Il climatologo, l’ecologo, l’ambientalista, posto di fronte alle minacciose e potenzialmente catastrofiche conseguenze dei cambiamenti climatici, avrebbe una ricetta semplice e chiara: eliminare il fenomeno al più presto, costi quel che costi. L’economista ha un approccio affatto diverso. Egli è abituato a considerare anzitutto le alternative esistenti, di ciascuna di esse – sia che prevedano interventi o l’inazione – considera e valuta tutti i benefici e tutti i costi con un’unica metrica – quella monetaria – e quindi suggerisce al politico la scelta e la dose dell’eventuale intervento, o mix di interventi, cui è associato il maggiore beneficio netto per la società.
Il compito di identificare costi e benefici associati ai cambiamenti climatici e alle politiche di mitigazione e adattamento pone formidabili difficoltà, anzitutto per le caratteristiche peculiari che tale fenomeno possiede. Esso è globale perché riguarda l’intero pianeta, ma allo stesso tempo impulsi e risposte ambientali e socio-economici sono altamente differenziati tra le varie regioni. È un problema di lungo termine, nel senso che i suoi impatti si dispiegano nel lungo e lunghissimo periodo, influenzando perciò anche e soprattutto le generazioni future. È un fenomeno pervaso da elevata incertezza, sia rispetto alle sue caratteristiche fisiche ed i suoi effetti ambientali e socio-economici, quanto a entità e dinamica.
Atteso che le conseguenze dei cambiamenti climatici consistono in una serie di rilevanti danni ambientali e socio-economici, cercare di identificarli e quantificarli al meglio delle nostre conoscenze fornisce uno dei due ingredienti del lavoro dell’economista. Questa informazione è infatti alla base della definizione dei benefici di eventuali azioni di contrasto del fenomeno. Una crescente e intensa attività di ricerca scientifica, con l’ausilio delle simulazioni di sofisticati modelli matematici economico-climatici, è in corso al fine di valutare il valore monetario dei danni dei cambiamenti climatici. Non è possibile qui fare un inventario esauriente di tali risultati, ma basti dire che il famoso Rapporto Stern del 2006 nello scenario peggiore quantificava i danni per il mondo intero dopo il 2100 in una perdita del 14% di pil mondiale.
Dall’altro lato vi sono i costi dell’eventuale intervento. Anche qui, il lavoro di ricerca ha riguardato più la mitigazione, in quanto soluzione per eliminare il problema, anche se i costi delle politiche di adattamento, più rilevanti a breve andare, sono oggetto di crescente analisi.
Valutare i costi della mitigazione vuol dire quantificare i costi delle politiche di riduzione delle emissioni: a titolo di esempio, il Quarto rapporto dell’Ipcc pubblicato nel 2007 indica che il contenimento dell’aumento della temperatura globale a +2 °C relativamente all’era preindustriale costerebbe nel 2050 circa lo 0,12% annuo di pil mondiale o il 5% cumulativamente da oggi fino ad allora. I costi dell’adattamento, invece, sono molto differenziati tra regioni del mondo, a causa del diverso grado di vulnerabilità che esse hanno agli effetti dei cambiamenti climatici.
Un recente studio della Banca mondiale indica che per l’Africa sub-sahariana, la regione più debole, il costo delle politiche di adattamento raggiungerebbe lo 0,7% del pil annuo della regione nel 2020, per scendere allo 0,5% nel 2050. Nel momento dell’annuncio del noto pacchetto europeo energia-clima denominato ‘20-20-20’ il 23 gennaio 2008 scorso, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso dichiarava che, mentre le misure proposte costerebbero 3 euro in media a settimana, «il costo dell’inazione è fino a 10 volte più elevato di ciò che qui proponiamo». Questo accostamento ben evidenzia il problema economico della scelta che scaturisce dal confronto tra costi e benefici (attesi e percepiti).
Nel momento in cui si debba procedere all’adozione di politiche di contrasto dei cambiamenti climatici sorge un’enorme difficoltà, associata proprio alla natura globale, ma con cause ed effetti differenziati, del fenomeno. Per un’azione efficace è infatti necessario adottare un accordo internazionale secondo cui tutti i paesi del pianeta, in quanto tutti corresponsabili, concorrano alla soluzione con politiche domestiche potenzialmente costose per le proprie economie. Allo stesso tempo, tali paesi dovranno concorrere in misura differenziata, in quanto non sono tutti egualmente responsabili del problema e non tutti subiscono le conseguenze avverse in egual misura.
Qui sta tutta la difficoltà, storicamente sperimentata fino ad oggi – da Kyoto a Copenhagen fino alla recente conferenza di Cancún – di raggiungere un accordo internazionale che sia efficace, efficiente ed equo.
Efficace in quanto operi una riduzione delle emissioni di gas serra sufficientemente ampia per controllare l’evoluzione del clima secondo la misura suggerita dagli scienziati.
Efficiente, così da comportare una distribuzione degli oneri che minimizzi il costo complessivo degli interventi.
Equo in maniera tale da distribuire tra le regioni l’onere dell’intervento in proporzione alle loro responsabilità – storiche, correnti e prospettiche – nonché alle capacità delle loro economie.
In un accordo internazionale queste tre caratteristiche sono spesso in conflitto tra loro e come tali difficili da contemperare soprattutto quando il problema da risolvere sia epocale, come è il caso dei cambiamenti climatici. È per questo che un compromesso, se le posizioni sono tra loro inizialmente molto distanti, resta assai difficile da raggiungere.