L’economia italiana
Quali fatti e tendenze hanno segnato l’evoluzione dell’economia italiana nei primi anni di questo inizio di secolo? Tra le tante statistiche disponibili, guardiamo a quelle dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), relative ai trenta Paesi industrializzati aderenti all’organizzazione, e consideriamo gli anni 2001-2006. Dalle classifiche dell’OCSE risulta che l’Italia ha avuto la crescita più bassa della produttività del lavoro: nei sei anni in esame, il PIL per ora lavorata è rimasto praticamente invariato. Nello stesso arco di tempo, nella media dei trenta Paesi la produttività del lavoro è aumentata dell’1,3% (e nell’Unione Europea, UE, a 15 dell’1,8%). Se guardiamo alla produttività totale dei fattori, di nuovo si scopre che l’Italia si trova all’ultimo posto. È vero che siamo ancora al sesto posto per quanto riguarda il livello del PIL prodotto (non considerando Cina e India, che non rientrano tra i Paesi esaminati dall’OCSE). Tuttavia, ciò che conta ai fini del benessere individuale non è tanto il livello complessivo del PIL quanto quello pro capite. E in questo caso l’Italia si trova al ventesimo posto, dietro i più importanti Paesi europei e appena al di sopra della Grecia. Né va meglio se guardiamo al ritmo con cui cresce il PIL, che di nuovo è stato il più lento tra i trenta Paesi.
Quali le ragioni di una performance così deludente? Per rispondere a questo interrogativo, è inevitabile guardare agli anni Novanta del Novecento, il decennio in cui lo scenario che fa da sfondo agli avvenimenti economici ha subito un mutamento radicale. Non sembra azzardato definire epocali i cambiamenti che si sono verificati in quegli anni. Essi segnano un discrimine non solo nella storia economica italiana ma anche in quella dell’economia mondiale. È sufficiente fare un elenco di questi cambiamenti per comprenderne la portata effettiva.
Intanto basta citarne uno: la globalizzazione. Un fenomeno che a partire dagli anni Novanta ha assunto le forme dell’irruzione sui mercati internazionali dei grandi giganti asiatici, la Cina e l’India. Ma la globalizzazione non ha investito soltanto il mercato dei beni. Ha coinvolto anche i mercati finanziari e il mercato del lavoro, mettendone in discussione regole, funzionamento e istituzioni, perché questi mercati sono diventati sempre più integrati su scala mondiale. Per fornire una misura della scala globale di questi mutamenti, è sufficiente pensare, nel caso della globalizzazione finanziaria, agli effetti della crisi finanziaria odierna provocata dai mutui subprime che dagli Sati Uniti si è propagata al resto del mondo, Italia inclusa. Nel caso della globalizzazione del lavoro, è sufficiente pensare alle ondate migratorie che hanno mutato alle radici il funzionamento e gli esiti dei mercati del lavoro occidentali. L’altro shock di carattere globale degli anni Novanta riguarda la rivoluzione innescata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Una rivoluzione che non ha interessato soltanto il come si produce ma anche il che cosa, e la stessa organizzazione dei processi produttivi.
Oltre a questi due shock globali, gli altri due shock che hanno colpito l’economia italiana sono ‘locali’, nel senso che hanno interessato solo i Paesi europei. Possiamo considerarli in realtà mutamenti istituzionali, che hanno cioè dato luogo a cambiamenti dell’insieme di norme che regolano i comportamenti e le azioni degli attori economici. Il primo è un cambiamento del quadro istituzionale entro cui si svolge la politica economica, ed è costituito dall’entrata in vigore dell’euro. L’adozione della moneta unica, se ha comportato indubbi benefici, come l’ancoraggio dell’economia italiana a una moneta ben più solida della ‘vecchia’ lira, ha anche significato perdita di sovranità della politica monetaria nazionale e vincoli stringenti imposti alla politica di bilancio (Patto di stabilità e crescita). L’altro shock locale che ha colpito l’economia italiana, insieme a quella di altri Paesi europei, è rappresentato dal cambiamento del quadro contrattuale che regola il mercato del lavoro: l’insieme delle riforme del mercato del lavoro che in Italia va sotto il nome di pacchetto Treu e legge Biagi. Come vedremo, queste riforme hanno sì permesso l’ingresso sul mercato del lavoro di nuove forze e consentito una crescita occupazionale senza precedenti, ma hanno anche comportato l’emergere di nuove forme contrattuali di lavoro temporaneo per quanti vengono occupati, insieme a un più basso livello di produttività per l’intero sistema economico.
Di fronte a questi eventi, come ha reagito l’economia italiana? Qual è la situazione attuale? Che cosa possiamo aspettarci per il futuro? Nelle pagine che seguono tenteremo di fornire un’interpretazione più o meno ordinata di questi avvenimenti, di come si sono riflessi sull’economia italiana e di quali reazioni hanno suscitato. Vedremo come tali eventi hanno via via costretto la nostra economia lungo un sentiero sempre più stretto, eliminando molti dei margini di libertà di cui godeva in passato e creando quella situazione di drastico rallentamento della crescita e della produttività in cui essa si trova tuttora.
Le caratteristiche della crescita
Il reddito pro capite è una grandezza importante perché fornisce una misura della capacità d’acquisto e quindi del benessere (seppure soltanto economico) di cui ciascuno può godere. Se prendiamo in considerazione i dati forniti dalla Commissione europea (Annual macro-economic database, AMECO), il reddito pro capite dell’Italia ai prezzi del 2000 è complessivamente aumentato tra il 1992 e il 2007 di più del 17%. Poiché il reddito pro capite è definito da un rapporto, la sua dinamica dipende tanto dall’andamento del prodotto interno lordo (PIL) quanto dai fattori demografici che regolano l’andamento della popolazione. In effetti, nello stesso periodo il PIL italiano complessivo è cresciuto in termini reali del 22%. Dato che il reddito pro capite ha mostrato un aumento del 17%, ciò significa che la popolazione è aumentata del 5%.
Come si vede, l’economia italiana non è rimasta ferma. Nel corso degli ultimi quindici anni il PIL è cresciuto a un tasso medio annuo pari all’1,4% circa. Non ha senso perciò parlare di declino del livello del reddito. Tutt’al più, si può parlare di declino nel senso di rallentamento della crescita. La prospettiva però cambia completamente se guardiamo alla dinamica temporale di questa crescita e soprattutto se la confrontiamo con quella di altri Paesi. Quanto al primo punto, è noto che dagli anni Cinquanta e Sessanta il ritmo di crescita è enormemente diminuito. Mezzo secolo fa la crescita media del PIL era di circa il 6%, cioè oltre quattro volte quella attuale. Dalla metà degli anni Settanta vi è stato un progressivo rallentamento. Il tasso medio di crescita degli anni Settanta si era già abbassato a meno del 4%; nel decennio successivo si è ulteriormente ridotto a meno del 2,5%. Tuttavia il rallentamento non ha riguardato soltanto l’Italia, ma ha coinvolto tutti i Paesi industrializzati. Con ogni probabilità, i ritmi di crescita che sono stati realizzati sino alla metà degli anni Settanta sono oggi irripetibili, costituiscono una sorta di età dell’oro. Questo è vero non solo per l’Italia, ma anche per le altre economie avanzate, come i Paesi europei, oltre che per il Giappone e gli Stati Uniti. Malgrado ciò, fino all’inizio degli anni Novanta il rallentamento della crescita del PIL non ha impedito che i Paesi con un PIL più basso crescessero più velocemente di quelli più ricchi, di modo che le distanze in termini di reddito pro capite risultavano via via minori. In altre parole, sino all’inizio dello scorso decennio era continuato un processo di convergenza del reddito pro capite.
Se si guarda la fig. 1, il processo di convergenza dell’economia italiana è evidente. Dall’inizio degli anni Settanta fino all’inizio degli anni Novanta la distanza in termini di reddito pro capite rispetto agli Stati Uniti si è progressivamente ridotta: se negli anni Settanta il reddito di un italiano era circa il 66% di quello di un americano, negli anni Novanta aveva raggiunto l’80%, recuperando così nel corso di un ventennio circa 14 punti del divario. Il problema, come mostra ancora la figura, nasce negli anni successivi: in quindici anni il divario che era stato colmato si riforma di nuovo, riportandoci all’inizio degli anni Settanta. Per essere più concreti, il reddito di un italiano nel 2007 era pari a circa 25.000 euro, mentre quello di un americano era di 37.000, ovvero più elevato di quasi il 50%.
La crescita del reddito pro capite
A cosa possiamo far risalire questo deficit di crescita? Un modo semplice di affrontare la questione è cominciare a guardare ‘dietro’ il reddito pro capite, analizzando i fattori che ne determinano l’andamento. Una scomposizione utile al riguardo consiste nel separare le componenti demografiche da quelle economiche. Il reddito pro capite dipende infatti da tre elementi: la quota della popolazione in età da lavoro (nella fascia di età compresa tra i 15 e i 64 anni), il tasso di occupazione e la produttività del lavoro (corrispondente al valore del prodotto che ogni occupato produce). Se moltiplichiamo la quota della popolazione in età da lavoro per gli altri due elementi, cioè il tasso di occupazione e la produttività del lavoro, otteniamo per definizione il reddito pro capite.
Questa scomposizione del reddito pro capite – riprodotta in tab. 1 – ci consente di comprendere quali fattori promuovono o rallentano la crescita in un dato Paese. Nella tabella sono rappresentati i tassi (cumulati) di variazione delle tre grandezze. Se sommiamo tra loro questi tre tassi, otteniamo il tasso di variazione del reddito pro capite.
Per iniziare, guardiamo cosa ci dice la scomposizione in questione per l’Italia. Ogni numero che compare all’interno della tabella rappresenta il valore cumulato della corrispondente grandezza indicata nella riga. Per il periodo 1995-2007, per es., in Italia il reddito è aumentato del 15,7%. Se scorriamo la stessa riga, ci accorgiamo che il reddito pro capite è cresciuto in Spagna più del doppio, mentre in Francia, in Germania e negli Stati Uniti la crescita è stata più elevata ‘solo’ del 50%. Le righe successive ci dicono a quali fattori è attribuibile la crescita in ciascun Paese. La quota della popolazione in età da lavoro risente ovviamente di fattori demografici: quanti più ‘giovani’ tra i 15 e i 64 anni confluiscono anno dopo anno in questa classe di età, tanto più aumenta il valore cumulato della quota della popolazione attiva; viceversa, un valore negativo sta a testimoniare che la popolazione tende a invecchiare. Questa è la direzione verso cui si è mossa l’Italia, che in questo senso si collega chiaramente alla situazione tedesca; somiglia invece molto meno alla Spagna e alla Francia e risulta molto diversa dagli Stati Uniti, dove la popolazione in età da lavoro è per contro cresciuta.
Invertire una tendenza demografica non è facile. Nell’immediato, l’unico modo di correggere questo andamento sembra essere l’immigrazione, in quanto fonte positiva di accrescimento della popolazione in età da lavoro. Altre politiche, come quelle a favore della natalità, producono infatti i loro effetti su un orizzonte temporale molto più lungo. Occorre peraltro essere cauti nell’interpretare questo dato come un nesso diretto di causalità che va dall’andamento demografico alla crescita del reddito pro capite. Se è vero infatti che la dinamica demografica influenza l’andamento del reddito pro capite, è anche vero che essa risente dell’andamento della crescita.
Le ultime due righe ci dicono quanto l’Italia sia simile alla Spagna e molto diversa invece dagli altri grandi Paesi europei, come la Francia e la Germania, e ancor di più dagli Stati Uniti. Esse infatti chiariscono che in Italia e Spagna la crescita è stata alimentata soprattutto dall’aumento dell’occupazione e molto poco dalla produttività del lavoro. In Italia la crescita dell’occupazione ha contato per circa il 15% della crescita totale, e in Spagna per quasi il 27%. Il contributo della produttività è stato invece assai scarso in entrambi i Paesi. Tenendo conto che il periodo di riferimento va dal 1995 al 2007 e che, arrotondando, in tutti e due i Paesi la crescita della produttività è stata pari al 6% circa in tredici anni, se ne ricava che questa è aumentata in media di meno di mezzo punto percentuale all’anno. Per avere un’idea delle dimensioni di questo rallentamento, non è necessario tornare indietro ai ‘mitici’ anni Sessanta, quando la produttività cresceva a ritmi di più del 6% ogni anno; è sufficiente pensare agli anni Settanta, che registravano un aumento medio annuo di poco meno del 3%, o anche agli anni Ottanta, in cui tale aumento era quasi del 2%. In Italia, insomma, la pur modesta crescita del PIL è da attribuire all’aumento dell’occupazione e non alla crescita della produttività.
Il rallentamento della produttività del lavoro
Questo recente connotato della crescita italiana merita di essere ulteriormente analizzato, innanzitutto per i ruoli che occupazione e produttività ricoprono oggi rispetto a quelli che hanno avuto nel passato. Nei decenni trascorsi, la crescita italiana è stata sostenuta assai poco dalla crescita occupazionale e molto dall’aumento della produttività. Oggi invece assistiamo a un ribaltamento dei ruoli di queste due variabili nel processo di crescita. Questo legame inverso tra occupazione e produttività (entrambe espresse in tassi di variazione) non dovrebbe suonare strano. Dopotutto, esso corrisponde a ciò che viene ripetuto fin dai primi giorni di università a tutti gli studenti di economia, e che viene (pomposamente) denominato legge della produttività decrescente.
Abbiamo detto all’inizio che uno degli shock che hanno investito l’economia italiana negli anni Novanta è rappresentato dalle riforme del mercato del lavoro. Le riforme in questione hanno dato luogo a una liberalizzazione delle norme contrattuali che regolano il mercato del lavoro consentendo, per es., forme di lavoro a tempo determinato che hanno riguardato i nuovi occupati. In questo modo in Italia è divenuta meno stringente la legge sulla protezione all’impiego, che in gergo viene indicata con l’acronimo inglese EPL (Employment Protection Legislation). La misura della severità dell’EPL viene calcolata dall’OCSE. Se si guarda al valore assunto da questo indicatore per l’Italia a partire dagli anni Novanta, si può notare come esso sia rimasto invariato per i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato, mentre per i lavoratori temporanei abbia subito la più forte riduzione di tutti i Paesi aderenti all’OCSE.
Introducendo una maggiore flessibilità, le riforme del mercato del lavoro hanno così indotto una diminuzione del costo del lavoro. Una conseguenza per così dire naturale di questa riduzione è stata che una maggiore forza lavoro ha trovato occupazione. Ma, quantomeno nell’immediato, una maggiore occupazione significa anche una minore dotazione di macchinari e attrezzature per lavoratore (più genericamente, meno capitale), da cui appunto la più bassa produttività. Nell’immediato, infatti, questa dotazione rimane praticamente invariata. Il più basso costo del lavoro, in altre parole, ha indotto le imprese a sostituire capitale con lavoro, riducendo in tal modo la dotazione di capitale per lavoratore e abbassandone la produttività. Il ritmo di crescita della dotazione di capitale di cui dispone in media ciascun lavoratore è diminuito per tutti i Paesi dell’area dell’euro a partire dalla metà degli anni Novanta e in Italia questa riduzione è stata particolarmente pronunciata. Viceversa, negli Stati Uniti l’accumulazione di capitale per lavoratore ha accelerato nello stesso periodo di tempo.
A questa considerazione si aggiunga che è probabile che i nuovi lavoratori che affluiscono sul mercato del lavoro trovando occupazione siano anche quelli dotati di minori abilità ed esperienze lavorative. Anche da questo punto di vista, quindi, la conclusione sembra inevitabile: maggiore occupazione implica minore produttività. Ma basta la crescita dell’offerta di lavoro a spiegare la più bassa crescita della produttività? La risposta è negativa.
Un protagonista nascosto: il progresso tecnico
La più bassa crescita della produttività del lavoro dovuta alla minore dotazione di capitale può essere contrastata, se non addirittura più che compensata, da una dinamica favorevole del progresso tecnico. Ciò che risulta determinante, infatti, ai fini dell’andamento della produttività del lavoro non è tanto la dotazione di capitale che ciascun lavoratore ha a sua disposizione, quanto il livello di progresso tecnico che si trova incorporato nel capitale o nel processo produttivo (per es., l’efficienza con la quale vengono combinati i fattori produttivi grazie al cambiamento tecnologico).
Il metodo utilizzato dagli economisti per misurare il progresso tecnico va sotto il nome di contabilità della crescita e si basa su principi piuttosto semplici. All’ottenimento del prodotto concorrono gli input: diciamo, per semplificare, soltanto capitale e lavoro, senza ulteriori distinzioni (come potrebbe essere quella tra lavoro qualificato e non qualificato), oltre appunto al progresso tecnico, per es., come si diceva poco sopra, nell’organizzazione. Data questa rappresentazione, il contributo del progresso tecnico alla produzione viene calcolato in modo residuale. Dal prodotto viene dedotto il contributo dato da lavoro e capitale, ciascuno ponderato con il peso che questi fattori hanno nel processo produttivo. Ciò che rimane costituisce una misura del cambiamento tecnologico, chiamato residuo di Solow in omaggio al suo ideatore (l’economista statunitense Robert Solow), e che, in tempi più moderni viene chiamato produttività totale dei fattori (PTF).
Tradotta nella versione che qui interessa, la contabilità della crescita afferma che il tasso di crescita della produttività del lavoro è pari alla somma del tasso di crescita della dotazione di capitale per lavoratore, ponderato per la quota di reddito da capitale che ne misura il peso nel processo produttivo, e del tasso di crescita della produttività totale dei fattori. Nella tab. 2 è possibile osservare la contabilità della crescita per i Paesi indicati e per i due sottoperiodi 1981-1995 e 1995-2004.
Nel leggere la tabella si tenga conto che i valori indicati sono valori medi per ciascuno dei due sottoperiodi. Per es., nel caso dell’Italia e prendendo a riferimento il sottoperiodo 1981-1995, la tabella ci dice che la produttività del lavoro (misurata su base oraria, cioè per ora lavorata) è cresciuta a un tasso medio del 2%. Questo è il risultato di due componenti: il contributo dell’accumulazione, vale a dire la dotazione di capitale per lavoratore ponderato per il peso del capitale nella produzione, e quello della produttività totale dei fattori. Se si scorre con l’occhio la tabella guardando al medesimo periodo, si può verificare che la situazione dell’economia italiana è più o meno simile a quella degli altri Paesi europei, anche se può risultare diverso il contributo del capitale e quello del progresso tecnico. Questa invece non è la situazione degli Stati Uniti, i quali presentano un ritmo di crescita della produttività del lavoro grosso modo pari alla metà di quello della media dei Paesi europei.
La situazione si ribalta nel decennio successivo, dove sono gli Stati Uniti a correre più velocemente dei Paesi europei. È significativo che questo ribaltamento avvenga a opera del progresso tecnico. Il suo ritmo di crescita raddoppia negli Stati Uniti, passando dallo 0,6 all’1,2%; viceversa, in Italia (e in Spagna) subisce una sorta di tracollo, assumendo valori negativi, mentre rimane stabile in Francia e rallenta notevolmente in Germania. Ci si può chiedere come sia possibile che il progresso tecnico, per così dire, ‘regredisca’. Un risultato del genere, apparentemente paradossale, è conseguenza del fatto che la produttività del lavoro ha avuto una crescita inferiore al contributo del capitale, ovvero che il prodotto è cresciuto soprattutto attraverso un aumento dell’occupazione. Questa caratteristica è ancora più evidente nel caso della Spagna, Paese in cui la crescita della produttività del lavoro è stata nulla nel decennio 1995-2004. In altre parole, il tasso di crescita del prodotto in Spagna è stato uguale a quello dell’occupazione.
L’immagine che la tab. 2 ci offre dell’andamento recente dell’economia italiana può essere sintetizzata nel seguente modo. Rispetto a quanto è avvenuto nei quindici anni che vanno dall’inizio degli anni Ottanta alla prima metà degli anni Novanta, negli ultimi dieci anni la crescita della produttività del lavoro in Italia si è più che dimezzata. Questo rallentamento è dovuto in parte al minore contributo del capitale del lavoratore. Ma soprattutto è stato determinato dalla brusca frenata del progresso tecnico. Detto in altre parole, l’andamento della produzione e quello del prodotto pro capite sono stati determinati in gran parte dalla crescita occupazionale, mentre il contributo del progresso tecnico è stato nel migliore dei casi nullo.
A quali cause possiamo far risalire questa deludente performance dell’economia italiana? Ricordiamo brevemente quanto si è detto all’inizio a proposito degli shock cui essa è stata sottoposta nello scorso decennio. Partiamo dalle riforme del mercato del lavoro che, con l’introduzione di forme contrattuali di carattere temporaneo, hanno reso più flessibile l’occupazione dei nuovi lavoratori. Questa maggiore flessibilità ha portato a un aumento dell’occupazione. Di per sé, la maggiore occupazione rappresenta ovviamente un fatto positivo, che ha consentito di riportare il tasso di disoccupazione a livelli più accettabili dopo decenni – gli anni Settanta e Ottanta – in cui si è registrata una continua crescita. Tuttavia, d’altro canto, l’incremento occupazionale ha finito per trascinare verso il basso la produttività del lavoro.
Le riforme cosiddette strutturali, di cui quelle del mercato del lavoro fanno parte, si propongono di aumentare la produttività del lavoro sostanzialmente attraverso una migliore allocazione dei fattori della produzione. La deregolamentazione del mercato del lavoro dovrebbe, per es., rendere più produttiva l’occupazione, rendendo più semplice la sua riallocazione dalle imprese meno efficienti a quelle più efficienti, come quelle a più elevato contenuto tecnologico. In realtà, i dati appena visti ci dicono che le cose sono andate in tutt’altra direzione. Essi suggeriscono che la maggiore occupazione si è indirizzata verso produzioni a basso contenuto tecnologico, come è testimoniato dal fatto che la dotazione di capitale per lavoratore si è ridotta e soprattutto dalla drastica frenata del ritmo di crescita della produttività totale dei fattori. In altre parole, lo shock delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione degli anni Novanta sembra aver poco inciso sulla specializzazione della struttura produttiva italiana: i nuovi investimenti sono avvenuti prevalentemente nei settori tradizionali e poco in quelli innovativi, che presentano un maggiore contenuto tecnologico.
È possibile notare infine come dalla tab. 2 risulti che un’evoluzione simile a quella italiana sembra essere stata comune a tutti i Paesi europei. Tuttavia, l’Italia, assieme alla Spagna, ha registrato le performances peggiori.
Distribuzione del reddito e costo del lavoro
Quali riflessi ha avuto sulla distribuzione del reddito la dinamica della produttività del lavoro e dell’occupazione che abbiamo appena descritto? Quali conseguenze queste dinamiche hanno prodotto sul costo del lavoro e quindi sulla competitività dell’economia italiana? Non è difficile rendersi conto che queste due questioni sono tra loro strettamente collegate. Iniziamo dalla prima. Il modo più semplice di intendere la distribuzione del reddito è quello di suddividerlo in reddito da lavoro, dipendente o indipendente, e in reddito non da lavoro, come quello che deriva dalla gestione di un’impresa. La quota del reddito da lavoro viene determinata dal rapporto tra il reddito complessivamente percepito dal lavoro e il reddito complessivo. Diamo subito un’occhiata alla dinamica di questa quota negli anni più recenti (1990-2007) guardando la figura 2.
L’evoluzione temporale della quota del reddito da lavoro può essere chiaramente suddivisa in due sottoperiodi. Per tutti gli anni Novanta essa subisce una caduta continua, che la porta dal 62% dell’inizio di quel decennio a circa il 53% del 2000. A partire da questa data si riscontra una leggera risalita di un punto percentuale, tuttora oscillando intorno al 54%.
La dinamica della quota del reddito da lavoro può essere ricondotta all’andamento di due variabili: la produttività del lavoro e la retribuzione unitaria del lavoro. Infatti la quota del reddito da lavoro è identicamente uguale al rapporto tra la retribuzione del lavoro (che chiameremo salario ma che in realtà comprende anche i contributi sociali) e la produttività del lavoro. Quest’ultima è pari a quanto produce in media nel complesso dell’economia ciascun lavoratore, è cioè uguale al rapporto tra il PIL e il numero degli occupati. Il salario rappresenta quanto di questo prodotto rimane nelle tasche del lavoratore. Il loro rapporto definisce appunto la quota del prodotto che va al lavoro. Ne deriva immediatamente che se, come abbiamo visto nella fig. 2, la quota del reddito da lavoro si è drasticamente ridotta, ciò implica che il salario ha rallentato ancora di più della produttività. Insomma, in media i salari sono cresciuti meno della produttività. La fig. 3 conferma che le dinamiche di queste due variabili hanno effettivamente avuto lo svolgimento che abbiamo appena descritto.
Del rallentamento della produttività del lavoro ci siamo già occupati; quanto al rallentamento del ritmo di crescita del salario, va detto che su di esso hanno influito sia l’introduzione delle nuove forme contrattuali a tempo determinato sia la (mancata) applicazione del Protocollo del luglio del 1993 riguardante la contrattazione salariale. Il primo elemento ha avuto un’influenza indiretta sul salario, creando un aumento dell’offerta di lavoro attraverso l’entrata sul mercato del lavoro di nuovi soggetti e contribuendo così alla moderazione salariale.
L’accordo tra le parti sociali del 1993, tuttora in vigore, si propone di stabilire un nuovo meccanismo di determinazione della dinamica salariale, in luogo del precedente che era fondato sugli adeguamenti automatici all’inflazione passata. Lo scopo dunque di questo accordo consiste nel salvaguardare il potere d’acquisto delle retribuzioni e nel garantire la stabilità dei prezzi. Esso prevede due livelli di contrattazione salariale tra loro distinti: il primo, nazionale e di settore, il cui fine è di mantenere invariato il potere d’acquisto delle retribuzioni di base (minimi salariali), predeterminandone la dinamica sulla base dell’inflazione attesa; il secondo, decentrato a livello aziendale, il cui intento è di mantenere le retribuzioni di base in linea con la produttività. Di fatto, però, questo secondo livello è stato applicato soltanto a un’esigua minoranza di contratti. Il motivo di questa scarsa copertura non è difficile da individuare: esso è riconducibile sostanzialmente alla struttura tipica del sistema produttivo italiano, composto nella stragrande maggioranza (il 95% del totale) da imprese di piccolissime dimensioni (composte da un minimo di 1 a un massimo di 9 addetti), che molto difficilmente possono essere raggiunte dalla contrattazione decentrata di livello aziendale.
La distribuzione del reddito per settore: manifattura e servizi
La dinamica del reddito da lavoro che abbiamo analizzato riguarda l’economia nel suo complesso. È interessante esaminare l’andamento di questa quota in due settori cruciali come quello manifatturiero e quello dei servizi. Insieme essi rappresentano infatti quasi il 90% dell’occupazione totale. In questi due settori la distribuzione del reddito ha seguito un andamento assai diverso. Mentre nel settore manifatturiero la quota del reddito da lavoro (in rapporto al valore aggiunto) è rimasta pressoché costante negli ultimi vent’anni, in quello dei servizi essa si è ridotta di circa sette punti percentuali. La fig. 4 illustra queste due diverse dinamiche a partire dal 1990.
Confrontando la fig. 2 con la fig. 4 si nota che la dinamica della quota del reddito nel settore dei servizi è praticamente identica a quella dell’intera economia. Questo aspetto non è difficile da spiegare, visto che il settore dei servizi rappresenta da solo i due terzi dell’occupazione totale. Per contro, la manifattura ha una rilevanza via via minore, occupando meno del 20% dell’occupazione totale.
Per quale motivo si è verificata questa difformità nella distribuzione del reddito tra i due settori? Una possibile spiegazione consiste nel fatto che la dinamica settoriale della produttività è stata mantenuta bassa a causa di una diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei servizi (non solo commercio, ma anche intermediazione finanziaria) assai meno capillare di quanto sia accaduto negli altri Paesi industrializzati. Un’altra possibile, ma spesso trascurata, spiegazione si collega, invece, alla presenza nel settore dei servizi di un regime assai poco concorrenziale, che consente alle imprese di aumentare i prezzi più del costo del lavoro per unità di prodotto, riducendo così la quota del reddito da lavoro.
Produttività, competitività, esportazioni
Dunque, la quota del reddito da lavoro in Italia si è ridotta soprattutto perché i salari reali, espressi cioè in termini di potere d’acquisto, non hanno tenuto il passo con la pur lenta crescita della produttività. La stagnazione salariale ha avuto due conseguenze, una dal lato della domanda aggregata di beni e servizi, e l’altra dal lato dei costi e della competitività. Per un verso, essa ha contribuito in modo decisivo al rallentamento della domanda interna, che è uguale alla somma dei consumi (comprendendo in questi sia i consumi delle famiglie sia la spesa pubblica) e degli investimenti. Due numeri sono sufficienti a dare la misura del rallentamento della domanda interna. Mentre negli anni che vanno dal 1994 al 2000 consumi e investimenti hanno contribuito alla crescita del PIL per il 2,2%, dall’inizio del decennio corrente a oggi questo contributo si è praticamente dimezzato, passando all’1,2%. D’altra parte, la nostra economia non ha potuto compensare il rallentamento della domanda interna con un’accelerazione della componente estera della domanda, come, per es., è avvenuto in Germania. Per gli stessi intervalli di tempo prima indicati, gli scambi con l’estero misurati dalla differenza tra esportazioni e importazioni di beni e servizi hanno visto un ampliamento del deficit: tra il 1994 e il 2000, infatti, il contributo in media alla composizione del PIL corrispondeva a −0,1%, mentre negli anni 2000 e fino al 2007 esso è sceso a −0,2%.
La scarsa competitività all’estero di quanto viene prodotto in Italia può essere colta anche considerando la quota delle esportazioni italiane sul commercio mondiale. Questa quota si è ridotta da circa il 5% dell’inizio degli anni Novanta a circa il 3,5% di questi ultimi anni; è diminuita cioè del 30%. Un altro indicatore forse più evidente è costituito dal saldo degli scambi con l’estero, dato dalla differenza tra esportazioni e importazioni in beni e servizi. L’Italia è un Paese la cui crescita è trainata dalle esportazioni, dalla componente estera della domanda piuttosto che da quella interna fondata su consumi e investimenti. Se la capacità competitiva dei beni e servizi italiani sui mercati esteri viene meno, la crescita economica si indebolisce. Proprio per questo motivo i dati visti in precedenza a proposito del commercio estero appaiono particolarmente preoccupanti. Nei decenni passati la capacità competitiva della nostra economia veniva assicurata dalla crescita della produttività del lavoro e, qualora fosse stato necessario, era ristabilita attraverso le svalutazioni della lira. Di questo si ha chiara traccia anche nel grafico della fig. 5. Il saldo tra esportazioni e importazioni segna prima un picco alla metà degli anni Novanta e poi una continua discesa che finisce in territorio negativo negli anni più recenti. Un movimento, questo, che sembra chiaramente riconducibile ai movimenti del tasso di cambio: il 1995 è stato, infatti, l’ultimo anno di una fase di deprezzamento della lira iniziata nel 1992.
Una spiegazione della perdita di competitività dell’economia italiana sembra dunque proporsi naturalmente. L’adesione all’Unione economica e monetaria europea e l’adozione dell’euro hanno obbligato l’Italia a posizionarsi lungo il sentiero stretto del tasso di cambio fisso, eliminando con ciò l’ancora di salvataggio della svalutazione. Di più: si potrebbe sostenere che alla politica economica è stata sottratta quest’arma proprio quando il bisogno era maggiore. Come abbiamo visto all’inizio, gli anni Novanta sono anche quelli che vedono l’affermarsi della globalizzazione e con essa il cadere delle barriere commerciali e la comparsa, o meglio l’irruzione, di nuovi Paesi sui mercati mondiali, fra i quali, in testa, troviamo i giganti asiatici, i cui costi del lavoro sono di gran lunga minori di quelli italiani. Dunque una spiegazione delle difficoltà in cui versa l’economia italiana potrebbe essere messa in questi termini: all’Italia è venuto a mancare lo strumento della svalutazione proprio quando è stata investita dallo shock della globalizzazione. Ma questa spiegazione non pare accettabile, perché manca di farci vedere quali sono le reali cause della crisi di competitività dell’economia italiana.
In primo luogo, se concentriamo la nostra attenzione sui Paesi europei che hanno adottato l’euro e con cui l’Italia deve competere, ci accorgiamo che essi hanno fatto meglio dell’Italia; nel caso della Germania, per es., la quota di mercato delle esportazioni non solo non si è ridotta ma è aumentata. In secondo luogo, l’Italia ha ‘pagato’ l’adozione dell’euro più degli altri Paesi europei per il sommarsi dello shock della globalizzazione (causato dalla particolarità della sua struttura produttiva) e della sua scarsa flessibilità strutturale e organizzativa, che le ha impedito di sfruttare appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Qui stanno con tutta probabilità le radici delle difficoltà competitive dell’Italia, nel non aver saputo adattare con prontezza al mutato contesto tecnologico la propria struttura produttiva, e quindi di aver sofferto, e di soffrire ancora, di quel rallentamento della produttività su cui prima ci siamo soffermati. Dunque i problemi di competitività che interessano l’economia italiana trovano origine soprattutto nelle sue debolezze strutturali, evidenziate dagli shock degli anni Novanta e accentuatesi nel decennio successivo.
Se ne può avere conferma guardando al lato dei costi di produzione attraverso l’andamento della quota del reddito da lavoro. Come abbiamo visto, infatti, questa quota è uguale al rapporto tra salario e produttività. Ma ciò che è un reddito per i lavoratori rappresenta un costo per l’impresa. Detto in altro modo, il rapporto tra salario e produttività misura per l’impresa il peso del costo del lavoro per unità di prodotto. L’andamento della quota del reddito da lavoro non contribuisce perciò soltanto a determinare l’andamento della domanda interna ma anche il costo del lavoro, la componente più rilevante del costo totale del prodotto. Di conseguenza, possiamo interpretare direttamente questa quota come il costo (reale) del lavoro. Se mettiamo a confronto l’andamento di questo costo nei Paesi europei, ponendo uguale a 100 il livello assunto in ciascun Paese nel 2000, otteniamo la rappresentazione della fig. 6.
Essa mostra con evidenza che il costo del lavoro per unità di prodotto in Italia, dopo la discesa degli anni Novanta dovuta in buona misura alla moderazione salariale di quel periodo, si è mantenuto negli anni successivi costantemente al di sopra di quello degli altri Paesi europei. E abbiamo detto in precedenza (si veda ancora la fig. 3) come questo fatto sia dovuto soprattutto all’andamento stagnante seguito dalla produttività del lavoro in Italia dal 2000 in poi.
La struttura produttiva e la specializzazione delle imprese
Non è difficile constatare che il problema della produttività in Italia è almeno in parte connesso all’articolazione e alla caratterizzazione del sistema produttivo. Iniziamo intanto a vedere in che cosa consiste la peculiarità dimensionale delle imprese italiane, prendendo a riferimento l’indagine ISTAT (2007) sulle imprese che operano nei settori dell’industria e dei servizi (servizi che nella rilevazione ISTAT escludono l’intermediazione finanziaria). Congiuntamente, questi due settori costituiscono il nucleo della struttura produttiva dell’economia ‘reale’, ossia non finanziaria. Dall’indagine effettuata dall’ISTAT emerge che in Italia nel 2005 in questi due settori operano 4,3 milioni di imprese, che occupano più di 16,3 milioni di addetti. Di queste imprese, adottando come misura dimensionale il numero degli addetti per impresa, la quasi totalità risulta avere dimensioni piccolissime. Nella classe delle microimprese (composte da meno di 10 addetti) si concentrano infatti poco meno di 4,1 milioni di unità, che rappresentano il 95% del totale. Se a queste aggiungiamo le imprese di piccole dimensioni, intendendo quelle che occupano fino a 50 addetti, arriviamo al 99% di tutte le imprese presenti nei due settori. Naturalmente, questo significa che le medie imprese (che vanno da 50 a 250 addetti) sono poche – in numero di 21.000, lo 0,5% del totale– e quelle grandi pochissime – 3100, non arrivando allo 0,1% del totale. Inoltre, il problema delle microdimensioni delle imprese in Italia è accentuato dall’elevatissima presenza di lavoratori indipendenti. Se li scorporiamo dalla definizione di addetto, che comprende sia il lavoro dipendente sia quello indipendente, ci accorgiamo che in Italia un occupato su tre è indipendente. Per confronto, in Spagna questa frazione è dimezzata; in Francia soltanto un occupato su venti è indipendente.
La specializzazione dimensionale si distribuisce tra industria e servizi nel modo che ci si potrebbe aspettare. Vale a dire, la piccola dimensione è presente soprattutto laddove la tecnologia lo permette. Più del 75% delle piccole imprese (cioè fino a 50 addetti) si trova infatti nel settore dei servizi, mentre il restante 25% si divide all’incirca a metà tra industria in senso stretto (settore manifatturiero ed estrattivo) e costruzioni. Per contro, le dimensioni più elevate si ripartiscono quasi uniformemente tra i due settori. Le medie imprese (quelle cioè da 50 a 250 addetti) sono 11.000 nell’industria e 10.000 nei servizi. Nei due casi il loro peso è minimo. Similmente, è uniforme anche la distribuzione della grande impresa: 1500 nell’industria e 1600 nei servizi.
Due sono gli aspetti da sottolineare della specificità dimensionale delle imprese italiane, uno negativo e l’altro positivo. Il lato debole del sistema produttivo riguarda la numerosità delle microimprese. Esso non consiste tanto nel fatto che vi sono tante, tantissime imprese con microdimensioni. In generale, è del tutto naturale che vi siano molte più microimprese che non medie o grandi. Quando nascono, le imprese sono in stragrande maggioranza di piccolissime dimensioni, indipendentemente dal settore di appartenenza. La debolezza nasce piuttosto dalla constatazione che in Italia vi sono ‘troppe’ microimprese. Per cogliere questo punto, si consideri che in Italia la dimensione media d’impresa, calcolata come rapporto tra addetti e numero di imprese, è inferiore a quattro: in altre parole vi sono in media meno di quattro addetti per impresa. In Spagna la dimensione media è maggiore di cinque, in Francia è maggiore di sei, in Germania di dodici (dati Eurostat, 2005).
Naturalmente, questo non è niente altro che il riflesso del fatto che, come abbiamo visto, in Italia le microimprese costituiscono il 95% del totale, mentre l’analogo valore per l’Unione Europea (a 27 Paesi) è del 64%. A ciò aggiungiamo che nell’arco degli ultimi quindici anni questa specificità dimensionale si è accentuata: tra il 1991 e il 2005 la classe dimensionale delle microimprese è cresciuta di 1 milione di unità, abbassando ulteriormente la dimensione media d’impresa (era di 4,4 nel 1991, è passata a 3,8 nel 2005). Si noti inoltre che essa non è nemmeno immediatamente riconducibile alla specializzazione produttiva (il made in Italy, per intenderci) perché la sottodimensionalità è presente in tutti i settori produttivi. Di qui, la considerazione avanzata talvolta che essa sia piuttosto da ricondurre a particolari fattori di natura istituzionale, come la tassazione, la struttura proprietaria o il sistema finanziario, che non favoriscono la crescita delle dimensioni d’impresa. La questione delle piccole dimensioni è centrale per l’economia italiana, perché si ripercuote negativamente sulla produttività dell’intero sistema: nel passaggio dalla piccola alla grande impresa, la produttività del lavoro aumenta infatti di un fattore compreso tra 2 e 3. A essa tuttavia non può esser fatta risalire la bassa produttività che oggi registriamo, e che data da almeno un quindicennio, a motivo del fatto che le imprese italiane esibiscono una minore produttività rispetto ad altri Paesi, come Francia e Germania, indipendentemente dalle loro dimensioni.
L’aspetto positivo dell’evoluzione recente del sistema produttivo italiano risiede nella consistente crescita e vitalità delle imprese di medie dimensioni, con un numero di addetti compreso tra 50 e 250. Il loro numero è triplicato, passando dalle oltre 7000 unità dell’inizio degli anni Novanta alle 21.000 attuali. Non solo. Se allarghiamo lo sguardo e ampliamo la prospettiva definendo come imprese ‘intermedie’ quelle che rientrano nella fascia dimensionale tra i 50 e i 500 addetti, e non i 250 della soglia statistica tradizionale, e che perciò non sono più piccole ma non sono ancora grandi, troviamo imprese che hanno riscosso un notevole successo, soprattutto in campo internazionale, dimostrandosi come le più dinamiche. Queste imprese intermedie, che in realtà comprendono anche la fascia più bassa di quelle di grandi dimensioni, costituiscono quello che viene comunemente denominato quarto capitalismo e che comprende un nucleo di circa 4000 aziende. La loro caratteristica più sorprendente è che, pur rimanendo all’interno della tradizionale specializzazione produttiva italiana del made in Italy, hanno conseguito un notevole successo a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, soprattutto in termini di crescita delle esportazioni e, quindi, di capacità di competere sui mercati internazionali, nonostante l’apprezzamento dell’euro: il tasso medio annuo di crescita delle esportazioni di queste imprese intermedie è stato di oltre il 5% nell’arco di tempo 1997-2006. Non è tuttavia del tutto chiaro a quali fattori sia dovuto il loro successo: se sia cioè legato all’integrazione nei distretti industriali, che fa acquisire loro una maggiore competitività, o a una più elevata efficienza tecnica, oppure al riuscire a collocare i propri prodotti in nicchie di mercato, tipicamente connotate da qualità elevata, non attaccabili dalle imprese concorrenti degli altri Paesi; né si può dire se questi fattori abbiano carattere permanente o temporaneo. Rimane il fatto che queste imprese sembrano aver trovato, quanto meno nell’ultimo decennio, la dimensione efficiente nell’ambito della tradizionale specializzazione produttiva italiana.
Prospettive e rimedi
Se guardare al passato ci aiuta a comprendere l’oggi, cosa ci dice il presente riguardo al futuro? Se gli anni Novanta sono stati il decennio dei grandi cambiamenti, come possiamo definire il primo decennio del Duemila? Per provare a tracciare un quadro previsionale per il prossimo futuro dell’economia italiana, occorre ricordare che la crescita economica di quasi tutte le economie al mondo dipende dalla domanda estera. Sono le esportazioni a trainare la crescita non solo dei Paesi europei, Italia inclusa, ma anche delle economie asiatiche. L’unico Paese la cui crescita si fonda sulla domanda interna sono gli Stati Uniti. Per l’esattezza, la crescita della domanda interna eccede la capacità produttiva di quel Paese, originando così un deficit della parte corrente della bilancia dei pagamenti. È questo deficit che alimenta la domanda e la crescita mondiale. Negli ultimi anni è stato un deficit in continua crescita: tra la fine degli anni Novanta e la metà del decennio corrente è raddoppiato, passando dal 3% al 6% del PIL statunitense. Ma naturalmente questo eccesso di spesa deve a sua volta trovare fondamento nelle stesse prospettive di crescita degli Stati Uniti. Queste attese hanno trovato alimento per tutti gli anni Novanta in quello che all’inizio abbiamo definito lo shock alle tecnologie informatiche, uno shock che ha fatto crescere negli Stati Uniti prima la domanda per investimenti e poi, attraverso l’aumento dei valori di borsa, anche la domanda per consumi. Quando all’inizio dell’attuale decennio questo shock ha esaurito i suoi effetti, politiche fiscali e soprattutto monetarie particolarmente espansive hanno fatto crescere il mercato immobiliare, alimentando con lo stesso meccanismo appena visto prima gli investimenti e poi i consumi.
Oggi che anche gli effetti di questo stimolo sono venuti meno, siamo in presenza di un drastico rallentamento dell’attività economica negli Stati Uniti, che inevitabilmente si rifletterà in una minore domanda di beni esteri. A questo si aggiunga che il contemporaneo aumento dei prezzi delle materie prime, e del petrolio in particolare, ha finito con l’accendere una fiammata inflazionistica che ha ridotto, e ridurrà in futuro, i redditi reali delle famiglie e quindi i loro consumi. Insomma, siamo di fronte a un tipico problema di recessione innescato da una bassa domanda aggregata a livello mondiale. Considerato che non sembra probabile che l’Unione Europea intenda porre in atto un’azione coordinata per sostituire una propria domanda interna alla minore domanda estera, è facile prevedere un periodo di deciso rallentamento della crescita per le economie europee. Ed è altrettanto facile prevedere che il rallentamento si tradurrà, per le fragilità strutturali che sopra abbiamo evidenziato, in stagnazione per l’economia italiana.
Se questo è lo scenario entro cui va collocato il futuro prossimo della nostra economia, quali azioni è possibile intraprendere per renderne meno difficile il cammino? Partendo da quanto abbiamo visto sopra, ci limiteremo a indicare due linee d’azione di carattere generale. In primo luogo, è chiaro che l’obiettivo primario della politica economica dev’essere la crescita e quindi il rilancio della produttività, sia che si tratti della produttività del lavoro sia di quella totale dei fattori. In questo senso, ogni provvedimento inteso a introdurre maggiore innovazione e ricerca tanto nel capitale fisico quanto in quello umano, per es. attraverso il rafforzamento delle infrastrutture o un più elevato livello qualitativo nella scuola e nell’università, va sostenuto. Qui ci interessa indicare una particolare direzione che discende in un certo senso naturalmente da quanto abbiamo detto sopra. Le imprese italiane che hanno registrato i maggiori successi in termini di competitività sui mercati esteri sono quelle che hanno saputo sì rinnovarsi ma rimanendo all’interno dei settori tradizionali del made in Italy, dove indubbiamente hanno goduto e godono ancora di vantaggi comparati. Occorre quindi incentivare queste imprese, per es. stimolando la loro capacità di fare network con quelle di dimensioni minori, per accrescere ancor più la loro capacità competitiva senza disperdere altrove risorse già scarse.
La seconda linea d’azione riguarda il settore dei servizi che, come abbiamo visto, rappresenta oramai i tre quarti dell’attività svolta nelle moderne economie. Un settore, questo, in cui in Italia non solo è stata minore l’introduzione di innovazioni, ma sono maggiori gli ostacoli al funzionamento della concorrenza. Qui ogni provvedimento volto ad attivare una più ampia liberalizzazione e una maggiore deregolamentazione – nel commercio, nell’intermediazione finanziaria, nell’energia, per fare solo alcuni esempi – possono accrescere non solo il potere d’acquisto dei redditi ma al contempo ridurre anche i costi salariali delle imprese.
Bibliografia
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S. Rossi, La regina e il cavallo. Quattro mosse contro il declino, Roma-Bari 2006.
E. Saltari, G. Travaglini, Le radici del declino economico. Occupazione e produttività in Italia nell’ultimo decennio, Torino 2006.
Fonti statistiche:
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Banca dati GGDC. Le serie statistiche sulla contabilità della crescita sono tratte dal Total economy database del Groningen growth and development centre dell’Università di Groningen, http://www.ggdc.net/databases/ ted.html (23 giugno 2009).
ISTAT, Struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi, 2007, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/ non_calendario/20071029_00 (23 giugno 2009).