L'azione per il risarcimento del danno ambientale
La Corte costituzionale ha giudicato legittimo il sistema introdotto dal codice dell’ambiente che attribuisce soltanto allo Stato il diritto di agire in giudizio per la tutela del danno ambientale; nel farlo, ha riscritto la nozione stessa di danno all’ambiente, limitandola al solo recupero delle spese sostenute per il ripristino del sito inquinato. Resta fuori dalla nuova definizione di danno all’ambiente la funzione di tutela degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio in cui vive una comunità che la precedente giurisprudenza della Corte riteneva rientrasse in tale tipo di danno.
Con la sentenza 1° giugno 2016, n. 126 la Corte costituzionale è tornata sulla questione della legittimazione attiva all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale e, nel giudicare della legittimità costituzionale del sistema di legittimazione accentrata introdotto dal d.lgs. 3.4.2006, n. 152, ha chiuso definitivamente la porta lasciata aperta dalla precedente sentenza 23.7.2009, n. 235.
Giunge, pertanto, a soluzione una questione interpretativa tormentata, determinata dall’art. 311 del codice dell’ambiente, che ha disposto che «il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l’azione civile nel processo penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale ... », e dall’art. 318, co. 2, che ha abrogato il previgente art. 18, co. 3, l. 8.7.1986 n. 349, che disciplinava precedentemente la materia e stabiliva che «l’azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo».
Nel passaggio dal vecchio art. 18 al nuovo art. 311 era venuta meno la legittimazione degli enti territoriali all’azione di danno. Il legislatore delegato aveva, infatti, mantenuto la legittimazione delle associazioni ambientaliste ad intervenire nei giudizi per tale tipo di danno, prevista dall’art. 18, co. 5, della l. n. 349/1986, ma aveva abrogato il co. 3 dello stesso articolo che consentiva, invece, agli enti territoriali di agire per il risarcimento del danno ambientale verificatosi sul territorio di competenza.
La questione era stata immediatamente portata all’attenzione della Corte costituzionale dalla Regione Calabria, che aveva impugnato la norma dell’art. 311 del codice dell’ambiente per violazione degli artt. 24, e 118 Cost. Nella sentenza 23.7.2009, n. 235 la Corte costituzionale aveva dichiarato la questione non fondata per quanto attiene all’art. 118, rilevando che questa norma regola il riparto della funzione amministrativa tra i diversi livelli di governo, e che l’art. 311 non attiene all’esercizio della funzione amministrativa, ma a quella giurisdizionale; mentre sull’art. 24 aveva dichiarato la questione inammissibile in un giudizio sul riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni, in quanto parametro costituzionale diverso da quelli ricavabili dal titolo V della Costituzione.
La questione della compatibilità con l’art. 24 Cost. di un sistema di tutela accentrata di un bene diffuso, insuscettibile di appropriazione, quale l’ambiente, era quindi rimasta irrisolta, anche se in motivazione la Corte aveva lasciato lo spazio per una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 311 scrivendo che «quanto alla legittimazione delle Regioni e degli enti locali a proporre l’azione risarcitoria per danno ambientale, va osservato che la disposizione impugnata, nel regolare in termini di alternatività il rapporto tra i due strumenti (amministrativo e giurisdizionale) con i quali l’amministrazione statale può reagire al danno ambientale, non riconosce tale legittimazione, ma neppure la esclude in modo esplicito».
Questa porta, lasciata aperta dalla sentenza n. 235/2009, è stata chiusa dalla decisione n. 126/2016, che ha detto una parola definitiva sulla compatibilità con la Costituzione dell’art. 311, escludendo che possa essere recuperata in qualche modo in via interpretativa la possibilità per gli enti territoriali di agire per il risarcimento del danno ambientale.
La nuova questione di costituzionalità dell’art. 311 d.lgs. n. 152/2006 era stata posta dal Tribunale di Lanusei in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale; la vicenda presentava aspetti particolari in fatto destinati ad avere una loro importanza nella decisione che emetterà la Corte.
Si trattava, infatti, di un processo penale per art. 437 c.p. a carico dei comandanti di un poligono militare dell’Esercito; lo Stato non si era costituito parte civile per chiedere il risarcimento del danno ambientale, ed aveva chiesto di poterlo fare, invece, la Regione Sardegna. Nella ordinanza con cui sollevava la questione di costituzionalità il giudice a quo evidenziava che, poiché gli imputati erano dipendenti statali accusati di aver commesso il reato nell’esercizio del servizio, lo Stato, qualora avesse esercitato l’azione per il risarcimento del danno ambientale, avrebbe finito per cumulare il ruolo di parte civile e di responsabile civile, e quindi avrebbe finito per chiedere i danni a se stesso.
Il giudice a quo concludeva che la legittimazione ad agire in capo ad un solo soggetto non è in grado di garantire un sufficiente livello di tutela della collettività, e sollevava la questione ai sensi dell’art. 24 Cost. (perché, se l’ambiente è un bene diffuso, ma il diritto di azione è attribuito soltanto ad un soggetto, la norma dell’art. 311 impedisce agli altri soggetti portatori di interessi di agire in giudizio a tutela degli stessi) ed ai sensi dell’art. 3 Cost. (perché il territorio è elemento costitutivo non solo dello Stato, ma anche della Regione e degli Enti locali, con conseguente irragionevolezza, per disparità di trattamento di situazioni simili, nel consentire ad un solo titolare di agire in giudizio).
Con la sentenza n. 126/2016 la Corte costituzionale dichiara la questione non fondata, e riafferma la conformità a Costituzione del sistema del risarcimento del danno ambientale risultante dal d.lgs. n. 152/2006, di cui dà anche una lettura innovativa, destinata ad incidere moltissimo sull’elaborazione giuridica degli anni a venire.
In particolare, la Corte sostiene:
• che l’ambiente è un bene immateriale unitario, sebbene a varie componenti;
• che il riconoscimento dell’esistenza di un «bene immateriale unitario» è funzionale all’affermazione della esigenza della uniformità della tutela, uniformità che solo lo Stato può garantire;
• che la materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema», all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., è una competenza esclusiva dello Stato;
• che la prima disciplina organica della materia, contenuta nella l. n. 349/1986, che prevedeva la titolarità dell’ambiente in capo ad una pluralità di profili soggettivi, era coerente con la scelta di una responsabilità di tipo extracontrattuale;
• che il quadro normativo è profondamente cambiato con la dir. 21.4.2004, n. 2004/35/CE sulla responsabilità per danno ambientale, che ammette il risarcimento per equivalente solo come extrema ratio quando non è possibile il ripristino;
• che nel quadro della direttiva la fase risarcitoria costituisce il naturale completamento della fase amministrativa, in quanto garantisce alla istituzione su cui incombe la responsabilità del risanamento la disponibilità delle risorse necessarie;
• che la incoerenza di un sistema in cui anche gli enti territoriali possono azionare la richiesta di risarcimento emerge con ancora più evidenza nel caso in esame di contaminazione avvenuta in un poligono militare, in cui è impensabile che il ripristino possa avvenire ad opera di soggetti diversi dallo Stato;
• che la disciplina monistica non espone al rischio di una inazione statuale, perché l’art. 309 del codice dell’ambiente consente agli enti territoriali di chiedere l’intervento statale a tutela, e tale interesse è suscettibile di tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo attraverso le azioni previste dal successivo art. 310.
Il percorso logicoargomentativo della Corte costituzionale ha una sua indubbia coerenza interna, ma costituisce una netta rottura con le conclusioni cui erano giunte in passato l’elaborazione giuridica, e la stessa Corte costituzionale, in punto di danno ambientale.
La sentenza n. 126, infatti, si regge sul postulato che il danno ambientale consista soltanto nelle spese necessarie per il ripristino della matrice ambientale compromessa. Quando la Corte scrive, infatti, che nel caso oggetto del giudizio a quo, il ripristino del sito (un poligono militare) non può che essere svolto dallo Stato, per cui non avrebbe senso che possa chiedere il risarcimento del danno ambientale un soggetto diverso da esso, essa riduce il danno ambientale alle sole spese necessarie per la bonifica del sito inquinato1.
Ma nella precedente giurisprudenza della Corte il danno ambientale non consisteva soltanto delle spese per la bonifica del sito inquinato, ma conteneva al suo interno anche altre voci che consentivano di monetizzare la incidenza che una risorsa ambientale inquinata può avere sulla qualità della vita delle persone che vivono sul territorio.
Nella sentenza 30.12.1987, n. 641 la Corte costituzionale aveva, infatti, affermato che la responsabilità civile per danni ambientali, oltre alla reintegrazione del patrimonio del soggetto danneggiato, poteva assolvere anche compiti preventivi e sanzionatori; che il danno consisteva nella rilevanza economica che la compromissione del bene riveste e che si riflette sulla collettività; che il danno risarcibile è indipendente dal costo della rimessione in pristino e dalla diminuzione delle risorse finanziarie dell’ente tenuto al ripristino e non sorge soltanto a seguito della perdita finanziaria nel bilancio dell’ente pubblico; ed aggiungeva da ultimo che «la legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti minori non trova fondamento nel fatto che essi hanno affrontato spese per riparare il danno o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica ma nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo».
Se nella sentenza n. 126/2016 si afferma, invece, che il danno ambientale consiste soltanto nelle spese che lo Stato ha affrontato per riparare il danno, quella funzione di tutela degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio in cui vive una comunità, che il danno ambientale un tempo assolveva, adesso viene meno del tutto.
La sentenza comporta, pertanto, un sensibile abbassamento della tutela ed obbliga a riscrivere la nozione di danno ambientale riducendo moltissimo l’importanza e l’originalità, anche teorica, dell’istituto.
Ed anzi, a ben vedere, sopprimendolo del tutto, perché, nel momento in cui si riduce il danno ambientale alle sole spese per la bonifica del sito inquinato, non serve neanche più invocare il danno all’ambiente per sostenere l’azione risarcitoria, ma è sufficiente il ricorso ai normali principi della responsabilità patrimoniale ex art. 2043 c.c.
È dubbio che si trattasse di un approdo costituzionalmente obbligato. La sentenza n. 126 motiva la svolta interpretativa con la direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità per danno ambientale, entrata in vigore medio tempore.
Ma la direttiva, attuando la responsabilità oggettiva per danno ambientale in tutta l’UE2 ed imponendo il ripristino in forma specifica della risorsa ambientale contaminata, ha soltanto l’effetto di rendere incompatibili con il diritto dell’Unione le norme interne che consentivano di mantenere sul territorio il sito inquinato e si accontentavano della monetizzazione del danno ambientale attraverso la riparazione per equivalente.
La direttiva, però, non rende incompatibili con il diritto dell’Unione eventuali azioni a tutela del diritto all’ambiente salubre di soggetti diversi dalle autorità onerate del ripristino, anzi la norma europea prevede all’art. 3, co. 3, che la direttiva non conferisce ai privati un diritto di essere indennizzati in seguito ad un danno ambientale, ma aggiunge «ferma restando la pertinente legislazione nazionale». E la possibilità di un’azione di un soggetto diverso dall’autorità competente ad effettuare il ripristino è riconosciuta dall’art. 16, co. 2, in cui si lascia liberi gli Stati di decidere se prevedere il divieto di doppio recupero dei costi, che si potrebbe verificare per effetto di un’azione concorrente da parte dell’autorità competente a norma della direttiva e di una persona la cui proprietà abbia subito un danno ambientale.
In definitiva, il sistema della responsabilità per danno ambientale previsto dalla direttiva è ricostruito con coerenza dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 126, ma questo sistema non era incompatibile con standard di tutela ulteriori attraverso cui far rientrare nel danno ambientale anche quella funzione di tutela degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio in cui vive una comunità, già affermata dalla Corte nella pronuncia n. 641/1987. È d’altronde la stessa direttiva che specifica, nel considerando 29 e nell’art. 16, co. 1, che essa non preclude agli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, che l’ordinamento interno in effetti aveva elaborato3.
Sarà allora inevitabile che quella funzione di tutela degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio in cui vive una comunità, espunta dal danno ambientale, ricompaia in altri istituti giuridici.
Che sembra, peraltro, ciò che è già accaduto in questi primi anni di vigenza del sistema di tutela accentrata dell’azione di danno. Come sottolinea, infatti, anche la sentenza n. 126, l’esistenza di una normativa specifica sul danno all’ambiente ad azionabilità accentrata non preclude, comunque, agli enti territoriali, ed anche ai privati, di agire iure proprio per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, ma dei danni specifici, ulteriori e diversi, rispetto a quello generico di natura pubblica. Ed in effetti è lo stesso codice dell’ambiente che all’art. 313, co. 7, secondo periodo, prevede che «resta fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi».
Questa ulteriore azione di danni alla salute o alla proprietà, quindi fondata su titoli diversi dal danno ambientale, basata sulla norma generale dell’art. 2043 c.c. (di cui la previsione dell’art. 313, co. 7, costituisce soltanto ricognizione), potrebbe essere idonea a contenere anche quelle utilità facenti parte del danno ambientale ed azionate un tempo dagli enti territoriali rappresentativi della collettività che vive nel territorio in cui insiste la risorsa ambientale inquinata. Si ritiene, infatti, che i soggetti diversi dallo Stato possano agire anche per il risarcimento del danno non patrimoniale4, ed, all’interno di questo danno non patrimoniale, in giurisprudenza è stato riconosciuto all’ente territoriale il diritto di chiedere il risarcimento del danno all’immagine cagionato dall’inquinamento della risorsa ambientale5, il diritto di chiedere il risarcimento per il danno derivante dal degrado del territorio6 o per il danno all’assetto qualificato del territorio7.
Il danno al degrado del territorio non è molto distante da quella funzione di tutela degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio in cui vive una comunità che il danno ambientale un tempo era idoneo a contenere, e può sembrare per certi versi un modo nuovo con cui potrebbe essere chiamata la stessa cosa.
Note
1 Nella Relazione della Commissione al Consiglio ed al Parlamento europeo a norma dell’art. 18 della dir. 2004/35/CE, Bruxelles 14.4.2016, COM(2016) 204, si riferisce che gli Stati hanno segnalato 1245 casi di siti contaminati, di cui 17 in Italia; circa il 50% dei casi riguardano danni al terreno, i danni all’acqua rappresentano il 30% e quelli alla biodiversità circa il 20%. Da ricordare che la direttiva non dispone alcunché in punto di matrice ambientale “aria”.
2 Relazione della Commissione COM(2016) 204 cit.
3 Sempre nella Relazione della Commissione COM(2016) 204 cit. si riferisce che sono state segnalate 132 richieste di intervento avviate direttamente da persone colpite da danno ambientale o da ONG attive in campo ambientale, delle quali, però, 93 nella sola Italia, ad ulteriore testimonianza di quanto fosse diverso, e per certi versi più avanzato, in punto di legittimazione attiva, il sistema di tutela del danno ambientale dell’ordinamento interno.
4 Cass. pen., sez. III, 9.7.2014, n. 24677. Sul punto v. anche Bolognini, S., La natura (anche) non patrimoniale del danno ambientale e il problema della legittimazione attiva, in Resp. civ. prev., 2009, 1841.
5 Cass. pen., sez. IV, 11.6.2014, n. 24619.
6 Cass. pen., sez. III, 17.1.2012, n. 19437.
7 Cass. pen., sez. III, 26.1.2011, n. 8091, ma in una fattispecie in cui la sentenza di primo grado era precedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006.