro il fatto che firmò, con Benedetto Croce e altre personalità ‘occidentaliste’, il Manifesto degli intellettuali scritto da Silone (dell’Associazione italiana per la libertà della cultura) e diffuso il 1° dicembre 1951.
Il Movimento di Comunità fu lo strumento che permise l’elezione di Adriano a sindaco di Ivrea, nel 1956. Tuttavia, alle elezioni politiche del 1958 il Movimento mancò l’obiettivo di entrare in Parlamento con numeri significativi, e tra i candidati della sua lista fu eletto il solo Adriano.
La densità, l’intensità e l’eccezionalità delle intraprese di Adriano nella seconda metà degli anni Cinquanta appaiono stupefacenti, anche considerando l’effervescenza presente in quel periodo in Italia e in Europa. La Olivetti aveva ormai consociate in tutti i continenti, ed entrò nel settore dell’arredo per ufficio affidando allo studio BBPR la linea Spazio (puntuale, nel 1962, il riconoscimento con il Compasso d’oro). Nel 1958 fu aperto a piazza San Marco a Venezia un negozio – progettato dal grande architetto veneziano Carlo Scarpa (1906-1978) – destinato a esporre le ‘eccellenze’ tra i diversi prodotti Olivetti (nel lessico odierno lo si chiamerebbe show-room).
Nel dicembre 1955 Adriano aveva annunciato (si vedano le pagine successive) l’ingresso della Olivetti nel settore dell’elettronica. In effetti, nel 1959 il primo elaboratore commerciale italiano, l’Elea 9003, venne presentato a Milano all’allora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
La quotazione della Olivetti in Borsa – avviata nel 1959 e completata nel 1960 – ebbe successo, anche perché accompagnata dalla notizia che l’azienda aveva comprato negli Stati Uniti la Underwood, la storica e un tempo più grande fabbrica al mondo di macchine per scrivere (tuttavia la parte industriale di questa società si rivelerà obsoleta e quindi passiva, e soltanto la rete commerciale risulterà apprezzabile, in particolare per la vendita negli Stati Uniti delle Divisumma 24).
Adriano era insomma fervido di progetti, inclusa la riproposizione di quello, comunicato sommessamente a pochi, della creazione di una Fondazione Camillo Olivetti; in sintesi, la proprietà azionaria della Olivetti avrebbe dovuto essere assegnata a quattro parti: al «Sapere», ossia al Politecnico di Torino; al «Potere comunitario», ossia alla città di Ivrea; al «Lavoro», ossia ai tecnici e agli operai; all’«Intrapresa capitalistica», ossia agli azionisti storici.
La morte di Adriano sopraggiunse, improvvisa, il 27 febbraio 1960. In quell’anno la Olivetti aveva 35.000 dipendenti, di cui la metà in Italia, undici fabbriche, di cui sei all’estero, diciotto consociate. Tra il 1948 e il 1960 la produzione era aumentata di dieci volte, le vendite sul mercato interno di sei volte e quelle all’estero di diciassette volte. Non calcolabile l’aumento dei primati e dei premi. Nel suo campo, la Olivetti era prima in Europa e seconda nel mondo, dietro soltanto a Big blue, la statunitense IBM (International Business Machines Corporation).
La carica di presidente venne assunta da Giuseppe Pero, quella di amministratore delegato da Arrigo Olivetti (cognato di Adriano, ma appartenente a un lontano ramo della famiglia) e quella di direttore generale tecnico da Capellaro. Pero scomparirà nel 1963 e la presidenza passerà all’ingegnere Carlo Lizier: una soluzione tutta interna che, come tutte quelle del periodo, non farà che spostare i problemi verso scadenze incombenti.
La Divisione elettronica (1960-1977)
Il 24 dicembre 1955 – nell’annuale discorso-bilancio di fine anno ai tecnici e agli operai di Ivrea – Adriano aveva così annunciato la scelta dell’elettronica:
Nel campo dell’elettronica, ove soltanto le più grandi fabbriche americane hanno da anni la precedenza, lavoriamo metodicamente da quattro anni dedicandoci a un ramo nuovo. Una nuova sezione di ricerca potrà sorgere nei prossimi anni per sviluppare gli aspetti scientifici dell’elettronica, poiché questa rapidamente condiziona nel bene e nel male l’ansia di progresso della civiltà di oggi (cit. in Città dell’uomo, 1959, rist. 2001, p. 106).
Vi erano stati comunque dei precedenti. Nel 1950 era stata avviata la commercializzazione di macchine a schede perforate per il trattamento dati, tramite una joint-venture con la francese Compagnie de machines Bull che aveva dato vita alla Olivetti Bull; alla sua testa era stato messo nel 1955 l’ingegnere Ottorino Beltrami (n. 1917), proveniente dalla marina militare. Sempre nel 1950 era stata fondata a New York la OCA (Olivetti Corporation of America), presidente Dino Olivetti (1912-1976), fratello di Adriano, il quale due anni dopo aveva aperto a New Canaan (Connecticut) un laboratorio di studi ed esperimenti.
Tuttavia l’impulso decisivo arrivò da Pisa, dove nell’agosto 1954 il premio Nobel Enrico Fermi (1901-1954) suggerì al rettore di quella università, l'agronomo Enrico Avanzi (1888-1974), di impiegare alcuni fondi residui nella costruzione di un elaboratore elettronico simile a quelli costruiti durante la guerra dalle grandi università statunitensi, ma di dimensioni più ridotte e per scopi civili (che per Fermi erano il calcolo scientifico nella ricerca). Adriano colse l’occasione, e nell’agosto 1955 venne firmata una convenzione tra la Olivetti e l’Università di Pisa.
In una villa medicea a Barbaricina presso Pisa, nel novembre di quell’anno iniziò a operare il Laboratorio di ricerche elettroniche (LRE). Vi furono assegnate alcune decine di giovani laureati e periti, alla cui testa Adriano pose l’ingegnere Mario Tchou (1924-1961); questi era figlio di un diplomatico cinese e aveva studiato a Roma e negli Stati Uniti. L’obiettivo era la costruzione di un elaboratore per applicazioni commerciali e tecnico-scientifiche. La guida dell’intera operazione venne affidata a Roberto Olivetti (1928-1985), figlio primogenito di Adriano, da poco laureatosi in economia all’Università Bocconi di Milano. Il carattere schivo di Roberto e la sua ritrosia a stare sul proscenio non devono ingannare circa la sua capacità di creare rapporti profondi con i collaboratori, la sua comprensione della natura e delle virtualità profonde del progetto, la sua determinazione a perseguirlo nonostante tutte le difficoltà esterne e interne.
È sintomatico, comunque, che un laboratorio dedito a un’avventura dai contenuti e dai risultati ancora da accertare fosse insediato lontano da Ivrea, dove tutti – dirigenti, ingegneri, ricercatori e maestranze – avevano conoscenze e mentalità da ‘meccanici’, peraltro confermate da una serie continua di successi internazionali. Tra i progettisti del Laboratorio fu inserito in qualità di designer l’architetto Ettore Sottsass Jr (1917-2007), laureato al Politecnico di Torino: era la prima volta al mondo che si applicava il design a quella parte dell’elettronica che allora si chiamava DP (Data Processing), che poi si sarebbe denominata ICT (Information Communication Technology) e che oggi conosciamo come informatica.
Nel lavoro del Laboratorio venne rispettata, e anzi portata all’estremo, la spinta ‘adrianea’ verso il successo e il profitto. Così ha scritto, a proposito di questa spinta, Gallino (2001):
La Olivetti di Adriano era un caso magistrale d’impresa orientata al mercato. La modernizzazione, l’incessante innovazione dei prodotti, erano in cima alle priorità […]. [La Olivetti] creava essa stessa il suo mercato con prodotti insolitamente avanzati, avendo capito per tempo in che direzione andava lo sviluppo industriale (pp. 11, 16).
Roberto ebbe un ruolo decisivo anche nella risposta alla necessità di creare un’azienda nazionale per la progettazione e costruzione di circuiti integrati e transistori per l’elettronica. Nel 1957, Olivetti e Telettra diedero vita alla SGS (Società Generale Semiconduttori), che tre anni dopo, quando vi entrò la statunitense Fairchild camera and instruments corporation, prese il nome di SGS-Fairchild. Per inciso, la fecondità di quella intrapresa fu dimostrata a posteriori da almeno due vicende: quella delle trasformazioni successive della SGS, che la portarono a diventare l’embrione dell’odierna multinazionale STMicroelectronics; e quella personale del fisico Federico Faggin (n. 1941). Questi nel 1960 iniziò a lavorare nella fabbrica SGS-Fairchild di Borgo Lombardo (si veda oltre) e nel 1967 si trasferì in quella di Agrate Brianza; passò quindi alla Fairchild semiconductors (California) e poi alla Intel corporation – nei cui laboratori inventò nel 1971 l’Intel 4004 CPU (Central Processing Unit), primo microprocessore (o chip) integrato al mondo, capostipite di quella famiglia 8086 che sarà fondamentale nello sviluppo dei personal computer (PC) –, e infine fondò, nel 1974, una sua azienda, la ZILOG (Z Integrated LOGic), per la quale creò la linea di microprocessori Z80.
Nel Laboratorio di Barbaricina, il primo modello sperimentale di elaboratore elettronico (la CEP – Calcolatrice Elettronica Pisana –, poi Macchina zero), creato nel 1957, venne migliorato l’anno successivo da Tchou e dai suoi giovani collaboratori (tra i quali vanno ricordati almeno Franco Filippazzi e Giorgio Sacerdoti) grazie a un’autentica innovazione tecnologica: la sostituzione delle valvole termoioniche con i transistor, recente scoperta nella radiofonia. Maggiore capacità e minore ingombro: venne così spianata la strada per la già citata nascita, nel 1959, dell’Elea 9003.
Le esigenze della produzione fecero trasferire il Laboratorio in due stabilimenti situati in provincia di Milano, prima quello di Borgo Lombardo e poi quello di Pregnana; Roberto ne aveva chiesto i progetti al celebre architetto franco-svizzero Le Corbusier, ma i disegni restarono nel cassetto. Si noti, in ogni caso, il costante mantenimento di una ‘distanza di sicurezza’ da Ivrea, dove l’incomprensione per questo progetto rimaneva silente, ma tenace. Tuttavia, nel 1962 venne formalizzata la Divisione elettronica, la cui direzione fu affidata a un giovane perito, Elserino Piol (n. 1931). Per il marketing e la commercializzazione furono assunti altri giovani; entrò anche Marisa Bellisario (1935-1988), neolaureata in economia e commercio a Torino, in seguito tra le prime donne dirigenti nella storia dell’industria italiana. Piol e Bellisario saranno entrambi destinati a incarichi di vertice.
Il primo esemplare di Elea 9003 venne noleggiato alla Marzotto di Valdagno e il secondo al Monte dei Paschi di Siena, mentre il terzo fu donato all’amministrazione pubblica italiana, il cui contributo politico e finanziario alla vicenda elettronica nazionale, peraltro, era stato e resterà nullo. La serie 9000 dell’Elea venne completata a partire dal 1961 dalla serie 6000 per il calcolo tecnico-scientifico. Nello stesso anno venne fondata la società Syntax, dedicata ai servizi meccanografici, che successivamente (1971) entrerà nel mercato del software e dei programmi applicativi.
Alla morte di Adriano seguì quella, anch’essa improvvisa, di Tchou, il 9 novembre 1961. Alla Olivetti stava intanto sopravvenendo una crisi, provocata dalla scarsità di capitale e aggravata da una crisi economica a livello nazionale (la ‘congiuntura’, nel lessico dell’epoca). La soluzione adottata dai vertici aziendali risentiva della scomparsa della funzione di guida e garanzia rappresentata da Adriano, ed era intrinsecamente debole, anche perché le azioni della famiglia erano sminuzzate tra sei rami e perché sul nome di Roberto l’accordo non fu trovato né allora né in seguito.
Nel 1964 subentrò così, sotto la regia di Bruno Visentini (1914-1995) – uomo politico che all’epoca era vicepresidente dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) –, un ‘gruppo di intervento’ formato da Fiat, Pirelli, IMI (Istituto Mobiliare Italiano), Mediobanca, Centrale; questo gruppo, in quanto ‘sindacato di controllo’, fornì i capitali di salvataggio e il nuovo amministratore delegato, nella persona del manager Aurelio Peccei (1908-1984), già alto dirigente della Fiat. E fu proprio da quella azienda, per bocca del suo presidente e amministratore delegato, Vittorio Valletta (1883-1967), che venne una dura sentenza sulla Olivetti e sulla sua recente iniziativa:
Sul suo futuro pende una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare (cit. in Soria 1979, p. 55).
Roberto cercò di parare il colpo e anzi di rovesciarlo, mediante missioni esplorative presso le maggiori aziende elettroniche d’Europa. Sottopose loro il progetto di una ‘Società elettronica europea’, ma ebbe solo risposte negative: i più forti governanti europei, De Gaulle in testa, avevano ben altre mire strategico-militari. Si rifletta sul fatto che in seguito non una delle aziende europee consultate da Roberto si salverà dall’offensiva dei PC statunitensi, concepiti in California e montati nei Paesi dell’Estremo Oriente.
La Divisione elettronica, nella quale erano confluite tutte le attività della Olivetti, incluse quelle presenti nella Olivetti Bull, fu venduta nel 1964 per il 75% alla statunitense GE (General Electric), una multinazionale che si occupava anche di grandi sistemi di elaborazione dati. Formalmente l’acquisto diede vita a una joint-venture – la OGE (Olivetti General Electric), sempre sotto la guida di Beltrami –, ma il controllo di questa azienda era saldamente nelle mani della GE, che nel 1968 acquisì il restante 25%.
La Olivetti era dunque interamente fuori dall’elettronica, non fosse per il fatto che dalla cessione di know-how e di personale si sottrasse subito, rifluendo a Ivrea, un piccolo gruppo di ricercatori, tra cui l’ingegnere Pier Giorgio Perotto (1930-2002), laureatosi al Politecnico di Torino.
Perotto proseguì le ricerche, indirizzandole verso la creazione di un elaboratore di dimensioni incomparabilmente più ridotte dell’Elea 9003, che potesse cioè stare su una scrivania – come una calcolatrice – ma che fosse elettronico e, soprattutto, programmabile: vale a dire un computer in cui all’immissione dei dati seguisse l’elaborazione, affidata al programma senza bisogno di altri interventi. Capellaro, quando gli fu presentata la macchina – che sarà chiamata Programma 101 (in sigla, P101) e che all’interno della Olivetti era soprannominata ‘la perottina’ – riconobbe pubblicamente che era finita l’era della meccanica nel calcolo.
Nel giro di un anno la P101 fu messa a punto, con l’importante contributo, secondo lo stile della casa, di un designer, in questo caso l’architetto Mario Bellini (n. 1935), laureatosi al Politecnico di Milano. Nell’ottobre 1965 a New York, alla mostra internazionale dell’associazione produttori di macchine per ufficio (BEMA, Business Equipment Manufacturers Association), la P101 – benché presentata in una saletta laterale – ebbe un immediato successo presso gli esperti e presso la stampa, anche quella non specializzata; quest’ultima coniò l’espressione desk top computer, a cui si sarebbe potuto legittimamente premettere l’aggettivo first. La P101, infatti, precedette di undici anni il primo PC della Apple e di sedici il primo della IBM. Il prezzo era elevato (3200 dollari dell’epoca), ma le vendite furono alte, 44.000 esemplari in cinque anni, quasi tutti negli Stati Uniti.
A Perotto nel 1967 fu affidata la neocostituita Direzione r&s (ricerca e sviluppo), che giunse a contare 2500 persone e che tra i suoi centri di ricerca includeva quello previdentemente aperto a Cupertino in California, cioè proprio nella zona che in seguito diventerà celebre come Silicon Valley. Alla P101 successe la P203 (1967). A questa seguirono: il microcomputer P652 per il calcolo tecnico-scientifico (1973) e i suoi successori P6040 e P6060 (entrambi del 1975); il terminale bancario TC800 (1974), che innovava una linea destinata a sviluppare altri modelli e a produrre importanti volumi di vendita; i sistemi contabili A5, A6, A7 e BCS3030 (1974-78); i word processing (sistemi di scrittura) Editor S14, TES501, TES401 (1974-78). Sino al culmine della ET101 (1978), la prima macchina per scrivere elettronica al mondo.
La Direzione r&s fu dissolta, come vedremo, dall’amministratore delegato subentrato nel 1978, l’ingegnere Carlo De Benedetti (n. 1934), e frazionata per gruppi all’interno delle varie divisioni di prodotto. Perotto fu posto alla guida della neonata consociata Elea per la formazione manageriale all’interno del gruppo Olivetti e nel mercato nazionale; uscirà dalla Olivetti nel 1997 e si dedicherà alla libera professione.
Anche Roberto se ne andò in quel 1978, anno di svolta, nel mese di marzo. Era stato nominato amministratore delegato nel 1967, subentrando, insieme a Bruno Jarach, a Peccei; ma alla nomina alla stessa carica nel 1971 di Beltrami era stato dato ben altro peso.
Come si può vedere da alcuni dati relativi a questo periodo, nonostante le traversie, i mancati successi, le incomprensioni e soprattutto il crescente indebitamento, vi furono anche picchi di espansione, nuovi prodotti e nuovi impianti industriali.
Nel 1963 i dipendenti erano oltre 54.000, di cui 26.000 in Italia; un terzo della produzione era assorbita dai mercati esteri, le consociate estere erano ventiquattro, gli impianti industriali diciotto, di cui nove all’estero (l’ultimo, ad Harrysburg negli Stati Uniti) e nove in Italia.
Fra il 1970 e il 1971 furono inaugurati l’impianto di Scarmagno, opera dell’architetto Marco Zanuso (1916-2001), quelli di Crema e di Marcianise, e uno a San Bernardo d’Ivrea (dell’architetto Eduardo Vittoria, 1923-2009) per la produzione di macchine utensili a governo elettronico (linee Horizon e Auctor, robot Sigma).
Nel 1971 fu raggiunto il massimo assoluto di dipendenti: 73.798, di cui 34.150 in Italia. Gli impianti erano saliti a ventuno, di cui undici all’estero e dieci in Italia. In quel periodo videro inoltre la luce, nel 1966, a Tokyo, la Olivetti corporation of Japan; nel 1969, a Milano, la consociata Olivetti Systed per la formazione, affidata a Marcello Ceccoli; nel 1977, a Ivrea, la OSAI (Olivetti Sistemi per l’Automazione Industriale).
Un’importante innovazione nelle fabbriche si ebbe nel 1973, quando furono introdotte le UMI (Unità di Montaggio Integrate), per cui si formarono gruppi autonomi di lavoro, ognuno responsabile di un’intera fase del processo produttivo.
Tra i prodotti del periodo, spiccava per il vivace colore rosso la macchina per scrivere portatile Valentine, disegnata da Sottsass insieme all’inglese Perry A. King. Era il 1969, e l’anno precedente Zorzi aveva organizzato una mostra dedicata agli affreschi salvati dall’alluvione di Firenze del 1966. Questa mostra segnò l’inizio di una lunga serie di iniziative culturali organizzate (si badi, non sponsorizzate) dalla Olivetti: soprattutto mostre d’arte, dalle scelte tematiche non scontate, che per un ventennio faranno il giro del mondo. Tra i collaboratori della Direzione relazioni culturali, disegno industriale e pubblicità – capeggiata da Zorzi – vi furono nomi nuovi: tra i designer, l’architetto Gae Aulenti (1927-2012), laureatasi al Politecnico di Milano; tra i grafici, Franco Bassi, Giovanni Ferioli e, dall’estero, lo svizzero Walter Ballmer, l’inglese Milton Glaser e il belga Jean-Michel Folon. Lo scrittore Giorgio Soavi (1923-2008) provvedeva alla scelta dei libri e delle agende ‘di prestigio’. Hans von Klier, tedesco, si aggiunse negli allestimenti a Egidio Bonfante (1922-2004), che li aveva curati per tanti anni. Il design delle macchine per l’automazione di fabbrica venne profondamente rinnovato da Rodolfo Bonetto (1929-1991), cui furono conferiti ben otto Compassi d’oro.
La Olivetti fu anche l’editrice della rivista «seleARTE», fondata e diretta da Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), che dal 1952 al 1965 ebbe un ruolo di rinnovamento nella critica d’arte, dell’architettura e di quelle che allora si chiamavano arti applicate, oltre che del design. Nomi e opere che tradussero nella cultura italiana la convinzione di Adriano del nesso necessario, nel lavoro comunitario, tra la bellezza, il design e l’architettura: per lui l’urbanistica era «estetica applicata alla vita sociale» (L’ordine…, cit., p. 49).
Mutazione e caduta (1978-1996)
Nell’aprile del 1978, nella Olivetti entrò un nuovo azionista, il già citato De Benedetti, laureatosi al Politecnico di Torino. Proveniva dall’azienda di famiglia e dalla Fiat, dov’era stato amministratore delegato per cento contrastati giorni, dall’aprile all’agosto 1976. Al termine di quell’anno aveva acquisito il controllo della CIR (Concerie Italiane Riunite) e – dopo aver ridenominato in Compagnie Industriali Riunite lo scioglimento della sua sigla – l’aveva trasformata in holding, anche mediante partecipazioni industriali diversificate.
Il capitale sociale della Olivetti era fermo ai 60 miliardi di lire del 1962; rilevantissimo, e di fatto insostenibile, lo squilibrio tra l’esposizione bancaria e gli aumenti di personale, di stabilimenti, di investimenti in prodotti (certo, anche di successi). L’indebitamento finanziario netto del gruppo aveva conosciuto un picco nell’anno della crisi economica nazionale, il 1963, ma era stato riassorbito abbastanza rapidamente; dopo il 1967 aveva ripreso a salire con progressione costante, sino a decuplicarsi nel 1978. Gli azionisti di discendenza o parentela Olivetti non erano in grado di contribuire alle necessarie ricapitalizzazioni.
De Benedetti, tramite la CIR, acquistò dalla famiglia Olivetti le azioni ‘inoptate’ (quelle emesse da una società in caso di aumento del capitale sociale, e su cui i vecchi azionisti hanno diritto di opzione); diventò così il primo azionista, con il 20% del capitale, e fu subito nominato vicepresidente. L’operazione venne seguita da Visentini. Insieme a Carlo, entrò alla Olivetti il fratello maggiore, Franco Debenedetti (n. 1933; aveva un cognome in parte diverso per un errore dell’Ufficio anagrafe), come lui laureatosi in ingegneria al Politecnico di Torino; anche alla Fiat era entrato insieme al fratello ed era stato nominato direttore del settore componenti.
Non appena, nell’ottobre 1978, venne nominato amministratore delegato della Olivetti, De Benedetti manifestò l’intenzione di agire a tutto campo, anche contro il ‘vecchio’ capitalismo familiare italiano, tramite un decisionismo sicuro di sé, puntando a obiettivi di comando e controllo, usando flessibilità tattica e dotandosi di una visione strategica sovranazionale.
Procedette per prima cosa a cercare capitali sul mercato, e si dimostrò convincente: il capitale salì a 100 miliardi entro la fine di quello stesso 1978, a 200 nel 1979, a 291 nel 1981, a 339 nel 1982. Con moto uguale e contrario, il personale venne fatto scendere dalle quasi 74.000 unità del 1971 alle 49.000 del 1982, di cui 26.000 in Italia: un ‘dimagrimento’ enorme, del tutto inedito nel Canavese, agli antipodi delle intenzioni dei ‘padri fondatori’, Camillo e Adriano. Furono dismessi anche molti beni immobili, tra cui il palazzo di via Clerici a Milano.
Al tempo stesso, venne impressa all’azienda una rapida sequenza di cambiamenti di struttura, di controlli contabili interni e sulla dirigenza, anche quella di prima linea: il più rilevante, come abbiamo accennato, fu il frazionamento della Divisione r&s. Ogni investimento e ogni sforzo andarono nella direzione che peraltro i tempi e la concorrenza imponevano, cioè l’ulteriore incremento dell’elettronica, che stava diventando informatica.
L’azienda (che bisognerà d’ora in poi chiamare gruppo) venne condotta da De Benedetti nel ‘mare aperto’, incontro alle necessità, alle velocizzazioni e ai modelli che i nuovi tempi esigevano e facevano nascere. Tra esse, la prevalenza, sulla scena mondiale, dell’economia finanziaria su quella industriale, le privatizzazioni imposte da una Comunità europea ormai convertita a quel ‘liberomercatismo’ che trionfava sia nelle teorie monetariste della Scuola di Chicago – capeggiata da Milton Friedman (1912-2006), premio Nobel per l’economia nel 1976 – sia nelle impositive pratiche politico-sociali dei governi britannico (Margaret Thatcher, dal 1979 al 1990) e statunitense (Ronald Reagan, dal 1981 al 1989).
Furono in questo modo stretti da De Benedetti diversi accordi con altre aziende, nei quali di volta in volta prevaleva o la componente di liquidità finanziaria – con cui irrobustire il capitale azionario e quindi le possibilità di manovra della Olivetti – o la componente degli scambi tecnologici. Al primo tipo di accordi apparteneva l’ingresso tra gli azionisti, nel 1980, della storica conglomerata francese St. Gobain, che però uscirà tre anni dopo in seguito alla sua nazionalizzazione, operata all’inizio del primo settennato (1981-1988) del presidente della Repubblica francese François Mitterrand. Nel secondo tipo di accordi rientrano l’acquisto nel 1981 della svizzera Hermes (macchine per scrivere) e della francese Logabax (informatica), e nel 1985 dell’inglese Acorn (computer, in particolare per attività educative), nonché vari altri accordi settoriali.
Tuttavia, l’avvenimento di maggiore rilevanza fu la progettazione e realizzazione del PC M20, nel marzo 1982. Con questo desk top computer la Olivetti giocava la sua carta nel mercato mondiale dei PC, che diventerà il settore di massimo sviluppo – sia come competitività sia come diffusione – per l’intero ultimo quarto del Novecento, dopo gli exploit della Altair engineering, della Apple e di altre società create, al di fuori del tradizionale capitalismo industriale, dall’inventività di giovani californiani ‘con le scarpe da tennis ai piedi’, come vuole una vulgata ormai diventata leggenda: Bill Gates, Steve Jobs, Steve Wozniack e così via. Queste aziende erano destinate a trionfi, di volta in volta, o tumultuosamente brevi o duraturi oltre ogni previsione.
Presentato nel marzo 1982, l’M20 era un frutto tutto olivettiano, e anzi tutto italiano (secondo alcuni, in assoluto l’ultimo prodotto industriale veramente nazionale). Il team progettuale era diretto dagli ingegneri Enrico Pesatori ed Enzo Torresi, il sistema operativo PCOS (Professional Computer Operating System) era stato realizzato da una squadra di programmatori diretta dall’ingegnere Alessandro Osnaghi, ed era quindi di proprietà dell’azienda. Il design si doveva a Sottsass, ad Antonio Macchi Cassia e all’inglese George Sowden (da anni in Italia e all’Olivetti). Il microprocessore montato era lo Z8001 a 16 bit, fornito dalla ZILOG, il cui fondatore e progettista era Faggin, che già conosciamo. L’M20 venne seguito nel 1983 dal computer portatile M10 (che peraltro era già segno di un differente approccio industriale, in quanto era un prodotto della giapponese Kyocera). L’M20 si collocava inoltre in un progetto più ampio, battezzato Linea 1, che sarà integrato dai sistemi M30 e M40, oltre che da altri modelli via via derivati direttamente dall’M20.
Nell’agosto 1981, però, era uscito il PC dell’IBM, la quale aveva fatto la decisiva scelta della ‘compatibilità’ con altri costruttori, tramite l’adozione di componenti non proprietarie, tra cui il microprocessore Intel 8088 e il sistema operativo della Microsoft. Il successo fu immediato; venne così sancito l’industry standard (non affrontiamo il tema, che qui non interessa, della successiva crisi che subirà l’IBM a causa sia dell’epidemia di ‘cloni’, provenienti soprattutto dall’Estremo Oriente, sia di altre motivazioni interne ed esterne, tra cui la supremazia della Apple nel segmento della rappresentazione grafica). A Ivrea fu perciò presa la decisione che il successivo PC corrispondesse al nuovo standard.
Il PC M24 (1983) fu progettato da Luigi Mercurio con Sandro Graciotti, e Sottsass ideò per esso un design molto innovativo. Venne dotato del microprocessore Intel 8086, più veloce dell’8088. La compatibilità ne assicurò lo sfondamento sul mercato; tuttavia con esso, e dopo di esso, la Olivetti non fu più innovatrice, fu soltanto follower.
Nell’immediato, come detto, il successo fu clamoroso e addirittura duplice. Per commercializzare negli Stati Uniti l’M24, infatti, nel 1984 la Olivetti strinse un accordo con la AT&T (American Telephone and Telegraph), allora la più grande compagnia telefonica al mondo, i cui Bell laboratories erano onusti di premi Nobel e di brevetti. Lo stabilimento di Scarmagno fu convertito alla produzione dei volumi richiesti. Nel 1985 la Olivetti era ormai diventata la terza azienda al mondo nel mercato dei PC (dopo la IBM e la Apple), e per di più era l’unica europea. Il nome di Olivetti risuonava ai più alti livelli della pubblicistica mondiale.
L’accordo con la AT&T fu poi rinsaldato anche su un altro piano, perché nello stesso 1984 questa società entrò nel capitale della Olivetti, che così toccò quota 487 miliardi (e nel 1989 la AT&T entrerà nel capitale della CIR, cedendo a questa le sue azioni Olivetti, per cui la CIR diverrà il maggiore azionista della Olivetti). Sempre nel 1984, ai dipendenti della Olivetti furono offerte azioni di risparmio.
Quegli anni per la Olivetti furono intensi. Sul fronte interno, quello proprio di un’azienda industriale, al rafforzamento delle vendite si accompagnarono nuovi prodotti, quali la linea di sistemi BCS (Business Computer System) per la gestione aziendale, e un importante avvenimento, l’ingresso nel mercato dei registratori di cassa: mercato esploso in conseguenza della legge sull’obbligatorietà dello scontrino fiscale, emanata nel 1985 da Visentini, ministro delle Finanze nel primo governo Craxi tra il 1983 e il 1987 (nel 1983 si era dimesso dalla presidenza della Olivetti ed era stato sostituito da De Benedetti). L’incidenza della Olivetti nel settore crebbe con l’acquisizione nel 1984 del 49% della multinazionale statunitense Sweda. Inoltre, le società di componentistica per l’informatica furono raggruppate l’anno successivo nella consociata Teknecomp, mentre la maggioranza delle Edizioni di Comunità fu acquisita dalla Arnoldo Mondadori editore di Milano. Nel 1985 i dipendenti della Olivetti risultavano ancora stabili di numero, a quota 48.000 (erano 49.000 nel 1982, dopo il ‘dimagrimento’ avvenuto nei primi anni della gestione De Benedetti), di cui 27.000 in Italia.
Sul fronte delle strategie globali del gruppo (e del gruppo CIR), De Benedetti sviluppò con decisione – e in maniera fortemente personalizzata – gli investimenti, che avvennero a tutto campo. Essi, certamente, erano favoriti dai più che buoni utili di fine anno, ma altrettanto certamente richiedevano masse monetarie rilevanti e liquide. De Benedetti assunse svariate iniziative che, pur confermandolo – per un ventennio e oltre – come uno dei protagonisti sulla scena economica nazionale e a volte internazionale, ebbero sorti alterne e contrastate.
Le sue iniziative per così dire extra moenia erano cominciate nel 1981, con il suo ingresso nel Banco Ambrosiano. I dissapori con Roberto Calvi (1920-1982), presidente di questa banca, poi morto tragicamente, causarono la sua immediata fuoriuscita; il successivo processo per bancarotta fraudolenta lo vide infine assolto. Nel 1985 cercò di acquisire la maggioranza della SME (Società Meridionale di Elettricità) – una finanziaria di società alimentari appartenente alla galassia dell’IRI, e quindi di proprietà pubblica –, ma contrasti ai vertici politici nazionali e l’opposizione del governo Craxi fecero fallire l’operazione. Breve e ugualmente negativo il passaggio nell’azienda alimentare Buitoni, che finirà poi assorbita dalla multinazionale svizzera Nestlè. Esito positivo ebbero invece alcuni investimenti nel settore della meccanica, come, sin dalla fine degli anni Settanta, le acquisizioni delle società SASIB (Società Anonima Scipione Innocenti Bologna; segnalamento ferroviario e macchinari per l’impacchettamento), Fiaam Filter (poi Sogefi) di Mantova (componenti per l’automotive) e altre ancora, tutte portate alla quotazione in Borsa. Collegato a queste operazioni era l’ingresso nella finanziaria francese Cerus, da cui l’acquisizione della società di componentistica per auto Valeo.
L’iniziativa di De Benedetti che destò maggiori echi nel mondo fu però il tentativo, nel 1988, di conquistare la SGB (Société Générale de Belgique), antica conglomerata che direttamente o indirettamente possedeva un terzo dell’economia del Belgio. Le contromanovre del mondo economico belga furono sostenute da quello francese, e la scalata fu rapidamente respinta. Ugualmente clamoroso, ma con conseguenze ben più prolungate nel tempo, fu l’ingresso nel 1987 nella Mondadori, che comprendeva anche il Gruppo editoriale la Repubblica-l’Espresso. Il gruppo Fininvest (Finanziaria Investimenti), guidato da Silvio Berlusconi (n. 1936) scatenò prima un’offensiva mediatica e in seguito una controversia giudiziaria che, attraverso accordi, spartizioni, sentenze e condanne, è stata formalmente chiusa soltanto il 17 settembre 2013, quando la Corte di cassazione ha definitivamente sancito la colpevolezza della Mondadori-Fininvest e l’entità della cifra da versare come rimborso alla CIR di De Benedetti.
La presenza della Olivetti sul mercato europeo era stata nel frattempo rafforzata dall’ingresso (1986) nella Volkswagen, e in seguito dall’acquisizione della Triumph Adler, storica società di macchine per scrivere. A questo punto, con un capitale cresciuto a 554 miliardi, la Olivetti era la prima in Europa nelle macchine per ufficio e per il trattamento di informazioni, posizione ribadita dalla creazione, nel 1987, di una joint-venture con Canon industriale per la produzione ad Agliè di fotocopiatrici. Tuttavia, il mercato dell’informatica, e in special modo il segmento dei PC, si muoveva in maniera tumultuosa, i mercati erano incendiati da una concorrenza impetuosa e dal connesso crollo dei prezzi (che per una grande industria si trasforma presto in crollo dei margini di guadagno). I conti economici cominciavano a essere preoccupanti. Così De Benedetti decise nel 1988 una radicale ristrutturazione del gruppo.
Ne affidò l’attuazione a Vittorio Cassoni (1943-1992), ingegnere laureatosi al Politecnico di Milano, che aveva lavorato in precedenza alla IBM. Cassoni venne richiamato dalla AT&T, dove assicurava il collegamento con la Olivetti, e fu nominato amministratore delegato a fianco di De Benedetti (che mantenne la presidenza) e di suo fratello Franco. Vittorio Levi divenne direttore generale operativo, e Piol direttore generale per le strategie. Il gruppo fu suddiviso in una capogruppo (holding) e in società o unità aziendali a ciclo completo, ognuna interamente dedicata a specifiche fasce di prodotto, con propri centri di ricerca: Olivetti Office (affidata a Franco Tatò), Olivetti Systems&networks (Luigi Mercurio, in seguito Piol), Olivetti Information services (per il software e i servizi; Franco Debenedetti). A completamento, ma anch’esso separato, il Gruppo attività tecnologiche (Ettore Morezzi). L’unità profonda della Olivetti veniva così spezzata. Le sovrapposizioni e le ‘scaramucce di confine’ si moltiplicarono, e a poco servirono le innovazioni, come la realizzazione nel 1990 della stampante Jp350 a tecnologia proprietaria bubble ink-jet, o il lancio, qualche anno prima, della Olivetti Open systems architecture come proposta non proprietaria sul mercato internazionale.
L’anno in cui la crisi da strisciante si fece conclamata è il 1991. Per la prima volta dal 1975 il bilancio passò in rosso. Il personale, che dai 48.000 del 1985 era risalito a 56.000 dipendenti (di cui 28.000 in Italia), subì un’enorme amputazione, concordata con i sindacati e, per l’Italia, con il governo: in soli tre anni, tra il 1991 e il 1993, i licenziati furono 21.000, di cui 10.000 in Italia. Le quattro ‘aziende’ della ristrutturazione del 1988 vennero ricondotte a unità, nella forma di tre direzioni centrali. Cassoni, morto prematuramente nel 1992, fu sostituito nella carica di amministratore delegato da Corrado Passera (n. 1954), laureatosi all’Università Bocconi. La fabbrica di Crema venne chiusa, quella di Pozzuoli convertita in centro di servizi d’impresa; venne inoltre venduta Villa Natalia a Firenze, signorile sede del CISV. La OCN era stata chiusa già nel 1988. Le dismissioni (per inciso, anche sul fronte propriamente CIR) si susseguirono a cascata. Nel 1993 i dipendenti scesero a 35.000, di cui 18.000 in Italia.
Nonostante queste difficoltà, De Benedetti raccolse un suggerimento avanzato già alla fine degli anni Ottanta da Piol, ottimo conoscitore dall’interno delle dinamiche e delle personalità statunitensi nel mutante mare della information technology: tra il 1990 e il 1994 la Olivetti fece così il suo ingresso nella telefonia mobile. Un mainstream destinato a ingrandirsi con progressione esponenziale (anch’esso, naturalmente, con i suoi fallimenti e trionfi globali). L’Europa aveva decretato la fine dei monopoli nazionali delle telecomunicazioni e la loro privatizzazione – entro il protocollo GSM (Groupe Spécial Mobile, poi Global System for Mobile communications) – mediante gare di consorzi partecipati da società tecnologiche, istituti bancari e società assicurative. Rammentiamo infine che il 1990 era stato l’anno in cui lo scienziato inglese Tim Berners Lee (n. 1955) aveva concretizzato nello statunitense MIT (Massachusetts Institute of Technology) il sottoinsieme della rete Internet che aveva chiamato WWW (World Web Wide).
La Olivetti fondò il 19 giugno 1990, insieme a Lehman brothers e a Bell Atlantic, la Omnitel pronto Italia, che il 28 marzo 1994 vinse la gara per l’assegnazione della licenza di secondo gestore nella telefonia mobile GSM. Il decreto venne firmato in limine dal dimissionario governo Ciampi (dal 1983 al 1994). Alla guida della nuova società fu posto Francesco Caio, ingegnere. In parallelo, l’anno dopo, venne costituita – con un terzo del capitale fornito da Bell Atlantic – la Infostrada, attiva nella telefonia su rete fissa.
Sennonché, della telefonia mobile non si colsero le potenzialità di sviluppo tecnologico e, in fin dei conti, di crescita dei rapporti fra persone e quindi, al limite, di crescita dell’intera società. Si colse solo l’aspetto di ritorno finanziario. Il rilevante, rapido successo della Omnitel in termini di fatturato e utili indurrà la Olivetti, come si vedrà, a vendere a mano a mano quote del capitale, sino al dimezzamento nel 1997 e al realizzo nel 1999.
In ogni caso, i conti economici non si erano raddrizzati. I dipendenti erano ulteriormente scesi a 28.000, di cui 13.000 in Italia, e l’indebitamento era cresciuto in maniera inversa al fatturato, quando, nel settembre 1996, De Benedetti lasciò la Olivetti. Se alla presidenza fu nominato Antonio Tesone, il nuovo amministratore delegato era l’uomo indicato da De Benedetti per la successione: Roberto Colaninno (n. 1943), già a capo dalla Sogefi-CIR.
Metamorfosi e fine (1996-2003)
L’‘olivetticidio’ era così compiuto. Le successive scelte dei massimi dirigenti della Olivetti – dal 1996 al 2001 Colaninno e dal 2001 al 2003 Marco Tronchetti Provera (n. 1948) – non rappresentarono altro che l’accelerazione e la presa d’atto formale di quelle prese già da alcuni anni. Vennero cedute le attività nei computer e nei sistemi, si attuarono diminuzioni e smembramenti, spesso scanditi da vicende giudiziarie.
‘Olivetticidio’ è stato definito quel processo per cui questa azienda – peraltro la prima a realizzare un PC, ad affermarsi nell’informatica distribuita e persino a conquistare un’ottima posizione nel panorama europeo della nuova information technology – venne fatta diventare «una società la cui mission si trasforma in una serie di mission subalterne a mission allogene, allotrie, patogene» (Renzi 2008, p. 144).
La ristrutturazione divenne dal 1999 un’autentica trasformazione societaria. Per acquisire il controllo di Telecom Italia, la Olivetti lanciò, tramite la consociata Olivetti Tecnost, una OPAS (Offerta Pubblica di Acquisto e Scambio) del valore di 61.000 miliardi di lire. L’operazione, in assoluto tra le più rilevanti della storia economica nazionale, si avvalse anche di investitori privati bresciani e mantovani, che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, in un discorso del 19 febbraio 1999 definì «capitani coraggiosi». La Omnitel fu ceduta alla tedesca Mannesmann, e dopo altre manovre di Borsa divenne Vodafone Italia, di proprietà dell’inglese Vodafone group, oggi il primo gruppo di telefonia mobile e affini al mondo.
Nel luglio 2001 la Pirelli, attraverso una società di apposito conio, Olimpia, entrò nella Telecom. Il suo presidente era allora Tronchetti Provera che, assunti dal 2001 la guida e il controllo della Olivetti, per ‘accorciare la catena di comando’ fece approvare un progetto di fusione per incorporazione di Telecom Italia in Olivetti. Il 12 marzo 2003 il delisting: il nome della Olivetti venne cancellato dal listino della Borsa italiana.
Operativa, sia pure entro il gruppo Telecom, rimase Olivetti Tecnost, che nel 2005 riprese il marchio Olivetti e, sotto la guida di Patrizia Grieco, produsse fax e stampanti. Nella seconda metà del 2012 uscì però dal mercato ink-jet chiudendo lo stabilimento di Arnad (Valle d’Aosta) per concentrarsi – con il nuovo amministratore delegato Cinzia Sternini – sull’evoluzione dell’offerta rappresentata dal settore ICT (tablet, soluzioni cloud).
Questa la città di Ivrea all’inizio del nuovo secolo: «Vasti spazi deserti, negli stabilimenti e nei palazzi […] tombe vuote di un lavoro scomparso» (F. Novara, The day after, in Uomini e lavoro alla Olivetti, 2005, p. 8); ma la Fondazione Adriano Olivetti è riuscita nel maggio 2012 a farla inserire nella tentative list dell’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) – cioè nell’elenco dei siti che questa organizzazione potrebbe dichiarare ‘patrimonio dell’umanità’ –, e questo in forza del fatto che Ivrea rappresenta un modello di città industriale alternativo a quello affermatosi nel corso dell’Otto-Novecento, soprattutto grazie alle architetture del lavoro, dell’abitare e dei servizi volute da Adriano. E nel frattempo, un gruppetto di giovani ricercatori di Ivrea, con a capo Massimo Banzi, ha messo a punto e a disposizione degli sviluppatori di applicazioni, nel 2005, una framework open source (scheda per la scrittura e l’interazione di programmi) di grande successo, specie tra i giovani. Particolarmente semplice e liberamente scaricabile, si chiama Arduino, come il mitico marchese di Ivrea e primo re d’Italia.
Opere
Presso l’associazione Archivio storico Olivetti di Ivrea (www.arcoliv.org) sono conservati tra l’altro: gli archivi della società Ingegnere Camillo Olivetti & c.; materiali relativi alle successive attività del gruppo; documenti relativi
alle più importanti personalità della famiglia Olivetti. Altri documenti relativi alla famiglia Olivetti sono raccolti presso la Fondazione Adriano Olivetti di Roma (www.fondazioneadrianoolivetti.it).
La ristampa delle opere di Adriano Olivetti è in corso dal 2012 presso le Edizioni di Comunità. I primi titoli usciti sono i seguenti:
Ai lavoratori. Discorsi agli operai di Pozzuoli e Ivrea, Roma 2012.
Democrazia senza partiti. Fini e fine della politica, Roma 2013.
Il cammino della Comunità, Roma 2013.
Il mondo che nasce. Dieci scritti per la cultura, la politica, la società, a cura di A. Saibene, Roma 2013.
Fra le edizioni precedenti delle opere di Adriano Olivetti, si vedano:
L’ordine politico delle Comunità. Le garanzie di libertà in uno Stato socialista, Samedan (Svizzera) 1945, Milano 19462, Milano 19703 (con il sottotitolo mutato in Dello Stato secondo le leggi dello spirito).
Appunti per la storia di una fabbrica, «Il ponte», 1949, 8-9, pp. 1045-51, poi in Olivetti 1908-1958, a cura di R. Musatti, L. Bigiaretti, G. Soavi, Ivrea 1958, pp. 9-18.
Città dell’uomo, Milano 1959.
Stato federale delle Comunità. La riforma politica e sociale negli scritti inediti, 1942-1945, ed. critica a cura di D. Cadeddu, Milano 2004.
Civitas hominum. Scritti di urbanistica e di industria 1933-1943, a cura di G. Lupo, Torino 2008.
Si vedano inoltre:
C. Olivetti, Lettere americane, a cura di R. Zorzi, Milano 1968.
R. Olivetti, Introduzione a Verso una società della informazione: il caso giapponese, Milano 1974 (trad. it. di Japan computer usage development institute, The plan for information society: a national goal towards the year 2000, Tokyo 1972), pp. 9-28.
Bibliografia
B. Caizzi, Camillo e Adriano Olivetti, Torino 1962.
L. Soria, Informatica: un’occasione perduta. La Divisione elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centrosinistra, Torino 1979 (in partic., per quanto riguarda il ruolo di Roberto Olivetti, pp. 45-95).
Design process Olivetti 1908-1983, a cura di R. Zorzi, Ivrea 1983.
V. Ochetto, Adriano Olivetti, Milano 1985.
P.G. Perotto, Programma 101. L’invenzione del personal computer: una storia appassionante mai raccontata, Milano 1995.
A.D. Chandler Jr, Inventing the electronic century: the epic story of the consumer electronics and computer industries, New York 2001 (trad. it. La rivoluzione elettronica. I protagonisti della storia dell’elettronica e dell’informatica, Milano 2003, in partic. pp. 220-22).
F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee. Una testimonianza su Adriano Olivetti, a cura di G. Gemelli, Torino 2001.
L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, a cura di P. Ceri, Torino 2001.
L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino 2003, in partic. pp. 15-27.
E. Piol, Il sogno di un’impresa. Dall’Olivetti al venture capital: una vita nell’information technology, Milano 2004.
G. Gemelli, F. Squazzoni, Informatica ed elettronica negli anni Sessanta. Il ruolo di Roberto Olivetti attraverso l’Archivio storico della società Olivetti, in Politiche scientifiche e strategie d’impresa. Le culture olivettiane ed i loro contesti, a cura di G. Gemelli, Roma 2005, pp. 257-308.
Uomini e lavoro alla Olivetti, a cura di F. Novara, R. Rozzi, R. Garruccio, Milano 2005.
P. Bricco, Dalla crisi della grande impresa all’imprenditorialità diffusa: la Olivetti e l’Eporediese, in La questione settentrionale: economia e società in trasformazione, a cura di G. Berta, Milano 2008, pp. 323-78.
B. de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Roma 2008.
E. Renzi, Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, Napoli 2008.
Olivetti: una bella società, a cura di M. De Giorgi, E. Morteo, catalogo della mostra, Società promotrice delle belle arti, Torino 2008.
D. Cadeddu, Adriano Olivetti politico, Roma 2009.
S. Ristuccia, Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di Adriano Olivetti, politico e teorico della politica, Venezia 2009.
M. Fasano, «In me non c’è che futuro»: ritratto di Adriano Olivetti, con 2 dvd, Bologna 2011.
Si veda inoltre:
B. Curli, Bellisario Marisa (Maria Isabella), in Dizionario biografico degli Italiani, edizione on-line, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2013, http://www.treccani.it/ enciclopedia/marisa-bellisario_(Dizionario-Biografico)/.