L’economia dell’Africa subsahariana
Geografia, Stati, popolazione
Il continente africano comprende 53 Stati che si sono formati nel loro assetto attuale per lo più nella seconda metà del 20° sec., conquistando l’indipendenza politica dai Paesi europei che ne avevano colonizzato i territori. Tra questi Stati, 47 formano l’area geopolitica che nelle istituzioni internazionali e nella letteratura economica è convenzionalmente chiamata Africa subsahariana, per la posizione a meridione della fascia desertica che separa l’Africa settentrionale dal resto del continente. Come spazio geografico, l’Africa subsahariana ha un’ampia varietà di zone climatiche e di habitat naturali, dalla foresta pluviale nella fascia equatoriale alle zone aride o desertiche, dalle terre fertili nella regione dei Grandi Laghi a vaste zone tropicali, fino alle barriere coralline lungo le coste che si affacciano sull’Oceano Indiano. Sotto il profilo antropologico, nel continente africano vi è una ricca varietà di lingue parlate e una grande diversità di culture. Una storia diversa distingue i Paesi dell’Africa settentrionale, eredi per cultura dell’espansione islamica medievale, da quelli dell’Africa subsahariana. Nel complesso della vasta regione subsahariana viveva, nel 2007, oltre il 12% della popolazione mondiale (circa 800 milioni di persone). La crescita demografica è recente, ed è stata rapida: si stima che nel periodo 2000-2007 la popolazione sia cresciuta a un tasso medio annuo del 2,5%, oltre il doppio della media mondiale (World bank 2009b, p. 353). Secondo le stime delle Nazioni Unite, questa crescerà dai quasi 675 milioni di abitanti del 2000 agli oltre 863 del 2010, sfiorerà 1 miliardo nel 2015 e arriverà a quasi 1,2 miliardi nel 2025. A causa della rapida crescita demografica, la percentuale dei giovanissimi è alta: bambini e ragazzi da 0 a 14 anni erano nel 2007 il 43% degli abitanti, contro una media mondiale del 28% (World bank 2009b, p. 353). La popolazione della regione presenta, nonostante la bassa speranza di vita alla nascita (circa 50 anni nel 2006), alti rapporti di dipendenza: è elevata la proporzione tra il complesso dei giovani e degli anziani in età non lavorativa, da una parte, e la popolazione adulta nell’età attiva, dall’altra. In rapporto alla vasta estensione dell’area (dal Sahara al Capo di Buona Speranza, dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano), la densità media è bassa: 34 ab./km2 nel 2007. Gli Stati della regione sono comunque molto diversi tra loro per numero di abitanti ed estensione del territorio. Vi sono Stati minuscoli sia per popolazione sia per superficie, come lo Swaziland e il Lesotho (rispettivamente, 17.364 km2 e 1.123.000 ab. e 30.355 km2 e 2.130.000 ab., 2009), Stati con popolazione relativamente scarsa rispetto alla loro ampia estensione, come il Mozambico (21 milioni di ab., 801.590 km2), Stati sia popolosi sia estesi, come la Nigeria (148 milioni di ab., 923.768 km2), Stati di estensione così ampia da rendere difficile il controllo del territorio, in particolare la Repubblica Democratica del Congo (2.345.410 km2, 62 milioni di abitanti). La bassa densità di popolazione, una costante di lungo periodo nella storia africana, fu accentuata dal tragico tributo imposto dalla tratta degli schiavi tra gli inizi del 16° e la metà del 19° sec., sia sulla rotta atlantica sia sulle rotte orientali che approvvigionavano il mondo musulmano. La sola rotta atlantica sottrasse al territorio africano circa 11 milioni di persone, per di più selezionate tra gli individui giovani e robusti nelle fasce d’età produttive e riproduttive. Nel 21° sec., la distribuzione della popolazione sul territorio dell’Africa subsahariana è diseguale. Vi sono Stati fittamente popolati, come il Ruanda, la Nigeria o il Malawi (395, 162 e 148 ab./km2 nel 2007), e altri a bassa densità di popolazione, come il Mali, il Niger o la Repubblica del Congo (10-11 ab./km2). Se vaste zone restano difficilmente accessibili o quasi disabitate, l’urbanizzazione affolla le baraccopoli nelle grandi città. Le migrazioni interne spostano forza lavoro verso i centri maggiori e nuovi flussi migratori premono verso l’Europa e altri continenti. Secondo le stime delle Nazioni Unite già citate, a seguito della crescita demografica la densità media potrebbe salire dai 28 ab./km2 del 2000 ai 36 del 2010 e ai 49 del 2025, cifra, quest’ultima, comunque ancora molto inferiore alla densità attuale, per esempio, in Cina o in India.
Il futuro della popolazione che vive nell’Africa subsahariana è cruciale per ridurre il divario enorme di benessere che nel nostro pianeta confina sotto la soglia della povertà assoluta ben oltre 1 miliardo di persone. Nel 2005, il 28,4% dei poverissimi del mondo (coloro che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno) viveva in questa regione (390,6 milioni di persone); il 51,2% della popolazione di tale area viveva nelle condizioni di povertà estrema sopra definite, mentre quasi il 73% viveva con meno di 2 dollari al giorno. L’Africa subsahariana, poiché, come detto, ospita una larga parte della popolazione mondiale in condizioni di povertà estrema (e quindi con difficoltà di accesso ai beni essenziali e alle condizioni di vita dell’epoca contemporanea), e poiché tra le grandi regioni del mondo ha la più alta percentuale di poveri, è un’area prioritaria per l’aiuto allo sviluppo erogato dalla vasta macchina burocratica internazionale. Tale aiuto, sotto forma di cancellazione di debiti, crediti agevolati o donazioni, proviene da istituzioni multilaterali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la FAO o l’agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, nonché da singoli Stati, affiancati dalla presenza capillare di organizzazioni non governative e fondazioni. Gli interventi delle istituzioni internazionali interagiscono con le politiche nazionali, imponendo condizioni contrattate con i governi che ricevono l’aiuto, e quindi sono spesso oggetto di controversie. Gli aiuti, negli Stati che li ricevono, rappresentano una fonte importante di finanziamento per gli investimenti, insieme agli investimenti diretti esteri, largamente concentrati nel settore estrattivo. Oggi, sia in termini di aiuti sia in termini di investimenti diretti esteri, nell’Africa subsahariana cresce la presenza della Cina, dell’India, del Brasile. Sull’efficacia degli aiuti a sostegno delle politiche per la riduzione della povertà, come sugli effetti che i flussi finanziari di tali aiuti hanno sugli equilibri politici o sulla stabilità macroeconomica degli Stati africani, è in corso un ampio dibattito, con voci contrastanti.
Nel 2007, il reddito dell’intera Africa subsahariana era stimato in circa 762 miliardi di dollari, valore di poco superiore (si tratta quest’ultimo di un paragone spesso menzionato) a quello dei Paesi Bassi (circa 750 miliardi), che hanno una popolazione 50 volte più piccola (World bank 2009b, pp. 352-53). Il valore del reddito dell’Africa subsahariana sale a circa il doppio (1496 miliardi) se calcolato a parità di potere d’acquisto; ma resta di un ordine di grandezza simile a quello stimato, con la stessa metodologia, per la sola Spagna (1351 miliardi), che annovera una popolazione 18 volte più piccola. Nei confronti diffusi dalla Banca mondiale, a parità di potere d’acquisto nel 2007 l’Africa subsahariana, pur ospitando, come detto precedentemente, il 12% della popolazione mondiale, disponeva di poco più del 2% del reddito mondiale (World bank 2009b, pp. 352-53).
Nella classificazione a scala mondiale per fasce di reddito, nel 2007 nessuno dei Paesi dell’Africa subsahariana era compreso nel gruppo a reddito alto (World bank 2009b, p. 351). Solo 6 Paesi (Botswana, Gabon, Maurizio, Mayotte, Seicelle, Sudafrica) erano nel gruppo a medio reddito di fascia alta, e altri 8 (Angola, Camerun, Capo Verde, Repubblica del Congo, Lesotho, Namibia, Sudan, Swaziland) nel gruppo a reddito medio di fascia bassa. Il gruppo a reddito basso includeva ben 33 dei 47 Paesi dell’Africa subsahariana (Benin, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Eritrea, Etiopia, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Kenya, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali, Mauritania, Mozambico, Niger, Nigeria, Ruanda, São Tomé e Príncipe, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Tanzania, Togo, Uganda, Zambia, Zimbabwe). Nel 2007, il reddito pro capite dell’Africa subsahariana era di 952 dollari, o di 1870 se si corregge a parità di potere d’acquisto (World bank 2009b, p. 353). Anche con la correzione, si tratta di un reddito pro capite pari solo al 9% di quello del Portogallo, al 12% di quello della Polonia o al 35% di quello della Cina. In sintesi, sono davvero pochi gli Stati di questa regione che hanno un reddito pro capite che consenta, in condizioni di distribuzione del reddito non troppo squilibrate, di sollevare la popolazione da condizioni di povertà grave e diffusa.
Il basso reddito prodotto è nella maggioranza dei casi il primo, pesante vincolo al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Nel 21° sec. l’Africa subsahariana è chiamata ad affrontare la sfida della crescita: investimenti in capitale fisico e capitale umano, e consistenti aumenti di produttività per sostenere più ampi flussi di produzione, condizione indispensabile per migliorare in modo diffuso i consumi e per far fronte all’aumento della popolazione. Ai dati economici si accompagnano valori bassi nell’indice di sviluppo umano, che misura la qualità della vita ponderando il PIL pro capite, i livelli di istruzione e la speranza di vita alla nascita. Nel 2006, la speranza media di vita alla nascita era valutata in 49 anni per gli uomini e 52 per le donne (World bank 2009b, p. 111); a causa dell’epidemia di AIDS, la speranza di vita è in più o meno costante calo dalla fine degli anni Ottanta o dai primi anni Novanta (a seconda dei Paesi), caso unico a livello mondiale. Nel 2005, il tasso di alfabetizzazione tra la popolazione sopra i 15 anni risultava inferiore al 60%.
Nell’immaginario collettivo, l’Africa subsahariana appare spesso segnata dalla miseria, dai conflitti o dall’incidenza dell’epidemia di AIDS, con l’alta mortalità a essa dovuta. Al contempo, è percepita come lo spazio residuo della natura intatta e della ‘tradizione’, mentre nei Paesi sviluppati si restringono gli ambienti non antropizzati e si teme l’omologazione delle culture locali. La regione è conosciuta superficialmente, attraverso ‘cartoline illustrate’ estreme, dal paradiso naturale alla disperazione. Al di là delle verità sommarie delle guide turistiche o dei drammatici reportages, la realtà è che vi sono molte Afriche. L’Africa subsahariana è un mondo vivo, con le sue tragedie e la sua gloria, la dura vita quotidiana nel mondo rurale, ma anche l’arte contemporanea, il cinema popolare, la letteratura di alto livello, i grattacieli, l’ambiente degli affari, le università, le città affollate di locali e musica. Sotto il profilo economico, essa include Paesi con diverso benessere e differenti fonti di reddito. È necessario, quindi, comprendere nei dettagli la complessità delle trasformazioni che le molte Afriche contemporanee stanno attraversando all’inizio del 21° secolo.
La costruzione dello Stato e i problemi istituzionali
Sotto il profilo politico, l’Africa subsahariana non è un’unità politica costituita: né una federazione di Stati, né un’unione politica sovranazionale. Nel 20° sec., le idee panafricaniste sono state motore di movimenti politici nazionali o trasversali nel continente, e la ragione di guardare all’Africa subsahariana come a un’area omogenea può essere prospettica, cioè alimentata dalla speranza di un futuro di integrazione e cooperazione, o dalla ricerca di un’identità o di una voce comune sulla scena internazionale. Molte istituzioni riuniscono, a vario titolo, gruppi di Stati di questa regione, in accordi di cambio, accordi doganali, organismi di promozione dello sviluppo su base regionale (EAC, CEMAC, ECCAS, ECOWAS, SACU, SADC, WAEMU). L’integrazione effettiva delle economie è però limitata, e le barriere burocratiche e doganali poste dai confini rappresentano un impedimento importante alla formazione di un ampio mercato regionale, benché spesso non siano di ostacolo alla mobilità informale della popolazione locale nelle migrazioni interne, o a traffici transfrontalieri illegali o criminali. L’obiettivo dell’integrazione resta di primario rilievo per superare la frammentazione politica e promuovere la stabilità e la crescita economica nella regione.
In un arco storico breve, l’Africa subsahariana ha subito e assorbito radicali trasformazioni istituzionali. La sua storia è stata segnata, come detto, dalla tratta degli schiavi e dal dominio coloniale, con varietà di esperienze. Alla colonizzazione della costa (dal 16° sec.), nel corso del 19° sec. è seguita quella sistematica dell’interno; alla fine del secolo, la spartizione politica del territorio africano tra alcuni Paesi europei (Regno Unito, Francia, Germania, Portogallo, Belgio, Italia, Spagna) ha portato all’imposizione del;le istituzioni coloniali, secondo le diverse linee di gestione e sfruttamento delle colonie elaborate dagli Stati colonizzatori. Dopo l’indipendenza, la costruzione dei nuovi Stati africani ha rappresentato una rottura istituzionale, in difficili processi di transizione verso un assetto politico stabile. L’esperienza del socialismo africano ha imposto con pesante brutalità la trasformazione delle comunità rurali e l’espropriazione di reti di attività commerciali e imprenditoriali (Ayittey 2008). È seguita la crisi di molti Stati di nuova indipendenza, con conflitti alle volte anche devastanti, in un panorama internazionale lacerato dal confronto tra il blocco occidentale e quello sovietico. Il potere è stato esposto a mutamenti improvvisi o a contestazioni radicali, con colpi di Stato o guerre civili. È stato notato come gran parte dei conflitti africani recenti siano generati da conflitti interni a uno Stato, oppure a dimensione regionale ma con guerre civili o scontri tra fazioni, in contesti territoriali nell’ambito dei quali il potere centrale manca completamente di legittimità o di capacità di imporsi.
All’inizio del 21° sec., il numero delle guerre civili è stimato in diminuzione (Carbone 2005, p. 96). Sul finire del secolo scorso o all’inizio di quello attuale, molti Stati sono usciti dai conflitti, avviandosi a nuove soluzioni istituzionali, con svolte, più o meno rapide e contrastate, verso la democratizzazione e l’apertura al mercato. Tra gli altri, l’Uganda e il Mozambico sono usciti da gravi crisi imboccando la via della democratizzazione e dell’economia di mercato; Angola e Sierra Leone si sono avviati verso la stabilità politica. Focolai di conflitto armato sono però ancora aperti in Uganda. La stabilità politica resta precaria in Costa d’Avorio. La Nigeria e il Kenya sono esposti a scontri su base etnica o religiosa. Vi sono aree di conflitto armato persistente, con costi umani altissimi per le popolazioni civili, in Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo e nell’intera regione dei Grandi Laghi, e in Somalia, esempio estremo di Stato che si è dissolto a seguito di una guerra civile prolungata. Lo Zimbabwe è un Paese distrutto dalle pretese dittatoriali del suo presidente Mugabe. I Paesi lacerati dai conflitti soffrono la distruzione di capitale fisico e umano e l’erosione del capitale sociale (le relazioni di fiducia e le regole che facilitano la cooperazione nell’attività economica).
Esaminando l’eredità coloniale nella formazione dello Stato nazionale in Africa, un’ampia letteratura ha posto l’enfasi sulla fragilità degli Stati nati dopo l’indipendenza, e sui comportamenti ‘predatori’ diffusi tra le dirigenze politiche che vi si sono affermate (Carbone 2005). Questi Stati, senza forti radici storiche, eredi delle strutture istituzionali corrispondenti alle arbitrarie divisioni territoriali di matrice coloniale, si sono consolidati con difficoltà e tra stridenti contraddizioni. In alcuni di essi vi è un problema aperto di legittimità e autorevolezza del potere pubblico, e della sua effettiva capacità di controllo sul territorio. Le competenze professionali dei funzionari pubblici sono una risorsa scarsa, e nella gestione della cosa pubblica prevalgono comportamenti di tipo neopatrimoniale, orientati al controllo dei fondi pubblici nella prospettiva di una distribuzione di ricchezza a reti clientelari costruite su base familiare, etnica o regionale. In assenza di trasparenza sui criteri per l’allocazione delle risorse fondamentali, su queste si aprono conflitti che coinvolgono attori africani e attori esterni, e che in molti Paesi sono stati o sono tuttora particolarmente acuti sulle risorse minerarie. Vi è un problema di regole istituzionali come di effettiva capacità delle istituzioni pubbliche. L’incertezza istituzionale è acuita dal sovrapporsi di istituti tradizionali e di innovazioni affermatesi all’atto dell’indipendenza ovvero che si consolidano, in base ai modelli occidentali, per le esigenze imposte dalla macchina degli aiuti allo sviluppo. Complesse sono le regole sui diritti di uso della terra, un ambito dove, in varie esperienze, le norme locali sono state prima soffocate dalle regole ‘socialiste’, per poi vedersi adattate alle esigenze di apertura al mercato o alla necessità di fare spazio agli investimenti dall’estero, con risultati ancora incerti. Peraltro, le società rurali e le culture cosiddette tradizionali si trasformano al contatto con le ideologie che guidano la formazione degli Stati nazionali o con le culture del mondo globalizzato, filtrate nelle migrazioni, nei mezzi di comunicazione, nei modelli di consumo. Nella transizione alla democrazia, l’accesso effettivo al godimento dei diritti politici è limitato, per larga parte della popolazione, dall’analfabetismo e dalle dure condizioni di vita quotidiane, che lasciano poco spazio alla partecipazione politica o costringono a sottomettersi al ricatto di padrini potenti.
Le diagnosi sono differenziate. Un’ampia letteratura ha imputato il ritardo dello sviluppo a fattori politici internazionali, in particolare alle politiche neocoloniali, che avrebbero mantenuto l’Africa subsahariana ai margini e ne avrebbero divorato le risorse anche dopo la conquista dell’indipendenza. Le diagnosi elaborate nell’ambito delle istituzioni internazionali di aiuto o da altri studiosi vedono le ragioni della stagnazione nella fragilità delle istituzioni e nelle politiche fallimentari seguite dai giovani Stati dopo l’indipendenza. Sono state criticate le politiche macroeconomiche (con squilibri di finanza pubblica, alta inflazione e controllo eccessivo dell’economia), le politiche di estrazione di surplus dall’agricoltura (con pregiudizio della produzione agricola, sia commerciale sia di sussistenza), le politiche di chiusura al commercio estero, e il basso grado di interazione tra le economie del continente. Gli indici di fragilità politica e istituzionale (quali il numero dei conflitti, gli episodi di corruzione, l’indicatore di facilità nell’attività economica) mostrano un ambiente nel complesso non favorevole all’investimento produttivo e all’innovazione. Anche nei Paesi dove non prevalgono regimi autoritari, si lamenta la carenza nel funzionamento della giustizia e la debole tutela dei diritti di proprietà. Non c’è economia in sviluppo senza autorità pubblica riconosciuta, efficace nel garantire condizioni regolate per lo svolgimento dell’attività economica e per l’accesso alle risorse e all’attività di impresa. La trasparenza nella gestione del potere, la conquista di istituzioni democratiche o il consolidamento di quelle già esistenti, la creazione di un ambiente legale che tuteli e faciliti l’attività di impresa, la lotta alla corruzione, sono aspetti intrecciati nelle trasformazioni politiche che saranno decisive per il futuro delle economie in quest’area.
I modelli di specializzazione produttiva
Per quanto riguarda l’economia, tra l’ultimo quarto del 20° e l’inizio del 21° sec., l’Africa subsahariana è cresciuta poco o affatto, rimanendo indietro rispetto ad altre regioni in via di sviluppo. Il suo potenziale di crescita non è stato adeguatamente sfruttato, e la sua posizione relativa è rimasta stagnante o è peggiorata. Nei vent’anni tra il 1975 e il 1995, l’andamento del PIL è stato irregolare, con fasi di crescita e di declino; il PIL pro capite è invece diminuito costantemente, e in modo significativo: nella prima metà degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta a un tasso medio annuo dell’1,6%, nella seconda metà degli anni Ottanta a un ritmo più contenuto (Arbache, Page 2008, p. 91). La tendenza si è invertita nella seconda metà degli anni Novanta; tra il 2000 e il 2003 il PIL complessivo della regione è cresciuto a un tasso medio annuo del 4% circa, e nel biennio 2004-2006 a uno del 6%, mentre il PIL pro capite saliva a un tasso del 4% (Arbache, Go, Page 2008, pp. 14 e 18). Secondo le stime della Banca mondiale, nell’intero periodo 2000-2007 il PIL della regione sarebbe aumentato in media del 5% all’anno, un tasso inferiore a quelli dell’Asia meridionale (7,3%) e dell’Asia orientale trainata dalla Cina (8,9%), ma superiore al modesto 3,6% dell’America Latina (World bank 2009b, p. 357).
Considerati i dati, negli anni Novanta gli economisti hanno discusso la ‘tragedia della crescita africana’, sottolineando la divaricazione nella crescita a lungo termine tra i Paesi dell’Africa subsahariana e i Paesi asiatici, avviati, alla fine del 20° sec., su un sentiero di sviluppo. È stata proposta l’idea di un fattore residuo, non spiegato, che avrebbe pregiudicato la crescita nell’area, al di là dell’evidente peso negativo della scarsità di capitale umano (per i bassi livelli di formazione) e di infrastrutture. A tale proposito si sono evocate, con varia fantasia, il clima tropicale, le malattie, la posizione geografica ‘chiusa’ di molti Stati, la varietà di culture e lingue, che porta alla frammentazione etnica. Le ragioni evocate non sembrano convincenti, se considerate come fattori esogeni al di fuori del contesto storico; ma valgono a richiamare le difficoltà in cui molte economie africane continuano a restare intrappolate all’inizio di questo secolo.
Oggi ci si chiede se la crescita iniziata nella seconda metà degli anni Novanta continuerà e se coinvolgerà tutte le economie del continente. Il miglioramento non può considerarsi consolidato, oltre a non essere diffuso a tutte le aree. L’evidenza storica dell’alternanza tra ripresa e stagnazione, in economie fortemente dipendenti per le loro esportazioni dai prezzi internazionali delle materie prime, propone l’interrogativo se, di fronte alla crisi internazionale degli anni 2008-09, i tassi di crescita attuali si manterranno nel secondo decennio del secolo. Inoltre, nel continente non emerge ancora un percorso di convergenza tale da portare gli Stati più poveri ad avvicinarsi al reddito medio di quelli più ricchi; le disparità con il reddito medio del Sudafrica restano in prevalenza quasi invariate, con poche eccezioni (Arbache, Page 2008, p. 108). Vi sono indubbiamente chiari segni di miglioramento, ma si delineano diverse esperienze: un gruppo di Paesi in crescita, un altro tuttora in bilico tra crescita e stagnazione, e un terzo composto da Paesi in declino, consumati in conflitti prolungati o, nel caso estremo dello Zimbabwe, distrutti dalla violenza di un dittatore.
Nel complesso, le economie dell’Africa subsahariana generano reddito prioritariamente in tre settori: le risorse energetiche e minerarie, l’agricoltura (commerciale, di sussistenza o di piccoli agricoltori indipendenti) e i servizi (con un peso importante del settore pubblico). Secondo le stime della Banca mondiale, nel 2007 l’agricoltura generava circa il 15% del valore aggiunto prodotto nella regione, l’industria (incluse attività minerarie ed energetiche) circa il 32%, i servizi circa il 54% (World bank 2009b, p. 357). Il peso dell’agricoltura che risulta da queste cifre riflette la bassa produttività del settore e non la sua importanza in termini di impiego o quale fonte di sussistenza; tra le macroregioni del mondo, la quota dell’agricoltura sul valore aggiunto è maggiore solo nell’Asia meridionale (18%). In termini di impiego, il settore pubblico è ampio o talvolta ridondante, gonfiato dalla funzione di redistribuzione e sostegno dei redditi che svolge soprattutto nelle economie con debole sviluppo dei mercati e fragilità dell’imprenditoria privata. Il peso dell’industria riflette l’importanza del settore minerario ed energetico, mentre è debole l’industria manifatturiera in senso stretto. I Paesi dell’Africa subsahariana, con limitate eccezioni, non hanno sviluppato quella specializzazione manifatturiera per l’esportazione che ha trainato la crescita dei Paesi del Sud-Est asiatico, della Cina e dell’India. Sono rimasti marginali nel processo di globalizzazione, e stentano a trovare nella nuova divisione internazionale del lavoro un ruolo diverso da quello che svolgevano nell’assetto coloniale, come produttori di materie prime agricole (cotone, caffè ecc.) o minerarie (oro, diamanti). A questo si è aggiunta, con effetti importanti, la specializzazione nell’offerta di prodotti petroliferi, sull’onda della domanda mondiale e dei nuovi investimenti trainati dal rialzo del prezzo del petrolio, prima dell’inversione dovuta al diffondersi della crisi finanziaria internazionale. È importante, inoltre, l’estrazione di minerali rari, indispensabili per le nuove tecnologie; per lo sfruttamento dei giacimenti si attendono tuttavia nuovi investimenti esteri. Il settore finanziario, con l’eccezione dell’economia sudafricana, è di dimensioni ridotte e molte economie del continente soffrono del difficile accesso al credito. La disponibilità di servizi bancari è spesso assente nelle zone rurali, anche per l’assenza delle infrastrutture che ne permettono il funzionamento.
Al di là dei problemi comuni, le economie dell’Africa subsahariana possono essere caratterizzate secondo diverse prospettive, per leggerne specificità e differenze. Le diverse griglie di lettura non si escludono reciprocamente, ma possono parzialmente sovrapporsi. Oltre alla classificazione per livelli di reddito, è stata proposta una suddivisione per aree geopolitiche (occidentale, centrale, orientale, meridionale), che pone l’enfasi sulle difficoltà delle economie collocate nell’Africa centrale e in quella orientale (World bank 2009b). Una diversa classificazione suddivide le economie secondo le opportunità offerte dalla collocazione geografica e dalla disponibilità di risorse naturali, fattori che potrebbero offrire diverse potenzialità di sviluppo. I Paesi petroliferi hanno nella ricchezza dei giacimenti (e nelle rendite che ne derivano) la maggiore fonte di reddito; analogamente, i Paesi ricchi di risorse minerarie non petrolifere sono specializzati nell’industria estrattiva, con i flussi di esportazione relativi. I Paesi costieri possono avvantaggiarsi di minori costi di trasporto e di una più facile integrazione con i mercati mondiali, mentre i Paesi non costieri e poveri di risorse sarebbero penalizzati nell’accesso al mercato mondiale dalla collocazione ‘chiusa’, in zone a basso reddito o in condizioni di conflitto. In questa classificazione, le economie petrolifere includono l’Angola, il Camerun, il Ciad, la Repubblica del Congo, la Guinea Equatoriale, il Gabon, la Nigeria, il Sudan; nel gruppo delle economie ricche di risorse minerarie non petrolifere spiccano il Botswana, la Guinea, la Namibia, la Sierra Leone e lo Zambia. Nel gruppo delle economie costiere sono classificati 19 Stati, diversi tra loro per dimensioni e sviluppo (tra questi, Benin, Ghana, Kenya, Mozambico, Tanzania, Sudafrica), nei quali vive nel complesso quasi un terzo della popolazione dell’Africa subsahariana. Infine, 13 Stati sono classificati come economie svantaggiate per difficoltà di accesso ai mercati mondiali e chiusura in aree depresse; tra questi il Burkina Faso, il Ruanda e il Burundi, la Repubblica Centrafricana, l’Etiopia, il Malawi, il Mali, il Niger, la Repubblica Democratica del Congo, lo Zimbabwe (Arbache, Go, Page 2008, pp. 19-20). Il difetto di questo schema è principalmente quello di privilegiare l’aspetto geografico rispetto al percorso storico. La Repubblica Democratica del Congo, devastata dai conflitti, è ricchissima di risorse naturali. Lo Zimbabwe ha goduto di un’agricoltura fiorente prima che la sua economia fosse dissestata dalle scelte dissennate del presidente Mugabe. Sono Paesi di terre fertili e agricoltura potenzialmente ricca anche il Burundi e il Ruanda.
Una classificazione più fine, basata sulla specializzazione produttiva, distingue i Paesi a specializzazione petrolifera o mineraria, che condividono opzioni e problemi delle economie fondate sullo sfruttamento delle risorse del sottosuolo, dai Paesi specializzati nell’agricoltura commerciale, i cui redditi seguono le oscillazioni dei prezzi internazionali di pochi prodotti agricoli. Molti Paesi dell’Africa subsahariana producono prodotti primari per l’esportazione, quali cotone, tè, caffè, cacao, tabacco, arachidi, anacardi, con la prevalenza di poche culture di base nelle economie povere, o di una più ampia gamma d’offerta dove l’agricoltura commerciale è sviluppata. Gli Stati specializzati nei prodotti primari per l’esportazione sono esposti, come detto, alle fluttuazioni dei prezzi sui mercati internazionali, dove essi non hanno potere di mercato, con cicli di espansione quando i prezzi aumentano, seguiti da caduta o ristagno del reddito nelle fasi di discesa. Le economie povere, con forte peso economico e sociale dell’agricoltura a bassa produttività, sono caratterizzate dalla prevalenza del mondo rurale sia nella formazione del reddito (nel 2007, dal 35% del Burundi al 56% della Repubblica Centrafricana), sia nella distribuzione della popolazione tra aree urbane e rurali. Nel gruppo minoritario, ma emergente, delle economie differenziate, la specializzazione si estende a una gamma di settori, dall’agricoltura commerciale al settore minerario, dal settore tessile e dell’abbigliamento ai servizi turistici e finanziari, con processi di transizione in corso il cui esito è aperto (Ghana, Kenya, Maurizio, Tanzania). L’unico Paese che ha già raggiunto un’economia differenziata è il Sudafrica.
Il panorama dell’Africa subsahariana è dominato da due economie molto grandi in rapporto al suo reddito globale, la Nigeria e il Sudafrica, che nel 2007 contribuivano insieme per il 54% al reddito della regione (rispettivamente per il 18% e il 36%; World bank 2009b, p. 353), mentre i loro cittadini rappresentavano quasi un quarto della sua popolazione. La Nigeria, Paese molto popoloso, genera reddito sia per le sue dimensioni sia per le sue rendite petrolifere; ma il suo reddito pro capite era nel 2007 di soli 930 dollari (1770 a parità di potere d’acquisto), appena in linea con la media dell’area. La sua economia ha tratti accentuati di dualismo tra zone prospere e zone arretrate. L’organizzazione politica dello Stato è di tipo federale, con forti divari nella distribuzione regionale del reddito. Sono acuti i conflitti religiosi.
Il Sudafrica, con circa 48 milioni di abitanti nel 2007, è l’economia leader del continente e potrebbe fungere da traino nei confronti dei Paesi limitrofi dell’Africa meridionale e orientale. Il reddito pro capite era nel 2007 di 5760 dollari (9560 a parità di potere d’acquisto), comparabile a quello del Brasile (9370 dollari a parità di potere d’acquisto) e non distante da quello della Romania (10.980 a parità di potere d’acquisto). Il settore finanziario, sofisticato, ha un peso di rilievo nell’economia sudafricana e svolge una funzione di servizio per gli altri Paesi africani, con un importante ruolo di intermediazione nel convogliare gli investimenti esteri diretti nel continente. Questi ultimi, in Africa prevalentemente destinati al reparto estrattivo (incluso il petrolio), in larga percentuale sono assorbiti proprio dall’economia sudafricana, in particolare nel suo settore minerario. Il Sudafrica ha un turismo in espansione e un settore agricolo sviluppato, con produzioni ad alto rendimento destinate anche all’esportazione. La popolazione di colore soffre ancora il peso dell’esclusione fortemente presente nel regime dell’apartheid, per la sua concentrazione in zone urbane degradate o in zone rurali povere, per le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, per le difficoltà persistenti nei processi di avanzamento sociale. Si sta comunque formando una classe media nera, che accede a posizioni di rilievo nella politica nazionale, nel settore pubblico e nell’attività economica.
La trasformazione della società rurale e l’urbanizzazione
Il quadro non è statico. Un nucleo di Paesi a basso reddito resta bloccato nel circolo vizioso della povertà, con agricoltura arretrata, condizioni climatiche sfavorevoli, carenza di infrastrutture e di sistemi di trasporto, conflitti diffusi. Sono i Paesi che pongono la sfida più ardua se si vuole ridurre la quota della popolazione mondiale che vive in condizioni di grave privazione. Altri, anch’essi a basso reddito, stanno attraversando una lunga fase di transizione, perché crescono il settore estrattivo, l’agricoltura, le costruzioni, i servizi turistici e finanziari. Tra gli Stati a basso reddito non esportatori di petrolio, 6 (Burkina Faso, Ghana, Madagascar, Mozambico, Ruanda, Tanzania) sono stati identificati come quelli con migliori risultati nelle trasformazioni istituzionali e nella crescita, e che meritano quindi il rafforzamento degli aiuti internazionali (Chuhan-Pole, Fitzpatrick 2008, p. 205). Altri 9 (Benin, Etiopia, Kenya, Malawi, Mali, Niger, Senegal, Uganda, Zambia) mostrano comunque segnali positivi di mutamento, per la ripresa della crescita. Altri 14 restano economie ‘fragili’, con una crescita del PIL inferiore alla media (Arbache, Go, Page 2008, p. 21). In alcuni di questi sono in corso crisi acute di natura istituzionale o conflitti armati che, in assenza di un’equilibrata soluzione politica, pregiudicano le opportunità di sviluppo; è il caso, per es., dello Zimbabwe, che ha visto il crollo della produzione e attraversa una fase di instabilità macroeconomica, con una iperinflazione devastante. Tenuto conto delle differenze segnalate, e con l’eccezione delle aree di crisi, in molti Stati del continente sembrano meno acuti i problemi di disequilibrio macroeconomico o di elevato indebitamento che avevano caratterizzato le economie africane nell’ultimo quarto del 20° secolo. È diminuito il numero dei Paesi con alta inflazione, mentre risulta sicuramente più equilibrato il bilancio pubblico; anche gli indicatori di qualità nella gestione della cosa pubblica e nelle politiche macroeconomiche mostrano miglioramenti. Nel panorama positivo, ma diseguale, della crescita all’inizio di questo secolo, emergono tre problemi economici primari: la trasformazione del mondo rurale, le difficoltà nell’avvio dell’industria manifatturiera, le opportunità e i rischi della specializzazione nell’industria estrattiva.
Secondo le stime delle Nazioni Unite, che variano per metodologia in base alle fonti nazionali, la maggior parte degli abitanti dell’Africa subsahariana viveva nel 2005 nelle aree rurali; la popolazione delle aree urbane era valutata al 35%. Le economie della regione sono caratterizzate dalla presenza di un vasto settore rurale a bassa produttività, a fianco dell’agricoltura commerciale o di altre specializzazioni produttive. Tenuto conto della quota della forza lavoro che opera stabilmente nelle zone rurali, la produttività del settore agricolo è molto bassa. La bassa resa è dovuta all’uso di tecnologie arretrate, a condizioni climatiche sfavorevoli non compensate da tecnologie innovative che ne attenuino i costi, a mancanza di siti di stoccaggio a protezione dei raccolti, alla bassa qualità dei suoli, alla modesta percentuale di terreni con sistemi d’irrigazione, all’uso limitato di sementi selezionate per aumentare la resa e proteggere le culture dalle pesti. Nelle aree rurali svantaggiate, l’agricoltura di sussistenza è praticata senza uso di trazione animale né di meccanizzazione, senza ricorso sistematico al concime, senza accesso all’acqua per l’irrigazione (e quindi è esposta alla variabilità delle precipitazioni), con scarsi mezzi di trasporto per la commercializzazione e con non indifferenti difficoltà di conservazione dei prodotti deperibili fino alla vendita sui potenziali mercati finali.
Le economie rurali locali, a bassa produttività, coprono una quota importante dei fabbisogni nutritivi della popolazione rurale e svolgono allo stesso tempo un ruolo di supporto per i consumi alimentari nell’ambito urbano. La simbiosi tra economia rurale e urbana ha modalità quali il sostentamento degli anziani dopo la fine della vita lavorativa (data l’assenza di sistemi di previdenza), o il sostegno dell’alimentazione delle famiglie a basso salario nelle città. I redditi urbani si integrano a quelli rurali attraverso i salari dei membri della famiglia impiegati nel settore pubblico, i redditi da migrazioni temporanee in Paesi vicini di uno o più giovani del nucleo familiare, i proventi dei servizi svolti dalla popolazione rurale nelle aree urbane, la partecipazione a transazioni sui mercati cittadini vicini: si tratta di interazioni più ricche di quanto la distinzione tra popolazione urbana e rurale lasci pensare. Nonostante l’importanza del mondo rurale per la sicurezza alimentare e l’equilibrio sociale, il salto verso l’agricoltura commerciale da parte di queste unità produttive è arduo. La trasformazione dell’economia rurale comporta mutamenti nello stile di vita, nelle tecniche produttive e nella formazione, che si compiono con processi traumatici, nonostante i benefici di lungo termine che apportano. La famiglia contadina che vive in una zona relativamente isolata, producendo prevalentemente per la sussistenza quotidiana, migliora il tenore di vita se scambi di mercato o redditi familiari integrati portano beni cui non avrebbe altrimenti accesso; ma non saprà facilmente trasformare la sua economia in agricoltura efficiente per fornire i mercati mondiali, perché non dispone né delle tecnologie, né della rete di servizi evoluti, logistica e comunicazione necessarie per integrarsi ai mercati esteri. Non potrà trasformarsi rapidamente e con le proprie forze in agente del mercato globale competitivo. La società rurale africana, che soffre povertà ed esclusione sociale, non ha formazione manageriale e capitali strumentali per compiere il passaggio all’agricoltura commerciale, se non riceve un adeguato supporto tecnologico e organizzativo da parte di organizzazioni cooperative, strutture pubbliche di sostegno all’agricoltura o reti di commercializzazione, o se non è integrata ai mercati internazionali attraverso l’intermediazione di imprese multinazionali. Né sono irrilevanti i problemi culturali e sociali, oltre che propriamente economici, che l’evoluzione delle società rurali comporta. Una delle sfide del 21° sec. è quella di accompagnare la graduale trasformazione del mondo rurale africano verso traguardi di produttività e benessere, anche a tutela della sicurezza alimentare nel continente.
In conformità con il panorama variegato delle economie della regione e delle vicende storiche nazionali, la densità della popolazione urbana è varia. Si va dal Sudafrica e dalla Nigeria, dove nel 2005 viveva nelle aree urbane rispettivamente il 59% e il 48% circa degli abitanti, a un gruppo di Paesi dove tale quota era pari o inferiore al 25% (Burkina Faso, Burundi, Ciad, Kenya, Lesotho, Malawi, Niger, Ruanda, Uganda). Nelle proiezioni al 2015, per tutti i Paesi si stimano aumenti di queste percentuali; un importante processo d’urbanizzazione è in corso, con costi sociali per la difficoltà di accogliere nelle aree urbane le popolazioni dell’esodo rurale offrendo condizioni adeguate di igiene, abitazione, istruzione. Il fenomeno delle baraccopoli urbane è parte del processo di rapida urbanizzazione, a fronte di strutture statali che non riescono a pianificare tempestivamente l’espansione delle aree edificabili e dell’edilizia popolare o non hanno risorse per sostenere la diffusione dei servizi sul territorio e accompagnare l’urbanizzazione con politiche sociali. Tuttavia, il divario di reddito pro capite tra le zone urbane e rurali è molto maggiore negli Stati africani che nei Paesi ad alto reddito, e ciò spiega la tendenza all’esodo verso le città, in assenza di opportunità di sviluppo nelle aree rurali. Nelle aree urbane la qualità della vita è migliore, anche se misurata non in termini di reddito medio ma di servizi sanitari, opportunità di formazione, accesso all’acqua potabile, erogazione di elettricità, disponibilità di trasporti e comunicazioni. Nella società urbana esiste una stratificazione sociale complessa, che include gruppi dirigenti politici o professionali ad alto reddito, nuovi ceti medi urbani che aspirano a raggiungere livelli di consumo vicini ai modelli del mondo sviluppato, funzionari pubblici con tutele e accesso privilegiato alle risorse, o i ceti poveri delle periferie. Le élites africane partecipano pienamente della vita culturale internazionale. La televisione, la radio, il cinema, i telefoni cellulari avvicinano rapidamente anche la popolazione urbana povera alle fonti d’informazione, ai miti, alle aspirazioni dei Paesi sviluppati. Persino nelle periferie urbane o nella realtà rurale si vanno affermando realtà sociali stratificate per livelli di reddito, istruzione o stabilità dell’impiego. Nelle economie in crescita, ma in modo più acuto in quelle ancora in stagnazione o in declino, ci si confronta con la disuguaglianza nei miglioramenti del benessere, e con gli enormi divari che si riscontrano tra diverse fasce della popolazione nell’accesso all’acqua, all’istruzione, ai servizi sanitari, alla mobilità e alle nuove tecnologie.
Le opportunità di sviluppo
Se si guarda alle prospettive, per le economie dell’Africa subsahariana emergono opzioni di crescita del reddito che non si escludono a vicenda, ma che incontrano diversi rischi e difficoltà, a seconda delle condizioni iniziali di ogni Paese o del contesto politico: lo sviluppo dell’agricoltura commerciale, il turismo, la specializzazione manifatturiera per le esportazioni, l’opzione estrattiva. Nella competizione con i nuovi Paesi emergenti, queste economie soffrono di persistenti svantaggi, per la carenza delle infrastrutture e delle reti di trasporto e, in molti Stati, anche per i bassi livelli di formazione della forza lavoro, nonostante il generale miglioramento nei livelli di istruzione. La carenza di imprenditori e di esperienza imprenditoriale è un vincolo alla crescita dell’attività manifatturiera, come può esserlo la mancanza o l’inaffidabilità nell’erogazione di energia. Nel complesso, le esportazioni non petrolifere non sono in crescita, e restano concentrate su un gruppo ristretto di prodotti primari, agricoli o minerari. La bilancia commerciale, globalmente migliorata tra il 1995 e il 2005 grazie alle esportazioni di petrolio e gas, è però peggiorata al netto di questi prodotti (Kaplinsky, Morris 2008, p. 256). La quota dell’Africa subsahariana sul commercio mondiale è in declino, nonostante la ripresa della crescita. Non è stata ancora avviata, fuori da realtà circoscritte (quali il settore tessile e dell’abbigliamento in Kenya, Lesotho, Madagascar, Sudafrica o Swaziland), la specializzazione manifatturiera per l’esportazione.
Molti Stati della regione sono svantaggiati nell’accesso ai mercati internazionali, non tanto per ragioni geografiche (i Paesi senza accesso al mare) quanto per ragioni economiche e politiche. Sono Paesi a bassa densità di attività economica, con un ambiente poco favorevole alle iniziative imprenditoriali, con elevati costi a causa delle infrastrutture inadeguate e fragili, e con costi addizionali, nel commercio internazionale, dovuti ai lunghi tempi burocratici necessari per effettuare i passaggi delle merci alle frontiere. È stato calcolato che per tali passaggi sono necessari circa 10 giorni nella media dell’area OECD, ma 78 in Ciad, 64 in Angola, 53 in Zambia, 47 in Ruanda e in Burundi (World bank 2009b, p. 182). È stato costruito un indice che misura la facilità potenziale di accesso ai mercati mondiali nelle diverse aree geografiche; l’indice pesa il PIL di ogni Paese in rapporto ai mercati internazionali con i quali può stabilire rapporti di scambio, e tiene conto delle distanze geografiche, dei costi di trasporto, delle barriere doganali e burocratiche che ostacolano il commercio internazionale nell’area dove il Paese è collocato.
Proprio queste stime indicano che gran parte dei Paesi nell’Africa subsahariana si trovano ai livelli più bassi per quanto riguarda la facilità di accesso, e quindi sono svantaggiati rispetto ai potenziali concorrenti, non tanto per l’obiettiva distanza geografica dai mercati di sbocco quanto per i maggiori costi di trasporto e per il gravame addizionale imposto da divisioni territoriali, procedure burocratiche o costi di corruzione nelle operazioni doganali, oppure, ancora, da barriere doganali vere e proprie (World bank 2009b, p. 271-73). Resta un’eccezione, per la sua migliore capacità di accesso ai mercati mondiali, l’economia sudafricana. Sono un po’ meno sfavoriti, nel calcolo dell’indice, alcuni Paesi della fascia costiera tra Oceano Atlantico e Golfo di Guinea, oltre alla Namibia e al Kenya.
L’insieme di queste difficoltà ha finora ostacolato sia lo sviluppo dell’agricoltura commerciale attraverso nuovi prodotti che puntino su segmenti del mercato innovativi, sia (e soprattutto) la localizzazione nell’Africa subsahariana di segmenti della lavorazione manifatturiera, in concorrenza con i Paesi asiatici. Il problema si presenta anche nel settore tessile e in quello delle confezioni, e non solo in produzioni manifatturiere a tecnologia complessa; ma potrebbe essere alleviato dall’adozione negli accordi di commercio internazionale di clausole decisamente più favorevoli per i Paesi africani a basso reddito (Collier, Venables 2007).
Lo sfruttamento delle risorse minerarie, che richiede investimenti concentrati, contrattati con imprese multinazionali, appare di maggiore redditività e di più facile realizzazione dello sviluppo della manifattura o dell’agricoltura commerciale, filiere dove si richiede la maturazione di una imprenditoria locale, di tecnologie adattate al territorio, di mano d’opera qualificata. Gli Stati produttori di petrolio o di altre risorse minerarie (come Sudan, Nigeria, Angola, Botswana, Repubblica Democratica del Congo, Sierra Leone), potenzialmente ricchi per il valore delle risorse naturali che possiedono, hanno avuto percorsi diversi dopo l’indipendenza, con esiti ora positivi ora tragici. L’Angola, la Repubblica Democratica del Congo e la Sierra Leone sono stati devastati da conflitti per il controllo delle risorse.
Le economie fondate sullo sfruttamento di risorse minerarie sono esposte alla guerra civile, se un movimento di ribellione al potere centrale riesce a controllare una zona del territorio nazionale ricca di giacimenti, finanziando così l’insurrezione armata. Peraltro, lo Stato centrale rischia di cadere nelle mani di dirigenti che consolidano potere e ricchezze personali grazie alle rendite dovute ai prodotti del sottosuolo, senza preoccuparsi di promuovere lo sviluppo agricolo o manifatturiero. Nell’Africa subsahariana, tuttavia, vi sono esempi di economie cresciute a partire dai profitti generati dalle risorse minerarie e agli investimenti che essi hanno permesso. Lo sviluppo del Botswana, Stato con una popolazione ridotta e che ha adottato un assetto costituzionale stabile, si è fondato sui profitti delle risorse diamantifere. Attualmente l’Angola è uscita dalla devastante guerra civile, mentre la Sierra Leone si sta avviando verso il consolidamento di istituzioni democratiche.
Nelle economie fondate sulle risorse minerarie rimane forte il dualismo tra il settore estrattivo e l’economia del territorio circostante, se questa continua a essere dominata dall’agricoltura a bassa produttività e dalle tecnologie tradizionali. Sorgono conflitti con le popolazioni locali, che si sentono espropriate dall’uso di beni localizzati nel proprio territorio, o conflitti di vasta portata, che attraversano i confini nazionali e coinvolgono attori internazionali e traffici criminali. Se i giacimenti sono di facile accesso, non è semplice controllarne lo sfruttamento; economie parallele gestiscono il traffico irregolare dei minerali estratti, entro filiere produttive informali o reti di criminalità organizzata. Le tecnologie petrolifere, ad alta intensità di capitali e importate dall’estero, sono prevalentemente affidate alla gestione di imprese multinazionali, i cui tecnici e dirigenti vivono in enclaves protette. L’industria petrolifera non produce effetti diffusivi di crescita, che siano di stimolo all’economia nazionale, se non attraverso l’oculato investimento dei profitti, se questi non sono esportati all’estero per via legale o illegale. In Africa come altrove, l’industria petrolifera genera valore aggiunto in dipendenza dal prezzo internazionale del petrolio, ed è soggetta a fluttuazioni delle rendite dalle quali dipende il reddito nazionale.
Nonostante i rischi, la specializzazione nelle risorse energetiche e minerarie resta una delle possibilità fondamentali per i Paesi africani; i governi cercano, anche grazie alla fame di materie prime dei mercati asiatici e alle politiche espansive della Cina nel continente africano, di puntare su questa ricchezza per generare nuovi flussi di reddito. La Cina ha flussi di investimento diretti ai Paesi africani proprio per assicurarsi rifornimenti energetici e minerari in cambio di interventi nella costruzione di reti viarie o di altre grandi opere. Per stimare l’impatto della presenza crescente della Cina nell’Africa subsahariana, è necessario valutarne gli effetti diretti e indiretti nel medio periodo; nell’interazione complessiva tra l’economia cinese e questi Paesi, preoccupa soprattutto il rischio che le esportazioni a basso costo della Cina soffochino il settore manifatturiero locale per la forte concorrenza sui mercati terzi e sullo stesso mercato del continente (Kaplinsky, Morris 2008). I Paesi dell’Africa subsahariana non riescono a specializzarsi nei settori manifatturieri per l’esportazione, che sono stati il volano della crescita per altri Paesi emergenti, proprio perché gli spazi di mercato sono già occupati da economie più dinamiche in Asia o in America Latina. Vi è, inoltre, il timore che la Cina possa sostenere la stabilizzazione di regimi autoritari nei Paesi produttori di risorse energetiche o minerarie, instaurando rapporti commerciali ineguali e nuove forme di sfruttamento del continente, per la disparità nei rapporti di forza e nella dimensione delle economie. Se molti gruppi dirigenti negli Stati africani guardano con favore ai rapporti bilaterali con la Cina, perché promettono flussi di aiuti e di investimenti che allentano la dipendenza esclusiva dai donatori occidentali, non manca a livello popolare o nell’opinione pubblica l’opposizione all’espandersi dell’attività economica dei cinesi, percepita con risentimento come neocoloniale (La Cina in Africa, 2008).
Non bisogna dimenticare, infine, che grava sul futuro dell’intera economia africana la svolta negativa impressa alla crescita dalla crisi finanziaria internazionale, con le previsioni di contrazione del reddito a livello mondiale. Le economie africane, e non soltanto quelle più fragili, sono esposte alla perdita di valore delle loro esportazioni petrolifere e minerarie, alla contrazione degli investimenti diretti esteri per la crisi internazionale di liquidità, alla flessione del mercato turistico o della domanda di prodotti primari. Soffrono, a breve termine, anche il rischio della riduzione nei flussi d’aiuto, per le risorse finanziarie inevitabilmente più ridotte nei Paesi donatori.
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