di Gianfranco Viesti
L’Italia è fra i paesi con le maggiori disparità regionali. Il fenomeno non è certo raro; ma in Italia presenta una particolare intensità e persistenza. Al Centro-Nord, il reddito è molto più alto; il tasso di occupazione, soprattutto femminile, assai maggiore; lo stesso accade per quantità e qualità delle imprese.
Come si è prodotta questa situazione? Che conseguenze provoca per l’economia italiana?
La differenza di reddito fra le regioni del paese era assai minore all’Unità, quando erano tutte prevalentemente agricole. È cresciuta molto con i primi processi di industrializzazione, che si sono concentrati nel “Triangolo Industriale” e poi diffusi verso il Nord-est e il Centro. Si è molto acuita durante il fascismo: al Sud la popolazione è cresciuta notevolmente, ha visto chiusa la strada dell’emigrazione ed è rimasta quasi esclusivamente legata all’agricoltura; le politiche economiche e i grandi salvataggi degli anni Trenta hanno cristallizzato la geografia dell’industria. Nel secondo dopoguerra, durante il ‘miracolo economico’ le differenze di reddito si sono significativamente ridotte. Il Sud si è modernizzato, ha ridotto un po’ il suo forte gap infrastrutturale rispetto al resto del paese, ha visto crescere l’industria. Questo è stato frutto di una intensa e determinata politica pubblica nazionale. Con la crisi petrolifera questa rincorsa si è arrestata: tutte le regioni hanno significativamente rallentato la crescita (quasi azzerata nell’ultimo decennio) ma le distanze sono rimaste immutate. Spiegarlo non è difficile: ancora troppo forte era (e rimane) la diversa convenienza nel “fare impresa” fra CentroNord e Sud in termini di dotazione di infrastrutture, disponibilità di servizi pubblici e privati, presenza di lavoratori ben qualificati; distanza dai mercati di sbocco, presenza di agglomerazioni produttive e connesse economie esterne. Negli ultimi 35 anni le politiche economiche non sono riuscite a mutare questo dato di fondo. Anzi, la qualità delle politiche pubbliche, dalla fine degli anni Sessanta, si è notevolemente ridotta; al Sud, in misura probabilmente più intensa che nell’intero paese. In particolare negli anni Ottanta, fino alla crisi fiscale del 1992, il Sud è stato parzialmente compensato da flussi di spesa pubblica corrente, che ne hanno sostenuto i redditi ma non promosso lo sviluppo.
Che conseguenze hanno queste forti disparità regionali per lo sviluppo dell’Italia? Certamente ne limitano il potenziale di crescita. Le regioni del Sud dispongono di un patrimonio di risorse, innanzitutto umane, ma anche ambientali e culturali, poco o male utilizzate. Il mancato utilizzo di queste risorse limita il tasso di crescita dell’economia. Con una maggiore occupazione al Sud, non solo il reddito nazionale, ma anche il gettito fiscale e contributivo sarebbe ben maggiori. Ma per ottenerlo è indispensabile uno sviluppo assai più ampio dell’impresa privata; e perché questo si possa realizzare occorre aumentare la convenienza del ‘fare impresa’ al Sud. La forte disparità crea anche importanti flussi economici interni al paese. La minore offerta al Sud fa sì - da sempre - che una quota rilevante dei suoi consumi sia destinata a beni e servizi ‘importati’ dal Centro - Nord, sostenendone l’economia. Al tempo stesso, l’azione pubblica svolge una simmetrica azione redistributiva. Dato che, a norma di Costituzione, la tassazione è progressiva e la spesa nazionale per servizi pubblici tendenzialmente proporzionale alla popolazione, il bilancio pubblico sposta implicitamente - come ovunque nel mondo -una parte del gettito fiscale dei cittadini più ricchi delle regioni più ricche verso i cittadini meno ricchi delle regioni meno ricche. Ciò negli ultimi anni ha suscitato accese discussioni politiche: ma è il naturale portato di un paese unitario con forti disparità di reddito interne. Questi flussi potranno essere ridotti solo attraverso un forte sviluppo del sistema delle imprese al Sud, e la conseguente crescita dell’occupazione.