L'economia civile
Far risalire la nascita dell’economia moderna ad Adam Smith è prassi assai diffusa, ma il grande studioso è invece il frutto maturo di un’elaborazione economica di lunga lena, nata in Italia molti secoli prima, perché in Italia erano nati tra 11° e 13° sec. quei traffici mercantili, creditizi e artigianali che avrebbero creato pratiche di mercato capaci di portare il mondo alla rivoluzione industriale. Poiché fu la Gran Bretagna l’antesignana della rivoluzione industriale, è chiaro perché il pensiero di Smith sia fiorito proprio lì, ma né la sua complessità, né l’egemonia economica inglese del Settecento si comprenderebbero senza l’evoluzione precedente. Il primo obiettivo di questo volume è dunque quello di illustrare su quali basi si sviluppò in Italia la riflessione economica che preparò e affiancò la concettualizzazione smithiana.
Se Smith rappresenta sicuramente uno spartiacque fondamentale nella storia del pensiero economico mondiale, il suo pensiero tuttavia, globalmente preso (includendo quindi anche la Theory of moral sentiments, 1759), non si allontana radicalmente dal contemporaneo Illuminismo milanese e napoletano. Fu solo successivamente che la riflessione degli economisti anglosassoni prese una strada più ‘eccentrica’, soprattutto basata sulle elaborazioni di Jeremy Bentham, ma ancora nell’Ottocento la scuola inglese ‘classica’ contava studiosi che offrivano elementi teorici non esclusivamente basati sull’homo oeconomicus.
Il secondo obiettivo di questo volume è quello di ripercorrere come gli studiosi italiani di economia abbiano reagito di fronte al predominio sempre più incontrastato del paradigma economico della massimizzazione dell’utilità individuale, posto a base unica dell’attività economica.
È opportuno notare subito che, mentre fino alle soglie del Settecento l’economia degli Stati italiani era fra le più avanzate del mondo (anche se già a partire dal 16° sec. era iniziato un lento declino), con il grave ritardo nell’avviare la rivoluzione industriale, che verrà parzialmente agganciata solo alla fine del 19° sec., l’Italia diventò un Paese arretrato, nonostante la sua élite fosse sempre rimasta aggiornata sugli sviluppi d’oltralpe. Mentre dunque ciò che veniva elaborato in Italia in campo economico fino al Settecento aveva una valenza internazionale di primo livello, in seguito assunse prevalentemente un impatto nazionale, non senza qualche significativa ‘punta’ di internazionalità.
Il tentativo che in questa breve Introduzione esperiremo, di identificare un filo rosso del pensiero economico italiano che attraversa i secoli, non può fare giustizia della ricchezza dei contributi offerti dagli studiosi italiani, quelli inclusi in questo volume ma anche quelli esclusi per ragioni di spazio. Tale ricchezza attesta la radicata e variegata presenza sul suolo italiano di una propensione alla riflessione in campo economico che rende testimonianza delle capacità intellettuali e imprenditoriali della nostra terra, non spente dagli innumerevoli conflitti, dai terremoti e dalle altre calamità naturali così come dal ricorrente malgoverno. Il filo rosso che ci apprestiamo a offrire vuole piuttosto segnalare quelli che, secondo noi, possono essere considerati gli apporti fondativi e peculiari.
Partire dal Medioevo è stato irrinunciabile, perché è ormai sempre più ampiamente riconosciuto che proprio nelle città-Stato italiane vennero create quelle pratiche economiche che rappresenteranno gli strumenti indispensabili per l’allargamento dei mercati, sia in senso geografico sia in senso dimensionale: la banca, attiva su molte piazze con lettere di cambio; l’assicurazione, che abbassava i livelli di rischio imprenditoriale; la commenda, che fu la prima forma di società per azioni finalizzata a incrementare i capitali e a dare vita lunga all’impresa al di là dei fondatori; la partita doppia, che codificò la struttura degli affari. Tutte innovazioni che diedero all’imprenditorialità una capacità di azione continuativa, su dimensione sempre più grande e con un’efficacia crescente. Su queste basi avvenne la fioritura economica delle città italiane, che si prestò all’imitazione da parte di molti altri imprenditori europei, fra i quali quelli di maggiore successo furono prima gli olandesi e poi gli inglesi.
A queste prassi economiche si cercò da parte degli intellettuali dell’epoca – che erano ecclesiastici, monaci, professori di università – di offrire basi razionali che, da un lato, distinguessero chiaramente le attività ‘laiche’ da quelle proprie di chi si dedicava interamente alla Chiesa e ai poveri, ma dall’altro non separassero le attività economiche dal fondamento morale allora considerato irrinunciabile in qualunque attività umana. Fu inizialmente la teoria del ‘giusto prezzo’ delle merci e del denaro che servì a questo scopo: il prezzo doveva essere giusto sia dal punto di vista tecnico (rispecchiando cioè i costi, inclusa un’oculata remunerazione dell’attività imprenditoriale, secondo la nozione tomista del profitto come retribuzione dei professionisti del mercato) sia dal punto di vista morale (andando a vantaggio di tutti e non del solo detentore di capitale). Il prezzo del denaro, in particolare, venne ritenuto giusto quando questo era utilizzato a scopi di investimento in attività economiche il cui fine era il ‘bene comune’, ossia il progresso economico dell’intera comunità cristiana; se invece il denaro veniva tesaurizzato o usato per consumi di lusso, la sua remunerazione veniva considerata usura. Non era dunque tanto il livello del ‘tasso di interesse’ o la forma dei contratti, quanto la logica economica che si perseguiva a fare la differenza tra comportamento economico ritenuto legittimo e, in quanto tale, da promuoversi e comportamento ‘illecito’ da contrastare con leggi.
Furono soprattutto i tre ordini ‘mendicanti’, in primo luogo i francescani dell’Italia centrale, ma anche i domenicani e gli agostiniani, non solo italiani, a sviluppare su queste basi un approccio all’economia che metteva al centro il progresso economico della cristianità come specifica missione dei mercanti, gli uomini d’affari dell’epoca. Fu così che la figura del mercante venne idealizzata fino al punto di farla diventare strategica per la fioritura delle società dell’epoca, come traspare da questa curiosa poesia dell’inizio del 14° sec., Dit des marchands, di Gilles le Muisit, canonico di Tournai (cit. in J. Le Goff, Pour un autre Moyen Âge, 1977, pp. 101-02).
Ai mercatores veniva riconosciuto un ruolo pubblicamente produttivo nel moltiplicare il valore delle cose per renderle fruibili a una platea sempre più ampia di soggetti. Anche la remunerazione del debito pubblico veniva legittimata in questo modo, come un contributo da parte di chi aveva capitali temporaneamente infruttiferi alla sostenibilità e al maggior benessere della città. L’attività economica, dunque, vedeva inscindibilmente connesso l’arricchimento individuale con la prosperità della città, e trovava legittimazione e dunque desiderabilità sociale proprio in questo nesso. È così che nelle città italiane ebbero sviluppo contemporaneo i palazzi, le chiese, i monasteri, i municipi, le università, gli ospedali, i Monti di Pietà, le fontane, i giardini e le mura, tutti convergenti verso una piazza centrale che era insieme luogo di mercato, di cerimonie, di assemblee, di giochi. È questa economia, nella quale gli scambi avvengono in un contesto di reti di solidarietà e condivisione per il bene della città, che ha assunto la denominazione di economia civile. In essa, l’orientamento al bene comune impedisce alla società di distruggersi attraverso conflitti dilanianti e diseguaglianze che uccidono la propensione al lavoro produttivo. In essa, le virtù civiche sono quelle del lavoro ben fatto, del decoro della città, della responsabilità diffusa nella gestione dei beni comuni e nell’attivazione dei beni pubblici, il tutto all’interno di un mercato in cui convivono scambio di equivalenti e reciprocità.
Ma un discorso economico imperniato sulla città non poteva resistere agli sviluppi che esso stesso aveva generato, ossia all’allargamento dei mercati, che richiedeva sistemi politici ed economici più grandi della città. I fondamenti del vivere insieme in una società non più uni-cittadina vengono progressivamente ritracciati in assunti che si allontanano dalla communitas propria delle città, portando a una teorizzazione economica assai diversa da quella che faceva leva sul bene comune. Ma questo non avviene in Italia. Mentre dunque la civiltà cittadina italiana decadeva, la prima reazione degli intellettuali italiani del 16° sec. fu la ‘fuga’ nel privato, generata dalla decadenza della democrazia e della mercatura, con abbondante contorno di retorica e formalismo. La ricchezza italiana veniva ‘giocata in difesa’, aumentando l’uso improduttivo e le caratteristiche di rendita (proprio il contrario di quanto era stato elaborato in precedenza) e sostenendo un’intellettualità ormai non più parte integrante di un processo creativo, che spesso arrivava addirittura a condannare la ricchezza, vedendone i lati prevalentemente negativi. Anche talune chiusure della Riforma cattolica indubbiamente contribuirono a spegnere la libertà intellettuale, diffondendo un conformismo oppressivo. A questo clima si sottrassero in pochi, fra cui Bernardo Davanzati, Giovanni Botero e Antonio Serra, i quali tuttavia non potevano che ispirarsi agli sviluppi conoscitivi che si stavano verificando all’estero, con qualche spunto di originalità.
Il Seicento non segnò però la fine della capacità italiana di elaborazione concettuale in campo economico. Il Settecento vide infatti una nuova grande e importante ondata di studiosi italiani, che espressero un forte desiderio di cambiamento della società e studiarono questo cambiamento con particolare attenzione al ‘buon governo’ degli Stati, quegli Stati che progressivamente sempre più si identificarono con gli Stati nazionali. Questa nuova stagione del pensiero economico italiano mostra, alquanto sorprendentemente, uno stretto aggancio con la fioritura medioevale, pur elevando il discorso su un piano superiore a quello sviluppato nei secoli precedenti. Ciò che permetteva questo aggancio era il solido legame che l’economia continuava a mantenere, non solo in Italia, con la filosofia politica, legame che consentiva al pensiero economico di discutere non solo di strumenti tecnici, ma di fondamenti teorici e morali. A fronte degli assunti di individualismo, contrattualismo e autointeresse che venivano sempre più accreditati soprattutto dagli intellettuali anglosassoni come gli unici fondamenti dell’attività economica, gli illuministi italiani, della Scuola milanese e di quella napoletana, poterono così argomentare che la felicità privata era solo una delle due facce della medaglia che simboleggia le società ben ordinate, l’altra essendo costituita dagli interessi degli altri, ossia dalla felicità pubblica. L’economia pubblica è dunque l’erede dell’economia civile. «È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri»: è il compendio che Antonio Genovesi offre di questo nuovo approccio italiano al pensiero economico, il cui impatto internazionale è di difficile valutazione.
Il secolo dei lumi si accompagna a una forte presenza della riflessione economica anche in Italia, e l’economia politica è senza dubbio, in generale, tra le presenze scientifiche di maggiore spicco nei diversi Illuminismi sulla scena europea. Tuttavia, la disciplina è sostanzialmente rimasta in secondo piano in molti degli studi sull’Illuminismo, anche nel caso italiano. In realtà, l’Illuminismo italiano rappresenta un caso emblematico per questo genere di studi. Tra i saggi raccolti nel volume che qui presentiamo vi è un buon numero di contributi dai quali si può evincere un bilancio e una valutazione circa la lezione dell’Illuminismo italiano per quanto concerne la presenza e lo sviluppo dell’economia civile e dell’economia pubblica.
Particolare importanza assume, proprio nel caso dei lumi, anticipare in sede introduttiva un sintetico cenno delle condizioni attuali e di alcuni mutamenti in corso negli studi storico-analitici in economia che possono contribuire a spiegare l’attuale temperie culturale e gettare luce sulle potenzialità della storia dell’analisi economica.
Il canone dell’economia civile, negli studi di Genovesi, diventa espressione di una triplice combinazione di elementi: 1) una concezione dell’ordine politico-economico come realtà che scaturisce dalla società civile contrapposta all’autorità politica, ossia allo Stato; 2) una visione continuamente riformatrice; 3) un impegno scientifico-culturale della disciplina rivolto prevalentemente a una ricerca suscettibile di spendibilità applicativa.
I temi salienti della ricchissima produzione italiana di contributi economici riguardano un insieme di problemi, tra i quali: a) la preoccupazione etico-sociale, che pervade l’opera degli economisti italiani in ogni tempo e produce teoria orientata all’azione e impostata in modo tale da rendere ‘naturale’ l’analisi delle istituzioni e, in generale, la relazione con gli aspetti extraeconomici; b) un diretto e approfondito interesse per l’economia dinamica; c) un’impostazione di metodo basata sulla stretta fusione tra la disciplina e la sua storia, così che l’interesse per la storia dell’analisi economica è un tratto distintivo della tradizione italiana. Diversi contributi convergono al riguardo.
Come già accennato, il riferimento alla vita civile costituisce l’elemento significativamente ricorrente nella tradizione italiana: gli esempi più caratteristici coinvolgono autori ben noti, anche distanti nel tempo, quali Matteo Palmieri, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, fino a Paolo Mattia Doria, come hanno mostrato classici studi da Jacob Burckhardt a Hans Baron e a Eugenio Garin.
L’epoca illuminista, successiva rispetto a quegli autori, costituisce il momento più interessante, ed è soprattutto dalla seconda parte del 18° sec. che la categoria del ‘civile’ si associa direttamente con l’economico, dando vita a un paradigma di successo e di rilievo come filo conduttore per una storia delle idee economiche in Italia. Dopo Ludovico Antonio Muratori, il tema della pubblica felicità prende forza come fondamento della nuova economia politica dell’età delle riforme e, al tempo stesso, genera un canone destinato a esercitare duratura influenza sull’intera tradizione italiana.
Per una esatta collocazione della tradizione italiana occorre qui allargare lo sguardo a recenti riletture del pensiero economico classico. In particolare, quello che è stato chiamato da Donald Winch il revisionismo storico ha raggiunto – nel corso degli ultimi trent’anni – risultati notevoli, di grande interesse per lo studio della tradizione italiana.
La nozione di economia civile è il fondamento del paradigma scientifico che emerge nella letteratura settecentesca. Essa rafforza e precisa la nozione di ordine spontaneo della società commerciale: il commercio diventa quella specifica forma di mutuo soccorso che consente a una società complessa non solo di sopravvivere, ma di crescere attraverso la continua interazione tra mercato e istituzioni. Alla base vi è (almeno per il caso di Genovesi) la ripresa di una tradizione medievale, tanto francescana quanto tomista, imperniata sull’idea di reciprocità.
Vi è storicamente un complesso itinerario che conduce dalla ben nota dicotomia di Thomas Hobbes (stato di natura/società civile) alla tricotomia che è alla radice della concezione dell’ordine politico-sociale caratteristica dell’economia politica della Scuola classica nella seconda metà del Settecento, una concezione appunto fondata sui tre elementi: stato di natura, società civile, Stato. È precisamente il concetto di economia civile che consente di riscoprire le radici fondanti dell’economia di Smith proprio nella tradizione italiana, anziché negli economisti francesi (i fisiocrati), come più spesso si ritiene, malgrado le prese di distanza dello stesso Smith (esplicite specie nel quarto libro di An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776) rispetto a quegli autori.
Lasciando nell’ombra la tradizione italiana, si è anche mancato di cogliere talune importanti differenziazioni interne alla Scuola classica. Vi è infatti, da una parte, l’ottimismo di Smith e dall’altra parte il pessimismo della ‘scienza triste’ di David Ricardo. Si tratta di una divisione fondamentale, che oggi riemerge prepotentemente, per es. attraverso gli sviluppi più recenti della dinamica economica strutturale, ispirata espressamente al paradigma smithiano, dopo anni nei quali la rivisitazione dell’economia classica era sembrata attestarsi – specie dopo l’edizione definitiva degli scritti di Ricardo curata negli anni Cinquanta da Piero Sraffa – su una ricostruzione del paradigma ricardiano. Questa importante cesura tra Smith e Ricardo è stata paradossalmente oscurata da una troppo intensa luce riservata al tema del valore. Come è noto, la ricostruzione corrente della Scuola classica è tuttora eccessivamente condizionata da due elementi: la presunzione di omogeneità tra fisiocrazia e Scuola classica (come già accennato), da un lato, e dall’altro lato l’assunto di una supposta stretta continuità tra Smith, Ricardo e Marx come traccia, imperniata esclusivamente sul valore, del percorso interno alla Scuola classica stessa.
La ‘revisione storiografica’ alla quale abbiamo fatto cenno riafferma il ritorno a Smith come pietra angolare della Scuola classica in economia. L’orientamento e il taglio prescelto in sede di revisione storiografica non hanno sin qui consentito di includere e di tener conto a pieno titolo della tradizione italiana. Occorre dunque aprire un nuovo fronte d’indagine, che si colloca all’intersezione tra il generale piano della storia delle idee e il piano specifico della storia dell’analisi economica, per affrontare il tema degli illuminismi, ossia delle diverse tradizioni di filosofia politica che occupano la scena specie nella seconda metà del Settecento, al fine di esaminare il loro rapporto con l’economia politica. È in questo quadro che trova collocazione il risultato intellettuale più notevole dell’Illuminismo italiano, costituito dall’economia civile di Genovesi e dei suoi seguaci. Proprio alla luce di quello sviluppo teorico, diventa oggi possibile mettere pienamente a fuoco e comprendere la necessaria cesura che divide autori come Smith e Ricardo.
Da un’altra prospettiva, è ancora precisamente il pensiero italiano della seconda metà del Settecento che forma la radice e l’origine di un altro tipo di sviluppo, connesso al punto precedente: ossia la costante ‘distanza’ della tradizione italiana rispetto alla nuova teoria del valore di Smith e di Ricardo, la teoria del valore lavoro, che Marx trasformerà in teoria dello sfruttamento. Tale ‘distanza’, non di rado (soprattutto per quanto concerne il primo Ottocento) interpretata come un segno di arretratezza della tradizione italiana (per es., da parte di Francesco Ferrara, la cui critica della tradizione italiana riguarda anche altri aspetti), è in realtà spiegabilissima se si segue con coerenza la linea di storia intellettuale imperniata sul concetto di economia civile e sulle sue influenze. Questa prospettiva, critica di fronte alla teoria del valore in generale, e più particolarmente rispetto all’opera di Marx, rappresenta una costante importante nel pensiero italiano, tanto da ritrovarsi perfino nelle elaborazioni italiane del marxismo di autori quali Achille Loria, Antonio Labriola, Arturo Labriola, Benedetto Croce, fino ad Antonio Graziadei e, soprattutto, a Sraffa.
È possibile mostrare che nella stessa direzione si colloca anche il risultato che emerge dalla concezione dell’economia dinamica alla quale, come si è accennato sopra, conduce la tradizione italiana e nella quale trova posto la stessa dinamica economica strutturale, frutto della simbiosi tra il pensiero italiano e la Scuola di Cambridge.
Il problema fondamentale di tutta l’economia moderna è colto perfettamente dal titolo dell’opera più nota di Smith, là dove si parla di indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Smith collega quella indagine con la ricerca dei fondamenti dell’ordine sociale, visti come condizione indispensabile alla crescita ossia all’arricchimento. Analisi di natura e cause sono in stretto rapporto. Nell’introdurre il quarto libro, dedicato alla storia delle teorie economiche, Smith precisa il significato generale dell’analisi economica. L’economia politica è da lui descritta come «un ramo della scienza dello statista o del legislatore». La disciplina economica è sicuramente un pilastro fondamentale dell’Illuminismo civile in Italia. Vi è differenza tra i vari contesti illuministi: nel caso francese, per es., la reazione al colbertismo conduce a esaltare il mercato e il laissez-faire come perno dell’intero ordine sociale. L’unica politica possibile è quella di mettere i mercati concorrenziali in condizioni di funzionare, perché l’ordine di mercato è sufficiente di per sé per correggere gli squilibri della società.
Il caso italiano ha altri caratteri: tra economia e istituzioni c’è una compenetrazione assai forte. Vi è alla radice una concezione dell’ordine sociale spontaneo che ha al suo centro l’idea dell’eterogenesi dei fini da un lato (dovuta all’influenza di Bernard de Mandeville e riflesso della polemica nei confronti di Hobbes) e dall’altro l’idea antropologica di animal civile (ispirata a Giambattista Vico in continuità con gli umanisti civili ai quali si è fatto cenno). Si rende così per la prima volta esplicita quella concezione cooperativa del mercato concorrenziale che troverà in Smith l’espressione più popolare. Il taglio anticartesiano del verum ipsum factum di Vico (che radica la vera conoscenza nel progettare e nel fare) costituisce un importante elemento per comprendere la radice dell’economia civile. È una linea argomentativa di questo genere che induce Genovesi a rovesciare il celebre adagio di Hobbes (homo homini lupus) nel suo contrario homo homini natura amicus. A volte gli si contrappone la frase homo homini deus con significato non dissimile. Di qui l’importanza che Genovesi attribuisce alla pietà, e che lo conduce a concepire la società umana (‘civile’) come fondata sul diritto dei suoi membri a essere soccorsi. La concezione del mercato come forma di mutua assistenza darà notoriamente i suoi frutti in Wealth of nations.
Sempre nel Settecento italiano, ritroviamo in Pietro Verri una scienza del legislatore alla quale contribuisce la tradizione francese (in questo caso con Montesquieu) e quella anglosassone (con John Locke, David Hume), dove il legislatore compare come figura pubblica che codifica i nessi costitutivi della società civile; il discorso di Verri non si presenta né come mero economicismo né come teorizzazione dell’uomo politico o del potere politico. Qui intervengono i caratteri di una tipica concezione della civitas che ha le sue radici appunto anche in Montesquieu e nella tradizione anglosassone. La lotta di Verri contro l’arbitrio e il privilegio non ha nulla in comune con la teorizzazione dell’assolutismo politico, un elemento che per Verri ha un valore strumentale.
Nella concezione della legge e dell’attività legislativa elaborata da Verri, per es. a partire da un suo ben noto contributo al «Caffè» (Sulla interpretazione delle leggi, 1765), la libertà politica è definita precisamente nei termini di libertà civile.
Col nome di libertà politica io intendo l’opinione che ha ogni cittadino di possedere se medesimo e quello che è suo e di poterne a suo piacere disporre sin tanto ch’ei non trasgredisca le leggi promulgate con legittima autorità. [...] Il più dolce, il più benefico impero è quello delle leggi; esse non conoscono parzialità, non hanno affetti; sode, immutabili, ordinano lo stesso ad ognuno.
La libertà – come già in Montesquieu – è dunque definita come soggezione alle leggi. Premette Verri nei suoi Elementi del commercio, pubblicati nel 1765 sul «Caffè»:
La grand’arte del legislatore è di sapere ben dirigere la cupidigia degli uomini. Allora si scuote l’utile industria dei cittadini; l’esempio, l’emulazione e l’uso fanno moltiplicare i cittadini utili, i quali cercano a gara di farsi più ricchi col somministrare alla patria merci migliori a minor prezzo. [...] La libertà e la concorrenza sono l’anima del commercio; cioè la libertà che nasce dalle leggi, non dalla licenza. Quindi ne segue che l’anima del commercio è la sicurezza della proprietà fondata su chiare leggi, non soggette all’arbitrio; ne segue pure che i monopolj, ossia i privilegi esclusivi sieno perfettamente opposti allo spirito del commercio.
Lungi dal forzare e prescrivere, le leggi debbono invitare e guidare; il principio regolatore è che (scrive Verri in Meditazioni sulla economia politica, 1771, al § 12) «una legge, che abbia contro di sè la natura e l’interesse di molti, non può mai essere costantemente e placidamente osservata, nè portare fauste conseguenze alla città». E nelle Memorie (storiche) sulla economia pubblica dello Stato di Milano (1768), al cap. 5, egli scrive: «La grand’arte del legislatore è, e sarà sempre quella di far coincidere l’interesse privato col pubblico».
C’è una sorta di continuità tra Verri e Genovesi nell’enfasi sull’importanza di arricchire in termini di maggiore prossimità e più intensa interazione. Come si animi l’industria avvicinando l’uomo all’uomo: così Verri intitola il § 26 della sua Economia politica. Nello stesso senso opera la sua critica al sistema fisiocratico, là dove egli argomenta che l’accrescimento del reddito e della ricchezza (§ 2) dipende dalla capacità di accostare l’uomo all’uomo. Di qui l’importanza del commercio e la critica dunque a quella scuola che ha «creduto che l’accrescimento del commercio fosse nocivo ai progressi dell’agricoltura», venendo così a negare gli effetti positivi dell’«instancabile industria» e del «florido commercio» (§ 13) nel raffinare le arti, espandere i bisogni e stimolare la creatività. «La classe adunque de’ manofattori non può dirsi sterile» (§ 3). È stato anche notato come Gaetano Filangieri, riprendendo quest’analisi di Verri, abbia parlato del commercio come espressione dello spirito di fraternità.
Tutto questo spiega la posizione che sarà espressa da Smith, nella quale divisione del lavoro e commercio sono due facce di una medesima realtà, ossia della realtà di una società che arricchisce con il rendere sempre meno autosufficienti i suoi membri. Una volta affermatasi la divisione del lavoro, ciascuno con il proprio lavoro si procura una parte minima dei mezzi per vivere. L’uomo – ecco la ‘filosofia’ della quale Smith diverrà il massimo esponente e divulgatore, pur non essendone l’inventore – ha costantemente bisogno dell’aiuto dei suoi simili, né può pensare di procurarselo solo facendo semplice appello alla loro benevolenza. Vi è una stretta continuità tra l’economia civile elaborata dagli illuministi in Italia e l’economia politica di Smith.
Nelle riprese odierne del pensiero economico italiano il percorso si è compiuto a ritroso: da un ritorno ai classici ispirato al ricardismo si è passati a una concezione che mette al centro il paradigma smithiano. Protagonista in questa direzione è oggi il sistema di dinamica strutturale, come studio moderno del grande problema smithiano, la dinamica (appunto) della ricchezza delle nazioni.
Appare dunque – e neppure troppo sorprendentemente – come nella parte oggi più viva e costruttiva di una delle maggiori scuole di economia teorica di questo dopoguerra, ossia la Scuola di Cambridge, riaffiorino contenuti ispirati alla tradizione italiana.
Specie a proposito di studio delle istituzioni, Luigi Pasinetti ha fatto ricorso a quello che egli chiama, nei suoi scritti più recenti, il ‘teorema di separazione’, in virtù del quale (egli scrive) si afferma che «una separazione è necessaria tra le indagini che riguardano le basi fondative delle relazioni economiche – che devono essere individuate a uno stadio strettamente essenziale – e le indagini che devono essere svolte al livello delle effettive istituzioni» (Keynes e i keynesiani di Cambridge, 2010, p. 245). Le indagini del primo tipo riguardano le relazioni economiche fondamentali, definite e individuate indipendentemente da specifici modelli comportamentali e assetti istituzionali. Questo è il livello di indagine che viene chiamato naturale e che consente la determinazione delle grandezze economiche «fondamentali» (p. 245).
Proprio in virtù del ‘teorema di separazione’, questa impostazione riesce ad abbracciare una serie di nuovi elementi: tra l’altro, proprio quegli elementi che rientrano nell’ambito dell’economia civile. Alla struttura di legami di necessaria compatibilità espressa dal concetto classico di ‘sistema naturale’ viene associato – a un livello di analisi separato – lo studio delle istituzioni (ossia delle ‘regole del gioco’) necessarie per affrontare questioni localmente e storicamente specifiche del funzionamento del sistema economico.
Occorre ora esaminare la continuità nel tempo della linea italiana a cominciare dal primo Ottocento. Si è spesso sostenuta la tesi di sterilità del pensiero economico italiano specie nel primo Ottocento, quasi che quella che qui è chiamata la ‘linea italiana’ (civile, o – come talvolta si afferma – moderata) sia stata schiacciata nello scontro perenne (e del resto tuttora in corso) tra l’Illuminismo radicale, soprattutto di marca francese, e le diverse forme dell’anti-Illuminismo, come sostiene Jonathan Israel. In realtà, il caso italiano, nel corso degli ultimi due secoli, può risultare istruttivo proprio per aver dato luogo a interessanti correnti di pensiero economico. Questa considerazione è alla base della concezione unitaria, che emerge anche in questo volume, del periodo 1750-1850 e degli elementi di continuità della tradizione italiana fino al presente.
Ancora per tutto l’Ottocento perdura infatti l’eredità intellettuale della scuola italiana, riconoscibile, per es., nella tesi romagnosiana dell’incivilimento, così come nelle preoccupazioni di Lodovico Bianchini e di tanti altri per il «bene stare del maggior numero possibile», fino ai pensatori ‘cooperativi’ di fine secolo, al ‘socialismo della cattedra’ di Luigi Luzzatti, alla ‘democrazia cristiana’ di Giuseppe Toniolo, alla Scuola di finanza pubblica, tutti filoni di pensiero accomunati dalla convinzione che fra «l’utile e l’onesto» (come scrisse Angelo Messedaglia) non ci poteva e non ci doveva essere conflitto.
Molti diversi esempi si possono portare, che confidiamo il lettore trovi adeguatamente forniti dalle pagine di questo volume. Ma certo non mancano voci dissonanti. Ferrara, alla metà dell’Ottocento, lancia strali contro il pensiero economico italiano invocando e propiziando attivamente l’apertura al pensiero economico europeo. Gli italiani sono accusati di essere provinciali, oltre che colpevolmente incapaci di assorbire la cultura dell’apertura concorrenziale.
L’economia marginalista fiorisce in Italia all’insegna dell’internazionalizzazione: Maffeo Pantaleoni, per es., non ammette l’esistenza di scuole in economia e tanto meno di tradizioni nazionali. La teoria economica è una. Né può essere diversamente secondo la sua concezione epistemica, in cui la storia del pensiero economico è vista come accumulazione delle verità economiche, dove la parola verità acquista un significato forte e assoluto. In realtà l’economia politica – secondo Pantaleoni (con sferzante polemica all’indirizzo della Scuola storica) – conosce soltanto due scuole, quella di coloro che la sanno e quella di coloro che non la sanno.
Quello che verrà chiamato in quegli stessi anni individualismo metodologico (e che coincide con quanto oggi si intende con economia microfondata) diventa un principio che non ammette discussione. L’interdisciplinarità non è incoraggiata: pensiamo a Vilfredo Pareto, che non è soltanto economista, ma traccia ben precise invalicabili distinzioni tra il terreno dell’economia, della sociologia, della politica.
Purtuttavia, anche in epoca marginalista, la tradizione italiana conserva vivo il senso del rapporto con le istituzioni, con l’esogeneità, con gli aspetti di teoria della giustizia in senso lato.
A ben guardare, anche nel Novecento la tradizione della scuola italiana non scompare, producendo intellettuali che non s’identificano con un mainstream neoclassico sempre più volto a praticare l’economia come una tecnica separata da una visione complessiva della società e fondata sul paradigma esclusivo dell’homo oeconomicus. È chiaro che a questa sorta di ‘riduzionismo teorico’ sfuggono anche altri autori nello scenario europeo: ma certamente non ne sono prigionieri gli italiani. La grandissima maggioranza degli studiosi a cui si è dedicato, nella sezione contemporanea di questo volume, un profilo biografico per la loro rilevanza nazionale e internazionale non appartiene al mainstream, talora in modo programmatico, talaltra semplicemente perché i loro interessi e la loro cultura li spingono ad affrontare temi diversi da quelli tradizionalmente trattati dai neoclassici.
L’interesse di Pantaleoni per la dinamica economica, per es., e la sua classificazione dei diversi tipi di dinamica, segna il contributo di un marginalista assolutamente originale in una materia delicata e difficile come la distinzione tra statica e dinamica, in genere insufficientemente trattata dai neoclassici, per lo più interessati agli aspetti statici oppure stazionari dei sistemi economici in una logica allocativa di risorse date. Ma, più in generale, sono gli sviluppi della finanza pubblica che hanno avuto il più largo spazio nel marginalismo italiano e che denotano la capacità degli economisti italiani di unire economia, politica, società in un senso non riduzionistico né totalizzante, ma continuamente volto a cogliere la complessità del reale e a mantenere il senso e la distinzione, premessa dell’interazione, dei diversi piani del discorso scientifico.
Certamente ciò non è solo un portato della tradizione, ma anche di una struttura dell’economia italiana che non ha mai assomigliato a quella di marca anglosassone, dove ha prevalso la corporation di grandi dimensioni, in cui il lavoratore è un minuscolo tassello di un complesso sistema governato da una struttura gerarchica e da catene di montaggio. L’economico in Italia non è rigidamente separato dal sociale nei milioni di piccole imprese in cui il ‘padrone’ lavora fianco a fianco con il dipendente e non può dunque essere governato con l’approccio dualistico di marca anglosassone, in base al quale nell’economico si agisce secondo i dettami dell’homo oeconomicus e nel sociale si può praticare la ‘restituzione’ attraverso la filantropia, sempre individualisticamente determinata. Ciò è risultato spesso intuitivamente chiaro a molti studiosi italiani di economia, che si sono per questo tenuti lontani dal mainstream puro e duro.
Anche l’ultimo saggio del volume, che offre uno sguardo su autori che hanno svolto la loro attività prevalentemente nei primi decenni postbellici, attesta questo predominante carattere fuori dagli schemi della teorizzazione economica italiana, ma non va sottovalutato che oggi la grandissima parte degli economisti italiani svolge un lavoro applicativo di modelli di natura dichiaratamente neoclassica che poco o nulla hanno a che fare con l’economia italiana, ma si inseriscono in una rete internazionale di contributi in cui specificità di carattere nazionale tendono del tutto a scomparire a livello teorico, anche se restano ancora presenti a livello delle strutture economiche delle varie nazioni, che si portano dietro una path dependence difficilmente cancellabile. Questo esito di ‘snazionalizzazione’ del pensiero economico è il portato dell’egemonia postbellica del mondo statunitense, che ha interpretato il paradigma neoclassico al meglio, e della globalizzazione.
In particolare, occorre registrare negli anni più recenti il notevole contributo di autori italiani alla formazione di una corrente di analisi denominata Political economics. Della sua impostazione sarebbe fuori luogo tentare una sintesi in questa sede, anche perché si tratta di sviluppi relativamente recenti, sui quali ancora mancano veri e propri lavori di inquadramento e di sintesi teorica e metodologica. Siamo in presenza di una linea di pensiero che sconfessa apertamente i canoni che qui abbiamo indicato come caratterizzanti la tradizione italiana nell’analisi economica, ma va notato che ci sono un’origine e una componente italiana in questo programma di ricerca, pur non essendovi nell’uso una versione italiana dell’etichetta.
Siamo di fronte a una linea d’indagine che – per taglio, orientamento o contenuti – si riconosce nella cosiddetta critica di Lucas, la quale (dagli anni Settanta) ha condotto a studiare la politica economica in termini di logica strategica (teoria dei giochi) ponendo l’attenzione su problemi di incentivi e di credibilità delle regole di politica economica. Gli economisti della Political economics, inoltre, hanno fatto tesoro di (e anche contribuito a) un’impostazione politologica che anch’essa affronta lo studio delle istituzioni politiche attraverso l’impiego di logiche strategiche, seguendo una linea d’indagine che fissa l’attenzione sul ‘mercato politico’, dove l’attore (il politico) è visto come una specie di mercante di voti.
La Political economics appare replicare anche molte delle caratteristiche della scuola di Public choice, sviluppatasi a partire dai primi anni Sessanta soprattutto tramite i contributi di James Buchanan, il grande economista proveniente dalla Scuola di Chicago al quale sarebbe stato poi attribuito il premio Nobel per l’economia negli anni Ottanta.
Il riferimento alla Public choice di Buchanan è al riguardo di particolare significato, anche perché la Scuola di Buchanan costituisce l’esempio maggiore del cosiddetto imperialismo economico, del quale hanno parlato economisti come George J. Stigler e altri, ossia la generalizzata applicazione della razionalità strumentale tipica dell’economista ad ambiti tematici diversi dall’economico, con il risultato di approdare a un’impostazione unificata di ogni aspetto dell’intervento e della regolazione dell’economia. Tutta la politica, si potrebbe affermare nella logica della Political economics, sarebbe riducibile a politica economica.
Inoltre, la Scuola di Buchanan era stata pionieristica nel lanciare la cosiddetta Constitutional political economy, la quale sottolinea l’importanza delle regole costituzionali e dei vincoli che esse impongono alla politica economica, un aspetto oggi saliente anche per i teorici della Political economics.
La Political economics si presenta dunque come una radicalizzazione dell’impostazione della scuola di Public choice: mentre quest’ultima si proponeva di correggere e rettificare l’impostazione keynesiana predominante, la Political economics intende proporsi come una teoria alternativa della politica economica. Senza entrare in ulteriori dettagli, ci limitiamo qui a un confronto con la tradizione italiana.
Registriamo intanto un dato: in economia, atteggiamenti e indirizzi ‘imperialistici’ (nel senso qui detto) non sono nuovi. I fisiocrati, a lungo chiamati ‘gli economisti’ per eccellenza, propugnavano precisamente una concezione totalizzante del sapere economico. Marx, con altri argomenti, ha sostenuto la tesi del materialismo storico, in base alla quale la struttura economica della società costituisce la radice di tutti i fenomeni sociali e politici che interessano quella società. La Political economics, generalizzando il metodo e gli assunti comportamentali dell’economia politica basata sulla razionalità strumentale ottimizzante, si presenta dunque come riedizione speculare del materialismo storico: è questo un primo elemento di distanza dalla tradizione italiana, dove invece (come si è argomentato) la separazione dei piani dell’analisi costituisce la base per stabilirne la fruttuosa connessione, così che (perfino nelle posizioni marxiste) gli economisti italiani sono generalmente alieni da una logica totalizzante e, in questo senso, ‘imperialistica’.
I cultori della Political economics, come branca dell’economia, rifuggono da un’esplicita discussione circa la collocazione metodologica di questa branca d’indagine. Essa è definita soprattutto dai problemi che studia. Acquista un ruolo primario il confronto con i fatti, piuttosto che la collocazione rispetto a specifiche tradizioni di pensiero economico. Sotto questo aspetto, la Political economics è largamente dominata da indagini empiriche rese possibili dall’amplissima disponibilità di dati e dalla fantastica facilità di elaborazione dei medesimi. Essa rappresenta così un’edizione della scienza evidence-based, secondo una concezione pragmatica, metodologicamente ingenua, che tuttavia riscuote enorme successo e che tende a ridurre le diverse discipline alla dimensione della misura e della stima statistica.
Dalla prospettiva della presente indagine, è evidente che con la Political economics s’intende mettere fine alla coltivazione di tradizioni nazionali in economia – dichiaratamente ritenute specie in via di estinzione – attraverso l’internazionalizzazione intesa come omologazione. Si finisce, in qualche modo, per dare rilievo alla tradizione italiana sconfessando apertamente tutti i canoni sui quali la stessa è specificamente costruita.
Al momento attuale, nel pensiero italiano è aperta la sfida tra la linea dell’economia civile e la linea della Political economics. Senza qui approfondire ulteriormente, occorre senz’altro ricordare anche che sarebbero da indagare le indicazioni pratiche e i primi frutti scaturiti da queste due diverse linee teoriche. La linea della Political economics tende a elaborare una filosofia tecnicista in campo politico.
È probabile che, vista nel contesto italiano, la Political economics rappresenti una reazione decisamente intensa, ritenuta necessaria per ristabilire un equilibrio rispetto a eccessi del passato.
I suoi limiti possono essere legati all’ambizione omologatrice di stabilire un pensiero ‘unico’, un unico sistema di pensiero che si confronta soltanto con i fatti: una tentazione già peraltro sperimentata (come accennato, pur in forma meno virulenta) dai marginalisti italiani più di un secolo fa. L’economia civile, al contrario, intende l’internazionalizzazione nel senso di reciproco arricchimento attraverso l’interazione di tradizioni diverse.
Oggi però questo pensiero unico, che per decenni ha tenuto banco come superiore, è solo apparentemente fonte di successi. In realtà è in forte crisi, proprio sotto la pressione dei fatti, e richiede una profonda revisione. Poiché nell’ambito delle scienze sociali e umane le innovazioni emergono sempre dal ripensamento di idee già note (si pensi all’Umanesimo, o alla continua rivisitazione del pensiero aristotelico), ripercorrere una tradizione di pensiero economico diversa da quella anglosassone come quella italiana può fornire ispirazione al necessario cambiamento del paradigma predominante. Ciò si augurano tutti coloro che hanno contribuito a questo volume.