L'economia a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’economia romana mostra sin dalle origini una forte vocazione agricola. Dopo una lunga fase in cui i Romani traggono per lo più le loro fonti di sussistenza da campi di modeste dimensioni, il periodo delle conquiste avvia un processo di concentrazione della proprietà terriera e un incremento dei commerci. L’urbanizzazione, l’aumento delle imposte, il mutamento dei codici culturali della classe dirigente produrranno una forte trasformazione dell’economia a partire dal II-III secolo d.C.
Lo studio, l’interpretazione e la volontà di dare un giudizio sulle economie antiche hanno prodotto, dalla seconda metà del XIX secolo, un vivace dibattito tra gli specialisti della materia. Essi si sono a lungo divisi tra chi sosteneva che l’economia delle società antiche fosse da valutare come profondamente diversa da quella dell’Occidente moderno – e semmai simile a quella delle società "primitive" studiate dagli etnologi in Africa o nelle isole del Pacifico – e chi invece riteneva che gli antichi praticassero un’economia non troppo dissimile da quella degli stati liberali moderni, magari meno avanzata per ciò che concerne le tecnologie impiegate e la quantità di merci e servizi circolanti, ma tuttavia basata sullo stesso tipo di logiche e di razionalità.
La vecchia ma tenace contrapposizione tra percezioni "primitivistica" e "modernistica" delle economie antiche può essere forse superata, oggi, accogliendo l’idea che le economie greca e romana, prima che primitive o moderne, sono, per l’appunto, greca e romana. Sono, cioè, sorrette da logiche interne – in parte stabili, in parte mutevoli – che non sono riconducibili (o riducibili) né a un’ipotetica logica "primitiva", che si troverebbe tanto nel Lazio arcaico quanto tra i Boscimani del XX secolo, né a una mentalità economica razionale che, in qualche misura, farebbe parte del bagaglio attitudinale presente in tutti gli esseri umani.
Le metodologie d’indagine più recenti invitano a studiare le economie antiche – e in generale le società diverse dalla nostra – cercando di individuare le idee, i valori e le teorizzazioni che gli antichi stessi ci indicano riferendosi a quegli aspetti della vita umana che riguardano l’"economia" intesa come “l’interscambio tra il soggetto e il suo ambiente naturale e sociale che ha per scopo di procurargli i mezzi materiali per il soddisfacimento dei suoi bisogni” (Karl Polanyi).
In questa prospettiva la prima, e fondamentale, domanda che dobbiamo porre alle fonti, scritte e materiali, che possediamo relativamente all’economia romana riguarda le consuetudini, le istituzioni, l’immaginario concepiti dai Romani nel lungo arco della loro storia e tramite cui essi interagiscono con l’ambiente e gli altri esseri umani per soddisfare i propri bisogni materiali.
Nell’VIII secolo a.C., quando Roma nasce, le attività economiche che le evidenze archeologiche ci consentono di rilevare sul territorio della città sono relativamente numerose: i resti di ossa di animali domestici e selvatici attestano l’esistenza dell’allevamento del bestiame e della caccia; i residui di cereali e di semi di frutti coltivati e spontanei indicano che in quel territorio si praticano sia l’agricoltura che la raccolta di vegetali; i manufatti in metallo, terracotta, osso, ambra ampiamente rinvenuti nelle sepolture mostrano l’esistenza sia di attività artigianali locali, sia di una circolazione di beni da aree esterne veicolata da mercanti. Oggetti con tutta probabilità prodotti a Roma sono stati trovati, poi, nel Lazio e in altre parti del centro Italia.
Le fonti letterarie mostrano un alto livello di convergenza con i dati archeologici: alle origini di Roma viene datata la più importante festa pastorale cittadina, i Parilia, che si festeggiano nel giorno natale della città, il 21 aprile; pastori sono anche Faustolo, aio di Romolo e Remo, e alcuni dei cittadini fondatori della città; i due gemelli appaiono anche attestati come cacciatori, e così i figli di Anco Marcio. Al secondo re della tradizione, Numa Pompilio, è ascritta, poi, la creazione di nove collegia, sorta di corporazioni nelle quali sono organizzati gli artigiani e altri professionisti che praticano un medesimo mestiere; uomini di affari (negotiatores) romani appaiono attestati alla importantissima fiera-mercato di Lucus Feroniae sotto il re Tullo Ostilio, mentre il primo trattato con Cartagine (509-508 a.C.) testimonia l’attività di mercanti romani in Sardegna, Sicilia e nel Nord Africa.
La presenza di pastori, cacciatori, artigiani, mercanti tra i cittadini romani più antichi appare, tuttavia, nettamente minoritaria rispetto a quella degli agricoltori. Dopo aver fondato la città e dato le prime istituzioni, Romolo avrebbe assegnato ai neo-cittadini di Roma degli appezzamenti di terreno di modeste dimensioni (due iugeri, circa mezzo ettaro) da destinare alla coltivazione, specialmente dei cereali, creando così il nesso fortissimo tra cittadino e contadino che attraverserà lunga parte della storia romana: basti pensare che, ancora agli inizi dell’impero, ogni qual volta Roma creerà una colonia, sottoposta alle stesse leggi e costumi della città-madre, si provvederà sempre alla distribuzione di terre ai suoi residenti, i coloni (termine che, in latino, indica, per l’appunto, dei coltivatori).
A fronte della festa pastorale dei Parilia, il calendario romano più antico prevede, poi, una quindicina di feste che scandiscono tutti i momenti più significativi dell’anno agricolo, e in particolare di quello cerealicolo, mentre l’istituzione del mercato periodico che si tiene a Roma ogni nono giorno (nundinae) è concepito in modo tale che i cittadini, dopo essersi dedicati per otto giorni alla coltivazione della terra, si rechino a Roma per vendere le loro eccedenze agricole e comprare i beni di cui hanno bisogno.
Quando, alla fine dell’età regia, verrà introdotto il census come strumento di collocazione del cittadino nella società romana, la proprietà della terra sarà il fattore decisivo per inserire un pater familias nelle classi più alte e, di conseguenza, per consentirgli di ambire alle magistrature pubbliche e agli altri onori. La legge delle XII Tavole, promulgata alla metà del V secolo a.C., mostra, infine, il quadro di una società agricola, in cui la regolamentazione della proprietà privata, del passaggio delle servitù prediali, la difesa giuridica del giusto godimento dei frutti del lavoro terriero trovano uno spazio importante.
I Romani spiegano la loro predilezione per l’agricoltura per mezzo di alcuni miti nei quali si racconta che gli dèi connessi alla lavorazione della terra, e in particolare Saturno, Cerere e Libero, avrebbero insegnato ai più antichi abitanti del Lazio come far crescere i cereali e l’uva, come innestare le piante e concimare. Il dono delle tecniche agricole avrebbe obbligato i Romani a contraccambiare il gesto degli dèi riproducendo i loro insegnamenti e venerandoli in particolari momenti dell’anno.
Il fatto che, per un Romano, ancora alla fine dell’età repubblicana, non tutte le professioni siano uguali e solo quella dell’agricola, cioè del proprietario o possessore di terra, sia fonte di dignità (il lavoro del bracciante agricolo, impegnato su terre altrui in cambio di un salario, è, invece, particolarmente disprezzato), è ben spiegato da un passo del De officiis di Cicerone: “riguardo alle professioni e alle forme di guadagno, la tradizione ci insegna all’incirca questo su quali siano nobili e quali sordide. [...] Ignobili e abietti sono i guadagni di tutti quei braccianti che vendono non l’opera della mente, ma del braccio: nel loro caso il salario è per se stesso prezzo di servitù. Abietti sono da reputarsi anche coloro che acquistano dai grossi mercanti cose da rivendere subito al minuto. [...] Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: non c’è ombra di libertà in una bottega. Ancora più in basso sono quei mestieri che servono al piacere: pescivendoli, macellai, cuochi, salsicciai, pescatori [...]. Ma tra tutte le occupazioni da cui si può trarre qualche profitto, la più nobile, la più feconda, la più degna di un vero uomo e di un libero cittadino è l’agri cultura” (Cicerone, De officiis 1, 42.151-153).
L’aspirazione di gran parte dei Romani a essere coltivatori si rivela uno dei motori fondamentali della storia economica della città, specialmente in età repubblicana. Le secessioni della plebe del V secolo a.C., ad esempio, trovano spiegazione nel fatto che molti cittadini-agricoltori romani, richiamati in guerra durante il periodo estivo, quando si dovrebbero occupare dei loro campi, sottoposti al tributo e magari vittime di saccheggi nemici, non avendo fonti di sussistenza si trovano costretti a indebitarsi e spesso a dover vendere le loro proprietà, perdendo così lo status di agricola. A ciò si aggiunge il fatto che, anche in caso di vittoria in guerra, il bottino sottratto al nemico raramente è ripartito tra i soldati e diventa, invece, proprietà dello stato, mentre la terra che viene sottratta agli sconfitti, pur diventando pubblica (ager publicus), è nei fatti controllata da chi per primo, e con più forza, la occupa cioè, solitamente, dei cittadini già ricchi che possono trovare sostegno nei loro clienti, parenti, schiavi.
Le lotte sociali di età repubblicana troveranno momenti di soluzione, oltre che in campo politico con la creazione dei tribuni e degli edili plebei e con il crescente ruolo attribuito ai concilia plebis, anche in campo economico, per mezzo di precise decisioni dello stato, che tenderanno a consentire a quanti più cittadini possibile di vivere grazie alla agri cultura. Una delle leggi Licinie-Sestie del 367-366 a.C., ad esempio, impedisce ai cittadini più potenti di esercitare il possesso sull’ager publicus per una misura superiore ai 500 iugeri (125 ettari ca.), mettendo la quantità eccedente di terreno a disposizione di chi non ha terre. Le conquiste territoriali in Italia durante i secoli IV-II a.C. consentono poi a molti, tramite il diffuso ricorso alla colonizzazione, di ottenere la proprietà privata sui lotti di terra che vengono assegnati.
Alla fine del II secolo a.C., infine, le leggi volute dai fratelli Tiberio e Gaio Gracco – che rinnovano la legge Licinia-Sestia riguardante il possesso di ager publicus estendendone tuttavia il limite fino, in teoria, a 1000 iugeri e che prevedono una lottizzazione in proprietà privata ai più poveri delle terre eccedenti quella misura – appaiono muoversi su una linea culturalmente e storicamente consolidata. Una linea che trova spiegazione nell’aspirazione che ogni cittadino romano ha di godere in prima persona di quel bene – la terra – che, in quella società, gli avrebbe conferito piena dignità e riconoscimento.
La notevole crescita del territorio sottoposto al dominio romano a partire dall’età medio-repubblicana (dagli 822 km² del VI-V secolo a.C. si passa ai 5.525 del 338 a.C. e ai 26.805 del 264 a.C.) mostra alcuni effetti economicamente significativi.
Le vittorie su città e interi popoli producono, dal IV-III secolo a.C. in poi, sia grandi sottrazioni di terreno al nemico, sia l’arrivo a Roma di grandi bottini che comprendono anche i soldati sconfitti fatti prigionieri, di cui lo stato romano dispone la vendita al migliore offerente. Chi ha più denaro a disposizione può, così, acquisire un numero di schiavi molto maggiore rispetto al passato: schiavi che, in una città orientata verso l’agricoltura come Roma, per lo più saranno impiegati per la coltivazione dei fondi rurali.
In questa prospettiva diventa ben comprensibile come mai, dal III secolo a.C., accanto alle tradizionali forme di proprietà terriera di dimensioni relativamente modeste e gestite personalmente, o a livello familiare, dal cittadino, se ne affermi una nuova, la cosiddetta "villa catoniana" – dal nome dell’uomo politico e scrittore Marco Porcio Catone, che, in una sua opera, il De agri cultura, ne descrive il funzionamento e le finalità.
La villa di cui parla Catone è un fondo di dimensioni relativamente estese su cui è prevista la prevalenza della coltivazione dell’ulivo (su uno spazio di 240 o 120 iugeri) e della vigna (su 100 iugeri), accanto ad aree più ridotte destinate alla produzione di cereali, ortaggi e frutta. Prossime al fondo sono le stalle per gli animali da soma e da tiro e degli ambienti destinati alla lavorazione delle olive e dell’uva per trasformarle in olio e vino. A gestire la villa catoniana non è tanto il proprietario – agricola – quanto, prevalentemente, un fattore che coordina il lavoro di schiavi e braccianti di status libero, si occupa dell’acquisto degli strumenti agricoli, tiene rapporti con chi lavora nei fondi circostanti, amministra, col padrone, le finanze della villa.
Se, diversamente dal podere tradizionale, la villa catoniana è solo in minima parte rivolta alla produzione dei cereali è per due motivi: il primo è che Roma, grazie alle vittorie militari, ha creato le sue prime province che sono tenute a pagarle un tributo consistente in parte proprio in granaglie – alla fine dell’età repubblicana, ad esempio, la sola Sicilia dà a Roma tre milioni di moggi di grano all’anno, oltre 20 mila tonnellate – e che riforniscono i mercati dell’Italia a prezzi bassi. Chi ha i suoi fondi sul territorio romano produce, dunque, cereali principalmente in vista della sussistenza e solo marginalmente per commercializzarli.
Il secondo motivo del poco peso della produzione cerealicola nella villa catoniana ha a che fare, invece, con la crescente importanza assunta dalla produzione di olio e vino. I successi politico-militari di Roma e la conquista di territori prima in Italia poi in ampi settori del Mediterraneo producono una emigrazione relativamente importante di individui in funzione di coloni, soldati, governatori, amministratori, uomini d’affari, dal centro del potere verso i territori conquistati.
Lontani dall’Italia, essi gradiscono, nondimeno, alimentarsi come facevano in patria, favorendo l’esportazione di olio e vino. Inoltre, fatto non meno significativo, la penetrazione romana produce, specialmente verso Occidente (Africa, Spagna, Gallia Narbonense), un fenomeno di acculturazione. Le popolazioni indigene, una volta sottoposte a Roma, gradualmente ne adottano, per scelta o per necessità, anche alcuni costumi, non ultimi quelli alimentari. A quanto ne sappiamo, poi, lo stato favorisce, almeno alla fine dell’età repubblicana, alcune esportazioni dall’Italia, ad esempio impedendo alle popolazioni galliche di impiantare uliveti e vigne.
La produzione "catoniana" di olio e vino, ampiamente eccedente i bisogni del proprietario e dei suoi sottoposti e agevolata dalle leggi e dalle circostanze, appare, dunque, finalizzata al commercio. Parallelamente allo sviluppo di tale villa in Italia (soprattutto nel centro della penisola) si assiste, non a caso, alla apparizione in numerosi siti archeologici delle anfore dette greco-italiche destinate al trasporto di vino e olio dall’Italia centrale verso l’Occidente del Mediterraneo. I relitti di navi onerarie mostrano chiaramente come, dopo il 200 a.C. (anche grazie alla fondazione della colonia marittima di Puteoli nel 194 a.C.), il commercio via mare dall’Italia assuma proporzioni inusitate per la storia di Roma fino a quel momento.
I grandi proprietari terrieri di cittadinanza romana indubbiamente beneficiano delle conquiste di età medio-repubblicana sia perché grazie ad esse le loro proprietà di immobili e di schiavi aumentano, sia perché i loro fondi producono eccedenze alimentari che trovano crescente successo fuori dell’Italia.
Alla fine dell’età repubblicana e ancora agli inizi dell’età imperiale Roma amplia ulteriormente il suo dominio, continuando a sottrarre terre ai popoli sconfitti, a fondare colonie e a importare schiavi: nel 167 a.C., dopo la vittoria sul re macedone Perseo, arrivano in città 150 mila schiavi, mentre le guerre galliche producono circa 400 mila prigionieri. Le guerre civili e le proscrizioni degli ultimi decenni della repubblica, poi, mettono a disposizione dell’élite romana del momento le proprietà di numerosi uomini politici caduti in disgrazia. È in questo contesto storico che si assiste, dalla metà del I secolo a.C., allo sviluppo di un nuovo modello di villa, detta "varroniana" dal nome dell’erudito Marco Terenzio Varrone, che ne teorizza l’organizzazione e gli impieghi nel suo De re rustica).
La villa che Varrone e, dopo di lui, in età augustea, Columella (in un’altra opera chiamata anch’essa De re rustica), descrivono è, per certi aspetti, una villa catoniana in scala maggiore, ma con alcune significative differenze rispetto al passato. In essa i cereali continuano a rappresentare una produzione limitata e destinata per lo più alla sussistenza, e sempre in virtù dei rifornimenti tributari di grano dalle province che, peraltro, dal 58 a.C., sarà assegnato gratuitamente a un numero significativo di cittadini romani, che raggiungerà le 200 mila unità sotto Augusto.
Continuano a prevalere, nella villa varroniana, le coltivazioni dell’ulivo e della vite, che vengono delegate prevalentemente a schiavi (i braccianti liberi vengono assoldati solo nei momenti più impegnativi dell’anno agricolo), ora presenti in numero maggiore e il cui lavoro è organizzato e diviso in modo più metodico, sia perché i fondi "varroniani" sono più grandi (circa 1000 iugeri) rispetto a quelli "catoniani" sia perché ora, accanto all’agricoltura, trovano spazio nella villa altre produzioni. Tra queste, particolare importanza riveste la cosiddetta pastio villatica, cioè l’allevamento entro i limiti della villa di volatili, selvaggina e pesci, animali che verranno destinati prevalentemente alla vendita per una fascia di mercato relativamente alta.
Se nella villa varroniana le produzioni appaiono maggiormente diversificate è anche in virtù del fatto che le province le quali, in passato, avevano subito l’acculturazione romana, adesso, romanizzatesi, iniziano a entrare in concorrenza con l’Italia nella vendita di merci che l’avevano vista a lungo dominante. All’alba dell’età imperiale la provincia ispanica della Betica, ad esempio, esporta olio in Italia e in molte aree dell’impero, e così fa con il vino la Gallia Narbonense, ora liberata dalla precedenti leggi protezionistiche.
Un altro elemento di significativa innovazione nella villa varroniana consiste nell’importanza rivolta agli ambienti destinati alla residenza del padrone, la cosiddetta pars urbana. Se in passato il proprietario terriero, solitamente residente a Roma, aveva nella sua fattoria rustica dei luoghi dignitosi ma relativamente modesti in cui soggiornare, ora per lui è a disposizione una grande costruzione spesso lussuosa, con camere e stanze distinte per la residenza in estate e in inverno. Esse, oltre che alle ordinarie attività quotidiane, vengono destinate al piacere (voluptas) del padrone, con spazi destinati ai banchetti, a spettacoli privati, a bagni termali.
Il fenomeno della villa, e specialmente della sua versione varroniana, ha colpito molto i moderni al punto da considerarlo come il tratto più tipico dell’economia romana, se non addirittura in generale dell’economia antica. Di esso l’aspetto che ha destato maggiore interesse è l’organizzazione sistematica ed "economicamente razionale" del lavoro servile, che è parsa ad alcuni come una sorta di anticipazione delle modalità di divisione del lavoro nelle fabbriche di età moderna.
In realtà quello della villa varroniana è un fenomeno storicamente e geograficamente limitato: esso compare solo nella tarda repubblica, e andrà sensibilmente contraendosi in Italia dalla fine del I secolo d.C., nelle province tra II e III secolo d.C. La villa in cui si impiega massicciamente la manodopera servile appartiene, poi, alla sola realtà italica, in cui la presenza di schiavi era molto alta. Quando, nel corso dell’impero, nelle province romane, specialmente di Occidente, le élite locali, imitando quanto avveniva a Roma, svilupperanno le loro ville, impiegheranno per lo più personale libero, e non ci è dato di sapere se con la stessa organizzazione descritta da Varrone.
Si sbaglierebbe, poi, a voler cercare nel mondo romano la presenza di una forma, seppur ancora abbozzata, di razionalità economica moderna. Se, infatti, una delle finalità principali di un imprenditore moderno è quella di reinvestire gli utili per farli crescere possibilmente all’infinito, questo stesso atteggiamento non appartiene ai proprietari terrieri romani. Dice l’agricola e senatore Cicerone: “quanto al patrimonio familiare, bisogna procacciarselo con mezzi assolutamente corretti e conservarlo con l’oculatezza e con la parsimonia; con queste stesse virtù si deve anche aumentarlo (augere)” (Cicerone, De officiis 2, 24.87).
La crescita di un patrimonio, per un Romano, deve andare di pari passo, dunque, con la pratica della parsimonia, cioè di quella antica virtù che spinge gli uomini a saper limitare (parsimonia deriva da un verbo latino, parcere, che per l’appunto significa "contenersi, limitarsi") i loro bisogni e i loro desideri. E dunque anche il desiderio di terra. Su questa stessa linea, Plinio Secondo, detto il Vecchio, nella sua Naturalis historia, spiega come secondo i Romani “fosse importante mantenere la giusta misura nell’estensione del campo, poiché consideravano più utile avere meno terra da seminare e ararla meglio” (Plinio, Nat. hist. 18.7.35).
La ricchezza in generale, e quella terriera in particolare, a Roma non è un male, né mai lo fu: basti pensare all’importanza che essa ha per essere collocati nelle prime classi di census. Tuttavia, da sempre, la cultura romana ha giudicato in modo negativo il desiderio senza limite di ricchezze, l’avidità, che i Romani chiamano avaritia.
La risposta romana all’avaritia è proprio la parsimonia, e l’importanza che tale attitudine riveste nel bagaglio culturale dei Romani spiega l’esistenza di leggi come le Licinie-Sestie e quelle graccane limitanti il possesso delle terre o quelle dette suntuarie, numerosissime dall’età arcaica fino a quella imperiale, che si occupano di punire il lusso.
Proprio perché educati alla parsimonia, i membri dell’élite romana, anche quando molto ricchi, non hanno – salvo eccezioni – particolari interessi a far crescere costantemente i guadagni che derivano dalle loro proprietà: se le rendite fondiarie consentono loro di mantenere lo status, di avere schiavi e altri sottoposti a sufficienza, di vivere nell’agio a Roma e in campagna, perché desiderare ancora di più?
A spiegare i limiti della crescita dell’economia romana tra tarda repubblica e alto impero è, poi, un altro fatto culturale, cioè che la società romana non vede di buon occhio la pratica delle attività commerciali. Già nel 218 a.C. viene promulgata una lex Claudia la quale impedisce ai senatori e ai loro figli di possedere più di una nave mercantile in grado di portare 300 anfore. In età cesariana, un’altra disposizione conferma la lex Claudia con in più l’interdizione alle famiglie senatorie di prendere in appalto le imposte pubbliche o la fornitura di cavalli da corsa.
Se tali leggi sono concepite e realizzate è perché, per i Romani, un agricola, un vero cittadino e per di più di alto status come un senatore, non può e non deve dedicarsi costantemente e personalmente al commercio. La sua terra gli fornisce tutte le fonti di sussistenza ed è il vero requisito in grado di conservargli dignità e alto census.
Nel momento in cui, al posto del possesso e del godimento della terra, la sua attenzione e la sua azione si rivolgano in modo preponderante alla vendita di derrate alimentari, il ruolo sociale del senatore–agricola finirebbe per snaturarsi, trasformandosi in quello di un uomo di affari o di un mercante, con tutto ciò che ne discende nell’ottica culturale romana che abbiamo visto affermato da Cicerone.
A fronte di tali leggi, la commercializzazione delle eccedenze agricole viene delegata a figure subalterne, in particolare a schiavi istruiti e intraprendenti, oppure ad alcuni cittadini romani – mercanti o uomini d’affari – che non sono interessati o non hanno il census per fare carriera in senato ma che, anzi, in qualche caso cercano nel mercato una fonte di arricchimento per poter diventare, un domani, proprietari terrieri.
Le scelte, gli atteggiamenti rispetto alla proprietà della terra, le leggi, i costumi che esprimono la società romana in fatto di economia, ancora oggi vengono considerati da molti come dei limiti culturali, degli ostacoli che avrebbero impedito ai Romani di diventare moderni quasi duemila anni prima della modernità. In realtà il loro modo di vedere le cose esprime e dimostra il fatto che l’economia può avere infinite varianti e declinazioni nelle diverse società umane, sorrette da modelli culturali, ideologie e miti che, per quanto distanti dai nostri, non è detto che siano necessariamente sbagliati o peggiori.
L’economia imperiale romana trova una fase di graduale ma costante trasformazione a partire dai decenni a cavallo tra II e III secolo d.C. I tratti più tipici di questa trasformazione sono una certa contrazione dei commerci, soprattutto in Italia, una parziale modificazione delle produzioni agricole e dello status stesso degli agricoltori, una maggiore incidenza dello stato nella vita economica dei cittadini, la svalutazione della moneta.
La riduzione della produzione di merci in Italia ha diverse spiegazioni che, in parte, già conosciamo: la prima, e principale, si connette all’estensione nell’impero del fenomeno dell’acculturazione. Nel momento in cui i costumi economici (produttivi e di consumo) di Roma vengono adottati nelle province, accade che queste ultime abbiano sempre meno bisogno delle merci italiane, al punto da diventare esse stesse esportatrici nei luoghi da cui fino a poco tempo prima importavano. Sotto questo aspetto, il caso dell’esportazione dell’olio è piuttosto interessante: il dominio dell’Italia in età tardo-repubblicana e nei primi decenni dell’impero cede gradualmente spazio prima alla Betica, come detto, poi all’Africa che, dal tardo II secolo d.C. fino a tutta la tarda antichità, rifornisce quasi tutto l’impero, Italia compresa, di quel bene. Come gli antropologi sanno bene, poi, l’acculturazione non è mai un fenomeno unidirezionale: anche la cultura apparentemente dominante finisce per accogliere alcuni usi e costumi dall’esterno. Così, Roma e l’Italia, sempre meno esportatrici, diventano importatrici di merci dalle province: pesche, liquirizia, profumi, rimedi, veleni dalle aree orientali, e con esse la seta di Cos, il lino di Tarso, lana e lino di Laodicea, la porpora di Tiro, il marmo dell’Acaia e Asia.
La riduzione di attrattività di olio e vino italiani genera, in quel territorio, la ricomparsa di produzioni cerealicole più massicce di cereali. Già ai tempi di Domiziano, a causa di una carestia di cereali, viene emanato un editto che impone di non impiantare più viti in Italia favorendo la coltura del grano. Il centro dell’impero, d’altronde, dipende ampiamente dai cereali che arrivano come tributo dalle province africane e non può rischiare, in caso di carestie nel Mediterraneo meridionale, di restare privo di grano, principale alimento dei suoi cittadini.
In questa prospettiva è forse possibile spiegare l’apparizione a livello archeologico, dall’inoltrato II secolo d.C., di un nuovo modello di villa, detta "periferica" – perché collocata in zone relativamente lontane da Roma e dalle maggiori vie di comunicazione. Le ville periferiche, verosimilmente di proprietà senatoria quando non imperiale, appaiono votate innanzitutto alla coltivazione dei cereali su appezzamenti molto estesi, lavorate da schiavi e braccianti che, poco o per nulla controllati dai padroni (per lo più residenti a Roma), raggiungono risultati produttivi non particolarmente brillanti. È forse spiegabile in questo contesto una disposizione promulgata dall’imperatore Pertinace nell’anno 193 d.C. che prevede, per chi si prenda cura di mettere a frutto alcuni terreni imperiali lasciati semi-incolti, la possibilità di diventarne proprietario e di essere immune dai tributi per dieci anni.
La condizione di abbandono nella quale una parte delle terre dell’Italia e di alcune regioni dell’impero devono versare già alla fine del II secolo d.C. dà indirettamente il segno di come la percezione culturale della coltivazione della terra si stia modificando.
Allo sviluppo notevole dell’urbanizzazione già in età alto-imperiale (Roma, ad esempio, passa dai 375 mila abitanti del 130 a.C. ai circa 1 milione dell’età di Augusto; contemporaneamente Alessandria ha 1 milione e mezzo di abitanti) fa da contraltare l’abbandono delle campagne. Se, da un certo momento in poi, meno persone si occupano di agri cultura, ciò accade in virtù di una serie di fattori strettamente collegati tra loro: il primo è la concentrazione della proprietà terriera nelle mani di un numero relativamente ridotto di persone, a cui corrisponde l’incremento del numero di cittadini che, per così dire, perdono contatto e interesse per la terra e vanno in città impiegandosi come artigiani, piccoli commercianti, operai; dal II secolo d.C., poi, gli onori e gli alti incarichi politici smettono di essere espressione diretta del census – e dunque anche della proprietà terriere –, ma divengono segno della grazia di imperatori che, sempre più spesso, non sono romani e non necessariamente sono educati ai valori tradizionali di quella società.
È innegabile, da questo punto di vista, che la perdita d’importanza della agri cultura abbia avuto molto a che vedere con le trasformazioni connesse all’acculturazione che Roma riceve da realtà provinciali portatrici di costumi economici differenti. Tra questi, dal III-IV secolo d.C., crescente importanza devono assumere quelli cristiani, che arrivano dalla provincia della Giudea: il valore che i cristiani primitivi attribuiscono alla fatica fisica (labor, pónos), anche quando in forma di dipendenza, porterà a considerare come equivalenti la posizione sociale del proprietario-coltivatore terriero, del bracciante e dell’artigiano, con una forte rottura rispetto ai modelli tradizionali.
È, per certi aspetti, proprio nell’alveo della crisi della percezione e della funzione sociale dell’attività agricola che si colloca uno dei fenomeni più tipici dell’economia del tardo impero, quella del colonato. Se, dall’età arcaica all’alta età imperiale, il colonus era un cittadino che riceveva una proprietà terriera che, seppur spesso di ridotte dimensioni, era comunque in grado di conferirgli dignità, dal IV secolo d.C. il termine colonus indicherà una figura giuridica ben diversa, portatrice di una condizione assai meno desiderabile. Il colono tardoantico è, infatti, un cittadino libero che può essere proprietario oppure, più spesso, affittuario di una terra di proprietà solitamente privata, alla quale è legato, per legge, per tutta la vita. La terra ora non è più fonte di libertà e dignità, ma di obbligo e sottoposizione al controllo altrui, talora anche in forma violenta.
Il fenomeno del colonato apre uno spiraglio di grande importanza per comprendere alcuni aspetti dell’economia degli ultimi secoli di Roma, un’economia che pare fortemente condizionata dai nuovi assetti politici che lo stato romano si dà dalla fine del III secolo d.C.
Ancora a cavallo tra età repubblicana e alto-imperiale, Roma e il suo dominio sono governati da un numero assai ridotto di persone (magistrati, governatori) che ricoprono le loro funzioni in modo gratuito e, al caso, facendosi coadiuvare da schiavi privati o liberti. Gradualmente, accanto o in sostituzione di queste figure, gli imperatori creano dei funzionari con mansioni amministrative, solitamente di estrazione equestre, i quali ricevono uno stipendio pubblico. Il numero piuttosto limitato di tali funzionari (al massimo si arriva a 182 nel II secolo d.C.) cresce sensibilmente, raggiungendo le circa 2 mila unità, a partire dai regni di Diocleziano e Costantino. Parallelamente a quello degli amministratori pubblici, in età tardoimperiale cresce notevolmente anche il numero dei soldati che, dai circa 300 mila dei tempi di Tiberio e 450 mila sotto Settimio Severo, arriva ad alcuni milioni agli inizi del V secolo d.C.
Per mantenere i suoi numerosi dipendenti, il tardo impero ha evidentemente bisogno di ricevere dai cittadini molto più denaro derivante dalle imposte, senza contare che, rispetto al passato, esso subisce una pressione molto maggiore sui suoi confini e spesso la pace con le popolazioni barbariche viene raggiunta, più ancora che con le armi, col denaro pubblico. Lo stato fiscalmente "leggero" di età repubblicana e alto-imperiale inizia a mutare la rotta della sua politica d’imposta nel 212 d.C. con la Constitutio Antoniniana. Tramite essa, l’imperatore Caracalla, nel dare la cittadinanza romana a quasi tutti gli abitanti dell’impero, li obbliga a pagare le tasse tradizionalmente retaggio dei cittadini (un percento sulle vendite all’incanto; 4 percento sulle vendite degli schiavi; 5 percento sulle manomissioni e sui passaggi di eredità tra non consanguinei stretti; queste due ultime imposte vengono, peraltro, raddoppiate al 10 percento).
Alla fine del III secolo Diocleziano riforma ulteriormente il sistema fiscale dell’impero revocando l’esenzione dal tributo all’Italia, che dura dalla tarda repubblica, e ideando un sistema d’imposta, che si può sintetizzare nell’espressione capitatio–iugatio, che rende sottoponibile a tassazione sia le comunità dei cittadini nei diversi gradi della gerarchia amministrativa, sia le terre coltivabili. In questo quadro diventa ben spiegabile la volontà dello stato tardoantico di legare per legge quanti più coloni possibile alla terra, in modo tale da avere garantite, oltre a degli stock di beni di consumo, le loro imposte.
La "pesantezza" dello stato tardoantico e la sua esosità fiscale condizionano notevolmente la vita economica soprattutto nella fase di introduzione del nuovo sistema, a cavallo tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C.
Dalla fine dell’età repubblicana la moneta su cui si basa l’economia romana è il denarius d’argento, che serve alle spese di media importanza, per pagare soldati e amministratori e che è prediletto per gli scambi con l’estero.
La crescita di burocrazia ed esercito da un lato, e il notevole incremento delle imposte (che in buona parte si pagano proprio in argento) dall’altro, producono per Roma, dal II-III secolo in poi, la necessità di battere sempre più moneta in quel metallo. Il problema è che, nell’impero l’argento inizia a scarseggiare: mentre le miniere di Asia, Grecia e, soprattutto, Spagna si stanno esaurendo, quelle ricchissime della provincia di Dacia vengono perdute tra i regni di Gallieno e di Aureliano.
Per sopperire alle necessità di moneta argentea, lo stato romano inizia gradualmente a ridurre la quantità di fino in essa presente. Se, infatti, i denarii, monete di argento ancora quasi puro sotto i primi Cesari, sotto Marco Aurelio hanno ancora l’85 percento di metallo pregiato, sotto Settimio Severo ne hanno solo il 50 percento, per arrivare al 5 percento ai tempi di Gallieno.
Quando Aureliano cercherà di introdurre una nuova moneta, l’aurelianianus, con potere d’acquisto assai superiore rispetto ai vecchi denari, ma con una quantità di argento minima, la reazione del mercato sarà un aumento notevole (da 6 a 10 volte) dei prezzi.
L’esosità della finanza statale e l’eccesso di fiduciarietà attribuito al valore della moneta argentea produrranno, quindi, una crisi economica a cui cercherà di porre mano Diocleziano nel 301 d.C. per mezzo di un editto che fissa per legge il prezzo massimo di numerosi beni e servizi, dopo aver introdotto un sistema monetale nuovo, che aggancia il valore delle monete di argento e d’oro al prezzo di mercato di tali metalli.
Se l’editto non ha grande successo, e i prezzi continuano a salire nei primi decenni del III secolo d.C., l’idea dioclezianea di emettere moneta in metallo prezioso il cui valore non è altamente fiduciario, ma assai prossimo a quello di mercato, troverà successo con Costantino e i suoi discendenti che quasi elimineranno la monetazione argentea a favore di quella d’oro, basata sul solidus del peso di 4,5 grammi in oro quasi puro. Il solidus, il cui valore verrà sostanzialmente collegato al valore di mercato dell’oro, rappresenterà la nuova unità di conto per il pagamento delle imposte (accanto ai beni in natura), dei burocrati e dei soldati. Accanto alla monetazione d’oro ne viene prodotta una in rame argentato – che nel tempo diventerà di rame puro – con valore di scambio verosimilmente molto basso.
Le riforme monetali elaborate da Costantino e dai suoi immediati successori resteranno in vigore per tutta la restante storia dell’impero di Occidente e, con qualche variante, di quello d’Oriente, e porteranno a una parziale stabilizzazione del livello dei prezzi almeno dalla seconda metà del IV secolo d.C. e a una certa ripresa delle attività commerciali. La società che esce dalle crisi e trasformazioni economico-finanziarie di età medio e tardo-imperiale è, tuttavia, sensibilmente differente rispetto a quella passata. La netta divaricazione tra il potere d’acquisto della moneta d’oro e di quella di rame esprime, in qualche misura, la forte separazione tra i nuovi gruppi sociali che prevalentemente le usano: oro per i membri della corte, burocrati, governatori, grandi proprietari terrieri; rame (e beni in natura) per quella che l’anonimo autore del De rebus bellicis chiama, nell’inoltrato IV secolo d.C., afflicta paupertas, la massa di poveri – coloni, piccoli artigiani e commercianti – oppressi da un sistema politico-fiscale destinato a crollare sotto il suo stesso peso.