L’economia mondiale
Le tendenze
Gli andamenti dell’economia mondiale nello scorcio del 20° e nel primo decennio del 21° sec. presentano tratti nuovi nella storia dell’umanità. Non era mai accaduto che quasi la metà della popolazione mondiale rincorresse il benessere delle nazioni più ricche sotto un’insegna comune. Ciò sta avvenendo perché l’economia di mercato capitalistica non è più circoscritta a una minoranza della popolazione. Ha ormai conquistato il mondo intero e spinge Paesi diversissimi nelle loro storie, che hanno seguito sistemi alternativi e contrapposti, a uniformarsi. Non si è mai vista una rivoluzione economica d’impatto così globale, permessa da un progresso tecnico nell’informazione e nelle comunicazioni che consente delocalizzazioni nei processi produttivi altrimenti impensabili. Mai è stata così forte la preoccupazione per l’ambiente, per la salvaguardia del pianeta in cui, innalzando i propri consumi a danno degli equilibri ecologici, vive una popolazione più che raddoppiata nell’ultimo mezzo secolo e che supererebbe gli 8 miliardi di individui nel volgere di due decenni.
Le stesse forze che diffondono benessere, sollevando dalla povertà centinaia di milioni di persone, suscitano interrogativi, anche inquietanti, per il futuro. Siamo in una situazione analoga a quella che spinse, nei secoli scorsi, grandi protagonisti del pensiero economico – Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph A. Schumpeter, John M. Keynes – a interrogarsi sulla sorte del capitalismo. Le loro analisi, prevalentemente teoriche, sono imperniate sulle contraddizioni insite nel sistema economico, quale si era venuto affermando dalla metà del Settecento con la rivoluzione industriale inglese, ovvero sui condizionamenti ‘esterni’ all’economia. Esse pervengono quindi a un sia pur variegato scetticismo circa le prospettive di sopravvivenza del sistema.
A questa linea d’analisi ‘pessimista’ si contrappone quella dei molti i quali nutrono il convincimento che l’odierno modo di produzione sia venuto per restare, sarà fiorente, non subirà modificazioni nelle sue caratteristiche fondamentali. La fiducia analitica più convinta e meglio argomentata nelle potenzialità di progresso dell’economia di mercato, estese alle libertà individuali, è stata espressa da Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Robert E. Lucas Jr, premi Nobel per le scienze economiche.
Le ragioni d’ordine storico-empirico alla base della visione ‘ottimista’ sono essenzialmente due. La prima è data dalla formidabile crescita del benessere materiale che il sistema è stato capace di realizzare: nel periodo 1820-2000, su scala mondiale, il prodotto a prezzi costanti è aumentato di 60 volte, per una popolazione salita da 1 a 6 miliardi di persone. Conseguentemente, il reddito medio pro capite dell’umanità è salito di 10 volte, mentre nei secoli/millenni precedenti, pur fluttuando alquanto, era stato tendenzialmente stazionario. Nel corso del Novecento, una netta accelerazione ha accresciuto il PIL pro capite di quasi cinque volte, dopo che il suo livello era raddoppiato nel corso dell’Ottocento (Maddison 2007).
La seconda ragione è ravvisabile nella mancanza di concrete alternative al sistema capitalistico. I risultati delle economie basate sulla tradizione si sono confermati mediocri. Le economie basate sul comando – pianificate o socialiste – sono entrate alla fine del Novecento in una crisi irreversibile. Questi modelli di organizzazione dell’economia – deliberati, piuttosto che frutto di un ordinamento spontaneo – si caratterizzano per il ruolo secondario attribuito al mercato e al profitto. Il cosiddetto socialismo reale si è isterilito per l’inefficienza produttiva, per la pochezza degli incentivi a innovare, per il malessere materiale inflitto alle popolazioni, prima ancora che per i limiti imposti alle libertà civili e democratiche.
La posizione intermedia è quella di chi – come Herbert Stein (1990) – ritiene che la sopravvivenza dell’economia capitalistica sia legata alla sua speciale capacità di adattamento, che ammette mutazioni anche profonde, di struttura, ferma restando la natura ultima del sistema. Tale capacità di adattamento spontanea può essere corroborata dalla politica economica. Nella recente storia del capitalismo, lo Stato ha affinato le modalità intese a salvaguardare il sistema sia con interventi correttivi, fiscali e monetari, sia con istituzioni atte a superarne o compensarne gli squilibri.
Il mercato è sempre esistito. È esistito, in forme anche avanzate, ben prima del capitalismo. Non vi sono motivi per ritenere che verrà meno, quale meccanismo utile agli scambi. Il quesito che ci si può porre è se il modo di produzione capitalistico imperniato sul mercato registri rinnovate tendenze al cambiamento, e in quale direzione.
Nel primo decennio del 21° sec. l’economia capitalistica si è ulteriormente estesa. Ha interessato aree nuove dell’Asia, dell’America Latina, dell’Africa. Autogenera adattamento e mutamento con la sua basilare pulsione evolutiva: l’accumulazione di capitale da parte di privati che mirano al profitto producendo merci con l’impiego di lavoro salariato. Nel decennio, sino alla recessione del 2009, il tasso di crescita del prodotto mondiale è stato del 4% l’anno, in accelerazione rispetto al 3,5 degli anni Novanta del secolo scorso. L’inflazione è stata bassa, pochi punti percentuali all’anno in media. In dollari valutati con le cosiddette parità dei poteri d’acquisto, il prodotto mondiale è più che raddoppiato dalla fine del 20° sec. e attualmente sfiora i 70.000 miliardi di dollari.
Si è fatto più sostenuto l’aumento della produttività: del lavoro, del capitale, delle altre risorse impiegate nei processi produttivi. Con la crescente divisione del lavoro e la sua specializzazione, connesse all’ampliamento del mercato e consentite dall’accumulo di capitale (come teorizzato da Smith), a incrementare la produttività concorre la spinta all’innovazione nelle tecniche, nell’organizzazione, nei prodotti analizzata poi da Schumpeter. Quali determinanti del dinamismo della produttività, l’efficienza e il progresso tecnico tendono a prevalere sull’accumulazione di beni strumentali e delle altre risorse. Spiegano circa due terzi degli aumenti di reddito.
La produzione diviene terziaria, di servizi più che di beni agricoli e industriali. I servizi vanno a rappresentare oltre tre quarti del PIL nei Paesi avanzati; superano il 50% nei Paesi arretrati.
L’economia è resa ‘globale’ dagli scambi internazionali di beni (circa un quarto del prodotto mondiale), servizi (5% del PIL mondiale), lavoro e, soprattutto, capitali (lo stock degli investimenti esteri supera il PIL mondiale). Nell’entità, nelle forme, nella rapidità e pervasività dei movimenti delle risorse, l’onda della globalità economica travalica quella del mezzo secolo precedente il 1914. Grazie alla rivoluzione informatica è venuto affermandosi un nuovo paradigma di divisione internazionale del lavoro, di specializzazione per mansioni all’interno di processi produttivi frammentati nel globo piuttosto che per prodotti. L’‘economia della conoscenza’, l’istruzione, il potenziamento del capitale umano costituiscono il fondamento della moderna ricchezza delle nazioni (Pasinetti 1984). Consentono che mansioni anche qualificate per produzioni ad alta tecnologia vengano svolte da lavoratori di Paesi tuttora poveri, storicamente specializzati in prodotti primari o tradizionali. Grandi gruppi industriali e finanziari hanno accresciuto ancora la loro dimensione, ampliato la gamma delle attività, esteso la rete delle presenze sul globo terrestre. Nondimeno la competizione tra le imprese oligopolistiche è forte. Avviene soprattutto attraverso la ricerca sistematica e la diffusione dell’innovazione.
La finanza assume sempre maggior rilievo nell’economia. L’accumulazione del risparmio accresce la ricchezza, materiale e ancor più finanziaria, rispetto al prodotto. Il rapporto fra ricchezza netta e reddito disponibile delle famiglie ha raggiunto valori compresi fra 8 e 10 in Italia, Regno Unito, Francia, Giappone, fra 5 e 6 in Germania, Stati Uniti, Canada. Al tempo stesso il rapporto fra le attività finanziarie lorde totali esistenti nell’economia (depositi, crediti, titoli) e la ricchezza reale nazionale (terreni, edifici, opere pubbliche, macchinari, impianti, scorte) è salito a 3 nel Regno Unito, a oltre 2 negli Stati Uniti e in Francia, a 1,5 in Italia, Germania, Giappone. Nei Paesi emergenti l’ammontare del finanziamento tramite obbligazioni, azioni, prestiti si è quadruplicato negli ultimi cinque anni. Più che proporzionalmente si sono accresciuti il volume e il valore delle transazioni sui mercati finanziari interni e internazionali.
La finanziarizzazione porta il sistema a essere sempre più economia monetaria di produzione (Keynes 1932). Uno straordinario sviluppo dei mercati di titoli e contratti derivati ha coinvolto in misura crescente l’operatività delle banche. Permane la capacità distintiva di queste ultime di creare moneta attraverso il credito. Il credito fornisce i mezzi di pagamento per lo scambio dei beni e servizi già presenti sul mercato. Soprattutto, esso è necessario per la produzione di quelli a venire, perché permette alle imprese di disporre del potere d’acquisto per avviare i processi che si concluderanno con l’immissione nel mercato di nuovi prodotti. Le banche rimangono quindi, pur a fronte di mercati finanziari estesi e che offrono copertura a varietà crescenti di rischi, le uniche istituzioni finanziarie in grado di generare nuovo potere d’acquisto, a valere su tutto ciò che, con esso, verrà prodotto (J.A. Schumpeter). È con gli assegni tratti su questo credito che gli imprenditori possono, oggi come agli albori del capitalismo, realizzare i loro progetti, cogliere le opportunità in cui credono guardando lontano, secondo le loro aspettative di lungo termine.
La finanziarizzazione esalta al tempo stesso l’altra faccia della ‘economia monetaria di produzione’, disegnata dall’uso della moneta come strumento d’impiego della ricchezza. Qui giocano le aspettative di breve termine che regolano il funzionamento dei mercati finanziari. Per coloro che operano su questi mercati è razionale detenere in forma liquida o monetaria la ricchezza (loro o di altri) che amministrano quando si ritiene che i prezzi delle altre attività finanziarie siano troppo elevati per crescere ancora o quando vi è grande incertezza sui loro possibili andamenti. È altrettanto razionale detenere tutta la ricchezza in titoli quando è forte il convincimento che i prezzi di questi siano destinati ad aumentare. Gli spostamenti da titoli a liquidità riguardano l’intero stock di ricchezza accumulata. Possono quindi assumere dimensioni enormi rispetto ai flussi del risparmio e a quelli del credito, e generare instabilità.
Le banche e la finanza influenzano l’economia non solo con la disponibilità di fondi per consumatori e imprese, ma sempre più attraverso gli ‘effetti ricchezza’ esercitati sulla domanda globale di beni e servizi. Dagli aumenti o diminuzioni di valore delle attività finanziarie – dei titoli azionari e obbligazionari in particolare – dipendono in misura crescente consumi e investimenti, e la stessa possibilità di ottenere ulteriore credito. Con ciò la sfera reale e la sfera monetaria dell’economia si legano secondo relazioni maggiormente indirette, in forme complesse. Svolgono un ruolo determinante le aspettative dei mercati che, con il loro mutare, esercitano effetti rilevanti, perché diffusi, sull’economia.
Esternalità, iniquità, instabilità
Le tendenze che è dato cogliere nel primo decennio del secolo attuale confermano che, sotto il cruciale profilo dello sviluppo quantitativo e qualitativo della produzione di merci, l’economia di mercato capitalistica costituisce lo strumento più potente per migliorare il futuro. Grazie soprattutto al progresso tecnico, la crescita economica moderna si identifica con la capacità del sistema di incrementare il prodotto ben più rapidamente della pur montante popolazione mondiale (Kuznets 1966). La profezia negativa avanzata da Thomas R. Malthus all’alba del capitalismo, seppure fondata sulla plurisecolare esperienza di un rapporto risorse/popolazione tendenzialmente costante, è stata smentita dai fatti.
Nondimeno, sia nell’Ottocento sia nel Novecento il capitalismo si è caratterizzato su scala planetaria per l’intreccio della crescita sostenuta con un’instabilità economica ricorrente e con una diseguale distribuzione delle risorse tra gli individui e tra le nazioni. Si veda a tal proposito la figura, in cui, per il periodo 1820-2000, sviluppo indica il reddito reale pro capite mondiale (in scala logaritmica), stabilità la componente ciclica del prodotto reale mondiale, ed eguaglianza il complemento a 1 dell’indice di concentrazione (coefficiente di Gini, compreso fra 0, assoluta eguaglianza, e 1, estrema disuguaglianza) del reddito della popolazione mondiale.
Gli scarti dal trend della produzione mondiale hanno toccato punte verso il basso del 10-15% in occasione della crisi del 1929 e delle due guerre mondiali. Mediamente hanno superato il 2-3%. Vi si sono accompagnate oscillazioni nel livello dell’occupazione e fluttuazioni ancor più pronunciate degli investimenti, sia fissi sia in scorte.
Inoltre, mentre nell’Ottocento le annate in cui i prezzi dei beni e dei servizi erano stati in aumento avevano trovato compensazione statistica in quelle che li avevano visti diminuire, il Novecento è stato il secolo dell’inflazione, fonte di disgregazione sociale e incertezza. Nel Paese per il quale si dispone delle serie più lunghe – l’Inghilterra – l’ascesa media annua dei prezzi ha superato il 4%: non era arrivata al 2% nel Cinquecento, in quella che è passata alla storia come la rivoluzione dei prezzi. In Italia i prezzi sono aumentati di sei volte nel periodo 1914-1920, di quaranta volte in quello 1939-1947, di tredici volte in quello 1968-1997. Su scala mondiale l’inflazione è stata più moderata negli anni Cinquanta e Novanta, ma solo nei primi anni Trenta i prezzi sono scesi, per carenza grave di domanda globale, non per progressi di produttività. Nel periodo 1973-1983, alla forte inflazione si sono associati ristagno produttivo e disoccupazione: un fenomeno, la stagflazione, mai riscontrato sino ad allora. Venuta meno nel periodo fra le due grandi guerre l’ancora di salvezza rappresentata dal sistema monetario internazionale a regime aureo, i prezzi sono stati sospinti verso l’alto dai salari. La forza politica e sindacale delle rivendicazioni delle classi lavoratrici nei Paesi sviluppati ha a lungo sostituito un labour standard conflittuale e inflazionistico al gold standard di derivazione tardo-ottocentesca (John Hicks). Il 20° sec. si è chiuso all’insegna della moderazione salariale, sino a configurare una prospettiva, prima impensabile, di deflazione. Hanno influito i bassi costi della manodopera non agricola nelle economie emergenti. Ha influito altresì, nelle economie avanzate, la consapevolezza presso le élites impiegatizie e operaie dei rischi che l’inflazione comporta per il risparmio degli stessi lavoratori, divenuto cospicuo.
Una terza, non meno grave, manifestazione di instabilità delle economie di mercato ha interessato i valori dei cespiti patrimoniali reali (immobili, principalmente) e finanziari, i sistemi bancari, i cambi. ‘Bolle’ speculative con fortissime escursioni dei corsi di borsa e dei prezzi, crisi di banche, insolvenza di debitori, malversazioni e perdite subite dai risparmiatori hanno segnato il Novecento, così come era avvenuto nell’Ottocento. Il risparmio è stato in questi casi patologici ‘forzato’ da anomali processi di redistribuzione dei redditi e dei patrimoni.
La distribuzione delle risorse è divenuta maggiormente sperequata (Milanović 2005). I poveri sono diventati spesso meno poveri, ma i ricchi enormemente più ricchi. La sperequazione nella ripartizione del reddito fra i cittadini del mondo, misurata da indici statistici quale il coefficiente di Gini, si era fortemente accentuata – da 0,50 a 0,60 – fra il 1820 e il 1913. Era salita ancora – a 0,65 – fino agli anni Settanta, mentre fra il 1950 e il 1973 il reddito medio mondiale conosceva la sua più rapida crescita. L’ultimo ventennio del Novecento ha visto andamenti non univoci degli indici di concentrazione: le stime più attendibili danno valori oscillanti attorno a un trend stabile, o lievemente crescente. A fine secolo il 10% più prospero della popolazione mondiale percepiva circa metà del prodotto mondiale. La ricchezza è ancor più concentrata del reddito. Dalla metà del Novecento il reddito individuale nella scala mondiale è dipeso dal luogo di nascita, più che dalla classe sociale di appartenenza nel proprio Paese, come invece avveniva nel passato. Il mutamento è legato al fatto che nel periodo 1920-2000 le differenze di reddito pro capite tra Paesi hanno continuato ad ampliarsi. Alla fine del 20° sec. il ritardo di sviluppo economico in vaste e popolose aree del mondo – la stessa Cina, l’India, l’Africa, parte dell’America Latina – si poneva al centro della questione distributiva, che l’economia di mercato capitalistica ha drammaticamente esacerbato. Forse nessun Paese ha oggi un tenore di vita più basso di quello di due secoli fa. Nondimeno, per i Paesi per cui si dispone di stime statistiche, nel 1820 il rapporto fra il reddito pro capite dell’economia più prospera e quello dell’economia meno prospera era inferiore a 5:1; nel 2000 era balzato a quasi 70:1. Nel periodo 1820-2000 il reddito pro capite degli Stati Uniti è aumentato di 22 volte, quello del Nepal solo di 2,5 volte.
L’ultimo quarto del Novecento ha altresì confermato la concreta possibilità che le economie moderne subiscano un regresso del loro benessere materiale: non una recessione ciclica, ma una de-crescita strutturale del prodotto pro capite. Ciò è avvenuto in fasi e in proporzioni diverse, in poco meno di un terzo delle circa 200 nazioni esistenti a fine secolo: Paesi ex socialisti in transizione verso il sistema di mercato, ma anche Paesi che a questo sistema avevano da tempo affidato le sorti della loro economia. L’Italia, dove la produttività nell’ultimo quindicennio ha ristagnato, rischia di essere fra questi.
L’intensificarsi e il diffondersi delle attività produttive, e segnatamente di quelle industriali, hanno esaltato i benefici, ma anche gli oneri, dello sviluppo economico. Il fenomeno più preoccupante e generalizzato è il deterioramento dell’ambiente naturale (Musu 2000). Lo spazio ‘bioproduttivo’ globale – necessario agli esseri viventi – è di 12 miliardi di ettari, sui 51 miliardi disponibili nel pianeta: 1,8 ettari a persona. Ma lo spazio consumato pro capite è di 2,2 ettari, con punte di 10 per un cittadino medio americano, 5 per un francese, 4 per un italiano. Si è configurato il rischio del cosiddetto effetto serra: surriscaldamento della Terra, ovvero cambiamento climatico radicale con conseguenze devastanti per gli ecosistemi, le specie più vulnerabili, la salute e la vita stessa degli esseri umani. Secondo studi aggiornati, la probabilità che la calotta di ghiaccio dell’Antartico occidentale collassi, pur non essendo grande, è maggiore di zero. La parte della calotta sopra la superficie dell’acqua è di tale dimensione che, alterandosi, arriverebbe a sollevare di diversi metri il livello del mare, inondando le città costiere del mondo. La concentrazione atmosferica di anidride carbonica, il più importante gas serra, è aumentata di un terzo dall’avvio della rivoluzione industriale. Se, per l’impiego crescente dei combustibili fossili, continuasse a crescere al ritmo attuale dello 0,5% l’anno, raddoppierebbe in meno di un secolo e mezzo. Previsioni più precise e raffinate indicano un aumento della concentrazione di CO2 rispetto al 2000 del 166% già entro il secolo presente. Queste e altre fonti di stravolgimento dell’habitat costituiscono un classico caso di ‘esternalità’ negative: costi sociali che le imprese non subiscono direttamente e non registrano fra le spese aziendali e che quindi non trovano riscontro in più elevati prezzi di mercato delle merci prodotte, limitativi della domanda e dunque, conseguentemente, dell’offerta.
Esternalità, iniquità, instabilità: sono questi i principali problemi con cui il 21° sec. si dovrà confrontare.
Un’economia dinamica
A fronte di questi tre problemi, sta una diversa capacità delle forze spontanee del mercato e della politica economica e istituzionale – del mercato e dello Stato – di pervenire alla loro soluzione.
Una considerazione preliminare e generale riguarda, tuttavia, la crescita. Lo scenario più ragionevole è che essa, per l’economia mondiale nel suo complesso, prosegua. Potrebbe addirittura accelerare, Europa a parte, consolidandosi ed estendendosi in aree e Paesi tuttora relativamente arretrati, ma con alte potenzialità e urgenti necessità, di forte progresso materiale. La continuità della crescita costituisce per tutti un fondamentale presupposto per salvaguardare l’ambiente, rendere più equa la distribuzione dei redditi, dare, infine, stabilità al sistema.
La scala dell’attività economica, di per sé, esercita una pressione più intensa sulle limitate risorse naturali. Questo negativo effetto scala può essere peraltro neutralizzato da una struttura produttiva che divenga meno inquinante – per es., ancora più terziaria e meno industriale – e da un progresso tecnologico che riduca i coefficienti di impatto ambientale per unità di prodotto. A questo fine Stato e mercato dovrebbero concorrere. Tassazione ecologica, mercati efficienti in cui si scambino ‘permessi’ di inquinamento, sussidi alla ricerca delle tecnologie più rispettose dell’ambiente, investimenti che potenzino la capacità di rigenerare il capitale naturale possono trovare coerente riscontro nella struttura dei prezzi. È opportuno che i prezzi riflettano l’effettiva scarsità sociale, e non solo quella privata. Allora, faranno sì che consumatori e produttori includano nel loro calcolo economico i costi sociali dello sfruttamento della natura. I prezzi – relativi – per l’uso dell’ambiente e, in particolare, i prezzi delle risorse destinate a esaurirsi (per es., il petrolio), devono salire, idealmente con il consenso di un’opinione pubblica resa più sensibile alla preservazione dell’habitat. Occorrono risorse che solo la prosecuzione della crescita economica mondiale, estesa ai Paesi meno sviluppati, può generare. L’Agenzia internazionale dell’energia ha stimato in 45.000 miliardi di dollari gli investimenti necessari fino al 2050 – 1% l’anno del PIL mondiale, lungo il quarantennio – per applicare la tecnologia idonea a ridurre di un terzo la domanda di petrolio, dimezzare le emissioni di CO2, impedire il riscaldamento della Terra. Se ciò non avvenisse la domanda di petrolio aumenterebbe del 70%, le emissioni del 130%, la temperatura globale di 6 gradi. L’alternativa (Latouche 2007) sarebbe una de-crescita del benessere materiale, tanto penosa quanto assolutamente improbabile perché difficile da governare e politicamente improponibile ai Paesi ricchi e, ancor più, sicuramente, ai Paesi poveri.
La prosecuzione della crescita costituisce altresì il presupposto perché si inverta il trend che vede la distribuzione del reddito e della ricchezza divenire, e comunque restare, altamente sperequata. All’interno di ciascun Paese sia le politiche redistributive sia le forze di mercato perequatrici risulterebbero facilitate e otterrebbero con maggiore probabilità risultati in un contesto di sviluppo, piuttosto che di ristagno. Le resistenze delle classi agiate al miglioramento di condizione delle classi disagiate sarebbero certamente minori. Interventi che tolgano ai ricchi per dare ai poveri, ammesso che siano attuabili in ambito nazionale, sembrano pressoché inconcepibili su scala mondiale. Se i dislivelli di benessere nel mondo dipendono principalmente dal diverso grado di sviluppo economico, solo una crescita dei Paesi poveri più rapida di quella media mondiale potrà ridurre le disuguaglianze. Nel primo decennio del 21° sec. la dinamica del prodotto mondiale è in effetti scaturita dall’accelerazione dello sviluppo delle economie di mercato emergenti e in transizione. L’effetto perequativo di una siffatta tendenza sarà tanto maggiore quanto più si riuscirà, in ciascuna nazione, a contrastare le forze che agiscono nel senso di innalzare la disuguaglianza interna fra i cittadini del medesimo Paese. Mediamente, su scala mondiale la disuguaglianza interna si era ridotta nel periodo compreso fra la Prima guerra mondiale e il 1960. Essa è invece risalita successivamente. Ciò è avvenuto sia in economie avanzate come gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Italia, sia in economie emergenti con elevata popolazione (come la Cina e l’India, dove aumenta significativamente la distanza di reddito fra le aree urbane e le aree rurali) e in transizione (come la Russia).
Restano quindi essenziali fiscalità, strutture, istituzioni e mercati capaci di livellare le posizioni di partenza, di contrastare i monopoli e dare sostegno ai redditi bassi. A sua volta, la crescita economica non troverebbe alcun impedimento in una distribuzione del reddito che divenisse meno diseguale. Essa è al contrario frenata dalle sperequazioni distributive che limitano l’apporto dei meno abbienti alla produttività, al risparmio, al consumo del Paese. Mancando delle risorse da investire in capitale umano, un’ampia fascia di cittadini non è nella condizione di contribuire al meglio delle proprie possibilità al progresso economico della nazione. Il quadro è aggravato se, come avviene in Paesi con distribuzione delle risorse altamente diseguale, è bassa la mobilità sociale fra le generazioni, le professioni, le carriere.
Vi è in ultima analisi da considerare la questione dell’instabilità, nelle sue diverse manifestazioni: reale, monetaria, finanziaria.
Le fluttuazioni della produzione, degli investimenti, dell’occupazione sono connaturate all’economia di mercato capitalistica. La natura sistemica del ciclo è connessa con la «incontrollabile e disubbidiente psicologia del mondo degli affari […] in un’economia capitalistica individualista» (Keynes 1936; trad. it. 1971, p. 459). Le decisioni di investire moneta oggi per lucrare più moneta in futuro producendo e vendendo merci, dipendono da aspettative imprenditoriali soggettive, necessariamente precarie. Alternanza di ottimismo e pessimismo, ed eccessi o carenze dell’investimento rispetto al risparmio, determinano fasi di prosperità e di depressione negli affari.
Nondimeno, l’ampiezza e la durata delle fluttuazioni economiche risultano attenuate rispetto al passato. Il peso crescente dell’offerta di servizi, privati e in notevole misura pubblici, agisce in senso stabilizzante, a differenza che nelle economie prevalentemente agricole e industriali del passato. Nella stessa direzione gioca il carattere policentrico della produzione mondiale, non più concentrata in Europa, America Settentrionale e Giappone, ma estesa ad aree ieri depresse e chiuse, oggi in rapidissimo sviluppo e aperte agli scambi internazionali. Infine, la lezione keynesiana ha fatto breccia nella concreta attuazione delle politiche economiche stabilizzatrici. Riduzione di imposte, aumento di spesa pubblica, più larga offerta di moneta, minori tassi d’interesse, deprezzamento del cambio, se manovrati con tempismo e accorto dosaggio, sono in grado di sostenere la domanda aggregata, così da evitare il verificarsi di gravi recessioni. Dal secondo dopoguerra al 2008 non si sono registrate contrazioni del prodotto su scala internazionale, neppure nel 1974-75, allorché le quotazioni del petrolio greggio quadruplicarono. A seguito della crisi finanziaria esplosa in tutta la sua gravità negli Stati Uniti nello scorcio del 2008, e poi estesasi in larghe aree del pianeta, il prodotto mondiale subirebbe una flessione nel 2009, per risalire nel 2010.
In un contesto di sviluppo anche il problema ciclico assume minore gravità. Le fasi recessive si configurano come temporaneo rallentamento nel progresso economico: cioè più bassi ritmi di crescita e non diminuzione nei livelli dell’attività produttiva, dell’occupazione, degli investimenti. In una condizione di tendenziale, strutturale ristagno, gli effetti delle politiche fiscali e monetarie di sostegno della domanda sarebbero meno pronti e meno prevedibili.
In un’economia mondiale dinamica lo stesso rischio di inflazione si ridimensiona, per almeno due vie. Le spinte salariali – primaria fonte inflazionistica in un contesto di labour standard – sono frenate dall’ingresso nel mercato del lavoro della manodopera in precedenza sottoutilizzata nel settore agricolo e più in generale nei settori arretrati delle economie emergenti e in transizione. L’effetto di calmieramento esercitato dalle centinaia di milioni di contadini immessi in Oriente e in Africa nella produzione di manufatti a prezzi internazionalmente competitivi si estende ai salari nei Paesi industriali, contenendone la dinamica. Alla crescita rapida della produzione si associa la più alta produttività connessa con le economie di scala e soprattutto con la diffusione del progresso tecnico. I costi unitari del lavoro e i prezzi risultano contenuti anche da questo lato.
Nelle economie avanzate un ulteriore elemento di moderazione delle rivendicazioni salariali è ravvisabile in una crescente avversione dei lavoratori per l’inflazione. Redditi, risparmi, patrimoni maggiormente elevati si sono estesi, in queste economie, alle classi lavoratrici. Una quota ampia della ricchezza delle famiglie di lavoratori è costituita da strumenti finanziari il cui valore sarebbe eroso dall’inflazione. I lavoratori, più che in passato rentiers, temono le perdite in conto capitale che sarebbero provocate financo da un’inflazione sospinta e preceduta da aumenti dei salari nominali capaci di risolversi in aumenti dei salari reali, che tuttavia non compenserebbero l’erosione del patrimonio finanziario. La minore propensione sociale all’inflazione si riflette altresì nella priorità assegnata ai prezzi stabili nel novero degli obiettivi che la politica economica, a cominciare dalla politica monetaria delle banche centrali, è chiamata a perseguire.
Gli eccessi della finanza
Tra le forme che l’instabilità assume, quella finanziaria si propone come particolarmente insidiosa, difficile da governare. Essa si annida nelle banche e nei mercati degli strumenti della finanza (Kindleberger 1978; Allen, Gale 2007).
Le banche, come tutte le imprese, mirano a massimizzare il profitto. Ma lo fanno trasformando un’istituzione d’interesse pubblico – i loro depositi che sono moneta in quanto costituiscono mezzi di pagamento – in credito, una sorta di anticipazione di potere d’acquisto a fronte di un futuro incerto. Questa particolarità rende l’attività bancaria un ‘destabilizzatore endogeno’ (Minsky 1986). Le passività bancarie – i depositi – godono (anche in assenza di forme esplicite di garanzia dei depositanti) di un’assicurazione implicita derivante dalla tutela dell’interesse pubblico dell’uso della moneta, che presuppone fiducia nel sistema dei pagamenti amministrato dalle banche. La ricerca del profitto tende quindi a spingere le banche ad ampliare il credito, inducendo fasi di espansione economica e/o di euforia finanziaria che si autoalimentano fino a rendere fragili, e rischiose, le posizioni finanziate. Inoltre le banche possono destabilizzare il sistema sotto il profilo strutturale. Tendono naturalmente a trarre vantaggio dal potere connesso con il loro insostituibile ruolo. Cercano di occupare, se la regolamentazione non le frena, l’intera intermediazione finanziaria, creando legami di reciproca dipendenza con le imprese e con i mercati.
Anche nei mercati finanziari l’instabilità ha origine dalla loro funzione: offrire liquidità ai titoli, più in generale agli strumenti, che vengono negoziati. Ciò è possibile solo operando con ‘vista corta’, in base a ‘convenzioni’ mutevoli con cui trattare l’informazione che continuamente giunge agli operatori. Nelle convenzioni contano molto le informazioni sulle opinioni degli altri operatori. I mercati tendono a essere ‘autoriflessivi’. Sono pertanto soggetti a comportamenti ‘da gregge’, a ondate speculative, a manifestazioni di euforia e di panico. Inoltre sui mercati finanziari, come su quelli dei beni, si producono innovazioni. Esse tuttavia presentano la peculiarità di essere prevalentemente dirette a fronteggiare l’ignoranza del futuro, a dare prezzi e liquidità ai rischi che questa prospetta. La possibilità di trattare questi rischi sul mercato, e di distribuirli tra vari soggetti, offre una copertura assicurativa che amplia le opportunità di finanziamento, con beneficio per l’economia. Ogni nuovo prodotto può rivelarsi difettoso e pericoloso una volta in circolazione. Ma nel caso dei prodotti finanziari giocano anche i limiti del calcolo statistico delle probabilità necessario a prezzare i rischi di un futuro incerto, non riconducibile a un numero finito di eventi. Quando questi limiti si scontrano con l’originalità della storia, gli strumenti di copertura dei rischi possono rivelarsi fallaci e generare perdite nei bilanci degli intermediari con conseguenti pericoli di contagio sistemico, sia nella finanza sia nell’economia.
Le crisi finanziarie sono cariche di gravità sociale anche quando non si risolvono in una crisi ‘reale’ con effetti recessivi sull’attività economica. Nella storia del capitalismo sono rari, forse inesistenti, i casi in cui a una contrazione produttiva non si siano unite tensioni bancarie e finanziarie. L’interazione fra crisi reale e crisi finanziaria ha avuto ripercussioni particolarmente pesanti, su scala internazionale, negli anni Trenta e negli anni Settanta dell’Ottocento. Soprattutto le ha avute nel periodo 1929-1932, quando nei principali Paesi industriali il prodotto cadde quasi del 20%, la disoccupazione raggiunse livelli compresi fra il 15 e il 30% della forza lavoro, il commercio internazionale si contrasse di oltre un quarto.
Meno rari sono stati gli episodi in cui gli scompensi nella finanza, sebbene pronunciati, hanno mancato di ripercuotersi sull’attività economica reale. Nondimeno, le conseguenze sociali sono state, possono essere, molto gravi anche nel caso di crisi che restino circoscritte alla sfera bancaria e finanziaria. Insolvenza di debitori, crolli dei corsi dei titoli e dei valori patrimoniali, illiquidità durevole e diffusa, dissesti bancari, determinano effetti distributivi di grande momento nel reddito e nella ricchezza. Le perdite per molti e i lauti guadagni di alcuni sono avvertiti come particolarmente ingiusti. Appaiono casuali, se non provocati da comportamenti impropri di soggetti a vario titolo operanti nei mercati. Allora, le rivendicazioni si esasperano, le tensioni politico-sociali si acuiscono, la fiducia nelle strutture bancarie e finanziarie scema. Ne conseguono distorsioni nell’allocazione del risparmio che possono pregiudicare lo stesso potenziale di crescita dell’economia nel lungo periodo.
Il contrasto dell’instabilità finanziaria è affidato a regolamentazioni specifiche per le banche, a norme di trasparenza e correttezza di comportamenti sui mercati, a un ‘prestatore di ultima istanza’ come la banca centrale, ovvero al denaro pubblico. Gli ultimi anni hanno visto deregolamentazione nei principali Paesi, liberalizzazione finanziaria in quelli emergenti, un eccezionale sviluppo dei mercati e dei nuovi strumenti per la gestione dei rischi. Questo insieme non si è risolto in una moderazione dell’instabilità. Le crisi finanziarie sono state tanto numerose e varie da impegnare, forse più che in qualsiasi altro periodo, studiosi e istituzioni internazionali nella loro analisi e relativa classificazione.
Ha preso piede l’instabilità dei prezzi delle attività patrimoniali, capace con gli eccessi speculativi di destabilizzare la finanza, se non l’economia. Dopo le crisi dei cambi in Europa nel 1992, della valuta messicana nel 1994, delle monete asiatiche nel 1997, della Russia, del fondo privato americano Long Term Capital Management e del Brasile nel 1998-99, delle banche argentine nel 2001-02, il potenziale di instabilità si è manifestato con virulenza negli Stati Uniti nei primi anni del nuovo secolo. Ciò è avvenuto dapprima con la borsa e successivamente con la crisi dei mutui immobiliari che ha minato la fiducia sui mercati interbancari e ha prodotto ingenti perdite tra le maggiori banche del mondo. Si tratta di episodi significativi in quanto segnano, con la loro storia, le direzioni imboccate dalla ‘economia monetaria’.
Alla fine degli anni Novanta i prezzi delle azioni avevano raggiunto livelli elevatissimi. Nella borsa americana, che guidava le altre, il rapporto tra prezzi e utili si situava su valori superiori al doppio della media documentabile degli ultimi 130 anni. All’inizio degli anni Duemila lo scoppio della bolla, assai più accentuata, dei titoli rappresentativi della rivoluzione informatica e delle telecomunicazioni parve concretizzare il rischio, già denunciato da molti ma fino ad allora non percepito dal mercato, di una crisi profonda che avrebbe colpito Wall Street e l’economia americana, con riflessi planetari. Durante il decennio precedente la borsa si era infatti innervata nelle decisioni di spesa degli americani, contribuendo in notevole misura all’espansione dell’economia americana attraverso ‘effetti ricchezza’ che stimolavano consumi e investimenti. Con un crollo dei corsi azionari, eventualmente rafforzato dal panico che segue le fasi di euforia, questi stessi effetti avrebbero potuto agire in senso inverso, generando un avvitamento verso il basso, come era avvenuto nella Grande crisi del 1929. Il pericolo fu sventato dalla politica monetaria. Essa riuscì a limitare a una breve e modesta recessione i danni della svolta del lungo ed eccezionale ciclo borsistico. La banca centrale americana (FED, Federal Reserve) ridusse i tassi d’interesse fino a minimi raramente raggiunti nella storia. Scongiurata la crisi, l’economia riprese a crescere in modo sostenuto. Tuttavia l’orientamento della FED non mutò, a causa di una temuta deflazione importata. La rapida integrazione nel commercio mondiale dei grandi Paesi emergenti riduceva i costi di produzione, e quindi i prezzi, di molti manufatti. Il prolungarsi di condizioni di credito estremamente favorevoli stimolò l’acquisto di case, l’aumento dei loro prezzi, la speculazione. A sua volta, l’incremento dei valori degli immobili ne diffondeva la domanda, formando una tipica ‘bolla’ che aumentava la ricchezza delle famiglie incrementandone i consumi, com’era accaduto pochi anni prima con la borsa. La bolla si sgonfiò allorché i tassi d’interesse aumentarono fino a livelli adeguati al contenimento dell’inflazione che aveva ripreso a salire.
All’inversione dell’andamento dei prezzi delle case ha fatto seguito, dall’agosto 2007, la più grave manifestazione d’instabilità finanziaria dal dopoguerra. Gli effetti si sono propagati nei sistemi bancari, costringendo le banche centrali a interventi eccezionali per dimensioni e forme. Quella definita inizialmente ‘turbolenza finanziaria’ si è trasformata in crisi pesante anche per l’attività economica. Dopo anni di ritirata, lo Stato ha dovuto mobilitarsi in soccorso delle banche e con iniezioni di spesa pubblica per contrastare i rischi di una profonda depressione mondiale.
Le dimensioni del fenomeno non trovano adeguata spiegazione nell’entità della crisi del comparto dell’edilizia, né nell’aumento delle insolvenze dei mutuatari, anche di quelli più rischiosi titolari dei mutui detti subprime. Non si è trattato d’instabilità trasmessa dall’economia reale alla finanza. Si è trattato invece dell’esplosione, solo favorita dalla scintilla immobiliare, di rischi che si erano già venuti accumulando all’interno della finanza.
Alla loro origine c’è un quadro contraddittorio tra economia e finanza globale. Nell’economia mondiale il trend di crescita si è innalzato, con l’impiego progressivo di enormi riserve di mano d’opera (cinesi, indiane) capaci di produrre, a bassi costi, merci anche sofisticate per le aree più progredite del mondo. La globalizzazione dei processi produttivi, favorita da un progresso tecnologico che consente la loro frammentazione e delocalizzazione, non richiede stimoli monetari. Anzi i tassi d’interesse avrebbero dovuto innalzarsi, corrispondendo alla maggiore crescita, al più alto rendimento del capitale, alla redistribuzione del reddito a favore dei profitti. Invece la politica monetaria globale è risultata particolarmente espansiva. Lo è stata non solo nell’America Settentrionale, ma anche nell’area asiatica. Mentre crescita, margini e saggi di profitto si innalzavano, si riducevano i tassi reali d’interesse e si generava liquidità in eccesso alla ricerca di impieghi remunerativi.
Questo disallineamento è il prodotto, l’altra faccia, degli squilibri commerciali che vedono un pesante deficit americano contrapporsi agli ingenti attivi dei maggiori esportatori di prodotti industriali dell’area asiatica. Gli squilibri si sono aggravati per la ritrosia a contenerli da parte sia degli Stati Uniti sia dei Paesi asiatici, Cina e Giappone in testa. Con politiche monetarie espansive si sono sostenuti da un lato i consumi americani e dall’altro le esportazioni di questi Paesi, impedendo la rivalutazione dello yen e dello yuan. Le famiglie americane hanno così potuto consumare di più, fino ad annullare la loro propensione al risparmio, e quelle asiatiche trarre reddito dalla produzione di beni da esportare. Un contratto implicito ha assicurato il reimpiego delle crescenti riserve valutarie asiatiche negli Stati Uniti, a copertura del deficit commerciale americano. Eccesso di consumi negli Stati Uniti, di risparmi nell’area asiatica: il confronto, di fatto politico, si è ricomposto per via monetaria.
Tale ‘accomodamento’ ha però provocato due effetti collaterali. La riduzione dei tassi d’interesse reali ha generato bolle immobiliari e ha eccitato nella finanza la propensione al rischio. I due fenomeni, diffusi nelle economie, hanno trovato terreno fertile in quella americana, dove hanno interagito con forza.
L’abbondante liquidità, i bassi tassi d’interesse e la contenuta domanda di credito da parte delle imprese (in ragione degli elevati profitti) hanno spinto la finanza – specie quella americana, dinamica e creativa – a ricercare redditività con investimenti più rischiosi e aumentando il grado di ‘leva’ debitoria del capitale. Ne sono scaturiti, prima della crisi, guadagni ingenti. Si sono ridotti a minimi storici i differenziali di rendimento dei titoli, di qualità anche molto inferiore a quella dei migliori emittenti. Si sono diffusi finanziamenti ad alto rischio, favoriti dal ricorso crescente, assistito da mezzi innovativi, a due strumenti di leva: le cartolarizzazioni e le operazioni fuori bilancio.
Le cartolarizzazioni – la trasformazione di crediti in titoli da collocare sul mercato – consentono un maggior utilizzo del capitale attraverso un suo più rapido rigiro. Ma proprio la possibilità di rivendere rapidamente i rischi assunti costituisce per le banche un incentivo ad assumerne di maggiori nella loro attività creditizia, a orientarsi sempre più verso un modello d’intermediazione che origina crediti per distribuirli sul mercato (OTD, Originate to Distribute). Questa possibilità è molto aumentata con l’affermazione di nuovi strumenti, i cosiddetti titoli strutturati di credito, rappresentativi di miscele opache di rischi di diversa entità, nelle quali sono stati immessi anche quelli relativi ai mutui subprime americani che hanno gonfiato la bolla immobiliare. Con operazioni fuori bilancio, i titoli strutturati si sono distribuiti tra le banche stesse, in quantità non conoscibili perché non iscritte nei libri contabili, e sono stati affidati a contratti d’investimento con finanziamento sul mercato siglati da società veicolo. In tal modo l’effetto dell’aumento delle insolvenze nei mutui immobiliari americani non è rimasto circoscritto agli intermediari che li avevano concessi. Si è diffuso a livello internazionale, attraverso i mercati dei crediti strutturati. Questi mercati si sono bloccati. In assenza di liquidità, i prezzi, non più attendibili, sono crollati, prefigurando gravi perdite per le banche che vi erano coinvolte. I valori di bilancio degli intermediari sono divenuti incerti, anche per la prassi contabile di calcolarli fair value, alle quotazioni correnti. In attesa che le perdite venissero interamente alla luce, il timore sull’affidabilità delle controparti ha paralizzato gli stessi mercati interbancari, dove le banche si scambiano la liquidità necessaria per le compensazioni giornaliere dei loro conti, costringendo le banche centrali a massicci interventi al fine di preservare l’integrità del sistema dei pagamenti.
In un ambiente reso instabile dal ricorso a strumenti monetari, piuttosto che politici, per ricomporre gli squilibri globali, gli sviluppi della finanza hanno così intaccato, a livello sistemico, il presupposto fondamentale per l’uso della moneta bancaria: la fiducia tra le banche che gestiscono il sistema dei pagamenti ai quali si affida il pubblico con i propri depositi. Qui sta la differenza tra quella iniziata nell’estate del 2007 e le numerose crisi dei decenni precedenti, mai giunte a coinvolgere contemporaneamente i maggiori mercati interbancari del mondo. In questo caso è emerso tutto il potenziale d’instabilità di un fenomeno nuovo nella storia finanziaria. Si tratta della crescente commistione tra attività bancaria e mercati finanziari durante gli ultimi tre lustri, che hanno visto riaffermarsi il dominio delle banche nell’intermediazione insieme a uno straordinario sviluppo dei mercati stessi. Una novità, perché in passato, laddove (nei sistemi anglosassoni market oriented) i mercati erano molto sviluppati e dinamici, le banche erano tenute da questi a distanza di braccio dalla regolamentazione (nel caso americano) o dalla consuetudine (in quello inglese), mentre ove (nei sistemi europei bank oriented) le banche dominavano l’intermediazione, i mercati erano di piccole dimensioni e poco innovativi. La deregolamentazione bancaria e l’evoluzione della finanza hanno invece portato a una conciliazione (più mercato ma anche più banca) che non può darsi senza che nell’attività bancaria penetri il mercato. Ciò tuttavia comporta il combinarsi, nelle banche, delle due instabilità, la loro e quella dei mercati. Con le cartolarizzazioni e la loro sublimazione nel modello OTD, le grandi banche commerciali sono divenute più simili alle banche d’investimento, che non raccolgono depositi ma operano tramite i mercati di strumenti finanziari sui quali collocano i rischi che originano. I rischi dei mercati si sono così innervati nel circuito crediti-depositi assistito dalla ‘rete di protezione’ della banca centrale. L’esposizione dei nuovi strumenti finanziari ai crolli dei prezzi e della liquidità dei mercati ha finito per portare le banche centrali ad accettare anche questi strumenti a garanzia degli interventi necessari per rimediare alla crisi di illiquidità delle banche commerciali. Inoltre la rete di protezione della banca centrale è stata estesa di fatto, almeno nel caso degli Stati Uniti, anche alle banche d’investimento, per le quali non è prevista, ma che tuttavia non possono risultare insolventi senza effetti sistemici.
La scintilla partita dai mutui subprime americani ha mostrato alla fine la logica conseguenza della crescente penetrazione dei mercati finanziari nella delicata attività di creazione di moneta bancaria: l’intervento del prestatore di ultima istanza a sostegno di mercati e di istituzioni non bancarie in cui si sperimentano liberamente nuovi prodotti.
I pesanti sviluppi della crisi dei mutui hanno riproposto con forza alla politica, oltre che alle autorità monetarie, di regolamentazione e di vigilanza, il problema del governo dell’instabilità finanziaria. È la stessa opinione pubblica a richiedere nuove regole di controllo per la finanza. Si fanno i conti del denaro dei contribuenti impiegato per salvare banche troppo grandi per essere lasciate fallire e che sono state così tutelate. Ci si confronta con l’‘azzardo morale’ in cui si risolve la difesa dell’interesse pubblico per la stabilità del sistema bancario quando comporta pubblicizzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni di un’industria che distribuisce ai suoi vertici emolumenti stratosferici anche in periodo di crisi.
Il punto critico è la conciliazione tra sviluppo dei mercati finanziari e centralità delle banche. I primi non possono essere troppo regolamentati senza rinunciare agli aspetti positivi del loro sviluppo e dell’innovazione, peraltro prodotta da una creatività difficile da seguire con norme; e senza ridimensionare l’intera industria dei servizi finanziari, soggetta a una forte concorrenza internazionale tra ‘piazze’. La trasparenza dei prodotti finanziari, uno dei capisaldi della regolamentazione dei mercati, può essere aumentata. Ma trova pur sempre i suoi limiti nella complessità dei calcoli necessari per prezzare sempre nuovi rischi e nell’incertezza ineliminabile da qualsiasi approccio probabilistico. Per le banche si pone un problema analogo a quello che fu affrontato dopo la Grande crisi e risolto, negli anni Trenta del Novecento, con riforme, particolarmente radicali negli Stati Uniti: i limiti entro i quali contenere l’attività bancaria. Allora si trattava di superare la commistione tra banca e industria che esponeva il denaro dei depositanti al rischio di perdite derivanti dagli affari di un ristretto stato maggiore finanziario-industriale che dominava e distorceva l’intermediazione e i mercati. Il nodo fu sciolto circoscrivendo l’attività delle banche alla raccolta di depositi per il credito commerciale, con una rigida separazione dalle banche d’investimento destinate a operare, senza depositi del pubblico, sui mercati per la provvista dei capitali necessari allo sviluppo e alla riorganizzazione delle imprese. Nel primo decennio del nostro secolo i pericoli vengono da una commistione diversa, quella tra banche e mercati tesi a ‘completarsi’ sperimentando nuovi strumenti per la gestione e la copertura dei rischi.
La via seguita finora per regolare questa commistione impone alle banche una disponibilità minima di capitale proprio e di liquidità rapportata ai rischi assunti, combinata con una valutazione delle proprie attività e passività sulla base dei prezzi espressi dai mercati. L’applicazione di queste regole non ha retto alla prova dell’improvvisa illiquidità e del crollo dei prezzi nei mercati dei nuovi strumenti strutturati. Anzi ha mostrato di poter produrre l’effetto di esacerbare ed estendere la crisi ad altri mercati, con le vendite di titoli motivate dalla necessità di ripristino dei coefficienti minimi.
L’impianto di questa regolamentazione prevede la consultazione degli stessi soggetti verso i quali è diretta. È perciò ‘amico dei mercati’, quindi rispettoso degli sviluppi e degli interessi della finanza. Questo impianto non è stato finora messo in discussione in conseguenza della crisi che ha subito: è stato solo perfezionato con la previsione di norme più stringenti e controlli più invasivi (IMF 2008). La politica di riregolamentazione che si è avviata vede l’influenza della comunità finanziaria confrontarsi con gli umori di un’opinione pubblica particolarmente propensa, proprio negli Stati Uniti, a denunciare la difesa di interessi in grado di scuotere la generale fiducia nell’economia di mercato e a richiedere riforme più radicali.
Rimane, sullo sfondo, la questione degli squilibri globali, che vede i nuovi protagonisti della crescita mondiale titolari di enormi crediti nei confronti degli Stati Uniti: in buona sostanza Paesi poveri finanziare il Paese ricco per eccellenza. È una questione che genera, come si è visto, instabilità finanziaria d’ambiente. Anche in questo caso entra in gioco la politica. Perché soltanto da essa ci si può attendere un ordine monetario internazionale capace, come quello ormai antico fissato a Bretton Woods alla fine della Seconda guerra mondiale, di imporre regole concordate di riequilibrio dei conti con l’estero che possano offrire stabilità ai mercati.
Politica ed economia
La crescita che l’economia di mercato capitalistica è tuttora capace di esprimere può in varia misura attenuare, e tuttavia di per sé non risolve, le grandi questioni della distribuzione delle risorse, del rischio ambientale, dell’instabilità soprattutto finanziaria.
Queste contraddizioni, radicate nel sistema, si annidano nel ‘privato’. Quindi soltanto il ‘pubblico’ – la politica: economica, istituzionale e senza aggettivi – è in grado di superarle. Le difficoltà che s’incontrano sono di almeno tre ordini.
Il primo è di natura culturale, attiene al pensiero economico dominante. A partire dagli anni Settanta – profondamente segnati dalla crisi del sistema monetario internazionale di Bretton Woods, dagli shock petroliferi, salariali, valutari, dalla stagflazione che le politiche economiche non riuscirono a evitare – nella cultura economica accademica, ma anche presso i politici e gli stessi operatori dei mercati, si è diffuso il convincimento che i ‘fallimenti’ dello Stato regolatore dell’economia siano altamente probabili e possano addirittura travalicare i ‘fallimenti’ del mercato. Non pochi muovono dall’idea che i mercati siano capaci di autocorreggersi. Caldeggiano un atteggiamento di laissez-faire, in alternativa agli interventi dello Stato nell’economia. La teoria economica neoclassica, oggi prevalente, ridimensiona gli elementi di conflitto, instabilità, incertezza, dissociazione tra interesse individuale e interesse collettivo che i filoni di analisi risalenti a Smith, Ricardo, Marx, Schumpeter, Keynes, Piero Sraffa, avevano segnalato come connaturati al modus operandi dell’economia di mercato capitalistica. Questa sorta di pensiero unico tende a restringere l’ambito dell’azione dello Stato in economia. È avaro di soluzioni utili alla politica economica, la quale pure finisce per intervenire di fronte ai problemi che urgono e di fronte ai quali la classe politica non può restare inattiva. Di fatto, gli interventi dello Stato sono divenuti improvvisamente massicci e pervasivi nel 2008-09, di fronte all’aggravarsi della crisi finanziaria e reale. Il contrasto con la dottrina economica dominante è divenuto stridente. Solo una concezione più equilibrata dell’economia politica, che rispetti la varietà dei punti di vista, può evitare gli opposti eccessi del rifiuto preconcetto dell’intervento pubblico e dello scadimento di quell’intervento nella negazione del mercato e della concorrenza.
Ulteriori difficoltà discendono dal fatto che l’ordine sociale resta unito, ma al tempo stesso diviso, nella dualità di mercato, orientata dall’accumulazione, e Stato, orientato dal potere politico. Il rapporto fra i due termini è di dipendenza reciproca. Tuttavia il mercato, facendosi globale, condiziona sempre più lo Stato. Ne limita margini e discrezionalità di intervento anche quando quest’ultimo s’ispira all’interesse generale e, in fin dei conti, del mercato stesso. La globalizzazione travalica i governi nazionali. Questi divengono sempre meno capaci di regolare la ‘propria’ economia, di preservare i cittadini dai rischi e dagli eventi sfavorevoli che il sistema economico configura.
Infine, fra le nazioni forti muta, anche per ragioni economiche, l’equilibrio dei poteri. Ai tassi di cambio calcolati sulle parità dei poteri di acquisto, nel 2005 la quota sul prodotto mondiale degli Stati Uniti (22%), pur restando molto più elevata di quelle della Cina (10%) e dell’India (4%), era superata, sia pure di poco, da quella dell’Unione Europea (23%). Inoltre, il PIL di Cina e India cresce a ritmi che ne implicano il raddoppio nel volgere di un decennio, mentre Stati Uniti e Unione Europea progrediscono a tassi di oltre due terzi inferiori. La Cina, tuttora povera, è già importante creditore degli Stati Uniti, ricchi ma carichi di debiti verso il resto del mondo. Se quella cinese sia, o diverrà, un’economia di mercato capitalistica a pieno titolo è questione tuttora aperta, sebbene le modificazioni in senso privatistico che sono state e vengono introdotte facciano propendere per una risposta affermativa. Questa frantumazione del capitalismo in capitalismi e questa diversità non facilitano la sintesi necessaria a un governo coerente, se non coordinato, dell’economia mondiale.
L’operatività delle istituzioni economiche internazionali ereditate dal passato risulta inadeguata a un contesto che pone problemi nuovi, ovvero ripropone gli antichi problemi in forme mutate e con priorità diverse. Nei fori in cui si dibattono le sorti dell’economia del mondo, grandi Paesi, come la Cina e l’India, non sono rappresentati nelle modalità di govern;ance che il loro rilievo economico richiederebbe. L’Europa unita tarda a sciogliere le contraddizioni fra l’aspirazione a esprimersi con una sola voce e il vuoto di democraticità che separa gli organi comunitari dalle popolazioni del continente.
La tendenza di fondo del 21° sec., la globalizzazione, non è irreversibile. Offre enormi possibilità di riscatto dalla povertà a moltitudini di esseri umani, insieme con grandi opportunità di ulteriore benessere per i Paesi già ricchi. Presenta al contempo, per i cittadini di questi Paesi, una sfida a valorizzare il loro capitale umano di fronte alla concorrenza che proviene dal mondo emergente. Prefigura rischi di regresso e di chiusure protezionistiche, se la sfida non viene accolta. È alla politica, con una sua declinazione coerente ai livelli nazionali e internazionali, che spetta il compito di sciogliere gli interrogativi sulla continuazione del progresso economico e sociale. Qualora fallisse, la medesima politica produrrà protezionismo, non soltanto con danni per l’economia, ma con pericoli per la stessa pace del mondo.
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