L'economia in Grecia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’economia greca è stata al centro di un interminabile dibattito sulla sua natura. Modelli inconciliabili si sono confrontati nel tentativo di riconoscerne il carattere, oscillando tra riduzioni primitiviste e amplificazioni moderniste. Tuttavia, pare chiaro che non si può ridurre a modello unico l’insieme di esperienze che il variegato mondo delle poleis ha attraversato nei secoli che vanno dalla caduta dei palazzi micenei alla conquista romana. L’insieme di quelle esperienze così diverse, a volte opposte, restituisce un ventaglio di risposte alle esigenze e ai bisogni che volta a volta si impongono nei diversi contesti ellenici. Si coglie la compresenza di atteggiamenti economici di segno opposto: tesaurizzazione e circolazione, conservatorismo e innovazione, attivismo e stagnazione, in una tensione che riflette, anche in questo campo, la complessità e la ricchezza delle realizzazioni del mondo greco.
Per gli antichisti, l’economia greca è un argomento delicato. A partire dalla fine del XIX secolo sul carattere delle economie antiche si è aperta una lunga diatriba che, in forme e con toni diversi, continua ancora oggi.
Alle origini del dibattito si pone la contrapposizione tra primitivisti, che considerano l’economia greca alla stregua delle società meno evolute, assai distante non solo dalla moderna considerazione dei processi economici, ma anche da quella delle città medievali, e i modernisti, che invece riconoscono tracce di una più incisiva presenza dell’economia nella storia greca. Il dibattito è scaturito dalle tesi di Karl Bücher sull’esistenza di economie non di mercato, che pone la Grecia tra le società a economia domestica. A contrastarlo, tra gli altri, sono stati Eduard Meyer e Karl Julius Beloch, convinti assertori della possibilità di riferirsi all’economia antica, in particolare al commercio, in termini più moderni. Correzioni importanti a questa contrapposizione sono state apportate da Max Weber, che ha riconosciuto la separazione, nelle città greche, dell’homo politicus dall’homo oeconomicus in un sistema che vede attivi nelle pratiche economiche soprattutto non-cittadini, e Johannes Hasebroek, che ha delineato in senso più vicino alle posizioni primitiviste il carattere del commercio e degli scambi, negando l’esistenza di alcun tipo di intervento statale nell’economia greca.
L’antropologia ha rinnovato il dibattito nel corso del secolo scorso, introducendo nuove categorie interpretative e utilizzando distinzioni diverse (ad esempio quella tra formalisti e sostantivisti). Un ruolo centrale ha svolto Karl Polanyi, che ha inserito la Grecia antica tra le embedded societies, le società in cui l’economico è subordinato al sociale, incastrato nel politico; società nelle quali l’obiettivo economico non supera per lo più il livello della sussistenza. Polanyi ha trovato il suo esegeta per il mondo greco in Moses Finley, la cui autorità ha dato origine a quella che tuttora viene definita la nuova ortodossia degli studi sull’economia greca. Riprendendo le analisi di Polanyi, Finley ha enfatizzato l’assenza delle premesse stesse per uno sviluppo autonomo della sfera economica nelle società antiche: centralità della proprietà terriera, basso grado di progresso tecnologico, mancanza di leggi di mercato, di una specializzazione della forza-lavoro, di una produzione di tipo industriale, uso limitato degli strumenti finanziari, la moneta in primo luogo. Un tentativo di superare la schematica alternativa tra primitivisti e modernisti è stato proposto da Domenico Musti (1934-), che ha spostato l’attenzione sulla compresenza di tesaurizzazione e circolazione nelle diverse realtà del mondo greco, in relazione a bisogni e aspirazioni che variano considerevolmente nelle diverse epoche e nelle diverse società.
Cerchiamo di eludere, almeno per il momento, la componente di astrazione insita nel dibattito sulla natura dell’economia antica. Se ci soffermiamo sui dati – quelli che una volta venivano definiti con qualche eccesso ottimistico i realia – due considerazioni preliminari si impongono.
In primo luogo, i dati sono scarsi. Le polemiche tra modernisti e primitivisti si sono mosse su un piano teorico e hanno letto attraverso il filtro ideologico delle rispettive convinzioni gli scarni elementi a disposizione, tratti per lo più da fonti letterarie, in parte per convinzione soggettiva, in parte per l’oggettiva difficoltà ad accedere a informazioni più ampie. Il rapporto con le fonti per uno studioso di economia antica è quantomai tormentato: i dati della cultura materiale sono dispersi, frammentari, raramente coerenti, e la possibilità di utilizzare strumenti indispensabili come la statistica ne risulta gravemente limitata. Oggi il dossier delle informazioni sulla vita economica si è considerevolmente ampliato, per merito della ricerca archeologica e, ancor di più, della documentazione epigrafica e numismatica: il compito dello storico è di accostare quei dati alle nozioni che è possibile ricavare dallo studio dei testi, sottraendosi alla tentazione di applicare modelli e ideés reçues, mantenendo invece aperto il dialogo tra le diverse realtà che si presentano per l’età antica.
In secondo luogo, infatti, il mondo greco mostra anche rispetto all’economia una grande varietà di situazioni. Non potrebbe essere diversamente, vista la pluralità di esperienze che caratterizzano la storia greca. Una varietà che si connota in senso cronologico e spaziale: l’età arcaica non somiglia in nulla all’Ellenismo, per le pratiche economiche e per il contesto entro il quale si compiono; tra Atene e Sparta esiste una distanza incolmabile anche riguardo allo spazio concesso all’economia nelle due poleis. Alcuni contesti paiono avere un profilo più chiaramente definito: l’Atene classica e l’Egitto tolemaico mostrano una vivacità e complessità economica assai sviluppate, come i porti di Corinto, in età arcaica e classica, e Rodi o Delo durante l’ellenismo; al contrario Sparta bandisce, almeno di principio, ogni forma di economia di scambio e monetaria, in una società che sottopone ogni iniziativa individuale al controllo politico dello stato – anche se recenti studi hanno mostrato significative crepe nell’organizzazione apparentemente monolitica della vita economica spartana. Tra questi due estremi, un’ampia zona grigia, difficile da collocare allo stato delle nostre conoscenze.
L’insieme delle realtà sociali e politiche del mondo greco non può ridursi, anche sotto il profilo della vita economica, ad unità. Ogni organizzazione della società comporta una diversa distribuzione di funzioni e bisogni, uno sviluppo differente di strumenti e, in definitiva, una specifica collocazione della sfera economica al suo interno. C’è inoltre una differenziazione regionale, indotta dalle differenti condizioni del territorio e delle sue risorse, dalla maggiore o minore apertura verso gli scambi, dai caratteri della struttura sociale che si riflettono sull’organizzazione della produzione. Una molteplicità nella quale trovano spazio pratiche dell’economia molto lontane tra loro: in età classica, Atene, Corinto, Siracusa somigliano ben poco alla Locride o all’Acarnania, solo per fare un esempio.
Un punto di partenza solido per parlare dell’economia antica è costituito certamente dalla proprietà fondiaria. È questa la prima e principale fonte di ricchezza in Grecia, che si coglie fin dalla tarda età del Bronzo. È vero che il quadro della proprietà terriera in epoca micenea risulta ancora oggetto di discussione e che la predominanza di terre comuni e la presenza di terre sacre, di pertinenza di santuari, mostrano un ampio spettro di proprietà pubblica che non si ritrova nelle epoche successive. Emerge tuttavia già in età micenea la presenza di proprietà personali, se non private, per le figure di maggior rilievo nella struttura palaziale, il wanax e il lawagetas, titolari di un proprio temenos. Il privilegio della proprietà terriera si lega alla gerarchia sociale, modulata anche attraverso le terre date in concessione, probabile presupposto alla creazione di un gruppo elitario – una aristocrazia in nuce.
Durante l’età arcaica è la proprietà terriera a stabilire i rapporti di forza non solo economici, ma sociali e politici nella polis. Le famiglie aristocratiche detengono il controllo della gran parte della proprietà fondiaria e su questo basano il loro prestigio e il loro potere. Tuttavia, non si può parlare di latifondi. La configurazione del territorio rurale non si presta alla loro costituzione, tranne in pochi casi (Tessaglia, Messenia) e qualunque confronto con la realtà dei latifundia romani è improponibile. Ma anche l’organizzazione sociale delle poleis gioca un ruolo importante, nel rapporto tra grandi e piccoli proprietari terrieri: l’aristocrazia controlla la maggior parte delle terre, non tutte. Esiste una classe di piccoli proprietari, protagonista ad esempio delle Opere e giorni di Esiodo, che guarda all’aristocrazia come modello culturale ma ne è socialmente ben distinta.
Le indicazioni sui rapporti tra queste due classi, poche e malcerte, paiono insistere su una latente conflittualità, tra rivendicazioni dei piccoli e sopraffazioni dei grandi. Ciò non toglie che, fin dall’età arcaica, la polis comprenda entrambi al suo interno. Si è a volte ritenuto di poter rilevare, tra VII e VI secolo a.C., un processo di concentrazione delle terre, motivo di forti tensioni sociali: le fonti tuttavia non sempre sono attendibili. Nell’Atene presoloniana, ad esempio, la tradizione ricorda l’esistenza di una categoria di piccoli contadini costretti a lavorare la terra dei grandi proprietari versando un sesto (o secondo una lettura alternativa i cinque sesti) del prodotto ai padroni: erano perciò chiamati hektemoroi. “Tutta la terra era in mano a pochi: se i poveri non riuscivano a pagare le locazioni, erano ridotti in servitù, insieme ai loro figli: infatti fino a Solone i debiti erano contratti sulla persona” (Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, II, 2).
L’abolizione della schiavitù per debiti è in effetti una delle riforme che Solone introduce ad Atene all’inizio del VI secolo a.C.; non però la redistribuzione delle terre, come pure parte del demos gli chiede. Questo non impedisce che la piccola proprietà possa trovarsi, in modo diffuso, nell’Attica postsoloniana: gli agroikoi, i contadini, appaiono accanto agli eupatridai, i nobili, e ai demiourgoi, gli artigiani, nel 582 a.C., e rappresentano la base del consenso per Pisistrato, senza che si arrivi mai ad una vera alternativa tra grandi proprietà aristocratiche e piccoli proprietari. Solo nell’Atene del IV secolo a.C. sembra potersi cogliere con una certa chiarezza una concentrazione della proprietà fondiaria, che la democrazia cercherà di bilanciare con un’organizzazione più efficace degli affitti di terre pubbliche.
Cosa sappiamo del lavoro agricolo in Grecia? Non molto, in realtà. Gli eroi dei poemi omerici, élite aristocratica, possiedono appezzamenti vasti che vengono lavorati da salariati o dipendenti, la cui condizione è considerata la peggiore di tutte. Nella rappresentazione della polis sullo scudo di Achille (XVIII libro dell’Iliade) intorno al centro cittadino si estendono campi arati, vigneti, un temenos regale, zone adibite alla pastorizia. Agricoltura e allevamento appartengono naturalmente alla descrizione delle attività e della cultura della polis; la prima si incentra sulla cosiddetta triade mediterranea (cereali – in particolare orzo – vite, olivo) che ne costituirà la base per tutta l’età antica, accompagnata dalle leguminose e dalle coltivazioni arboricole, con frequente diversificazione delle colture per limitare i rischi di uno sfruttamento intensivo e per rispondere al fabbisogno alimentare. L’allevamento si incentra sugli ovini, ma comprende anche suini, bovini (con un ruolo particolarmente rilevante dei buoi, soprattutto in età arcaica, efficace alternativa all’assenza di manodopera schiavile per i ceti meno abbienti e unità di valore, ad esempio, nei poemi omerici, dove le armi che Glauco e Diomede si scambiano vengono valutate rispettivamente 100 e 9 buoi), pollame e, segno di lusso e prestigio, cavalli.
Ancora una volta, si impongono distinzioni tra le varie aree greche, legate in particolare al reclutamento e alle modalità d’impiego della forza lavoro. La piccola proprietà terriera, lavorata prevalentemente dal gruppo familiare dell’oikos con un sostegno limitato della manodopera schiavile vale per Atene – e anche qui, come vedremo, con molti dubbi. In altre aree, esiste una servitù rurale adibita alla coltivazione delle terre, che libera i cittadini dalle cure del lavoro agricolo. Il modello più noto è l’ilotismo spartano; organizzazioni simili si ritrovano in Tessaglia, a Creta e nel mondo coloniale: l’utilizzazione di una manodopera legata alla terra, spesso in connessione con proprietà di ampie dimensioni, con coltivazioni estensive e rendimenti sufficienti a soddisfare le necessità dei padroni e dei servi. Dove prevale la schiavitù-merce, come ad Atene, il suo impiego nei lavori agricoli è parso a lungo minoritario e talora in concorrenza con il lavoro libero. Il tema dell’impiego degli schiavi nell’agricoltura, oggetto di un dibattito ancora aperto tra gli studiosi, richiama la questione della piccola proprietà terriera e l’ideale, sancito con tutta la sua autorità da Aristotele, dell’autarchia dell’oikos, della sua capacità di soddisfare in maniera autosufficiente le necessità del gruppo familiare, senza superare il livello della sussistenza, senza prefiggersi di creare un surplus. Un ideale, appunto. Il cittadino-contadino-soldato come perno della polis greca, in particolare di quella democratica, è, bisogna riconoscerlo, creazione moderna. Troppo diversificata la società della polis per poterla racchiudere in una formula che sembra creata per soddisfare moderne aspettative sulla rassicurante stabilità di quelle società piuttosto che per rintracciare un soggetto sociologico storicamente attestato.
I lotti che possiamo cogliere, attraverso le fonti letterarie – prevalentemente ateniesi – e l’indagine archeologica mostrano una organizzazione del lavoro agricolo piuttosto articolata. Non solo gli schiavi vengono utilizzati nel lavoro delle grandi proprietà, come quella di Iscomaco descritta da Senofonte nell’Economico, dove si dedicano al lavoro nei campi anche le donne, libere e schiave, in particolare nella trasformazione dei prodotti. Se per la produzione agricola non si colgono segni di importanti innovazioni tecnologiche nel corso dei secoli, se si eccettua la capacità di effettuare arature di profondità, nei processi di trasformazione sono introdotte innovazioni che permettono di aumentare la redditività dei prodotti, in particolare per uva e olivo, ma anche per i cereali, con l’introduzione di macine più efficienti. Non è raro che l’oikos punti alla creazione sistematica di eccedenze dalla produzione agricola: la testimonianza di Olinto, nella penisola calcidica, recentemente valorizzata da Cahill, mostra una grande varietà di situazioni, compresa la tendenza a specializzarsi su un prodotto (olio, vino, tessuti) per raggiungere una capacità produttiva che non si spiega se non in vista dello scambio. Il luogo del lavoro per la trasformazione dei prodotti agricoli e d’allevamento è di norma l’oikos stesso. Questo di per sé non implica necessariamente una limitazione nell’estensione delle attività produttive: dipende dalle dimensioni e dalle ambizioni degli oikoi.
È il caso di ripetere che non è possibile riconoscere una omogenea attitudine al lavoro agricolo per tutta la Grecia – a maggior ragione se si tiene conto anche delle realtà coloniali. Convivono, in epoca arcaica come nell’età classica, zone in cui l’organizzazione del lavoro agricolo è particolarmente arretrata e rudimentale con altre più sviluppate (l’Eubea, l’Attica, ma anche la Tessaglia); zone in cui la struttura sociale condiziona pesantemente il paesaggio agricolo e il lavoro umano (Sparta e in generale le società “ilotiche”) e altre più aperte a innovazioni e all’utilizzazione del prodotto dello sfruttamento delle risorse del territorio oltre il livello della sussistenza. Quel che merita di essere sottolineato è che anche la più tradizionale delle attività può essere oggetto di un atteggiamento volto al profitto, a volte di tipo imprenditoriale (Atene, ma anche Olinto nel IV secolo a.C.), capace di inseguire la valorizzazione delle risorse e di articolare il lavoro in termini funzionali ed efficienti per la produzione di un surplus. Alcune località sono particolarmente rinomate per la qualità dei propri prodotti agricoli. Il vino delle isole dell’Egeo (Taso, Chio, Rodi), l’olio dell’Attica e di Samo, il miele attico e delle Cicladi, oppure i cavalli tessali, traci, armeni. Grandi produttori di cereali sono la Tessaglia, in Grecia, e in misura maggiore le aree costiere del Mar Nero, la Sicilia, la Cirenaica. Tali prodotti sono oggetto di una produzione selezionata e intensa e vengono in larga misura esportati, fin dall’epoca arcaica. I produttori sono spesso anche fabbricanti delle anfore per il trasporto delle derrate.
La Grecia ha avuto una costante fame di terra, indicata anche da un termine, stenochoria. L’occupazione del suolo è stata, a partire dall’età arcaica, ma forse già nei secoli bui, continua e capillare; quando l’estensione delle chorai cittadine non è più sufficiente, si cercano nuovi sbocchi, come la fondazione di insediamenti coloniali – anche se la ricerca di nuove terre non ne esaurisce le motivazioni. La necessità di sfruttare al massimo il territorio porta a soluzioni che ne aumentino la redditività, come terrazzamenti e sistemi di irrigazione, particolarmente necessari per l’arido clima ellenico; o alla bonifica delle zone paludose per estendere le aree coltivabili. Verso la fine del III secolo a.C. tuttavia si assiste a un’inversione di tendenza, nella Grecia continentale e nelle isole (e, con effetti minori, anche in Asia Minore). Un forte processo di concentrazione delle proprietà fondiarie e lo sviluppo delle attività cittadine, con una crescente urbanizzazione, cambiano il paesaggio rurale, che si fa meno popolato, vede l’estensione progressiva di grandi appezzamenti i cui padroni sono in grado di reclutare una più ampia e stabile manodopera. Anche le coltivazioni cambiano, diventano più selezionate: vigneti, olivi e arboricoltura per prodotti di alta qualità. Si estende così l’allevamento, con la creazione di grandi greggi e armenti e la crescente richiesta di terre per il pascolo, che spesso supera i confini politici delle città. L’instabilità politica e militare di questo scorcio finale dell’Ellenismo ha certo avuto un ruolo centrale nello spopolamento delle campagne, che porta con sé il declino della piccola e media proprietà e l’accentramento della maggior parte delle terre nelle mani di una ristretta élite.
L’artigianato costituisce un’attività strettamente connessa con lo sviluppo dell’urbanizzazione. Il suo impatto sull’economia è nel complesso inferiore rispetto all’agricoltura, sia per quantità di produzione che per forza lavoro impiegata. Ma non deve essere per questo sottovalutato: accanto ai contadini una porzione considerevole della popolazione, del demos, vive del lavoro artigianale, nelle diverse technai che si sviluppano all’interno delle città (per l’Atene classica e l’Asia Minore ellenistica conosciamo circa un centinaio di mestieri attestati dalle fonti), e in alcune realtà il ruolo della produzione artigianale è elemento economico decisivo – a Corinto ad esempio.
La vocazione artigianale emerge al sorgere stesso della civiltà greca, nei palazzi minoici e micenei, con un trapasso di competenze e, probabilmente, di maestranze che ne inaugura un carattere tipico: quello della mobilità. L’artigianato, specie quello di alto livello, si sposta verso centri ricchi, diffondendo le proprie conoscenze tecniche in nuove aree. Alla metà del VII secolo a.C., secondo una tradizione raccolta dagli autori d’età augustea (Dionigi di Alicarnasso, Strabone, Plinio il Vecchio) il corinzio Demarato, riparando a Tarquinia dopo l’instaurazione della tirannide di Cipselo intorno alla metà del VII sec. a.C., porta con sé artigiani che introducono nel mondo etrusco-italico la qualità delle realizzazioni greche nella pittura, nella scultura, nell’architettura.
Naturalmente, si tratta in questi casi di artigiani di altissimo livello, quando non di artisti (distinzione che i Greci non conoscono). Ma la produzione artigianale copre una gamma amplissima di manufatti, rispondendo a esigenze di diversa natura. Perciò, di nuovo, si deve distinguere tra i diversi livelli.
Il livello inferiore della produzione artigianale si svolge all’interno delle mura domestiche, praticato dai membri dell’oikos e rivolto a soddisfarne i bisogni immediati. Al massimo può prevedere piccole eccedenze da utilizzare per scambi di compensazione. Non c’è specializzazione: le capacità si creano e tramandano all’interno del nucleo domestico. È il livello di sussistenza, in una logica autarchica di cui si è detto. Di questo livello non ci resta quasi nulla, se non qualche menzione nelle fonti e le molte fantasticherie dei moderni. Artigiani specializzati sono i technitai, un prodotto tipicamente cittadino. Come si è detto, i mestieri esercitati sono numerosissimi e accomunati dalla trasformazione dei prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento e delle risorse del sottosuolo. La lavorazione comprende preparazione degli alimenti, lavorazione delle pelli animali, dei tessuti, del legno, dei metalli e delle pietre. Si producono inoltre mobili, strumenti musicali, profumi e unguenti, ceramica e così via. Il grado di specializzazione può variare a seconda dei contesti; Senofonte lo lega in modo significativo alle dimensioni delle città: “Nelle piccole città, gli stessi uomini fabbricano il letto, la porta, l’aratro, il tavolo, spesso è lo stesso a costruire anche la casa ed è felice se trova un numero di clienti sufficiente a garantirgli il sostentamento. È impossibile che un uomo che pratica molti mestieri li eserciti tutti decentemente. Nelle grandi città, al contrario, poiché molte persone hanno bisogno dello stesso prodotto, un solo mestiere basta a ciascuno per dargli da vivere e spesso anche una suddivisione del mestiere: uno fabbrica scarpe da uomo, un altro da donna; in alcuni luoghi uno si mantiene cucendo le calzature, un altro trinciando il cuoio […] Ne consegue che chi si dedica a un lavoro così circoscritto deve farlo alla perfezione” (Senofonte, Ciropedia, VIII 2, 5).
Nei maggiori centri urbani viene favorita la specializzazione del lavoro, in funzione di una maggiore domanda di mercato; specializzazione che aumenta la qualità del prodotto ma anche la quantità della produzione.
Gli artigiani in genere lavorano in botteghe, spesso anche luogo di vendita, talora collegate alla residenza; sono sparse in tutta l’area urbana e le più ambite si trovano naturalmente nei pressi dell’agorà. A fianco dell’artigiano si muovono membri della famiglia (il lavoro di norma si trasmette di padre in figlio) e qualche schiavo, in relazione al tipo di mestiere. Nei Memorabili di Senofonte, Socrate si intrattiene con artigiani in ambienti piccoli, bui, con poca aria: le condizioni ambientali del lavoro devono essere per lo più assai infelici. Esistono aree della città destinate ad una particolare attività: ad Atene troviamo una zona dei vasai (il Ceramico, vicino alla porta sacra) e un “quartiere industriale”, composto di marmorari, fabbri e bronzisti, a sud dell’agorà.
La produzione artigianale delle botteghe serve di norma al mercato interno. Nei centri urbani maggiori, questo può comunque essere sufficiente per assicurare un certo agio vista l’ampiezza della domanda.
Infine, esiste un certo numero di officine che per numero di lavoratori impiegati e quantità di produzione hanno dimensioni più propriamente imprenditoriali. Ne conosciamo un certo numero per Atene, tra V e IV secolo a.C.: Cefalo, meteco di origini siracusane, padre dell’oratore Lisia, ha una fabbrica di scudi in cui lavorano 120 schiavi; Demostene, padre dell’omonimo oratore, ne ha due, una di coltelli e una di letti, con 30 e 20 schiavi; nel suo caso sappiamo che rendono rispettivamente 30 e 12 mine l’anno. Il banchiere Pasione, prima schiavo, poi meteco, infine cittadino, possiede anch’egli una fabbrica di scudi di enormi dimensioni. Nausicide è un produttore di farina; Cirebo un panificatore: entrambi sono considerati da Senofonte luminosi esempi di chi, partito da umili condizioni, è salito al rango liturgico grazie alla propria intraprendenza imprenditoriale. Le grandi imprese manifatturiere insidiano il primato agricolo anche rispetto alla selezione dei leaders politici: ad Atene verso la fine del V secolo a.C. emergono come capi del demos il conciatore di pelli Cleone e il fabbricante di lire Cleofonte, due parvenues, a interrompere la continuità di aristocratici proprietari terrieri che si è mantenuta fino a Pericle. Atene è la città della mobilità sociale verticale, teorizzata già nell’epitafio pericleo: la ricchezza è pienamente legittima a patto che se ne faccia buon uso, investendola per creare nuove opportunità e non esibendola “per vanto di parola”; la povertà non è vergogna a patto che ci si muova per uscirne, nelle favorevoli condizioni che Atene offre. L’attivismo economico è una delle molle per il benessere di cui gode la città. Artigiani e “imprenditori” possono essere, come si è visto, tanto meteci quanto cittadini. Questo sembra incrinare l’immagine del cittadino ateniese come rentier, legato solo alle rendite dei suoi possedimenti.
Diversa la situazione di Sparta. Qui i cittadini rifuggono anche dal lavoro artigianale: le fonti (Senofonte e Plutarco sono concordi nel descrivere il bando per i cittadini da qualunque attività comporti un guadagno, da ogni techne diversa dall’arte militare. Una produzione artigianale laconica si coglie, comunque, in età arcaica – fino all’inizio del VI secolo a.C. –, probabilmente ad opera dei perieci; in seguito, la città sembra chiudersi sempre più e divenire impermeabile alle dinamiche economiche che si sviluppano in altri contesti, quali Atene, Corinto, Megara. Non c’è dubbio che a Sparta il politico ingabbi e freni l’economico. In una città che non accoglie la moneta, che non offre occasioni di investimento dell’eventuale ricchezza, che segue un ideale di uguaglianza anche nei possedimenti fondiari tra i cittadini, a che scopo impegnarsi in occupazioni di tipo economico?
Alcune imprese sono di proprietà pubblica o sacra. Le cave di pietre forniscono entrate alla città, ai santuari o ai demi che le gestiscono, attraverso la vendita delle pietre; evidentemente organizzano l’uso di una massiccia manodopera. I marmi sono molto richiesti – celebri quelli di Taso, Paro, Nasso e, in Attica, del Pentelico e dell’Imetto; di fronte a particolari esigenze possono nascere accordi commerciali, come l’esclusiva tra Ceo e Atene per l’acquisto di ocra, necessaria nella costruzione delle triremi. Grandi vantaggi economici provengono anche dalle miniere e dall’attività metallurgica. Giacimenti di oro e argento sono proprietà statali; l’organizzazione dello sfruttamento varia a seconda delle poleis. I Sifni per esempio redistribuiscono tra i cittadini i proventi delle miniere. Le miniere del Pangeo, in Tracia, sono oggetto di una lunga contesa tra Taso e Atene, che le controlla per parte del V secolo a.C., fino alla caduta di Anfipoli nel 422 a.C., per poi finire sotto il dominio macedone all’epoca di Filippo II; quelle del Sigeo, in Troade, rientrano nell’orbita ateniese, come possedimento quasi privato dei Pisistratidi. L’ubicazione di miniere in territori privi di forte potere statale alimenta appetiti esterni e lotte per controllarne lo sfruttamento. Atene peraltro possiede ricchi giacimenti argentiferi nel distretto del Laurio, sfruttati fino al I secolo a.C.: nel 483 a.C. Temistocle impedisce che i proventi di un nuovo giacimento appena scoperto siano distribuiti alla popolazione, alla maniera dei Sifni, ma convince il demos a investirlo nella costruzione della flotta. Le miniere sono date dalla polis in concessione a privati per un certo numero di anni; per lavorarle occorre reclutare schiere ingenti di schiavi, affittare installazioni nelle vicinanze del Laurio per lavorare il metallo, pagare concessioni e, sembra, tasse sul minerale estratto. Si tratta di un affare dispendioso, che può rivelarsi molto vantaggioso per i privati: non tanto per chi prende le concessioni, quanto per chi procura gli schiavi, affittandoli. È il caso di Nicia, Ipponico, Filemone, che mettono insieme enormi ricchezze, tanto che, in un momento di crisi finanziaria per Atene, Senofonte propone alla polis di imitarne l’esempio, affittando lei stessa schiavi pubblici per gli appaltatori delle miniere. Tutti gli studiosi di economia concordano nel ritenere che, nell’Atene classica, il business più vantaggioso in termini di rendimento sia stato lo sfruttamento del lavoro degli schiavi nelle miniere. Le miniere del Laurio forniranno inoltre l’argento per coniare la dracma ateniese, moneta che la città saprà imporre in larga parte del Mediterraneo in età classica.
La mobilità greca nel Mediterraneo è un elemento di lunghissima durata: già i Micenei avevano percorso in lungo e in largo il mare interno, disseminando i manufatti che esportavano (ceramica in primo luogo) e raccogliendo le materie prime di cui necessitavano: un’espansione commerciale capillare, legata al bisogno più che a una volontà di estensione territoriale – che allo stato della nostra documentazione archeologica non è riscontrabile. L’Odissea non può concepirsi senza una lunga esperienza di viaggi e contatti con popolazioni differenti; una ricca letteratura periegetica e di peripli compare già dalla fine del VI secolo a.C., con Scilace di Carianda ed Ecateo di Mileto. Viaggiano uomini e beni: i tempi e i modi di questi itinerari e degli scambi si trasformano nel tempo, nei protagonisti, nelle dimensioni, senza che venga mai meno la presenza forte dei Greci nei traffici mediterranei.
Gli scambi naturalmente non riguardano solo la lunga distanza. Al contrario, per lo più essi si realizzano a livello locale, regionale. Bisogna perciò riconoscere la presenza di diversi circuiti contemporaneamente attivi: quelli limitati ad aree ristrette e di dimensioni esigue e quelli a più ampio raggio. Il lessico greco ha del resto distinto precocemente le due forme dell’attività commerciale: la kapeleia è il commercio al dettaglio, minuto, fatto di piccoli bottegai; l’emporia invece è il commercio su vasta scala, che mette in comunicazione le aree più lontane del Mediterraneo, fatto di merci pregiate, spesso prodotte intenzionalmente per essere esportate.
La prima attestazione dell’emporia si trova in Esiodo; i toni con cui il poeta la introduce, tra le attività che consentono al piccolo proprietario terriero di integrare le sue entrate, mostrano che non si tratta di un’occupazione stabile o specializzata in quest’epoca; diffidenza e prudenza, per i rischi della navigazione e l’allontanamento dagli amati campi tradiscono lo scarso entusiasmo del poeta per il mare. Tuttavia, navigare con cautela, nei limiti della buona stagione, procura vantaggi: allora, meglio una nave grande, con maggior carico, ma lasciando a casa più quanto si porti. Lo scambio serve appunto come attività secondaria, integrativa; la circolazione non sostituisce il processo principale di accumulazione e tesaurizzazione delle risorse.
Esiodo rimanda a un circuito limitato nello spazio e nell’impatto economico: il produttore agricolo, piccolo contadino, vende le eccedenze attrezzando una nave per piccoli viaggi e scambi stagionali.
Prima di Esiodo qualche informazione la danno i poemi omerici. Lì, nel mondo delle aristocrazie dalle grandi proprietà fondiarie e dai grandi mezzi, lo scambio ha valenza sociale. È una delle manifestazioni dei rapporti tra capi, tra pari grado; affermazione del proprio status e riconoscimento di quello altrui. Lo accompagna una ritualità sociale che prevede una rigorosa applicazione del principio di reciprocità, secondo la pratica del dono e contro-dono. Gli oggetti scambiati sono di prestigio, valorizzano chi li offre – senza eccessi, naturalmente, per non offendere o mettere a disagio l’interlocutore. Come scrive Marcel Mauss, che “ha scoperto” le società del dono: “il principio dello scambio-dono deve essere stato caratteristico delle società che hanno oltrepassato la fase della “prestazione totale” (da clan a clan, da famiglia a famiglia), ma che non sono ancora pervenute al contatto individuale puro, al mercato in cui circola il denaro, alla vendita propriamente detta e, soprattutto, alla nozione del prezzo calcolato in moneta”.
Una descrizione che si adatta comodamente all’età omerica e a molte realtà locali dei secoli successivi. A partire dal VI secolo a.C. tuttavia il Mediterraneo sarà un mercato in cui si impone la moneta, in cui si evolvono forme di scambi di carattere più chiaramente commerciale. La cerimonia del dono continua
Già alla metà del VII secolo a.C. del resto la tradizione pone la prima grande impresa commerciale, con Coleo di Samo che avrebbe, secondo Erodoto, raggiunto Tartesso realizzando “il più gran profitto tra i Greci di cui abbiamo notizia”. I grandi mercanti, gli emporoi, viaggiano alla scoperta di nuove opportunità; hanno naturalmente legami politici e sociali nelle loro destinazioni, ma creano anche nuove rotte e itinerari. È naturale che cerchino di mantenere buoni rapporti con i potenziali mercati, anche se tali rapporti, in età classica, assumono già tratti di tipo evergetico: molte iscrizioni onorano emporoi stranieri per benemerenze rese alla comunità (un caso classico è la vendita del grano a basso costo in momenti di carestia).
Ancora meglio di Coleo fa, sempre secondo Erodoto (“con lui non è possibile che altri competano”), Sostrato di Egina: vissuto a cavallo tra VI e V secolo a.C., fa parte di una grande famiglia aristocratica dedita al commercio su larga scala, dall’emporion di Naucrati in Egitto a quello di Gravisca, porto di Tarquinia – letteralmente, da un angolo all’altro del Mediterraneo. E rapporti stretti con il mondo etrusco da parte di membri di esponenti della maggiore aristocrazia greca sono attestati anche dalle tradizioni sul corinzio Demarato, della famiglia dei Bacchiadi, che scambia i prodotti di prestigio dell’artigianato greco e orientale con materie prime, di cui l’Etruria è ricca: egli controlla, secondo la testimonianza delle fonti, tanto l’allestimento delle navi da carico, di cui è armatore (naukleros), quanto le merci, in parte prodotte da artigiani al suo servizio, e infine lo scambio, che presuppone rapporti personali privilegiati con le élites etrusche.
Nonostante un aumento significativo della circolazione di beni si abbia già nella fase cosiddetta dell’orientalizzante, prima di Sostrato è difficile pensare che questi scambi costituiscano una specializzazione: il commercio diventa una professione durante il VI secolo a.C., per le realtà più attive in questo campo (Corinto, Megara, Egina, le città della Ionia, Atene). Prima di allora, vige un commercio praticato in modo discontinuo da aristocratici, principalmente acquisitivo, legato a beni di prestigio, generalmente denominato prexis per distinguerlo dalla specializzazione successiva dell’emporia – anche se recentemente per la grande vicenda coloniale si è ipotizzato che già i Calcidesi, precoci frequentatori delle rotte occidentali, ricercassero dai propri scambi margini di guadagno di tipo emporico, come attesterebbe la breve ma significativa vicenda dell’insediamento di Pithecusa (Ischia).
I Greci hanno come concorrenti nel Mediterraneo soprattutto i Fenici e gli Etruschi (questi ultimi limitatamente al Tirreno). Fino alla metà del VI secolo a.C., i rapporti sono di convivenza più che di ostilità; in seguito, gli spazi si chiudono, alimentando scontri per il controllo delle rotte, dei prodotti e dei mercati migliori. L’identificazione dell’origine degli emporoi non è peraltro sempre semplice. Nei relitti di navi arcaiche trovati in buon numero nel Tirreno i carichi presentano merci di diversa provenienza, facendo immaginare rifornimenti avvenuti a più riprese, con prodotti di provenienza diversa. Chi vende prende tutto ciò che può attirare i potenziali acquirenti e, presumibilmente, si adatta alle diverse condizioni dello scambio vigenti nelle varie destinazioni. L’identità e la provenienza del prodotto venduto non sempre coincidono con quelle del mercante.
In epoca classica Atene, con il Pireo e la sua flotta, rappresenta la città più attrezzata per imprese commerciali. Il VI secolo a.C. ha visto la ceramica attica invadere i mercati occidentali. In Etruria l’enorme quantità di vasi provenienti da Atene presenta spesso caratteri peculiari: le botteghe attiche hanno progressivamente adattato forme e caratteri del loro prodotto al cliente, forgiando alcune tipologie specifiche e diversificandole da quelle per il mercato interno – come nel caso della bottega di Nicostene. La domanda, in casi particolari, può portare a una specializzazione e personalizzazione del prodotto offerto, con una sorta di commissione determinata dai gusti e dalla domanda di un settore del mercato. Ma è tra V e IV secolo a.C. che il commercio attico si esprime al suo meglio, anche per il sostegno dell’impero marittimo. Il porto del Pireo catalizza il flusso delle merci, sottraendo importanza a rivali greci (Corinto e Megara) e sviluppando un volume di affari di vaste proporzioni. I mercanti ateniesi possono trovare sponsor per finanziarsi: nasce ad Atene un istituto specifico, il prestito marittimo, a interessi altissimi (fino a oltre il 30 percento annuo), sancito da contratti minuziosi tra il creditore e l’armatore della nave, che dà in garanzia la nave stessa e il suo carico.
L’economia monetaria conosce ad Atene un’accelerazione. Qui nascono le prime forme di banche, tenute per lo più da schiavi e meteci, inizialmente limitate al deposito, ma in seguito più attive in operazioni di carattere finanziario. Grandi fortune possono derivarne, come quella di Pasione, un ex schiavo, banchiere, vissuto ad Atene durante la prima metà del IV secolo a.C., considerato l’uomo più ricco dei suoi tempi. Grazie ai suoi successi, può riscattarsi dalla sua posizione fino ad ottenere, poco prima di morire, la cittadinanza. Oltre che banchiere, è imprenditore di una fabbrica di scudi e diviene, infine, proprietario terriero, quasi a voler ricondurre anche il suo profilo patrimoniale sotto un modello tradizionale di proprietà. In quegli stessi anni, tuttavia, un cittadino a pieno titolo, Demostene, ha ereditato dal padre un patrimonio composto da ergasteria, denaro impegnato in depositi e prestiti, una casa di proprietà, ma nessun appezzamento di terra – ciò non gli impedisce una brillante carriera politica. Anche i cittadini dunque si affacciano al mondo degli affari. Mantenere le aspettative sociali richiede spese cospicue – in particolare per chi abbia ambizioni politiche. Spesso collaborano con meteci e a volte con schiavi pienamente introdotti nella vita finanziaria della città e con il tempo iniziano a divenirne finanziatori.
È stato detto che i cittadini ateniesi “facevano affari senza essere negli affari”, ma nel IV secolo aumenta il numero di quanti tra loro partecipano con intraprendenza e in prima persona alle attività economiche più redditizie e specializzate. Un atteggiamento che si andrà consolidando in epoca ellenistica, quando i cittadini ricoprono ormai apertamente ruoli attivi nel commercio, nelle finanze, nelle grandi imprese artigianali.
È il momento in conclusione di affrontare, sia pure brevemente, una questione centrale nel dibattito sull’economia greca: quale consapevolezza hanno i Greci dei fenomeni economici?
La riflessione greca non ha lasciato alcuna opera direttamente incentrata sull’economia, almeno non nel senso moderno della nozione. Esiste una trattatistica relativa al tema dell’oikonomia, intesa, secondo il significato letterale, come amministrazione dell’oikos. Due di questi trattati ci sono giunti: il primo composto da Senofonte, il secondo appartenente alla scuola aristotelica. L’Economico di Senofonte è una lunga descrizione dell’organizzazione virtuosa di un oikos aristocratico: il ricco possidente Iscomaco espone a Socrate le linee guida della sua attività e il quadro che ne deriva rappresenta piuttosto chiaramente un modello ideale, nel quale la sana e ben organizzata amministrazione domestica si pone in armonia con istanze di tipo etico, nelle relazioni con la moglie, con la collettività, con il vivere sociale. Senofonte vorrebbe dimostrare la centralità della struttura privata dell’oikos per la vita della polis, che Platone ha messo in discussione nella Repubblica, a patto che siano rispettati alcuni dettami di stampo aristocratico, cui si aggiungono suggestioni tratte dal mondo persiano ammirato da Senofonte. Iscomaco è un nobile proprietario terriero, ricava la propria ricchezza dal lavoro agricolo e da un’attenta cura nell’organizzazione della produzione, lontano da ogni tentazione più spiccatamente commerciale e affaristica; un aristocratico tradizionalista ma, per così dire, al passo con i tempi: in grado ad esempio di lodare il padre per la capacità di speculare sui terreni incolti, acquistandoli per metterli in valore e rivenderli a più del doppio della cifra sborsata. Anche la terra, bene-simbolo per l’ideologia aristocratica, mostra di doversi piegare ad assumere un valore puramente economico, esprimibile in denaro.
Il vero catalizzatore delle discussioni moderne è tuttavia Aristotele. Nella Politica e in alcuni passi dell’Etica Nicomachea egli dà la sua versione dell’oikonomia come disciplina tutta legata alla centralità dell’oikos, visto come insieme di persone e beni e, soprattutto, ben distinta dalla crematistica, la disciplina che studia l’acquisizione dei beni. Fedele al suo modello di oikos autarchico, Aristotele distingue una crematistica naturale (in cui i beni vengono considerati per il loro valore d’uso) e una innaturale (nella quale prevale il valore di scambio). Lo stesso filosofo tuttavia ammette che altri ritengono la crematistica a pieno titolo parte della oikonomia e anzi la sua parte più importante. Il fatto è che, come è stato giustamente messo in luce, Aristotele è stato spesso considerato come punto di partenza per un discorso sull’economia, mentre invece rappresenta, per molti aspetti, il punto d’arrivo di una lunga riflessione sulle forme di tale concetto, di cui cogliamo alcuni tratti nel dialogo senofonteo prima citato, in un’operetta di un autore sconosciuto, convenzionalmente indicato come Anonimo di Giamblico, e nelle tradizioni relative alla gestione “moderna” di alcuni oikoi del V secolo a.C., quello di Pericle in particolare. Tutte queste testimonianze presuppongono una certa consapevolezza degli effetti benefici della circolazione dei beni e, soprattutto, del denaro, delle ricadute sul credito e sulla fiducia come elemento che sostiene il benessere di una comunità; tutte sottolineano come una acquisizione sterile, la tesaurizzazione per pura avidità o l’uso della ricchezza per mera esibizione siano dannose non per ragioni etiche, ma perché sottraggono ricchezze: il denaro è bene comune solo se circola e diventa produttivo. Nulla di più lontano da Aristotele, in opere che lo precedono. La posizione del filosofo non è d’avanguardia o di chi “scopre l’economia”, come vuole Polanyi. Al contrario, egli ha voluto separare, non senza incongruenze, tutto ciò che dell’elaborazione teorica sui fenomeni economici può allontanare dall’ideale di autosufficienza dell’oikos, da riproporre poi alla collettività politica come modello da applicare. Niente crematistica, niente economia monetaria, niente profitto. Aristotele propone una radicale riduzione dell’impatto dell’economico sulla società. Gli scambi e i rapporti di valore che teorizza avvengono solo tra prodotti finiti (scarpe contro letti, letti contro case) e sono intesi da Polanyi come indicatori di una concezione aneconomica dei prezzi, che Aristotele (e con lui tutti i Greci) non avrebbe conosciuto.
Come ha puntualizzato Musti, tuttavia, Aristotele prefigura come unico scambio quello tra produttore e produttore, riportandolo a una forma rimodernata di baratto che sappia stabilizzare i processi economici, pur sapendo benissimo che il vero scambio avviene tra produttori e consumatori, dove l’unico intermediario possibile è la moneta. Aristotele non può far sparire la moneta, ma può cercare, come fa, di disinnescarne gli aspetti più lesivi per il suo modello di comportamenti sociali e politici. Così, egli non nega l’esistenza della crematistica e del puro valore di scambio, che al contrario analizza compiutamente; semmai, ne rifiuta la logica, ne sconsiglia l’adozione su un piano politico. Difficile in questa prospettiva sostenere che Aristotele scopra l’economia; semmai, cerca di ridurne la portata, di celarla sotto il vagheggiamento dell’ideale autarchico.