L’economia civile (1750-1850)
Il periodo che intercorre tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento presenta caratteri di unitarietà di particolare interesse per quanto concerne il pensiero economico in Italia. In realtà sono proprio tali caratteri a non essere sempre correttamente valutati e riconosciuti. Siamo dunque oggi alla fase centrale di un processo di revisione storiografica di grande rilievo, del quale occorre in questa sede dare conto.
Il massimo storico del pensiero economico del Novecento, Joseph Schumpeter, nella sua History of economic analysis (pubblicata postuma nel 1954), parla del contributo italiano della seconda metà del Settecento sottolineandolo positivamente e ponendolo all’interno di quell’ampia e influente categoria di autori che egli chiama i consultant administrators and pamphleteers (parte II, cap. 3). Vi è, in quelle pagine, un noto paragrafo intitolato espressamente all’elevato livello del contributo degli italiani (High level of the Italian contribution), divisi nelle due scuole principali (com’egli stesso sottolinea), la Scuola napoletana e la Scuola milanese. Mentre, dunque, gli autori italiani del 18° sec. ricevono considerevole attenzione, il contrario accade per l’Ottocento: il periodo presenterebbe caratteri meno salienti e meno facili da evidenziare, osserva Schumpeter, che confessa anche di sentirsi incapace di dare un quadro di sintesi di una realtà tanto frammentata (parte III, cap. 4, § 6). Inoltre, qui abbondano le critiche e il giudizio che Schumpeter esprime, per es., su Melchiorre Gioia (nei cui scritti, egli osserva, pearls are hidden in an unprofitable heap of rubbish) sembra assumere un valore paradigmatico, pur non mancando fuggevoli apprezzamenti, ad es., per il lavoro statistico degli italiani dell’epoca. Pur se numerosi sono gli autori citati, risultano del tutto assenti due giganti come Gian Domenico Romagnosi e Carlo Cattaneo.
«Dopo il 1800 – scrive Riccardo Faucci (2000) – la scienza economica italiana conosce una caduta di livello, o per lo meno una stasi» (p. 127). Accanto a una certa enfasi per un supposto ‘primato’ italiano nella disciplina, si forma di fatto – afferma Faucci – un’alleanza tra economia e moderatismo. Vi sarebbe dunque sapore di involuzione e di provincialismo nell’economia politica in Italia nella prima metà dell’Ottocento.
Affrontiamo qui il problema di una valutazione critica complessiva del periodo a cavallo tra i due secoli. Il punto di partenza dell’analisi è costituito dallo stretto collegamento esistente tra gli sviluppi della disciplina economica in Italia nel 18° sec. e l’Illuminismo italiano.
Gli studi sull’Illuminismo italiano hanno conosciuto una stagione assai fertile in questo dopoguerra con una forte motivazione a ricercare modelli di società, di cultura e di valori civici fondanti per le nostre società uscite dai grandi traumi collettivi del 20° secolo. L’economia politica – senza dubbio tra le presenze scientifiche di maggiore spicco nei diversi Illuminismi sulla scena europea – è sorprendentemente rimasta in secondo piano in molti degli studi sull’Illuminismo non solo per il caso italiano. Sono così restati in qualche misura in ombra non pochi contributi di rilievo per una ricostruzione storico-analitica del periodo.
Può essere dunque opportuna una sintetica analisi delle condizioni attuali e dei mutamenti in corso negli studi storico-analitici in economia che possano contribuire a spiegare la mutata temperie culturale e a comprendere le potenzialità della storia dell’analisi economica negli studi sull’Illuminismo italiano. Le pagine che seguono mirano a evidenziare tratti di originalità nel pensiero economico italiano capaci oggi di gettare nuova luce sull’intero svolgimento della storia del pensiero economico moderno. Sotto questo aspetto, proprio il periodo qui considerato acquista un significato paradigmatico.
All’interno del periodo trovano collocazione anche due imprese editoriali importanti: la Collezione Custodi nella Milano capitale napoleonica e la Biblioteca dell’economista lanciata a Torino sul finire del periodo qui analizzato da Francesco Ferrara: da un lato vi è la celebrazione della tradizione italiana (alla quale è interamente dedicata la prima collezione) e dall’altro vi è un suo ridimensionamento attraverso un quadro internazionale di contributi resi disponibili al lettore italiano.
Si è sostenuto di recente che l’intera tradizione di pensiero economico italiano trova la sua forma caratteristica nel canone dell’economia civile, espressione di una triplice combinazione di elementi: 1) una concezione dell’ordine politico-economico come realtà che scaturisce dalla società civile contrapposta all’autorità politica, ossia allo Stato; 2) una visione continuamente riformatrice; 3) un impegno scientifico-culturale della disciplina rivolto prevalentemente a una ricerca suscettibile di spendibilità applicativa. I temi salienti della ricchissima tradizione italiana negli studi economici toccano un insieme di problemi tra i quali i principali sono i seguenti: a) la preoccupazione etico-sociale, che pervade l’opera degli economisti italiani in ogni tempo e produce teoria orientata all’azione e impostata in modo tale da rendere ‘naturale’ l’analisi delle istituzioni e, in generale, la relazione con gli aspetti extra-economici; b) un diretto e approfondito interesse per l’economia dinamica; c) un’impostazione di metodo basata sulla stretta fusione tra la disciplina e la sua storia, così che l’interesse per la storia dell’analisi economica costituisce esso stesso un tratto distintivo della tradizione italiana (cfr. Dizionario di economia civile, 2009; Bellanca 2000; Faucci 2000).
Il riferimento alla vita civile è un elemento significativamente ricorrente nella tradizione italiana come componente della storia delle idee che interseca gli studi economici. Menzioniamo qui in breve gli esempi classici di autori ben noti, anche distanti nel tempo, come Matteo Palmieri, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni fino a Paolo Mattia Doria, come hanno mostrato classici studi, da Jacob Burckhardt ad Hans Baron a Eugenio Garin. L’epoca illuminista, soprattutto nella seconda parte del 18° sec., costituisce il momento più interessante, ossia il momento nel quale la categoria del ‘civile’ si associa direttamente con l’economico dando vita a un paradigma di successo e di rilievo come filo conduttore di una serie di studi che attraversano la storia delle idee economiche in Italia. Da Muratori in poi il tema della pubblica felicità prende forza precisamente come fondamento della nuova economia politica dell’età delle riforme, producendo un canone destinato ad avere continuità e collocazione duratura, specie (ma in realtà non soltanto) all’interno della tradizione italiana.
Per affrontare il problema con specifico riferimento al contesto dell’Illuminismo italiano, occorre svolgere l’analisi alla luce dei due sviluppi seguenti: 1) ricordare e chiarire taluni aspetti della rilettura del pensiero economico classico, affermatasi in anni recenti; 2) accennare, con qualche approfondimento, alla ricostruzione in corso della linea di sviluppo storico della tradizione italiana in economia politica. Il revisionismo storico ha raggiunto qui – nel corso degli ultimi trent’anni – risultati di notevole importanza.
Osserviamo, in premessa, che esistono diversi modi di intendere il termine civile o civico applicato alla tradizione del pensiero economico. Essi sono, schematicamente, i seguenti: 1) la concezione civica del repubblicanesimo machiavelliano; 2) l’idea classica del ‘buon governo’ riconducibile ultimamente alla oikonomia greca; 3) la nozione dell’economia civile, come forma di ordine economico spontaneo, introdotta da Antonio Genovesi.
Alla base della concezione dell’economia civile, dunque, vi è in primo luogo una concezione dell’ordine politico-sociale che ha al suo centro l’idea di vita activa collegata con il vivere civile. John Pocock ha teorizzato quella concezione come radice dell’ideale della virtù del cittadino repubblicano che ritrova la sua identità nella coscienza civica di appartenenza alla comunità attraverso l’esercizio del vivere civile. Il contributo di Pocock venne descritto all’epoca come una magistrale rassegna dell’intera tradizione dell’Umanesimo civico dalle sue origine fiorentine (Niccolò Machiavelli) sino ai suoi sviluppi successivi nel pensiero politico angloamericano prima e dopo la Rivoluzione americana (Winch 1978, p. 33). Pocock riprende anche analisi di Garin e altri. È una concezione che conduce ultimamente a contrapporre ricchezza e virtù.
Da un’altra prospettiva l’economia civile può essere intesa come l’esito di una forma di buon governo. La cosiddetta Hausväterliteratur, originata ed elaborata soprattutto in Germania, ha sviluppato il concetto estendendo alla collettività politica (la polis) la oikonomia aristotelica e generando così, appunto, l’economia politica.
In questa sede siamo piuttosto interessati a una terza modalità di intendere il concetto di economia civile: è la forma che emerge nella letteratura settecentesca e che contribuisce a consolidare il paradigma dell’ordine spontaneo della società commerciale. A partire soprattutto da Genovesi, il commercio diventa quella specifica forma di mutuo soccorso che consente a una società complessa non solo di sopravvivere, ma di crescere, all’interno della continua interazione tra mercato e istituzioni, secondo una concezione che estenderà la sua influenza anche oltralpe specie nell’Illuminismo scozzese.
Vi è storicamente un complesso itinerario che conduce dalla ben nota dicotomia di Thomas Hobbes (stato di natura/società civile) alla tricotomia che è alla radice della concezione dell’ordine politico-sociale caratteristica dell’economia politica della Scuola classica nella seconda metà del Settecento e che trova una radice significativa proprio nel pensiero italiano: si tratta della concezione fondata sui tre elementi dello stato di natura, della società civile, dello Stato. In particolare, la ricostruzione che mette al centro il concetto di economia civile approda a due risultati di grande rilievo. In primo luogo, la tradizione italiana viene riconosciuta come significativa fonte per la sintesi smithiana di An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), ridimensionando così notevolmente la consuetudine che induce gli storici dell’analisi economica a privilegiare al riguardo il rapporto con gli economisti francesi (i fisiocrati) e la loro influenza: si discute infatti più spesso dei legami con le concezioni fisiocratiche e vi è la tendenza a sottovalutare alquanto le forti differenze rispetto alle medesime, anche di fronte alle esplicite prese di distanza dell’autore. In secondo luogo, partire dall’economia civile contribuisce a mettere in luce, all’interno della Scuola classica medesima, cesure e differenziazioni di norma sottovalutate.
Conviene qui brevemente approfondire questo secondo punto. Se infatti la Scuola classica (nella dizione corrente) appare, da un lato, unificata da una comune concezione del valore, essa è al suo interno profondamente differenziata per altri non meno importanti aspetti. L’ottimismo della concezione dell’economia di Adam Smith si scontra, all’altro estremo, con il pessimismo della ‘scienza triste’ di David Ricardo. Si tratta di una divisione fondamentale, che oggi riemerge visibilmente, per es., attraverso gli sviluppi della dinamica economica strutturale, ispirata espressamente al paradigma smithiano, dopo un’epoca nella quale la collocazione storico-analitica dell’economia classica era sembrata fondarsi – specie con l’edizione definitiva degli scritti di Ricardo curata da Piero Sraffa – principalmente sul paradigma ricardiano.
Siamo in effetti di fronte a una differenziazione interna alla Scuola classica indebitamente oscurata da una troppo intensa luce riservata al tema, sottolineato come unificante, del valore: una luce da un lato eccessivamente localizzata sul tema e dall’altro deformante, quasi una specie di iperbolica trasfigurazione che ha avuto larghissimo spazio all’interno della visione tradizionale della Scuola classica.
La ricostruzione corrente della Scuola classica è, ancora oggi, fortemente condizionata da due elementi: da una parte, vi è l’accennata presunzione di omogeneità tra Fisiocrazia e Scuola classica; dall’altra parte, si è a lungo dato per acquisito il ‘dogma’ di una supposta stretta continuità tra Smith, Ricardo e Marx come traccia del percorso interno alla Scuola classica stessa.
Occorre subito avvertire che entrambe queste presunzioni, riprese e sviluppate assai ampiamente nel corso del Novecento, sono sostanzialmente oggi superate dalla cosiddetta revisione storiografica operata soprattutto nei confronti di Smith. Non sono oggi più percorribili come tali e richiedono adattamenti e aggiornamenti sostanziali. Detta revisione ha infatti portato a riscrivere largamente la storia del pensiero economico classico.
Ciò premesso, il punto più importante in questa sede è costituito dal fatto che la direzione e il taglio adottati dalla revisione storiografica qui accennata non hanno in realtà consentito di includere e tener conto a pieno titolo della tradizione italiana.
Di qui la necessità di aprire un nuovo fronte di indagine che si colloca all’intersezione tra il piano della storia delle idee e il piano della storia dell’analisi economica e che affronta il problema degli Illuminismi, ossia delle diverse tradizioni di filosofia politica che occupano la scena specie nella seconda metà del Settecento, al fine di esaminare il loro rapporto con l’economia politica.
È in questo quadro che riteniamo di poter sostenere e illustrare come il risultato intellettuale più notevole dell’Illuminismo italiano sia costituito dall’economia civile di Genovesi e seguaci. Sosteniamo inoltre che, proprio alla luce di quello sviluppo teorico, diventa oggi possibile una più esatta comprensione della Scuola classica in economia, mettendo pienamente a fuoco la contrapposizione tra Smith e Ricardo.
La tradizione italiana inoltre non cade vittima di quella che abbiamo chiamato prima la luce localizzata e deformante del valore. In particolare, la tradizione italiana si è sempre tenuta a distanza dalla nuova teoria del valore di Smith e di Ricardo, ossia dalla teoria del valore lavoro, che Marx trasformerà in teoria dello sfruttamento. Tale ‘distanza’, non di rado (soprattutto per quanto concerne il primo Ottocento) interpretata come un segno di arretratezza della tradizione italiana (per es., anche da parte di Francesco Ferrara, la cui critica della tradizione italiana riguarda però anche altri aspetti), è in realtà spiegabilissima se si segue con coerenza la linea di storia intellettuale tipica della stessa economia civile: proprio dell’economia civile tale ‘distanza’ è frutto tuttora insufficientemente riconosciuto. Questa prospettiva critica, di fronte alla teoria del valore in generale, e più particolarmente rispetto al valore in Marx, rappresenta una costante importante nel pensiero italiano, tanto da ritrovarsi perfino nelle elaborazioni italiane del marxismo di autori quali Achille Loria, Antonio Labriola, Arturo Labriola, Benedetto Croce fino ad Antonio Graziadei e soprattutto a Piero Sraffa (per Marx e il marxismo si veda Bellanca 1997; sulla teoria del valore in rapporto alla tradizione italiana, cfr. Bruni, Porta 2007).
È possibile mostrare che nella stessa direzione si colloca anche il risultato che emerge dalla concezione di economia dinamica alla quale, come si è accennato sopra, conduce la tradizione italiana e nella quale trova posto la stessa concezione della dinamica strutturale, frutto in realtà della simbiosi tra il pensiero italiano e la Scuola di Cambridge.
Il problema fondamentale di tutta l’economia moderna è colto perfettamente dal titolo dell’opera più nota di Adam Smith, là dove si parla di indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Una caratteristica fondamentale del contributo di Smith consiste nel collegare e coniugare quell’indagine con la ricerca dei fondamenti dell’ordine sociale, ossia di una società bene ordinata, visto come condizione indispensabile alla crescita, ossia all’arricchimento. Analisi di natura e cause sono in rapporto sinergico.
Nell’introdurre il quarto libro di An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, dedicato alla storia delle teorie economiche, Smith precisa il significato generale dell’analisi economica: «L’economia politica considerata come un ramo della scienza dello statista o del legislatore, si propone due oggetti distinti: primo, provvedere un abbondante reddito o sussistenza; secondo fornire lo stato o la repubblica di un’entrata sufficiente per i servizi pubblici. Essa si propone di arricchire sia il popolo che il sovrano». Egli poi aggiunge: «Il diverso progresso dell’opulenza in diverse epoche e nazioni ha dato origine a due diversi sistemi di economia politica relativamente al problema di arricchire la gente. Uno si può chiamare sistema commerciale, l’altro sistema agricolo».
In realtà Smith sviluppa una critica radicale dei due sistemi e oppone a ciascuno di essi il proprio, nel quale è presente nella sostanza la prospettiva del civile, dove la radice del progresso, ossia dell’arricchimento, si colloca nello sviluppo delle relazioni tra i soggetti.
Il passaggio dal mercantilismo al periodo ‘classico’ (inclusa la Fisiocrazia) può essere qui descritto nei suoi termini più generali come contrassegnato da una cesura molto netta che include i seguenti passaggi: 1) il rifiuto del concetto bullionista della pratica identificazione della ricchezza con l’accumulo di moneta o di strumenti finanziari; 2) il rifiuto del cosiddetto profit upon alienation, ossia dell’idea che l’eccedenza (o prodotto netto) sia frutto di guadagno conseguito attraverso lo scambio; 3) la generale adesione al principio della superiorità del laissez-faire, ossia del carattere ‘naturale’ del regime concorrenziale; 4) il rifiuto o superamento del popolazionismo; 5) il rifiuto della concezione monetaria dell’interesse, la quale presuppone a sua volta una nozione monetaria del capitale, che viene invece sostituita dalla nozione reale di capitale.
Questi passaggi avvengono nel pensiero italiano, secondo un itinerario parallelo a quello rintracciabile in Scozia, in una forma meno drastica rispetto a quanto accade in Francia. Sarebbe utile qui un richiamo (che per brevità omettiamo) alla letteratura del dopoguerra sull’Illuminismo, sino alle riletture recenti, da Franco Venturi a Jonathan Israel. Le prospettive di studio sull’Illuminismo, specie in relazione con il pensiero economico, possono infatti essere collocate entro il quadro della distinzione tra quello che chiamiamo qui Illuminismo civile e il cosiddetto Illuminismo radicale, sul quale si è diffusa molta letteratura recente.
Di fatto questa distinzione ha prodotto il risultato di attirare l’attenzione soprattutto sull’Illuminismo radicale come il sistema di pensiero che ha forgiato la maggior parte dei valori sociali e culturali della nostra epoca. In realtà una simile prospettiva implica un’enorme sottovalutazione dell’Illuminismo civile e della sua influenza, probabilmente dovuta proprio a un’insufficiente attenzione al caso italiano, il quale si presenta come una delle espressioni più forti e coerenti dell’Illuminismo civile. Sotto questo aspetto (pur con le necessarie qualificazioni e distinzioni interne) si può dire che diventa essenziale studiare il caso italiano separatamente dal caso francese.
Fondamentale è qui l’analisi dell’idea di progresso che contraddistingue l’Illuminismo civile. Si tratta di un progresso di tipo costituzionale che mira allo sviluppo di un insieme stratificato di istituzioni, il quale aprirà in tempi successivi la strada al liberalismo (si veda Scazzieri 1999 e 2002; è questa una tesi che ha significativa eco nella letteratura sul Settecento milanese: cfr., per es., Capra 2002, pp. 291 e 383).
L’idea di fondo è quella di libertà. Per l’Illuminismo radicale invece l’idea di fondo è quella dell’uguaglianza e la finalità politica è il democratismo radicale.
La disciplina economica diventa, a partire soprattutto dal Settecento, un pilastro fondamentale dell’idea dell’Illuminismo civile. Anche qui, limitando il campo al pensiero economico, vi sono delle differenze tra contesti diversi: nel caso francese, la reazione al colbertismo induce a esaltare il mercato e il laissez-faire come perni dell’ordine sociale. L’unica politica possibile è quella di mettere i mercati concorrenziali in condizioni di funzionare perché l’ordine di mercato è sufficiente di per sé per correggere gli squilibri della società. Nel caso italiano la concezione ha altri caratteri: tra economia e istituzioni vi è a un tempo distinzione di piani unita a forte compenetrazione nella spiegazione dell’ordine sociale. Il caso lombardo, Verri in particolare, è sicuramente di grande interesse.
Occorrerà infine esaminare la continuità nel tempo della linea italiana a cominciare con il primo Ottocento milanese. Si è spesso sostenuta (come accennato sopra) la tesi di sterilità del pensiero economico italiano specie nel primo Ottocento, quasi che quella che qui è chiamata la ‘linea italiana’ (civile, o – come talvolta si afferma – moderata) sia stata schiacciata nello scontro perenne (e del resto tuttora in corso) tra Illuminismo radicale e anti-Illuminismo.
In realtà, il caso italiano, nel corso degli ultimi due secoli, può risultare istruttivo proprio per aver dato luogo a interessanti correnti di pensiero economico. Questa considerazione è alla base della concezione unitaria del periodo 1750-1850, fondamento della tradizione italiana fino al presente.
Esaminiamo ora i caratteri dell’Illuminismo italiano quali emergono nella seconda metà del Settecento.
Antonio Genovesi è in Italia il maestro riconosciuto da tutti, oltre che primo cattedratico della disciplina per l’influenza e i buoni uffici di Bartolomeo Intieri. Punto centrale dell’economia civile inaugurata da Genovesi è la tensione tra due forze di segno opposto: forza concentrativa e forza diffusiva (Stapelbroeck, Bruni, Sugden, in Genovesi economista, 2007, in partic. pp. 139-40). È stato notato che, pur all’interno di una visione ispirata a forme di utilitarismo settecentesco, Genovesi è profondamente influenzato dalle impostazioni neoplatoniche (Shaftesbury) e dalle filosofie del senso morale (da Gershom Carmichael a Francis Hutcheson, il cui insegnamento verrà raccolto da Smith), con la caratteristica insistenza sulla pluralità dei sentimenti morali di segno non esclusivamente autointeressato. È anche evidentemente influenzato dal linguaggio newtoniano.
Una concezione dell’ordine sociale spontaneo che ha al suo centro l’idea della eterogenesi dei fini (e quindi derivante dalla influenza di Mandeville e dalla polemica nei confronti di Hobbes), da un lato, e, dall’altro, l’idea antropologica di animal civile (ispirata a Giambattista Vico e in continuità con gli umanisti civili ai quali si è fatto cenno) rendono per la prima volta esplicita quella concezione cooperativa del mercato concorrenziale che troverà in Smith l’espressione più nota (si veda in proposito anche il volume di Robertson 2005).
Il taglio anticartesiano del verum ipsum factum (che radica la vera conoscenza nel progettare e nel fare) di Vico costituisce un importante elemento per comprendere la radice dell’economia civile. È una linea argomentativa di questo genere che induce Genovesi a rovesciare il celebre adagio di Hobbes (homo homini lupus) nel suo contrario homo homini natura amicus (v. Genovesi economista, 2007, p. 42). A volte gli si contrappone la frase homo homini deus: il significato non è dissimile (cfr. Natoli 2004, cap. 11). Di qui l’importanza che Genovesi attribuisce alla pietà e che lo conduce a concepire la società umana («civile») come fondata sul diritto dei suoi membri a essere soccorsi. La concezione del mercato come forma di mutua assistenza darà notoriamente i suoi frutti nell’opera di Smith.
L’insegnamento di Genovesi inaugura una stagione feconda del pensiero economico italiano che costituisce una rielaborazione di questa linea di indagine. Qui si inserisce il contributo della Scuola di Milano, quale trova espressione nell’Accademia dei Pugni, nel «Caffè» e nelle opere degli autori collegati. Nella sede lombarda il tema dell’economia civile appare più esplicitamente calato in un confronto diretto con la realtà economica e con le esigenze pratiche della politica delle riforme. È quest’ultimo elemento che motiva, nel contesto milanese, l’adozione di un taglio e di un linguaggio in parte diverso rispetto al caso della Scuola napoletana.
In Pietro Verri, per es., oltre al rappresentante forse più eminente dell’eudemonismo settecentesco, dobbiamo vedere lo spirito pratico, con tratti squisitamente lombardi, del riformatore. Questo aspetto del pensiero e dell’azione di Verri si colloca in diretto rapporto con il ruolo della monarchia austriaca, dopo Aquisgrana, con il regno di Maria Teresa e, successivamente, con il regno dei figli di lei Giuseppe e Leopoldo.
Nell’arco temporale considerato nel presente saggio viene a collocarsi il grande evento della Rivoluzione in Francia. L’importanza degli eventi connessi alla Rivoluzione non dovrebbe essere trascurata nello studio dell’evoluzione della riflessione economica.
Si può ricordare come la stessa History di Schumpeter faccia cadere proprio sul 1790 il termine ad quem della prima delle grandi periodizzazioni utilizzate nell’opera, compiendo così una scelta forse non esattamente ‘popolare’ tra gli storici della disciplina, ma certamente non casuale. L’osservazione ci consente di sostanziare qualche precedente rapida allusione al razionalismo francese in sede di storia intellettuale con speciale riferimento ovviamente alla storia delle idee economiche, oltre a contribuire a cogliere la direzione e il senso complessivo degli sviluppi dell’analisi economica in Italia nella prima metà dell’Ottocento.
Wilhelm Röpke (1943) dedica grande attenzione alla critica delle principali forme di quanto egli chiama il ‘razionalismo moderno’. Egli parla di ‘abuso della ragione’, soprattutto in rapporto con quel genere di hybris scientifica, detta appunto scientismo, che diventa dominante in epoca positivista e massime nel corso del 19° sec. e che conserva grande influenza ancor oggi anche nel campo dell’economia.
Si tratta di una generalizzata applicazione allo studio dell’uomo e della polis di una particolare concezione del metodo scientifico, quale essa è ricavabile soprattutto dallo studio delle scienze della natura. In particolare, vi prevale la concezione empirica della scienza basata su eventi misurabili, i ‘fatti’, come concezione che contiene (secondo una diffusa persuasione) la sfida cruciale per la conoscenza scientifica anche in campo economico. Talora si parla di evidence-based science. Che le proposizioni scientifiche siano fondate sui ‘fatti’ è, d’altra parte, un’idea che ha subito critica definitiva sul piano epistemologico nel corso del 20° sec., per es., a opera di Karl R. Popper o di Hilary Putnam.
È la Francia, secondo Röpke, il Paese nel quale quel genere di razionalismo acquista supremazia intellettuale dalla fine del 18° secolo.
Lungo linee simili si è sviluppata l’analisi della società e della politica nella Francia di fine Settecento sino a estendersi alla formazione delle cosiddette Écoles francesi, nate appunto all’epoca della Rivoluzione e largamente pervase di spirito ingegneristico. Nasce qui il termine stesso di idéologue e di idéologie, inizialmente con un significato simile a quello di ‘filosofia morale’ in Scozia, ma con una crescente accentuazione dottrinaria così da qualificare la tendenza dominante nello studio della polis, che diventa di tipo materialistico e sensistico. Al tempo stesso l’utilitarismo settecentesco conosce trasformazioni di rilievo, ben oltre le posizioni, per es., di un Beccaria, con il consequenzialismo matematico espresso dal ‘calcolo felicifico’ di Bentham, trasformazioni che vanno esse stesse nel senso indicato.
Come ha efficacemente ricordato Albert Hirschman, proprio da una simile impostazione epistemica scaturisce, per es., la ‘scoperta’ di Saint-Just quando afferma che «l’idea di felicità è nuova in Europa». «Nuovo – commenta Hirschman – era il pensiero che la felicità potesse essere costruita [engineered] modificando l’ordine sociale, compito che egli stesso e i suoi compagni giacobini si erano assunti con entusiasmo» (1982, p. 1463). È questa, in sostanza, la radice della celebre religion des ingénieurs di Saint-Simon tradotta in filosofia politica.
L’influenza di ‘derivazioni’ ideologiche di questo tipo costituisce lo sfondo necessario per intendere lo sviluppo in Italia di una scienza ‘positiva’ della società. Benché sotto diverse forme, l’influenza del pensiero francese è larghissima nella penisola. In economia si pensi soltanto alla risonanza dell’opera di Jean-Baptiste Say, il grande erede dello spirito della Rivoluzione che rinnova lo studio dell’analisi economica. In polemica con il purismo astratto di Ricardo, Say riconduce l’idea-forza dell’ingegnerismo sociale entro l’alveo della disciplina empirica. Vi è qui un passaggio fondamentale per comprendere l’importanza che all’epoca assume la statistica in Italia.
L’Italia del primo Ottocento ha avuto il suo ingegnerismo sociale nella forma dell’industrialismo inteso come concezione dello sviluppo della società imperniato sul progresso industriale. Il caso di Melchiorre Gioia è la tipica espressione dell’influenza in Italia del modello francese di repubblicanesimo e di una concezione ‘amministrativa’ dell’economia. Il pensiero di Gioia delinea una concezione della società civile profondamente diversa da quella che abbiamo sin qui tracciato come concezione caratteristica della tradizione italiana e, in particolare, dell’elaborazione nell’arco temporale qui discusso. Gioia dà espressione a una concezione di taglio eminentemente produttivistico e aziendalistico che trova il suo necessario complemento anche nel difficile rapporto dell’autore con il mercato concorrenziale. La stessa statistica, «scienza dei saperi utili all’industrioso, risultava a un tempo momento di ‘autoistruzione della società civile’ e funzione di tipo principale per un’amministrazione concepita anch’essa, non diversamente dalle forme dell’industriosità civile, come ‘azienda’; dunque in ultima analisi come produzione» (Meriggi 1990, pp. 136-37). È chiaro che la nozione di ‘società civile’, che abbiamo sin qui impiegato, non trova applicazione. Se di ‘società civile’ si ha da parlare in Gioia, questa è entità di altra natura, costruita su concetti economico-produttivistici tali da configurarsi come command economy, piuttosto lontana dai modelli di ‘concorrenza civile’ che abbiamo visto e che vedremo nel corso dell’Ottocento italiano a cominciare dall’opera di Romagnosi.
Occorre tuttavia subito notare che la storia intellettuale del periodo non è in Italia dominata da questo genere di impostazione e di esperienza. Sono in particolare gli ambienti lombardi, quelli legati al moderatismo, a elaborare una concezione dell’ordine economico-sociale diversa da quella dell’ingegnerismo giacobino.
Il punto di riferimento a livello nazionale per una concezione alternativa dell’ordine economico come ordine spontaneo, non ingegneristicamente costruito, che si riallaccia concettualmente alla filosofia morale scozzese e alla tradizione italiana fiorita largamente nel secolo precedente, è costituito dalla filosofia civile di Romagnosi.
Gioia e Romagnosi sono espressione di elevato livello di due anime dell’Italia della Restaurazione; due esperienze parallele e coeve che si sviluppano secondo logiche diverse nella Milano di quegli anni. Comune alla riflessione di entrambi è l’attenzione per le nuove forme dei processi produttivi collegate con la prima rivoluzione industriale. Profondamente diversa è invece la risposta che essi forniscono per quanto riguarda le modalità istituzionali e politiche atte a governare processi di trasformazione in una società in cui dinamiche intense della struttura produttiva complicano i nessi tra il sistema dei mercati e l’assetto della società civile. Romagnosi mette in risalto gli aspetti ‘costituzionali’ riguardanti «l’ordine sociale delle ricchezze». Egli sottolinea quindi l’importanza di assetti giuridici e civili capaci di assicurare l’articolazione ordinata delle relazioni economiche anche in situazioni di cambiamento spontaneo. Gioia invece sposta il centro dell’attenzione verso i processi di produzione e le loro esigenze organizzative così che il suo interesse è amministrativo piuttosto che costituzionale.
Non fa meraviglia che gli esordi di Romagnosi siano segnati dall’aspra critica che egli rivolge all’industrialismo sansimoniano. Tra le opere maggiori del Romagnosi vi è il trattato dell’incivilimento, Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia, del 1832. Grande collaboratore degli Annali universali di statistica, tra i più celebrati saggi di Romagnosi vi è quello Sulla libera universale concorrenza nell’ordine sociale delle ricchezze, ivi apparso nel 1827, che Attilio Garino-Canina ristamperà negli anni Trenta in una ben nota silloge dedicata agli economisti italiani del Risorgimento, dove compaiono anche testi di Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Cavour, Francesco Ferrara.
Nel vocabolario romagnosiano la parola politica è costantemente subordinata alla filosofia civile, definita come scienza dell’umano incivilimento, che abbraccia il perfezionamento economico, morale e politico. Incivilimento e concorrenza sono termini inscindibili in Romagnosi. Sua è la celebre massima che dà efficace espressione alla distinzione tra Stato e società civile: «il governo abbia il meno possibile di affari nell’atto che le società hanno il massimo di faccende». I giovani che si raccolsero intorno a Romagnosi (dai cugini Sacchi, a Cesare Cantù, Alessandro De Giorgi, Cattaneo, Cesare Correnti), la migliore gioventù milanese dell’epoca, furono segnati da uno spirito pratico e positivo eminentemente lombardo. A essi si applica bene l’analisi a suo tempo svolta da Greenfield sull’efficacia dello spirito pratico e realizzatore del moderatismo lombardo aperto alla dimensione europea, uno spirito che traeva alimento proprio dall’insegnamento di Romagnosi circa «il rapporto tra le forme di governo e le libere attività di una società civile» (Greenfield 1934; trad. it. 1985, pp. 247-48).
Agli economisti sopra accennati dovremmo qui aggiungere altri nomi tra i quali certamente Pietro Custodi, Luigi Valeriani, Alessandro Manzoni, Pellegrino Rossi, Antonio Scialoja, Francesco Fuoco, Lodovico Bianchini, Giuseppe Pecchio, Luca Cagnazzi de Samuele. Si potrebbe addirittura aggiungervi il ginevrino Sismondi, non tanto per le sue opere maggiori quanto in considerazione di una sua celebre disputa con Manzoni su questioni che toccano molto da vicino il tema della natura dello spirito italico.
In molti di questi autori è rintracciabile la concezione del civile che caratterizza il pensiero italiano, tanto da motivare la tesi principale della presente Introduzione, ossia la tesi di una sostanziale continuità nel pensiero italiano tra Sette e Ottocento lungo il filo conduttore che ha il suo momento alto nella lezione genovesiana, della quale si fa espressamente portatore, in pieno 19° sec., Bianchini con il suo volume Della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati, un titolo di rilievo nella letteratura italiana dell’Ottocento in cui trova eco esplicita la ‘socialità’ congeniale a Genovesi.
In linea generale è possibile affermare che la letteratura economica di rilievo, nel primo Ottocento, è largamente concentrata al Nord del Paese, pur dovendosi evidenziare il caso di economisti-patrioti meridionali esuli al Nord e ivi operanti come accade a Francesco Ferrara e ad Antonio Scialoja.
È questa l’epoca nella quale si consolida la tradizione liberale italiana che avrà poi grande influenza nel corso del Novecento.
Piuttosto che al movimento politico democratico, all’ambiente del liberalismo milanese e alla scuola del Romagnosi va ricondotta la figura e l’opera di Carlo Cattaneo.
Si può qui ricordare che la tradizione del pensiero economico milanese e lombardo, dopo gli anni ormai parecchio lontani nel tempo del «Caffè», si manifesta anche nella vita (anch’essa breve, 1818-19) di quel foglio scientifico-letterario che fu «Il Conciliatore» di Silvio Pellico e Ludovico di Breme, di Giuseppe Pecchio, di Romagnosi, di Adeodato Ressi, di Luigi Porro Lambertenghi e di Federico Confalonieri; un foglio il cui programma prelude già a quello che rappresenterà come patriota e come autore Cattaneo con il suo «Politecnico», ossia colui che si distinguerà tra i notabili milanesi per essere il ‘filosofo militante’ o, meglio, l’‘economista militante’.
Pietro Verri e Cattaneo (entrambi milanesi) marcano grosso modo gli estremi temporali e al tempo stesso sono tra i massimi rappresentanti del periodo qui considerato. Nasce allora spontaneo il parallelo tra la Milano del «Caffè» e quella del «Politecnico», quasi a ripercorrere idealmente i famosi Cento anni di Giuseppe Rovani come percorso significativo per illuminare un secolo di storia intellettuale dell’Illuminismo e del Romanticismo italiano.
Occorre riprendere lo spirito che notoriamente animò un Salvemini o un Einaudi o anche un Loria nell’accostarsi a Cattaneo. Anche in questo caso la felicità costituisce il concetto fondamentale del pensiero economico in Italia, totalmente imperniato sui due termini di pubblica felicità e di società civile (cfr. Bruni, Porta 2003). Come già accennato, nel panorama generale del pensiero economico in Italia, uno dei caratteri di fondo della tradizione italiana in generale risiede nel fatto che lo studio della polis alla luce dei principi della nuova scienza non conduce a concepire il sistema economico come un sistema puramente meccanico. Tale studio approda piuttosto a una concezione civica la quale implica una miscela sofisticata di interazioni istituzionali, ben descritta dal termine genovesiano, già ricordato, di economia civile. È questa l’origine di un movimento di pensiero che talora gli stessi contemporanei hanno interpretato assai riduttivamente – come, per es., è accaduto a Ferrara.
Non sarà qui superfluo ricordare che all’epoca della Restaurazione si assistette in Italia a una ripresa dell’atteggiamento empirico tipico dell’età illuministica, atteggiamento che «non era del resto mai venuto meno entro la società e la cultura lombarda. È questo il fenomeno culturale che contraddistingue l’età di Romagnosi e di Cattaneo» (Redondi 1980, p. 729). Ciò accade senza ricadere nello scientismo degli idéologues. Principe della vocazione empirica nella ricerca è proprio Cattaneo, così come lo era stato Verri nel Settecento. Le prime manifestazioni della naturale vocazione per la ricerca empirica in Cattaneo sono ricostruite in forma icastica e indimenticabile da Carlo Dossi nelle sue Note azzurre (1964, pp. 559-60 e 536-37, note 4589 e 4462).
Dopo il tramonto del socialismo reale e l’eclissi del marxismo, è oggi più agevole riportare alla luce l’effettiva dimensione del pensiero economico italiano del primo Ottocento. Ma vi è anche un’altra considerazione da fare. Uno dei lati salienti del pensiero economico contemporaneo è costituito dalla crescente insoddisfazione nei confronti della concezione neoclassica dell’equilibrio economico generale. Si riconosce sempre più ampiamente che il meccanismo allocativo decentrato, svolto attraverso il mercato concorrenziale così come esso è inteso dalla teoria dell’equilibrio economico generale, illustra solo parzialmente i processi concorrenziali di mercato rilevanti per l’analisi economica. È a questo proposito che un’analisi più ricca, soprattutto di contenuti dinamici, dei processi concorrenziali diventa interessante per l’economia politica contemporanea, la quale, esitante a lanciarsi in avventure transdisciplinari, tenta di cavalcare quello che è stato chiamato l’imperialismo metodologico dell’economista (Stigler 1984), consistente nell’applicare il modello consolidato dell’homo oeconomicus (o della scelta razionale) ad ambiti diversi da quello tradizionalmente economico.
Gli economisti italiani, sin dal Settecento, furono sempre acutamente consapevoli (proprio sulla base dell’esperienza storica del Paese in epoca moderna) della reversibilità del progresso economico e diedero contributi per comprendere l’interazione tra sviluppo economico e sviluppo culturale. Il concetto chiave nell’analisi di tali processi fu, per gli economisti milanesi, il nesso tra incivilimento e industria. L’incivilimento venne inteso come una concezione evolutiva della civilizzazione nella quale i fattori economici giocano un ruolo vitale accanto ad altri fondamentali quali le tradizioni istituzionali e i caratteri nazionali. In Verri, per es., è evidente l’importanza della creatività individuale come sorgente di formazione della ricchezza e la società civile diviene prerequisito di industria e commercio in un quadro di concorrenza. Nella stessa linea si situa, nel secolo successivo, Cattaneo, per il quale il progresso è l’esito dell’umano sforzo, sforzo graduale che procede per tentativi ed errori. Né la sua concezione del liberalismo è puramente economicistica, ma si estende a tutte le componenti istituzionali della società. Questo aspetto si applica in Cattaneo tanto al progresso civile quanto al progresso scientifico, proprio in omaggio al caratteristico nesso istituito dal pensiero di Cattaneo tra pensiero scientifico e incivilimento: «il campo della scienza è identico a quello della storia».
Conviene qui ricordare Cattaneo anche come promotore della fondazione della Società di incoraggiamento di arti e mestieri, istituzione milanese che comincia la sua attività nel 1841. In una ben nota allocuzione del 15 maggio 1845, apparsa negli Atti della Società con il titolo di Industria e morale, Cattaneo affronta una delle questioni che formano il punto centrale del suo pensiero economico. È sul piano del progresso economico che la sua concezione della concorrenza giunge a superare l’orizzonte romagnosiano per accompagnarsi, con una direzione assai più precisa, all’idea di scoperta, di innovazione e appunto di progresso.
Siamo nell’ambito del doux commerce, secondo la celebre espressione di Montesquieu – disprezzatissimo da Marx come arcadico –, ossia della società commerciale come civilizing (come ebbe a scrivere Hirschman); ed è proprio qui (è questo il punto fondamentale) che la nozione di concorrenza muta pelle: da concorrenza-bargaining, si tramuta in quella competition for excellence della quale, tra i maggiori economisti, parlerà ad es. Alfred Marshall. In Cattaneo il «liberismo – affermava Luciano Cafagna – è, in questo modo di guardare i processi in atto, soltanto stimolo alla emulazione e non – come per Ricardo – mezzo per modificare relazioni distributive» (1975, p. 213).
«Il vero progresso – scrive Cattaneo in Industria e morale (1845) – non mira a precipitare nel fango le sommità sociali, ma bensì a redimere dal fango, e sollevare ai godimenti della proprietà, dell’intelligenza, dell’onore, quelle condizioni che n’erano diseredate» (2° vol., 1972, p. 479). Questa è in Cattaneo la moralità dell’industria, ossia la moralità dell’industriosità e della scoperta. La via al raggiungimento di quel genere di progresso viene dall’urgenza morale, avvertita di generazione in generazione, di progredire rispetto ai risultati raggiunti da chi ci ha preceduto. La ben nota dicotomia milliana tra produzione e distribuzione è dunque superata lungo una linea espressamente classico-smithiana, che riemerge nella nozione di concorrenza come tensione alla scoperta. Il concetto di dinamica dell’attività economica attraverso l’innovazione e la scoperta – probabilmente il filo più rilevante della elaborazione economica di Cattaneo – ha la sua espressione culminante in un noto saggio della maturità incluso nel 1861 nella seconda serie del «Politecnico» (Del pensiero economico come principio d’economia pubblica, ora in Cattaneo 1972, 4° vol., pp. 300-31).
Proprio in quel saggio la dinamica dell’incivilimento trova forse la sua più chiara espressione e trae le necessarie conseguenze della distinzione cattaneana tra «fisica» e «psicologia» della ricchezza. In Cattaneo l’idea del progresso non corrisponde a svolgimenti deterministici dettati da condizioni strutturali o comunque impersonali: al contrario, il progresso è conquista dell’uomo, è il risultato di finalità perseguite dallo sforzo e dalla volontà degli uomini singolarmente presi e attraverso l’azione individuale. Così il progresso è laborioso, lento e graduale; esso è il risultato di una continua serie di tentativi ed errori e non somiglia dunque per nulla a uno svolgersi lineare e uniforme. Per es., sul tema dell’importanza economica dell’istruzione, così come dello sviluppo delle tecniche e della conoscenza della natura, Cattaneo rileva le insufficienze del pensiero economico.
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