L'edilizia 'sacra' dalla Restaurazione al XXI secolo. Architettura delle nostalgie
Al termine dell’età napoleonica l’aspetto della città italiana appare mutato non tanto nell’urbanistica quanto nella presenza di edifici ecclesiastici che, prima capillare, ha visto un diradamento determinato dalla scomparsa (demolizione o completa trasformazione per usi civili) di numerosi edifici minori, come sedi di parrocchie soppresse e oratori, e di alcuni maggiori. Inoltre, se la rete parrocchiale sopravvive ridimensionata e razionalizzata, la ben più cospicua proprietà edilizia degli ordini religiosi è scomparsa a causa delle soppressioni (così come quella di confraternite e luoghi pii). In questo secondo caso per lo più gli edifici non sono stati demoliti; alcuni hanno subito questa sorte, ma la maggior parte è stata destinata alla ‘pubblica utilità’: caserme, scuole, tribunali, carceri, ospedali, che hanno richiesto (con una patina neoclassica) adattamenti ma di rado totali ricostruzioni. Le chiese annesse, quando non sono divenute magazzini o edifici civili e spogliate degli arredi (numerose collezioni pubbliche d’arte nascono in questo frangente), sono state trasformate in parrocchiali: in tal modo antiche parrocchie prima dotate di edifici modesti si sono trasferite in ampie basiliche. A sparire è stato il policentrismo ecclesiastico, frutto di una stratificazione plurisecolare che si manifestava nella varietà del patrimonio edilizio, in una rete complessa e disorganica ma fittissima1.
Con la Restaurazione gli ordini religiosi vengono ricostituiti, ma, se nei domini pontifici si procede con decisione2, negli altri stati la loro situazione patrimoniale è ripristinata solo in parte, secondo gli accordi tra sede apostolica e governi, in un regime di giurisdizionalismo confessionale. Questo si manifesta nel Concordato del 1818 con il Regno delle due Sicilie, da cui Pio VII ottiene, con limiti, la restituzione dei beni non alienati, una dotazione immobiliare per episcopati e seminari e l’inviolabilità del patrimonio ecclesiastico3. In Toscana il compromesso prevede la rinuncia al recupero degli immobili venduti ma il divieto di nuove cessioni e la ricostituzione degli ordini e dei conventi soppressi, analogamente a quanto avviene a Parma (ma nella capitale nel 1818-1836 ben tre ex conventi sono trasformati in ospedali)4, mentre a Modena le restituzioni sono frutto di semplici accordi. I principi giurisdizionalisti di tradizione giuseppinista sono applicati in maniera più rigida nel Lombardo-Veneto, ove il recupero del patrimonio immobiliare, intaccato già prima della parentesi napoleonica, risulta limitato5: la pianta di Milano del 1844 indica i maggiori monasteri come caserme, ospedali militari o istituzioni culturali, pur rimanendo in esercizio le chiese pertinenti6.
Il Regno di Sardegna dopo il Concordato del 1841 irrigidisce progressivamente la propria politica ecclesiastica verso un giurisdizionalismo liberale in chiave anticlericale. All’espulsione dei Gesuiti con la confisca di case e collegi nel 1848 segue la seconda legge Siccardi del 5 giugno 1850 che colpisce la proprietà ecclesiastica mediante l’obbligo imposto agli ordini religiosi dell’autorizzazione governativa per gli acquisti patrimoniali7. Più incisiva fu la legge del 29 maggio 1855 che, sulla base dell’assimilazione dell’asse ecclesiastico a bene pubblico, decretò la soppressione delle corporazioni religiose non dedite a predicazione, istruzione o assistenza, dei capitoli e dei benefici privi di cura d’anime e l’incameramento dei loro beni in una cassa ecclesiastica separata dalla finanza pubblica8. Le case maschili soppresse furono 274, quelle femminili 619: riprendeva così il processo di diradamento della proprietà ecclesiastica regredito dopo il 1815.
L’edilizia ottocentesca trova nel Neoclassicismo uno stile codificato che in età giuseppina e napoleonica era stato applicato in prevalenza a fabbriche laiche. La sua neutralità e la continuità nella produzione degli architetti comportò che anche l’edilizia sacra della Restaurazione lo recepisse in una serie di chiese ispirate in molti casi al modello del Pantheon: alcune erette a celebrare il ritorno dei sovrani, come a Torino la Gran Madre di Dio, in cui si compenetrano significati urbanistici e politico-religiosi, e a Napoli S. Francesco di Paola, scenografica quinta architettonica di fronte al palazzo reale10.
Nello Stato pontificio S. Cristina a Cesena, eretta per il rientro di Pio VII, è opera di Giuseppe Valadier, attivo attraverso tutti i rivolgimenti politici. A Roma, ove egli realizza a inizio secolo la facciata di S. Pantaleo e negli anni Venti-Trenta quelle dei Ss. Apostoli e di S. Rocco, l’ultimo Neoclassicismo evolve poi, a opera di architetti come Virginio Vespignani, nel Neorinascimento che informa i ripristini di S. Lorenzo in Damaso e di Nostra Signora del Sacro Cuore11. Nel quadro di una notevole revisione del patrimonio storico culminante con Pio IX, si segnala la ricostruzione di S. Paolo devastata da un incendio, in cui, scartata la pianta centrale neoclassica proposta da Valadier, Leone XII, ispirato da eruditi e archeologi, impose nel 1825 le precedenti forme basilicali. Una svolta recepita da Pasquale Belli e Luigi Poletti, i quali pure corressero le presunte ‘imperfezioni’ dell’edificio originario: alla consacrazione nel 1854 l’interno appariva una fusione di elementi dedotti da basiliche classiche e paleocristiane sviluppati in chiave cinquecentista (Poletti ricostruì pure l’alessiana S. Maria degli Angeli di Assisi)12. Come nell’Italia centrale, in Romagna il Neoclassicismo domina fino all’Unità nelle nuove costruzioni (S. Giuseppe a Bologna, il duomo a Forlì) e nei restauri (facciate di Pietro Tomba)13. La sua evoluzione neorinascimentale (facciata di S. Cassiano a Imola di Filippo Antolini, interno della citata S. Giuseppe) si prolunga nella seconda metà del secolo rivestendo le chiese di motivi quattro-cinquecenteschi a monocromo o con tinte opache appesantite da dorature, visibili nella maggior parte delle parrocchiali bolognesi.
Nel Lombardo-Veneto si registra una certa stagnazione. In Lombardia le realizzazioni sacre vanno cercate in parrocchiali del territorio come a Gorgonzola (Simone Cantoni) e Ghisalba (Luigi Cagnola). Solo dal 1836 Milano, capitale del Neoclassicismo, avrà, dopo episodi minori, un’imponente chiesa in questo stile ormai maturo nel S. Carlo al Corso di Carlo Amati, che collaborò in altri lavori con il canonico Giuseppe Zanoia, l’unico professionista in prevalenza dedito all’edilizia sacra14. A Venezia dopo le demolizioni, da S. Geminiano ai Servi, si rilevano casi limitati come S. Maurizio di Giovanni Antonio Selva o il SS. Nome di Gesù dello stesso e di Antonio Diedo. Nella terraferma edifici significativi sono il tempio di Possagno voluto da Canova (1819-1830), il duomo di Cologna di Selva e Diedo e la facciata di quello di Treviso15. Sviluppandosi nel secolo XIX, è la Trieste austriaca a conoscere una rada ma notevole edilizia sacra neoclassica di cui è esempio maggiore il S. Antonio progettato da Pietro Nobile. L’organicità dello sviluppo urbanistico determina qui un’uniformità architettonica prevalente sulla tipicità dell’edificio sacro16: carattere che anche altrove fa percepire il Neoclassicismo poco adatto alle chiese, sì da cedere presto a più fortunati modelli medievali.
Nella fase delle annessioni i governi provvisori decretarono l’estensione della normativa del Regno di Sardegna sul patrimonio ecclesiastico, con differenze dovute alle varie tradizioni giuridiche e a orientamenti non univoci17. L’abrogazione dei concordati riportò Napoli e Firenze all’antico giurisdizionalismo anticurialista, mentre la penetrazione della regolamentazione piemontese fu più diretta in Lombardia, nei ducati e nelle province pontificie: in Romagna Farini estese le leggi Siccardi e incamerò i beni dei Gesuiti, e in Umbria Pepoli dispose radicali soppressioni richiamando la legge del 1855 ma anche disposizioni napoleoniche. A Napoli i decreti garibaldini furono moderati dai luogotenenti sardi, ma Mancini, il 17 febbraio 1861, soppresse le corporazioni religiose e ne confiscò le proprietà: in un discorso alla camera parlerà di 1.100 case soppresse18.
Con il raggiungimento dell’Unità la questione del patrimonio ecclesiastico fu tutt’una con quella finanziaria, ma fu al centro del dibattito anche per le implicazioni politiche e ideologiche19. Mentre si trasferivano gli immobili devoluti alla cassa ecclesiastica al demanio e si consentiva l’occupazione provvisoria di conventi ancora aperti, si succedevano nuovi progetti per completare le soppressioni, finché quello presentato dal ministro Cortese fu convertito in legge il 7 luglio 1866. Il successivo dibattito sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico portò alla legge del 15 agosto 1867. Furono soppressi le corporazioni religiose, i canonicati cattedrali oltre il numero di 12, le abbazie, i priorati, i benefici sine cura, le prelature, le cappellanie; sopravvissero le mense vescovili, i seminari, i capitoli cattedrali (entro i 12 canonicati), le chiese sussidiarie alle parrocchie e i santuari, ma con l’obbligo di convertire il patrimonio in rendita pubblica (con l’eccezione delle residenze vescovili e dei fabbricati dei seminari). Non furono invece toccate le parrocchie. Stabilita l’incapacità per gli enti ecclesiastici, parrocchie escluse, di possedere immobili, venivano risparmiate le sole chiese necessarie al culto con il relativo arredo e le abitazioni dei beneficiati20. La sorte di conventi e monasteri, dopo la parziale riapertura con la Restaurazione, fu una seconda chiusura: le case soppresse risultarono 1.794, quelle conservate 385 (parte in Lombardia per una clausola del trattato di annessione). Il numero non è particolarmente elevato, sia a causa delle 2075 soppressioni già avvenute per la legge del 1855, sia per la parzialità del ripristino successivo al 1815: se nel Veronese le case religiose esistenti e soppresse furono 18, nell’intero Piemonte risultarono solo 31, a fronte delle circa 400 censite a fine XVIII secolo21.
Le principali chiese conventuali sopravvissero in qualità di parrocchiali e, come all’epoca di Bonaparte, gli stessi complessi monastici divennero sedi di istituzioni pubbliche22. Entro il 1874, 1525 edifici claustrali furono trasferiti ai comuni, che li individuarono talora come caserme per attirare una presenza militare (emblematico il caso di Forlì)23; degli altri furono principali destinatari i ministeri della Guerra (caserme, depositi, carceri, ospedali), dell’Interno, della Giustizia e dell’Istruzione. A Napoli le destinazioni privilegiate furono «educandati, collegi, reclusori di monelli, dispensari antitubercolari, cliniche, caserme e musei», ma non mancarono riutilizzi per l’industria e il commercio24. A Roma la commissione incaricata di reperire le sedi delle amministrazioni centrali del Regno si rivolse al patrimonio ecclesiastico, che presentava le caratteristiche necessarie ed era tanto ampio da essere descritto come «un metamorfismo che coi secoli ha penetrato per tutto e pare accenni alla invasione completa», utilizzando 126 delle 221 case religiose esistenti (la legge delle guarentigie escludeva le sedi degli ordini stranieri)25.
Tale appropriazione fu determinante per l’avvio dell’esercizio delle funzioni statali e per la trasformazione in senso laico della città, con il cambio di caratteristica di intere aree urbane, ma ebbe enormi ripercussioni sul patrimonio storico. Nel Regno, dei 115 edifici claustrali censiti come monumentali, nel 1869 ne furono dichiarati tali solo 15, i quali tra l’altro ospitavano già nuove funzioni che impedirono lo sgombero26. Nella Firenze capitale la Commissione per la vigilanza e la conservazione degli oggetti d’arte poco poté al di fuori dei monumenti principali: furono mantenute al culto molte chiese, ma non si salvarono i complessi monastici di fronte a esigenze logistiche arginate solo da qualche destinazione meno impattante a istituti culturali. Per Roma la legge sul trasferimento della capitale prevedeva la salvaguardia di biblioteche e oggetti artistici presenti nei complessi destinati a uso pubblico, ma i decreti di esproprio si limitarono a formule di rinvio, mentre operavano i cosiddetti ingegneri della demolizione e le forme di tutela erano episodiche e contraddittorie (tuttavia solo sette chiese furono chiuse)27. L’edificio era percepito come contenitore passibile di qualsiasi adattamento (o demolizione: per Crispi quello dell’Aracoeli che sarebbe stato sacrificato per il Vittoriano era semplicemente «vecchio e cadente»). Esso era sottoposto a svariati interventi: mutamento dell’articolazione interna, riempimento degli spazi liberi, ampliamento, fusione con un convento vicino, trasformazione in palazzo con una facciata che ne mascherava la natura. La chiesa, se mantenuta, era scorporata dall’edificio assieme a una porzione di questo per abitazione del parroco o dei religiosi rimasti a officiarla. Era invece tutelato il contenuto artistico, trasferito regolarmente in istituti di conservazione: si asportavano affreschi o arredi, contribuendo a smembrare l’unità storico-culturale del complesso e a decontestualizzare le opere d’arte. Andò poi perduta una parte di chiese e oratori minori, non ritenuti degni di conservazione e demoliti o snaturati; mentre il ministero dell’istruzione, se bloccò qualche vendita, ebbe scarso successo nel tutelare gli edifici alienati con vincoli che ne avrebbero diminuito il valore28.
A modificare le forme della presenza dell’edilizia religiosa contribuirono i generalizzati interventi urbanistici, sostituendo in parte un tessuto composto in misura cospicua da edifici sacri con uno di scala maggiore con fini di funzionalità e rappresentatività ispirati a valori laici e moderni. Facevano eccezione gli edifici compresi nella ristretta categoria dei ‘monumenti’: quando ritenute tali, le chiese erano valorizzate con opere di isolamento eliminando l’architettura minuta circostante.
A Roma il piano del 1883, che confermava l’espansione verso Termini, sovrappose al tessuto antico una viabilità causa di ampie demolizioni. Queste non mancarono su scala minore (come l’abbattimento nel 1888 di S. Chiara e S. Maria Maddalena per realizzare un giardino di fronte al Quirinale, in occasione della visita dell’imperatore Guglielmo) senza tuttavia cancellare il volto ecclesiastico del centro. A Firenze il risanamento del 1885-1895, condotto secondo una visione «positivistica, ingegneresca e retorica» in cui era portato a dimensione urbanistica lo stile neorinascimentale, produsse allargamenti e rettifiche di strade attorno a grandi blocchi edilizi, con sventramenti che eliminarono chiese e palazzi. Anche a Napoli i primi interventi e il Risanamento avviato nel 1885, ispirati al consueto modello dell’Haussmann, bonificarono le zone più dense con la demolizione di 62 chiese, per lo più non monumentali, ma la cui perdita mutò l’ambiente originario caratterizzato da una diffusa presenza ecclesiastica e devozionale: effetti attenuati dalla Commissione municipale dei monumenti, sostenuta dalla rivista «Napoli nobilissima», che promosse rilevazioni, recuperi di cimeli e qualche salvataggio, come S. Ferdinando. Più incisivo fu l’intervento urbanistico a Milano, inteso a far penetrare verso la nuova piazza Duomo le radiali, in particolare quella verso il castello che comportò lo sventramento dell’intero settore con il suo dedalo di vie e le sue parrocchiali29. Il cantiere ininterrotto che fu Milano produsse la sostituzione quasi totale del tessuto antico, risparmiando, avulse dal contesto, le reliquie ‘restaurate’ e isolate delle chiese maggiori. Il discorso si estende in misura diversa a tutte le città postunitarie, come Cremona ove fu sacrificato il grande complesso di S. Domenico. Giova piuttosto rilevare come nelle espansioni extramurarie le nuove chiese non ebbero funzioni scenografiche, ma si inserirono negli isolati regolari sottolineando la perdita della dimensione pubblica e urbanistica subita dall’edilizia sacra e il cambio di rapporti, impresso nel tessuto cittadino, tra società civile e religiosa.
Tale tendenza incontra tuttavia una dinamica opposta fatta di nuove costruzioni e restauri promossa dalla rete parrocchiale e dalle congregazioni religiose di fondazione ottocentesca. Nel primo ambito la committenza si risveglia nel procedere verso la fine del secolo con nuove facciate, decorazioni di interni, altari e arredi. La crescita demografica e il ripensamento della presenza ecclesiastica verso la sfera sociale impongono l’ampliamento di numerose parrocchiali e la realizzazione di nuovi templi e di un’edilizia complementare, che proseguono nel Novecento: a Roma la riappropriazione simbolica della città inserisce ampie chiese nelle zone di espansione, come S. Gioacchino ai Prati30.
L’elemento sociale si espresse soprattutto nella fondazione di istituti religiosi finalizzati all’assistenza e all’istruzione. Rispetto a qualche decina di congregazioni sorte in Italia dal secolo XVI al XVIII se ne contano oltre 200 fondate nel XIX (127 nella seconda metà) e 170 nel XX, sì da mutare la fisionomia della vita religiosa. Ciò poté avvenire in quanto la legislazione soppressiva, che aveva compromesso la presenza patrimoniale delle congregazioni storiche, su cui era calibrata, non scioglieva gli ordini a cui espropriava i beni e toglieva personalità giuridica, né (al contrario di quanto avverrà in Francia) limitava le associazioni religiose, i cui membri, godendo dei diritti civili, potevano avere proprietà31. Cambiarono tuttavia la localizzazione e la struttura delle case religiose: quelle antiche furono solo in modesta parte rioccupate dalle vecchie famiglie o acquistate dalle nuove. Le une e le altre invece si insediarono in complessi moderni all’esterno dei viali che avevano sostituito le mura. Tra le congregazioni dedicate ai giovani i Salesiani passarono dalle 21 case italiane del 1880 alle 122 del 1920 e le Figlie di Maria Ausiliatrice nel 1922 superavano le 25032. A Torino l’area nord-occidentale fu caratterizzata dalla presenza religioso-assistenziale: il Cottolengo, l’insula salesiana attorno a S. Maria Ausiliatrice e più a ovest, non lontano da altri insediamenti della congregazione33, l’istituto di Faà di Bruno segnalato dal campanile di S. Zita. Se a Milano la presenza edilizia salesiana fu più tarda ma imponente, a Roma la costruzione della prima parrocchiale dopo l’annessione al Regno d’Italia nel 1870, il Sacro Cuore di Gesù, fu affidata a don Bosco, che incaricò Francesco Vespignani di allungare di 30 metri il progetto. Al tempio, al centro dei quartieri postunitari, si affiancarono edifici per le attività formative, fino al trasferimento nel 1930 nella nuova periferia del Tuscolano34. L’architettura salesiana si caratterizza, con l’eccezione delle chiese torinese e romana, rappresentative e cariche di decorazioni, per «una tipologia edilizia fatta di paraste murarie a vista, poco sporgenti rispetto a superfici intonacate, con piccoli architravi a faccia vista sopra le centine degli archi: un tipo edilizio molto diffuso allora negli edifici industriali; uno stile neoromanico prerazionalista […], un marchio di severità, di rigore, di povertà»35.
A partire dal Neorinascimento, esemplificato dalla facciata del duomo di Ivrea (1853)36, dominò sino ai primi decenni del secolo XX la ripresa revivalistica di stili tradizionali, in analogia a quanto, più precocemente, era avvenuto nel resto d’Europa. Quelli medievali furono i favoriti, pur convivendo in una certa indifferenza con cantieri neorinascimentali o anche neobarocchi. Fino a metà secolo il gotico trova rare applicazioni nell’architettura sacra italiana (S. Francesco a Gaeta, l’infelice unicum romano dell’interno di S. Maria sopra Minerva, cappelle private), essendo considerato piuttosto un antistile, presente nei capricci architettonici e nelle chiese protestanti. Dalla metà dell’Ottocento tuttavia esso è individuato come ‘più adatto’ agli edifici sacri: Pietro Selvatico, riservando le linee rinascimentali all’edilizia civile, prescrive per chiese e cimiteri lo stile ogivale, «interprete dello spiritualismo della Chiesa», oppure quello paleocristiano. Il suo allievo Camillo Boito propenderà per il romanico, nel quadro della ricerca di uno stile nazionale in base a cui pure i palazzi municipali saranno quasi tutti ripristinati in forme medievali in quanto testimonianze dell’età dei comuni, identificata come precedente della libertà nuovamente conseguita. Nell’edilizia ecclesiastica interviene una convergente, più profonda ragione. Vi è nella Chiesa un recupero del Medioevo che va dal tomismo alla musica sacra, un Medioevo mitizzato (non voluto parallelismo alla mitizzazione risorgimentale) come epoca di realizzazione della società cristiana, pura da paganesimo e modernità, rappresentata dall’architettura romanico-gotica e dalla pittura dei primitivi. Con ciò inizia nella Chiesa un’estetica del sacro proiettata in ciò che è pre-moderno, sia esso medievale o paleocristiano, in un rifiuto del Rinascimento maturo e del Barocco (in sé ‘moderni’) come antitesi del sacro: un filo rosso di un secolo e mezzo che giungerà sino al secolo XXI e che coinvolgerà la liturgia come l’architettura e l’arte sacra in un costante mito delle origini, diversamente coniugato ma permeante tanto le nostalgie del regime di cristianità ottocentesche e primo-novecentesche (con modelli prevalentemente medievali) quanto il rinnovamento promosso dal Vaticano II (con modelli soprattutto paleocristiani). Nella seconda metà del secolo XIX si tratta di un recupero revivalistico, comprendente i modelli lombardesco e veneziano del secolo XV, che diviene solo in seguito e in parte una «metodologia razionale del costruire»: esemplificato, in un’applicazione estesissima e duratura, a Milano dal Famedio del cimitero monumentale (Carlo Maciachini, 1863), dalla Sacra Famiglia (Cesare Nava, 1896) e dall’istituto S. Vincenzo (Alfredo Campanini, 1898; la Lombardia ne è l’area di massima concentrazione), in Veneto dal duomo a Lonigo (G. Franco, 1877) e da S. Antonio a Schio (Antonio Negrin Caregaro, 1879), in Emilia dal Sacro Cuore a Bologna (Edoardo Collamarini, 1903-1912)37. Di rado tali modelli e il rifiuto dei nuovi materiali furono superati, come nella chiesa cappuccina milanese del Sacro Cuore, edificata Liberty da Paolo Mezzanotte tra il 1906 e il 190838: alternativa al romanico furono piuttosto realizzazioni eclettiche quali le facciate bergamasche di S. Bartolomeo e del duomo (1895 e 1896)39.
A Roma, ove risulta imprescindibile la tradizione papale moderna, all’imitazione rinascimentale si affianca un revival altomedievale con varianti bizantine e romaniche (Passarelli, Astorri, Leonori), finché la rilettura del passato ecclesiastico porterà nel nuovo secolo anche al recupero barocco40. Non saranno però molte le chiese neomedievali a inserirsi nella città storica, ove le linee gotiche segnalano piuttosto i templi protestanti: S. Antonio in via Merulana (Luca Carimini, 1884), S. Anselmo (Francesco Vespignani 1892-1900); altre chiese medievaleggianti di Vespignani e Carlo Busiri Vici si collocano fuori le mura. In Piemonte dalla prevalente tendenza medievalista di Edoardo Arborio Mella e Luigi Formento si distingue Alessandro Antonelli (su cui si tornerà per la mole), che porta a limiti anche statici l’architettura classica in muratura: limiti all’origine dell’incompiuta parrocchiale di Castellamonte, avviata a pianta centrale per sostenere un’amplissima cupola finché, capitosi che il perimetro edificato non ne avrebbe sopportato il peso e rifiutate le costose correzioni, nel 1868-1875 Formento edificò nello spazio del presbiterio una chiesa neoromanica affacciata sulla rotonda. Antonelli è anche autore di edifici sacri nel Novarese e nel capoluogo della cupola di S. Gaudenzio e del duomo, riedificato ex novo al contrario della scelta di restauro in stile adottata per le cattedrali di Casale e Alba41.
L’ambito più significativo dell’edilizia sacra postunitaria è infatti costituito dai restauri, intesi come vere ricostruzioni, tanto che Boito li contrapponeva all’idea di conservazione, rimanendo inascoltato nella sua ammonizione a limitare i primi in favore della seconda. Sotto questo nome si operarono interventi che eliminavano ogni architettura sovrapposta a quella che si intendeva ripristinare, medievale o protorinascimentale, e si ricostruivano gli elementi mancanti sul modello dei frammenti rinvenuti o in loro assenza, nello stile che si riteneva che l’artefice originario avrebbe scelto, dedotto per analogia dalle fabbriche dell’epoca: rifacimenti arbitrari tesi a dare unitarietà alla chiesa, alla cui capillarità si deve in buona parte l’aspetto delle chiese medievali italiane. A Milano sotto l’influenza perentoria di Luca Beltrami nessuna chiesa di origine medievale scamperà ai ripristini, ma questi si segnalano ovunque dal Piemonte all’Italia centrale e meridionale42. A Bologna l’opera medievalizzante fu tardiva ma sistematica, promossa dal 1899 dal Comitato per Bologna storica e artistica: essa vide il protagonismo di Alfonso Rubbiani, teso a reinventare edifici modesti o monumentali in un Medioevo austero, frutto di un immaginario comunale opposto a quello tardogotico d’Oltralpe (nella vicina Ravenna i ripristini privilegiarono ovviamente lo strato bizantino)43. Sparì quella stratificazione cinque-settecentesca che costituiva la ricchezza storica e artistica delle chiese, riplasmate o lasciate in una mai esistita nudità, comunque ridotte a falsi storici.
Ai ripristini delle facciate si affiancò il completamento di quelle incompiute, per le quali si bandirono concorsi. A cavallo dell’Unità Nicola Matas ne creava una gotica per S. Croce a Firenze, cui seguirono quelle delle cattedrali di Amalfi (gotico-moresca) e Napoli (gotica) di Enrico Alvino (1875 e 1877). A Milano per il duomo risultò vincitore il progetto di Giuseppe Brentano (1886-1888), ma i lunghi lavori confermarono il compromesso di epoca napoleonica dell’Amati, tuttora visibile. Altri concorsi nazionali interessarono a Bologna S. Petronio e a Firenze S. Lorenzo e S. Maria del Fiore. Per quest’ultima si trattava di una commissione statale carica di significati politici, dato il rilievo della città anche dopo il 1870 (un finanziamento regio interessò pure il completamento del santuario di Loreto, con la parte architettonica affidata a Giuseppe Sacconi, progettista del Vittoriano, e quella decorativa a Cesare Maccari, autore degli affreschi di Montecitorio). Il dibattito si accese attorno al coronamento: tricuspidato o basilicale. Il progetto vincitore prevedeva la prima soluzione per analogia allo stile di Arnolfo, ma in fase esecutiva prevalse la seconda: l’aspetto politico è evidente in una scelta considerata nazionale rispetto a quella nordica delle cuspidi ma anche nella decorazione scultorea in cui trovano posto glorie fiorentine e italiche44.
Questa attività comportò vasti interventi decorativi. La pittura neorinascimentale aveva trovato nella Roma di Pio IX toni celebrativi in un disegno di promozione delle arti che nei palazzi apostolici vide l’opera, con accenti ancora puristi e nazareni, di Friedrich Overbeck, Francesco Podesti e Alexander Seiz, carica di simboli e dedicata al papa e al dogma dell’Immacolata. Attivo nella produzione sacra fu soprattutto Nino Costa, maestro del gusto rinascimentale e promotore di un movimento che giungerà al simbolismo. Il cantiere più rappresentativo fu quello di Loreto con la cupola di Maccari (1890-1907), monumentale fusione di purismo e verismo, la cappella Spagnola affrescata dal prerafaellita Modesto Faustini, e le immagini della Madonna di Ludovico Seitz nella cappella Tedesca (1892-1902), emblema del purismo neoquattrocentesco. Novità nella decorazione giungevano nel nuovo secolo dalla scuola tedesca di Beuron, tendente alla semplificazione geometrica di modelli paleocristiani e medievali, che trovò in Italia limitata diffusione (cripta di Montecassino) ma fu apprezzata dal giovane Montini45. Nella decorazione delle chiese prevalevano i modelli medievali, notevoli nel santuario delle Grazie di Brescia, ricostruito da Antonio Tagliaferri (1875-1896) e affrescato da Faustini e Cesare Bertolotti46 (più rari i casi di rappresentazioni simboliste, giungenti al Liberty con il cappuccino Augusto Mussini).
La serialità domina le arti plastiche, in cui, se emergono episodi come la porta centrale del duomo di Milano di Ludovico Pogliaghi (1908), non si contano le statue in gesso o legno, che incontrano il gusto dei fedeli rappresentando culti emergenti: il Sacro Cuore47, l’Immacolata secondo il modello di Lourdes, talora in una grotta, s. Giovanni Bosco, s. Giuseppe, s. Teresa di Lisieux. A ospitare la più rilevante statuaria (latamente) sacra sono i cimiteri, con opere languide e angeli femminilizzati, ma anche realizzazioni pregevoli. Con il Novecento l’arte prende però la via della dissoluzione della tradizione figurativa occidentale, a cui la decorazione sacra rimarrà invece legata.
L’emancipazione ebraica e le libertà delle confessioni non cattoliche, che nel Risorgimento avevano visto la possibilità di una riforma religiosa, si manifestano in edifici sacri e opere sociali. Nel sesto decennio del secolo XIX per il tempio valdese di Torino di Formento l’influenza inglese suggerisce sobrie forme gotiche. Lungo il viale su cui esso affaccia troveranno posto anche la sinagoga e, reazione di don Bosco, la neoromanica S. Giovanni Evangelista48. L’insediamento di comunità evangeliche nelle città italiane generò una presenza modesta ma capillare di edifici sacri in stile medievale in cui convergevano la tradizione protestante e la ricerca, comune all’architettura religiosa e civile, di uno stile nazionale. Il secondo tempio valdese di Roma, accanto alla facoltà teologica (1911-1914), presenta un fronte bizantino-ottoniano, e ancora nel secondo dopoguerra quello milanese avrà applicata la facciata trecentesca della distrutta S. Giovanni in Conca. Più legata a modelli transalpini è l’edilizia delle comunità straniere, esemplificata nella capitale dal revival gotico (1882-1887) della chiesa evangelica inglese di All Saints (non vanno infine dimenticate le sale di culto di comunità battiste ed evangelicali).
Con l’Unità anche le comunità israelite avviano la fabbrica di templi monumentali che devono rendersi visibili nella commistione revivalistico/eclettica di stili soprattutto orientali. Se ne differenzia la mole torinese in cui Antonelli concepisce un sistema strutturale emergente dal contesto e rispondente alle esigenze cultuali e associative della comunità49. Il costo e l’interruzione dei lavori indussero il municipio nel 1878 a rilevare la fabbrica a fini museali e la comunità ad affidare a Enrico Petiti l’erezione di un tempio moresco con torri angolari. Un’analoga scelta stilistica spinse gli architetti del tempio di Firenze verso il modello moresco, esplicito nell’arcone sostitutivo del timpano e nella policromia interna. Meno orientate storicisticamente risultano le sinagoghe milanese (Beltrami), con facciata decorata da mosaici, e triestina (Ruggero e Arduino Berlam), ove a particolari esotici sulle scabre facciate si accompagnano temi Liberty. Per la sinagoga di Roma (1899-1904), successiva allo sventramento-risanamento del ghetto, l’esigenza monumentale indusse l’architetto Armanni a sovrapporre a un classicismo enfatico citazioni che si volevano di ascendenza assiro-babilonese, funzionali a qualificare l’edificio50. L’Unità era così alla base dell’inserimento nelle città italiane di un’edilizia cultuale non cattolica rada ma significativa, tendente alla rappresentatività e non sfuggente agli imperanti modelli eclettico-storicistici.
Se le leggi eversive, nonostante gli effetti dirompenti sull’edilizia degli ordini tradizionali, non avevano impedito la loro sopravvivenza, il Concordato del 1929 ridava alle congregazioni e agli enti ecclesiastici personalità giuridica e diritto alla proprietà, soggetta anzi a un regime fiscale e amministrativo privilegiario. Non era prevista la restituzione dei beni confiscati, sostituita da una indennità finanziaria con l’eccezione dei santuari di Loreto, S. Francesco ad Assisi e S. Antonio a Padova, trasferiti alla Santa Sede assieme a palazzi e basiliche romane. Tuttavia si verificarono retrocessioni di edifici a enti non soppressi ma tenuti a convertirli, qualora non fosse ancora stata assegnata la rendita corrispondente ed essi fossero invenduti; e l’assegnazione di porzioni di conventi come sedi delle rettorie delle chiese annesse mantenute al culto era una retrocessione di fatto. Il codice civile introduceva poi per gli edifici sacri un vincolo di destinazione al culto dipendente dalla deputatio ad cultum publicum operata dalla gerarchia ecclesiastica ma avente effetti sul diritto statuale51.
Lo Stato assunse anche oneri per l’edilizia ecclesiastica, oltre agli obblighi vigenti per i comuni. Nel 1940 furono dettate norme in favore degli edifici di culto lesionati dagli eventi bellici (come già nel 1915-1918), confermate nel dopoguerra da decreti legislativi e dalle leggi 10 agosto 1950 e 21 marzo 1953: provvedimenti che sotto la specie dell’intervento straordinario inauguravano una prassi di finanziamento pubblico solo dal 1948 esteso ai templi non cattolici. Il finanziamento ordinario iniziò, in fase di centrismo democristiano, con la legge 18 dicembre 1952 n. 2252 che in una fase di espansione urbana affidava al bilancio dei lavori pubblici il costo di costruzione di parrocchiali e annessi fino al completamento del rustico, in quanto opere considerate pubbliche anche se a vantaggio delle diocesi. Le norme furono ribadite dalla legge 18 aprile 1962 n. 168 che ne semplificava le procedure e ne ampliava l’applicazione, con ulteriori estensioni fino agli anni Settanta, in una persistente logica che riteneva di interesse statale la soddisfazione dei bisogni religiosi mediante l’istituzione ecclesiastica52. I risultati furono cospicui, con oltre 6.000 chiese finanziate.
Alla linea storicista proseguita nel primo trentennio del secolo XX si affianca nel terzo decennio un filone razionalista che convive spesso in forme ibride con la tradizione. Monsignor Giuseppe Polvara, personaggio di spicco dell’architettura ecclesiale, accoglie materiali e tecniche moderne rimanendo legato ai modelli romanici e basilicali quali archetipi irrinunciabili: S. Maria Beltrade a Milano (1926) è una struttura in cemento ma in semplificate linee romaniche con decorazioni medievaleggianti53. Di lì a poco tuttavia le chiese lombarde saranno improntate al razionalismo classicista di Giovanni Muzio, caposcuola del Novecento milanese, attivo per padre Gemelli (Università Cattolica, 1927-1934) e l’ordine francescano. Tra numerosi edifici sacri nel 1932 completò S. Maria Annunciata in Chiesa Rossa in linee che si ritrovano nei Ss. Ambrogio e Antonio a Cremona, in mattoni a vista e con pronao classicheggiante. Il laterizio richiama la tradizione lombarda ma il repertorio passato è attualizzato e i materiali sono impiegati secondo le caratteristiche strutturali ed espressive54. Si rilevano anche esempi esplicitamente moderni, tra loro assai eterogenei, come S. Michele a Foggia di Concezio Petrucci, opere di Ignazio Gardella e la SS. Annunziata a Sabaudia, inserita dal regime fascista in una città di nuova fondazione con notevole valenza urbanistica. Ma al pari dell’edilizia pubblica rimane prevalente il razionalismo di ispirazione classicista, in cui è rilevante ciò che accade nella Roma di Pio XI e Pio XII55.
Qui la tradizione accademica informa alcune chiese ispirate al Cinquecento e a stilemi neobarocchi: S. Maria Regina Pacis a Ostia di Giulio Magni, i Ss. Angeli custodi di Gustavo Giovannoni, il Sacro Cuore di Maria di Armando Brasini (1924-1954), S. Eugenio di Enrico Galeazzi e Mario Redini, terminato nel dopoguerra, cinque-seicentesco sia nella facciata in travertino sia nell’articolazione interna nonostante la struttura in calcestruzzo56 (sulla stessa linea gli edifici governativi della Città del Vaticano di Giuseppe Momo)57. I riferimenti medievali non sono assenti, riletti in chiave moderna da Clemente Busiri Vici e Tullio Rossi: del primo il S. Roberto Bellarmino (1931-1933) recupera dal romanico la facciata a capanna porticata in laterizi e la navata a capriata, ma le coniuga con un tiburio e una zona absidale in cemento; del secondo, prolifico progettista di chiese romane, si segnalano la S. Lucia e la Natività di Nostro Signore. A dominare è tuttavia il Novecento romano di Marcello Piacentini. L’architetto presiedette nel 1932 il concorso per le nuove parrocchiali messinesi che vide progetti innovativi lodati per «originalità e italianità» ma criticati in ambiente ecclesiastico. Nel suo Cristo Re (dedicazione dal forte valore politico, da poco istituita da Pio XI) del 1933 la sintesi volumetrica del prospetto rettangolare in laterizio aperto da tre archi e affiancato dalle moli dei campanili, trova all’interno nel plastico raccordo tra i piloni della navata e la cupola una monumentalità volutamente ‘romana’. Piacentini realizzerà anche la chiesa a pianta centrale della città universitaria voluta da Pio XII e troverà architetti sensibili alla sua proposta in Mario Paniconi e Giulio Pediconi (S. Felice a Centocelle, reinterpretazione della pianta basilicale) e in Arnaldo Foschini, progettista dei Ss. Pietro e Paolo all’EUR, lineare struttura a croce greca su cui si innesta la cupola. Nel dialogo con l’opposto palazzo della civiltà romana (con significati politici di ritrovata collaborazione Stato-Chiesa, rinnovati dopo il 1948 nel completamento della piacentiniana via della Conciliazione) sono rilevanti le valenze urbanistiche: queste chiese si impongono come poli prospettici dei quartieri mantenendo, nella novità stilistica, la riconoscibilità della tipologia edilizia58.
La stagione di operosa sperimentazione si prolunga a Roma nel dopoguerra: Sacro Cuore di Gesù agonizzante di Ildo Avetta (1953-1955), S. Policarpo di Giuseppe Nicolosi, con pianta a losanga caratterizzata internamente dal particolare rivestimento in mattoni e dal gioco dei pilastri (1957-1958), S. Gregorio VII di Pediconi (1958-1961), Gesù Lavoratore di Raffaele Fagnoni (1957-1961), Assunzione di Saverio Muratori (1954-1962), situate talora nelle nuove periferie, come la monumentale S. Giovanni Bosco edificata da Gaetano Rapisardi (1953-1958) per i Salesiani con grande impiego di marmi59. Ma in tutto il paese negli anni Cinquanta gli architetti affrontano il tema sacro, incentivati dalla committenza abbondante di cui è parte la Pontificia commissione centrale per l’arte sacra in Italia (Pccasi), edificando chiese in forme semplificate caratterizzate dal verticalismo della navata e dalla sottolineatura dell’area presbiterale, secondo un’incipiente sensibilità liturgica. Il razionalismo è condizionato dalle tradizioni regionali: Muratori in S. Giovanni al Gatano a Pisa (dal 1947) semplifica il romanico locale, che riecheggia anche nelle realizzazioni toscane di Giovanni Michelucci. Pure Fagnoni interpreterà suggestioni gotiche, realizzando nel S. Domenico a Cagliari una copertura a calotta nervata (1949) ripresa a Montecatini (1953). Nicolosi sarà attivo in Umbria proponendo accostamenti tra strutture cementizie e parati murari in materiali tradizionali. Aperto a modelli tedeschi Ludovico Quaroni nel 1948 a Francavilla al Mare disegna una pianta a losanga dai vibranti giochi di luce nella cupola oblunga, mentre a nord Leonardo e Nicola Mosso realizzano il Gesù Redentore a Torino, dalla copertura a travi intrecciate penetrate da fasci di luce (1954), e S. Pietro a Moriondo Moncalieri, ove la volta si eleva in continue stratificazioni di volumi (1955): sistemi di copertura richiamanti esempi nordici ma anche la tradizione barocca60. L’esperienza lombarda si segnala per le precoci ricerche di Cesare Cattaneo, Mario Radice61 ed Enrico Castiglioni. A Milano Luigi Figini e Lino Pollini nella razionalista Madonna dei Poveri uniscono a richiami paleocristiani l’uso simbolico della luce che sottolinea l’altare, ripreso nei Ss. Giovanni e Paolo (1952-1956 e 1964-1966); sempre nel capoluogo lombardo la centralità del luogo del sacrificio è caratteristica anche di S. Maria Nascente di Luigi Magistretti e Mario Tedeschi (1954-1955) e di S. Ildefonso di Carlo De Carli, con altare al centro di una torre-tiburio (1955). Mentre Muzio evolve in soluzioni segnate dall’uso decorativo del mattone (Quattro Evangelisti, 1954-1958; S. Giovanni alla Creta, 1956-1958), Giò Ponti in una viva ricerca nel sacro disegna le chiese di S. Francesco, (1961-1963, ove il pensiero corre alle facciate a vento del gotico lombardo) e dell’ospedale S. Carlo (1964-1969) e poi la concattedrale di Taranto, con il doppio traforo del prospetto e dell’alta vela. Il Sud vede un altro grande cantiere nel santuario della Madonna delle Lacrime a Siracusa per il cui concorso bandito nel 1956 furono presentati 91 progetti testimonianti le tendenze internazionali del momento, tutti orientati al grandioso per un tempio pensato per vasti pellegrinaggi. Risultò vincitore quello di Michel Andrault e Pierre Parat, realizzato assai più tardi, con notevoli modifiche, in forma di monumentale guglia del diametro di 90 metri e un’altezza di cento con 37 cappelle laterali. Tutto ciò è però minoritario rispetto a un’edilizia mediocre e attardata, prodotto della scarsa coesione delle nuove comunità, della fretta, delle necessità economiche e dell’impreparazione di progettisti e committenti. Rimane inoltre episodica la riflessione liturgica, essendo ancora radicate negli orientamenti pur aperti di Pio XII e della Pccasi le disposizioni tridentino-borromaiche superate in Germania dalla sensibilità di Guardini, Otto e Casel62.
Nei restauri prevale fino e oltre la metà del secolo XX lo spoglio dalle ‘sovrastrutture’ con l’integrazione delle mancanze e con i materiali murari, laterizio o pietra, portatori di una presunta purezza medievale, lasciati a vista. Con ciò non viene meno la natura distruttiva dei restauri ottocenteschi consistente nella selettività che elimina la stratificazione artistica, caratteristica essenziale delle chiese italiane. Il risultato è il falso storico contrabbandato in buona fede per un impossibile stato originario, frutto di un equivoco e resistente mito delle origini (la decorazione barocca sopravvive maggiormente nelle cappelle laterali). Vi scampano poche chiese medievali, come nell’interno le cattedrali di Parma e Cremona, mentre, per limitarsi a un esempio, negli anni Trenta il duomo di Termoli è completamente trasformato. Tale pratica fu favorita dalle distruzioni belliche: alcune chiese non furono ricostruite, altre lo furono in forme moderne; per altre ancora si colse l’occasione per ripristinarle senza le strutture cinque-settecentesche, come a S. Chiara a Napoli.
Tuttavia siffatte operazioni riguardarono pure edifici integri. Il duomo di Crema, che si presentava nelle forme di fine Settecento, fu oggetto di ripetuti restauri, dapprima parziali (1890-1935: volta, facciata, controfacciata, liberazione del fianco nord), poi nel 1952-1959 traumatici. Si eliminò tutta l’architettura settecentesca dell’interno (meno una campata laterale), integrando largamente gli elementi medievali rinvenuti, si demolirono le cappelle del fianco sud, sostituite da una parete con monofore, si trasformò lo scurolo cinquecentesco in una cripta voltata in cemento per riportare al livello trecentesco il presbiterio e si riedificò quest’ultimo sulle tracce delle fondazioni medievali; mentre di affreschi medievali si trovarono pochi frammenti, lo scarso arredo conservato fu ricollocato secondo il gusto63. Nella cattedrale di Lodi nel 1956-1964 l’eliminazione della facies interna settecentesca in favore di un presunto assetto romanico e la rimozione dell’arredo produssero di fatto una chiesa moderna terminante in un catino absidale rivestito da un mosaico di Aligi Sassu.
Il mito delle origini colpì in modo particolare Assisi e l’Umbria che scontavano, con l’arcaicità idilliaca imposta all’Italia centrale, la presenza francescana, rivitalizzata a partire dalla sostituzione della decorazione seicentesca della Porziuncola con quella purista di Overbeck (purismo presente in regione da S. Maria della Stella a Montefalco a S. Emiliano a Trevi al santuario di Canoscio). La sacralizzazione stereotipa dell’area e la moda storicista determinarono il restauro delle chiese umbre, culminando nell’esasperazione dell’età fascista: il regime, strumentalizzando il centenario del 1926 e la figura del santo (Mussolini proclamò il 4 ottobre festa nazionale e contribuì personalmente al monumento a Francesco a Milano), promosse il rifacimento ipergotico di molte città umbre e soprattutto di Assisi. Mentre veniva ricostruita la cripta con la tomba del santo, la città assumeva un aspetto pseudomedievale mediante l’erezione di edifici in stile e capillari opere di asportazione di intonaci e inserimento di posticce aperture archiacute: a testimonianza del clima la Nova vita del podestà Arnaldo Fortini connetteva inscindibilmente (come Luigi Salvatorelli nello stesso 1926) un Francesco manierato all’ambiente umbro. Il risultato fu una ‘modernizzazione antiquante’, coinvolgente gli stessi edifici sacri, imposta come originaria a una vera industria del pellegrino, comprese le manifestazioni turistico-religiose in costume64. Evento altrettanto dirompente a Cascia ove, tra i mutamenti imposti dal pellegrinaggio di massa, il santuario cinquecentesco di S. Rita fu sostituito nel 1937-1947 da una basilica di imitazione bizantino-romanica.
Mentre Oltralpe l’interesse per l’arte sacra si manifestava in riviste quali la «Revue de l’art chrétien» (1857-1914) o «Die christliche Kunst» (1904-1938), in Italia, in un quadro di dissociazione tra studi teologici e artistici con effetti nefasti sulla committenza, nel 1911 Celso e Giovanni Costantini fondarono la Società degli amici dell’arte cristiana, all’origine della rivista «Arte cristiana» (dal 1913). Polvara, che ne era parte, fondò a Milano nel 1921 la Scuola d’arte cristiana «Beato Angelico», fratellanza di artisti impegnata nelle arti, dalla suppellettile all’affresco. A livello centrale dopo lo Schema programmatico per il rifiorire dell’arte sacra presentato a Pio XI nel 1924, nacque la Pccasi, attiva fino al 1989 e dotata dal 1953 della rivista «Fede e arte». Tuttavia la decorazione delle chiese mantenne caratteri tradizionali: sia per la predilezione per le forme ‘medievali’ filtrate attraverso il primitivismo ottocentesco e il Liberty, sia per l’opposizione a una pittura ritenuta deformante e inadatta a rappresentare il bello individuato, sulle linee della Aeterni patris di Leone XIII, come fine dell’arte. Pio XI nel 1932 definì le novità «sinceramente quando non anche sconciamente brutte»: a imporsi fu un diffuso classicismo religioso, con le commissioni principali affidate a protagonisti del ritorno all’ordine degli anni Venti – Trenta: scultori come Libero Andreotti, Arturo Dazzi e Arturo Martini e pittori quali Felice Carena, Ferruccio Ferrazzi e Achille Funi. Se ne differenziarono, lasciando tuttavia un numero limitato di realizzazioni, Persico, interessato alla semplicità dei primitivi e influenzato da Maritain, Renato Birolli, Tullio Garbari e Aligi Sassu (Severini compirà i suoi cicli religiosi in area elvetica)65. Nel dopoguerra, se le nuove chiese si prestavano meno alla decorazione, Pio XII nel 1947 manifestava nella Mediator Dei una cauta apertura all’arte moderna, purché «riverente» agli edifici e ai riti sacri. Le novità provengono piuttosto dalla Francia, con la rivista «L’art sacré» animata dai domenicani Pye Raymond Régamey e Alain-Marie Couturier (1937-1939, 1945-1954). In Italia ciò si riflette in casi avanzati quali la collaborazione con la Fabbrica del duomo di Milano di Lucio Fontana, che realizza pure una pala per i Gesuiti di S. Fedele (1955), e la decorazione di S. Barbara a Metanopoli su commissione dell’ENI di Enrico Mattei (Andrea Cascella, Fiorenzo Tomea, Giò e Arnaldo Pomodoro, Pericle Fazzini, Bruno Cassinari, Franco Gentilini)66.
Uno spartiacque nella concezione e nella percezione dello spazio sacro è determinato dalla riforma liturgica decretata dal Vaticano II nel 1963 con la costituzione conciliare Sacrosanctum concilium e con le sue istruzioni applicative, in particolare la Inter oecumenici del 1964, da subito operative67. Erano così accolte e trovavano compimento le istanze di rinnovamento da decenni propugnate dal movimento liturgico, mediante il recupero di elementi antichi della liturgia ‘liberati’ da rituali sostanzialmente barocchi. I fedeli dovevano divenire parte attiva della celebrazione mediante un legame, espressione dell’unità del popolo di Dio, tra l’altare, rivitalizzato come elemento centrale, e l’assemblea: ciò implicava, oltre a un rito semplificato in lingua corrente, una traduzione architettonica, in primo luogo nella collocazione dell’altare verso il popolo e nell’eliminazione degli elementi che determinavano la separazione. Spariva la tradizionale pluralità di altari, per fare dell’eucarestia il centro della actuosa participatio comunitaria nell’unica mensa. Si trattava di una rivoluzione nello spazio sacro e nella sua percezione rispetto a un passato in cui la variazione stilistica non intaccava la continuità della concezione spaziale68.
La profondità della riforma fu colta dagli architetti chiamati a interpretarla: nel 1969 in un volume curato dalla Pccasi sugli Orientamenti dell’arte sacra dopo il Vaticano II il presidente Giovanni Fallani usava l’espressione «anno zero», e Pierluigi Nervi (autore poi dell’aula delle udienze in Vaticano), di fronte a una situazione in cui «niente di ciò che il passato ci ha tramandato può servire da guida» e a un’eccezionale ma non rinnovabile tradizione architettonica, esprimeva la difficoltà di raggiungere ex novo «l’essenza spirituale» del tempio69. Ciò induceva l’arcivescovo di Torino, Michele Pellegrino, a offrire indicazioni concrete: altare verso il popolo al centro del presbiterio e non sul fondo, tabernacolo in posizione laterale, recupero dell’ambone quale secondo polo della liturgia e posizione frontale della sede del celebrante per valorizzare le altre forme della presenza di Cristo, collegamento visivo e sonoro con l’assemblea70. La riforma mutava infatti la percezione dello spazio sacro anche per l’introduzione di mezzi moderni di illuminazione71 e diffusione del suono, che eliminavano la penombra e l’impercettibilità delle formule liturgiche pronunciate a bassa voce, facendo perdere alle chiese parte di quella distanza dagli altri ambienti della modernità che proiettava il fedele in atmosfere d’altri secoli.
La riforma conciliare era stata preceduta anche in Italia da esperienze precorritrici. Le novità artistico-architettoniche avevano toccato latamente Roncalli: le stesse modifiche del presbiterio di S. Marco volute dal patriarca veneziano (che pur visitò la biennale) sono legate, più che all’innovazione liturgica, alla sollecitudine pastorale72. Montini invece, che fin dal 1931 aveva espresso su «Arte sacra» l’opzione per l’arte contemporanea, segue Maritain nella ricerca di una teologia della bellezza, su posizioni affini a quelle della successiva «L’art sacré». Durante l’episcopato milanese (1955-1963) egli inaugura l’Ufficio nuove chiese che, in collaborazione con la Pccasi, a capo della quale propone Fallani, promuove l’erezione di un centinaio di parrocchiali contraddistinte dalla ricerca di un legame tra architettura e liturgia, in un quadro di libertà espressiva da cui scompare lo storicismo dei primi anni Cinquanta. I nuovi edifici, inseriti in complessi polifunzionali e con altezze più modeste, abbandonano gli impianti basilicali in favore di quelli assembleari gravitanti sull’altare; la moderata decorazione è spesso affidata ai principali artisti contemporanei, con cui Montini rimane in costante dialogo. Nel 1961 il presule connette la Chiesa milanese all’evento conciliare con il progetto «22 chiese per 22 concili». Analogamente al cardinale Siri, che a Genova aveva coinvolto nel progetto Costa, presidente di Confindustria, Montini si era avvalso della collaborazione di Mattei, posto a capo del comitato diocesano per le nuove chiese73.
Fin dal I Congresso di architettura sacra promosso a Bologna nel 1955 dal cardinale Lercaro con gli architetti Giorgio Trebbi e Glauco Gresleri e affiancato da una mostra sulle nuove chiese italiane, la nuova realtà ambrosiana entra in contatto con la riflessione avviata nella città emiliana, ove si esplicava anche l’influsso del pensiero di Giuseppe Dossetti74 (attorno ai due prelati si formeranno poi la Raccolta Lercaro di Bologna e la Collezione vaticana d’arte religiosa moderna). Il programma lercariano rappresentava il frutto del movimento liturgico, intendendo connettere strettamente la progettazione architettonica alla rinnovata dimensione liturgica dell’edificio sacro. Esso inoltre, avviato con soluzioni provvisorie, oltrepassava la costruzione di edifici sacri per le nuove parrocchie, qualificandosi come rivitalizzazione di quartieri privi di anima urbana mediante un’identità comunitaria gravitante attorno alla chiesa. Posizione al passo con il dibattito urbanistico incentrato sulla necessità di una centralità catalizzatrice della vita collettiva, che Lercaro dal punto di vista cristiano individuò nelle chiese: edifici di Gresleri, Trebbi, Nervi, Giuseppe Vaccaro, Melchiorre Bega, Alvar Aalto unificati da un’idea innovativa della liturgia e concepiti in funzione di questa. Il valore dell’operazione, che rompeva l’idea di periferia come spazio amorfo, è evidente nei contatti con Le Corbusier, Aalto e Kenzo Tange: non solo Lercaro nel 1967 incarica quest’ultimo di progettare una chiesa al centro della prevista edificazione degli spazi a nord-est della città, ma convince l’amministrazione ad affidargli il piano di sviluppo dell’area. L’impresa non sopravvisse alla fine dell’episcopato lercariano nel 1968, ma indica il livello delle iniziative, testimoniato dall’attività, a fianco dell’Ufficio nuove chiese, del Centro di studio per l’architettura sacra e della rivista «Chiesa e quartiere», dal 1957 strumento di documentazione e proposta nel campo dell’edilizia sacra aggiornata al dibattito franco-tedesco75. Prima di cessare la pubblicazione essa riportò un intervento del presule appena rimosso che ripensava la presenza cristiana nella metropoli futura come «lievito nascosto» bisognoso di chiese indifferenti ai problemi di stile in favore della sola predisposizione alla partecipazione: egli immaginava l’eliminazione del condizionamento imposto da edifici anche validi e innovativi sull’evoluzione della religiosità, optando per una «transitorietà estrema» e una «pura funzione di servizio», nel timore che le chiese in muratura costringessero «la Chiesa ad assumere per secoli forme che la separano dal resto degli uomini»76. Uno sviluppo notevole rispetto alla prima fase dell’episcopato, attento all’ispirazione pneumatologica e forse condizionato dalla difficoltà di adattamento dell’architettura antica, «meravigliosa» ma vista come diaframma per l’incontro con Dio (Lercaro aveva presieduto la commissione per l’applicazione della riforma liturgica).
Pellegrino, nell’intervento citato, formulava anche norme sull’adattamento dei complessi esistenti, raccomandandone il rispetto: la nuova liturgia non doveva implicare lo stravolgimento delle chiese storiche. Ciò rifletteva un’esperienza in cui fretta e incompetenza provocavano distruzioni irreparabili, con l’eliminazione di elementi costitutivi dell’arredo antico a partire dalle balaustre e dall’altar maggiore: il cardinale raccomandava l’accordo con gli organi di tutela e il rispetto delle leggi (come lo stesso Lercaro) e, in linea con disposizioni analoghe dell’episcopato francese, ricordava come oggetti non più funzionali alla liturgia mantenessero un valore storico e artistico:
«Certe sistemazioni architettoniche o d’arredamento, certi oggetti di culto o di pietà, elementi decorativi che ci sembrano passati di moda, poco in armonia con lo spirito della riforma liturgica possono avere, senza che noi lo sappiamo, un vero valore artistico, essere degli elementi preziosi del patrimonio religioso e nazionale. La loro distruzione, la loro alienazione, la loro trasformazione inconsiderata e indebita possono costituire veri atti di vandalismo contro i quali a buon diritto si leva l’autorità pubblica e l’opinione degli ambienti artistici. Sarebbe spiacevole che simili errori individuali fossero attribuiti all’influsso della riforma liturgica».
Egli intendeva salvaguardare non solo singoli oggetti, ma l’armonia delle chiese, danneggiata da «soppressioni parziali e frettolose»: invitava a rispettare il Barocco, che maggiormente si sarebbe prestato alle rimozioni per il suo contrasto con la nuova sensibilità:
«L’eliminazione di molte statue creerà in un complesso di stile Barocco una penosa impressione di vuoto, di nudità, di indigenza. Non è troppo mettere in guardia contro una certa ossessione di nudità o contro una volontà intemperante di povertà evangelica [...]. Alcune chiese finiscono, a forza di semplificazioni e di soppressioni, per assomigliare a delle sale di conferenze e per perdere completamente quel calore, quell’atmosfera di splendore e di gloria che richiama la celeste Gerusalemme»77.
Ma tale cautela mancò. La Inter oecumenici fu accolta con entusiasmo che si tradusse però in equivoca (e non presente negli autori della riforma) insofferenza per i vecchi arredi, dando «via libera a frenetiche attività di rinnovamento nelle chiese [...] quasi mai autorizzate dalle autorità civili, che provocarono demolizioni sconsiderate, dispersione di molto materiale di valore storico e artistico, nonché adeguamenti maldestri»78. Rompendo un equilibrio già intaccato dai restauri ‘in stile’ (e in una non percepita comunanza di sentire con questi ultimi, data dalla volontà di liberazione dello spazio sacro dal ‘moderno’ rappresentato dai secoli XVI-XVIII) furono rimossi altari, tabernacoli, balaustre, dipinti, pulpiti, confessionali, argenteria, mentre furono inseriti arredi dalle linee stridenti. Gli effetti non sono neppure valutabili in assenza di dati sistematici, ma le poche ricognizioni confermano l’impreparazione di committenza, progettisti e delle stesse Commissioni diocesane per l’arte sacra79. Nel duomo di Trento elementi marmorei e lignei lasciarono posto ad altri incongrui e i sepolcri episcopali furono spostati tra i resti della basilica rinvenuta a livello inferiore: infatti, influenzata dallo spirito di ricerca delle origini, trovò alimento anche l’indagine archeologica.
L’adeguamento generalizzato, spontaneo e incontrollato dell’enorme patrimonio storico ecclesiastico ha posto un problema di tutela. Solo nel 1996 la Cei, dopo trent’anni di attività e a dodici dalla revisione del Concordato, ha rielaborato i vari indirizzi nella nota L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, che ribadisce la necessità dell’adattamento ma raccomanda la tutela (come nel 1992 in I beni culturali della Chiesa in Italia), pur proponendo soluzioni gravemente impattanti quali la rimozione delle balaustre e la modifica dei presbiteri. Su queste basi prevale una via media che non accetta «posizioni puriste per cui la conservazione coincide con il salvaguardare lo status quo», proponendo una mediazione con le richieste delle comunità80. Essa trova un qualche fondamento nel rischio insito nella musealizzazione delle chiese, ma non è accettata dagli organi civili preposti.
Di fronte alla lacunosità della normativa canonica si è sviluppata una legislazione statale di salvaguardia che comprende il patrimonio ecclesiastico. Nonostante il Concordato lasciasse alla Chiesa la sua gestione, con ciò non si derogò alle disposizioni generali in materia, risalenti al 1909 e confermate nel 1929 in sede di applicazione normativa degli accordi. Queste furono rielaborate organicamente nella legge del 1939, tuttora operante, dal 1999 nel quadro del nuovo Testo unico, assicurando allo Stato la prevalenza del proprio interesse alla tutela su ogni altra istanza. L’accordo con l’autorità ecclesiastica previsto per gli interventi coinvolgenti il culto non limita infatti i provvedimenti statali, ma solo ne disciplina l’esecuzione, rimanendo il bene soggetto alla comune normativa. La Costituzione aveva fissato l’interesse statale nella tutela del patrimonio culturale e dal 1974 la Cei promosse forme di accordo con lo Stato: tali principi furono recepiti nella revisione del Concordato del 1984 e nell’Intesa del 1996 sulla collaborazione tra Stato e Chiesa per la tutela del patrimonio culturale ecclesiale, che istituiva come controparti il ministero per i Beni culturali e l’episcopato81.
Di fatto il controllo statale è stato assai spesso eluso nonostante le voci levatesi contro operazioni invasive82. Un quadro tracciato nel 2007 da parte statale mostra come il fenomeno iniziato negli anni Sessanta abbia addirittura conosciuto un’accentuazione nell’ultimo decennio del XX secolo. Si rilevano «processi di demolizione e rifacimento, di sostituzione di intonaci e pavimenti, di rimozioni di finiture e arredi così come di introduzione di nuovi elementi fissi [...]. Si richiedono alla soprintendenza e si realizzano con grandissima facilità spostamenti di arredi mobili, di opere d’arte, ma anche di arredi fissi di notevoli dimensioni. Si introducono nelle chiese nuovi elementi che quasi sempre non hanno qualità singolare ed estetica perché derivata da una generica approvazione dei fedeli». Inoltre «si deve registrare la scadente qualità dei progetti che vengono sottoposti all’esame della soprintendenza. Le proposte sono in buona parte prive di ogni sapienza o anche solo di modestia, di umiltà nel rapporto con l’esistente […]. I progettisti e gli artisti si rivolgono alle copie, alle imitazioni, alle semplificazioni, alle cosiddette stilizzazioni» (e non cessa l’inserimento di oggetti devozionali scadenti). Non sempre è così: «edifici plurisecolari hanno ben visto cambiare le modalità liturgiche e sono state assai limitate le modificazioni radicali»83. Ciò indica come, in un’ottica di conservazione filologica favorita dal livello eccellente dell’attività di restauro in Italia, la collaborazione sia possibile anche nel quadro della nuova liturgia, ma rimanga irrealizzata in un procedere capillarmente distruttivo.
L’evoluzione della sensibilità (dal 1993 opera la Pontificia commissione per i beni culturali e la Cei dispone di un Ufficio beni culturali) ha tuttavia favorito la valorizzazione di biblioteche e archivi e l’incremento dei musei religiosi, che hanno acquistato rilevanza con la rimozione dalle chiese di oggetti d’interesse storico, per quanto la sede originaria sia sempre preferibile. Essi costituiscono una realtà in crescita, sostenuta dal 1996 dall’Associazione musei ecclesiastici italiani: il numero di 781 musei censiti nel 1997 era salito nel 2001 a 936 e nel 2005 a 994 di cui 228 diocesani84.
Mentre Paolo VI promuoveva un’apertura all’arte contemporanea (un nuovo impulso si avrà dagli anni Novanta)85, per l’architettura si apriva la sfida ad attuare le novità liturgiche. Ma proprio allora, a detta dei protagonisti di quella stagione, la ricerca avviata a Bologna e Milano si sarebbe arrestata mantenendo l’architettura sacra, che pur trovava possibilità di espressione, in uno stato di mediocrità: un minimalismo formale e un pauperismo strutturale di complessi parrocchiali mimetizzati nella generale banalità, come nel caso milanese degli anni Settanta indagato da Antonietta Crippa, che registra modelli standardizzati ridotti a un minimo essenziale privo di identità ed espressività. Sandro Benedetti in questa «fuga da sé» individua le tendenze speculari di un nascondimento «dell’edificio-chiesa come segno sacro e presenza religiosa» e di un funzionalismo che tradiva la riforma liturgica neutralizzando e «cosificando» il sacro: tendenze che avrebbero coinvolto anche architetti già distintisi per sapienti intuizioni86. Si produsse in questa fase quella moltitudine di ‘chiese popolari’ presenti nelle periferie italiane di cui ha esperienza la maggioranza dei cattolici praticanti.
Ovviamente vi fu un livello di maggiore consapevolezza, come nella Torino di Pellegrino ove la Sezione d’arte sacra dell’Ufficio liturgico fu retta da Mario Roggero e dal 1974 da Roberto Gabetti, con una qualificata attività edilizia e formativa: Gabetti in collaborazione con Aimaro Isola realizzò edifici caratterizzati da sapienza architettonica, ispirazione religiosa e attenzione alla dimensione liturgica. Tra gli altri edifici emergenti S. Biagio (Luigi Caccia Dominioni, 1967) e S. Giuseppe a Monza (Justus Dahinden, 1972-1976), gli Angeli custodi (Carlo Bassi e Goffredo Boschetti, 1964) a Milano, S. Francesco (Gresleri e Silvano Varnier, 1972-1974) a Pordenone, S. Gregorio Barbarigo (Vaccaro e Gualtiero Gualtieri, 1971), il SS. Redentore (Ennio Canino, 1977) e S. Giovanni Evangelista (Julio Lafuente e Gaetano Rebecchini, 1979) a Roma, la Sacra Famiglia a Salerno (Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti, 1969-1974)87.
Le tendenze evidenziate trovarono un freno in corrispondenza del pontificato di Giovanni Paolo II, con un recupero della dimensione espressiva degli edifici sacri mediante qualificazione dello spazio interno ed emergenza sul contesto. Una linea aperta alla mostra di Monza del 1983 con una riflessione intesa a ridare alle chiese senso di trascendenza e sacralità88. In successivi convegni tenutisi nel Nord-Est si segnalò la posizione di Sandro Benedetti, critica tanto del raffinato gestualismo di Ronchamp e delle sue imitazioni quanto della riduzione della chiesa a servizio di quartiere, in favore di un cristocentrismo che si traduce nella centralità dell’altare: ripresa, con la necessità di esprimere il sacro in una continua tensione creativa, da Glauco Gresleri89. Il dibattito è proseguito nella pubblicistica e in occasioni quali il convegno e la mostra pescaresi del 1989-1990, la mostra della Biennale di Venezia 1992-1993 su Architettura e spazio sacro, quella romana del 1995 dell’Ucai, i seminari della Fondazione Staurós, il V Congresso di liturgia di Roma del 1999, i convegni vicentini del 2000-2003 e quelli veneziani del 2004-200790.
Ne è derivata, cadute le richieste di povertà espressiva e «basso quoziente identificativo», la realizzazione di chiese più fortemente caratterizzate: i Ss. Gioacchino e Anna e S. Alberto a Roma (1980-1984, 1985-1991) e il santuario di Paola (1989-2001) di Benedetti, S. Riccardo Pampuri a Peschiera Borromeo di Guido Canella (1990), S. Maria ad Assago di Liliana Grassi e poi Antonietta Crippa e Clemente Schiatti, S. Massimiliano Kolbe a Masnago di Dahinden (1990-1992), il B. Odorico a Pordenone di Mario Botta (1987-1991), S. Giovanni a Desio (1994-1999) e S. Maria in Zivido a San Giuliano Milanese (1998-1999) di Gabetti e Isola. Persistenti difficoltà sono rilevate dalla critica negli esiti del concorso milanese del 1989, con attenzione esclusiva per lo spazio assembleare e accenti ora storicisti ora funzionalisti, e di quello romano del 1994, tra tendenze all’annullamento ed enfasi formali ridondanti di simboli, pur se dopo un secondo concorso si è realizzato il Dio Padre Misericordioso di Richard Meier91. La Cei, di fronte all’impasse, elabora nel 1993 la nota La progettazione di nuove chiese e, collaborando con architetti, artisti e liturgisti, sottolinea il proprio ruolo di committente in una serie di concorsi a inviti: Milano, Perugia, Lecce (1998-1999); Bergamo, Roma, Potenza (1999-2000); Modena, Foligno, Catanzaro (2000-2001). Il coordinamento ha elevato il livello qualitativo, sebbene realizzazioni anche notevoli, come la chiesa folignate di Massimiliano Fuksas, siano criticate per la scarsa rispondenza alla funzione ecclesiastica. Un caso a sé per impegno e dimensioni, il principale del Mezzogiorno, è costituito dal santuario di S. Pio a San Giovanni Rotondo (1991-2004) progettato da Renzo Piano su un colle, che si presenta all’esterno con un fronte vetrato e una copertura a falde, mentre la vasta aula a ventaglio dove pende la grande croce di Arnaldo Pomodoro è caratterizzata da archi che recuperano la pietra come materiale strutturale (il corpo del santo è stato traslato nella cripta rivestita di mosaici)92. Un ulteriore fenomeno diffuso dalla fine del secolo XX è l’affidamento di chiese non più officiate, in particolare nei centri storici, a comunità cattoliche straniere immigrate, asiatiche, ispaniche o di riti orientali, e ad altre ortodosse.
L’attivismo della Cei nel campo dell’edilizia sacra, organizzato tramite strutture interne quali il Servizio per l’edilizia di culto e l’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici, e la stessa emanazione dei citati documenti in materia avviata nell’ultimo decennio del secolo XX, corrispondono cronologicamente alla disponibilità di nuove risorse in seguito all’entrata in funzione a partire dal 1990 del finanziamento pubblico tramite l’otto per mille. A fronte di un iniziale stanziamento per l’edilizia di culto, nello stesso 1990, corrispondente a 15 milioni di euro, questo nel 2000 aveva raggiunto i 54 milioni e nel 2009 i 122 milioni; sommate a tali cifre si rilevano dal 1996 regolari destinazioni al capitolo beni culturali: 56 milioni quell’anno, arrivati a 65 nel 2009, cifre tuttavia impari a fronte della ricchezza storico-artistica da preservare (ma a ciò vanno aggiunti finanziamenti particolari, come nel primo decennio del secolo XXI quelli a grandi monasteri quali Camaldoli e Cava dei Tirreni o quelli concessi per il recupero dei beni culturali anche ecclesiali dalla società pubblica Arcus). Nel contempo il giubileo, grazie anche al concorso finanziario dello Stato, favoriva l’edilizia ecclesiastica, comprese le strutture ricettive, e il massiccio restauro di chiese in particolare a Roma, dando impulso (nonostante talune distorsioni e opere sfuggenti ai regolari controlli e lesive di beni storici, quali il parcheggio del Gianicolo) al recupero di un patrimonio immenso e minacciato.
1 Esempi in R. Cona, Fedeli tra conventi, parrocchie, confraternite. Strutture ecclesiastiche urbane da Napoleone agli Asburgo, in Una città un fondatore. Miscellanea di Studi mazziani II, Verona 1990, pp. 58-106; Id., Parrocchia urbana, riforma napoleonica e nuove fondazioni religiose a Verona, in Vita religiosa e cultura in Lombardia e nel Veneto nell’età napoleonica, a cura di G. De Rosa, F. Agostini, Bari 1990, pp. 183-211; G. Spinelli, Ordini e congregazioni religiose, in Diocesi di Brescia, a cura di A. Caprioli, L. Vaccaro, A. Rimoldi, Brescia 1992, pp. 330-334; G. Tuninetti, Religiosi, religiose, istituti secolari e nuove forme di vita consacrata, in Storia della Chiesa di Ivrea in epoca contemporanea, a cura di M. Guasco, M. Margotti, F. Traniello, Roma 2006, pp. 131-132.
2 C. Semeraro, Restaurazione, Chiesa e Società. La “seconda recupera” e la rinascita degli ordini religiosi nello Stato pontificio (Marche e Legazioni 1815-1822), Roma 1982; M.A. Quesada, Sul recupero dei beni ecclesiastici all’indomani della restaurazione: il caso di Faenza, in Roma fra la Restaurazione e l’elezione di Pio IX. Amministrazione, economia, società e cultura, a cura di A.L. Bonella, A. Pompeo, M.I. Venzo, Roma 1997, pp. 603-619.
3 A. Mercati, Raccolta di concordati su materie ecclesiastiche tra la Santa Sede e le autorità civili, Roma 1919, pp. 621-635; W. Maturi, Il concordato del 1818 tra la Santa Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929; P. Bellini, Le leggi ecclesiastiche separatiste e giurisdizionaliste (1848-1867), in La legislazione ecclesiastica, a cura di P.A. D’Avack, Milano 1967, pp. 150-151; P.G. Caron, Corso di storia dei rapporti tra stato e chiesa, II, Milano 1985, pp. 117-121.
4 E. Godoli, Architettura e città, in Storia dell’Emilia Romagna, a cura di A. Berselli, III, Bologna 1980, p. 1158.
5 P.G. Caron, Corso di storia, cit., pp. 121-123; P. Bellini, Le leggi ecclesiastiche, cit. p. 150.
6 Milano e il suo territorio, a cura di L. Litta Modignani, C. Bassi, A. Re, 2 voll., Milano 1844.
7 A.C. Jemolo, La questione della proprietà ecclesiastica nel regno di Sardegna e nel regno d’Italia (1848-1888), Torino 1911, Bologna 19742, pp. 35-39; G. D’Amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano 1961, pp. 97-98, doc. 14; C. Magni, I subalpini e il concordato, Padova 1961; P. Bellini, Le leggi ecclesiastiche, cit., pp. 157-159; P.G. Caron, Corso di storia, cit., pp. 142-144.
8 A.C. Jemolo, La questione della proprietà, cit., pp. 48-76; G. D’Amelio, Stato e Chiesa, cit., pp. 100-106, doc. 17 (indicato per errore doc. 20); I.M. Laracca, Il patrimonio degli ordini religiosi in Italia. Soppressione e incameramento dei loro beni (1848-1873), Roma 1936; P. Bellini, Le leggi ecclesiastiche, cit., pp. 159-161; P.G. Caron, s.v. Soppressione di enti ecclesiastici, in Noviss. dig., XVII, 1970, pp. 897-902; G. Martina, s.v. Soppressioni, Italia: soppressioni liberali, in Diz. Ist. Perf., VIII, 1988, coll. 1872-1876; M. Chiappin, s.v. Soppressioni statali, ivi, coll. 1786-1801.
9 A. Colombo, Ragioni ed effetti delle leggi di soppressione, in Nuove funzionalità per la città ottocentesca. Il riuso degli edifici ecclesiastici dopo l’Unità, a cura di A. Varni, Bologna 2004, pp. 14-15.
10 R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, Milano 19922, pp. 56-61, 91.
11 Ibidem, pp. 35-47; G. Spagnesi, L’architettura a Roma al tempo di Pio IX (1830-1870), Pomezia 1976; P. Marconi, Giuseppe Valadier, Roma 1964.
12 E. Pallottino, La nuova architettura paleocristiana nella ricostruzione della basilica di S. Paolo fuori le mura di Roma (1823-1847), «Ricerche di storia e arte», 56, 1995, pp. 30-59; Id., Architettura e archeologia intorno alle basiliche di Roma e alla ricostruzione di S. Paolo f.l.m., in Roma fra la Restaurazione, cit., pp. 329-347.
13 E. Godoli, Architettura e città , cit., p. 1167; G. Orefice, Forlì: immagine e struttura della città tra Rivoluzione e Restaurazione, in Storia di Forlì, a cura di A. Varni, IV, L’età contemporanea, Bologna 1992, pp. 77-79.
14 G. Mezzanotte, Architettura neoclassica in Lombardia, Napoli 1966; R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, cit., pp. 69-77.
15 E. Bassi, Antonio Canova a Possagno, Treviso 1972; R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, cit., pp. 78-82.
16 R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, cit., pp. 82-87.
17 G. D’Amelio, Stato e Chiesa, cit., pp. 3-11.
18 Ibidem, pp. 106-162, docc. 20-47; 174-221, docc. 60-79; A. D’Alessandro, La soppressione delle corporazioni religiose e la requisizione dei beni ecclesiastici in Umbria (1860-1879), «Annali della Facoltà di lettere e filosofia. Studi storico-antropologici», 8, 1984-1985, pp. 81-95.
19 A.C. Jemolo, La questione della proprietà, cit., pp. 87-126; L. Izzo, La finanza pubblica nel primo decennio dell’unità italiana, Milano 1962, pp. 74-93; A. Bogge, M. Sibona, La vendita dell’asse ecclesiastico in Piemonte dal 1867 al 1916, Milano 1987, pp. 23-25, 82-101.
20 G. D’Amelio, Stato e Chiesa, cit., pp. 428-574, 598-604, docc. 149-168, 176; C. Mirabelli, I progetti parlamentari di soppressione degli enti regolari e di riforma dei patrimoni ecclesiastici (1864-1867), in La legislazione, cit., pp. 451-476; L. Spinelli, Diritto ecclesiastico, Torino 1976, pp. 135-139; M. Petroncelli, Diritto ecclesiastico, Napoli 1977, pp. 26-27, 183; A. Bogge, M. Sibona, La vendita dell’asse, cit., pp. 39-57, 66-81.
21 G. Zalin, Per la storia dell’asse ecclesiastico e della sua liquidazione: i primi provvedimenti nella provincia scaligera, in Cattolici e liberali veneti di fronte al problema temporalistico e alla questione romana, a cura di E. Reato, Vicenza 1972, pp. 415-433; A. Bogge, M. Sibona, La vendita dell’asse, cit., pp. 148-197, 223-280; A. Colombo, Ragioni ed effetti, cit., pp. 20-22.
22 Nuove funzionalità, a cura di A. Varni, cit. (in partic. A. Gioli, Chiese e conventi: politiche e pratiche di riutilizzo, pp. 46-60; M. Canella, Firenze: i conventi, la città e l’amministrazione della giustizia, pp. 115-130).
23 Esercito e città dall’Unità agli anni Trenta, Atti del Convegno nazionale di studi (Spoleto 1988), II, Roma 1989 (in partic. R. Balzani, Esercito e amministrazione locale a Forlì nell’età della destra: scelte urbanistiche e spirito municipalistico, pp. 677-690; M. Tosti, S. Magliani, L’insediamento dell’esercito a Perugia e il suo impatto con la società e il patrimonio architettonico-artistico, pp. 943-977); M. Foschi, Forlì: il riuso militare dei conventi, in Nuove funzionalità, cit., pp. 89-100.
24 N. Barrella, Napoli: gli edifici sacri riutilizzati per l’industria e per il commercio nell’attività degli organi periferici di tutela (1860-1900), in Nuove funzionalità, cit., pp. 177-188.
25 C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica 1870-1876. Il trasferimento della capitale e la soppressione delle corporazioni religiose, Roma 1996; P. Picardi, Roma, segni del nuovo potere: dai conventi ai ministeri. Il patrimonio artistico delle corporazioni religiose soppresse tra tutela e dispersione, in Nuove funzionalità, cit., pp. 153-76.
26 A. Gioli, Chiese e conventi, cit., pp. 60-65.
27 P. Picardi, Roma, segni, cit., pp. 155-171.
28 M. Bencivenni, R. Dalla Negra, P. Grifoni, Monumenti e istituzioni, I, La nascita del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1860-1890, Firenze 1987; A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione. Inventario dei “Beni delle corporazioni religiose” 1860-1890, Roma 1997; R. Astorri, Leggi eversive, soppressione delle corporazioni religiose e beni culturali, in La memoria silenziosa. Formazione, tutela e status giuridico degli archivi monastici nei monumenti nazionali, Roma 2000, pp. 41-69; A. Gioli, Chiese e conventi, cit., pp. 57-58, 69-73.
29 La terza Roma. Lo sviluppo urbanistico, edilizio e tecnico di Roma capitale, a cura di S. De Paolis, A. Ravaglioli, Roma 1971; R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, cit., pp. 185-205.
30 L. Pagnoni, L’arte sacra a Bergamo dalla fine ’800 all’inizio ’900, in Cultura e spiritualità in Bergamo nel tempo di papa Giovanni XXIII, Atti del Convegno di studio (Bergamo 1981), Bergamo 1983, pp. 415-427. Va notato che in 25 anni il vescovo Guindani consacrò 55 chiese; G. Fusari, L’arte sacra, in A servizio del vangelo. Il cammino storico dell’evangelizzazione a Brescia, III, L’età contemporanea, a cura di M. Taccolini, Brescia 2005, pp. 315-331; Storia della Chiesa di Ivrea in epoca contemporanea, cit. (in partic. W. Canavesio, L’architettura sacra nella diocesi di Ivrea nell’Ottocento, pp. 469-486; G. Montanari, L’architettura sacra nella diocesi di Ivrea nel Novecento, pp. 487-503).
31 G. Martina, s.v. Italia. Gli istituti religiosi in Italia dalla Restaurazione alla fine dell’800, in Diz. Ist. Perf., V, 1978, coll. 217-233; G. Rocca, Riorganizzazione e sviluppo degli istituti religiosi in Italia dalla soppressione del 1866 a Pio XII, in Problemi di storia della Chiesa dal Vaticano I al Vaticano II, Roma 1988, pp. 239-294; Id., Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in Clero e società nell’Italia contemporanea, Bari 1992, pp. 207-256; A. Colombo, Ragioni ed effetti, cit., pp. 23-34.
32 L’opera salesiana dal 1880 al 1922, I, Contesti, quadri generali, interpretazioni, a cura di F. Motto, Roma 2001 (in partic. S. Sarti, Evoluzione e tipologia delle opere salesiane (1880-1922), pp. 107-118; E. Rosanna, Estensione e tipologia delle opere delle Figlie di Maria Ausiliatrice, pp. 151-177; L. Caimi, Gli oratori salesiani in Italia dal 1888 al 1921, pp. 199-229).
33 R. Roccia, «Spendersi senza risparmio». L’azione salesiana nelle nuove periferie di Torino fra Otto e Novecento, in L’opera salesiana dal 1880 al 1922, II, Esperienze particolari in Europa, Africa, Asia, a cura di F. Motto, Roma 2001, pp. 11-32; M. Leva Pistoi, Le chiese di don Bosco nel contesto dell’architettura torinese dell’Ottocento, in Torino e don Bosco, Torino 1989.
34 G. Barzaghi, Significato della presenza dell’opera salesiana a Milano (1894-1915), in Insediamenti e iniziative salesiane dopo don Bosco, a cura di F. Motto, Roma 1996, pp. 563-571; G. Rossi, L’istruzione professionale in Roma capitale. Le scuole professionali dei salesiani al Castro Pretorio (1883-1930), ivi, pp. 63-99; M. Grechi, G. Scalisi, Il Tempio internazionale del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio, Roma 1987.
35 R. Gabetti, Tante, una Gerusalemme: Ottocento e Novecento a Torino, in R. Gabetti, G. Varaldo, Comunità, chiese, culture, Torino 2001, pp. 16-18.
36 W. Canavesio, La cattedrale di Ivrea nell’Ottocento, in Il nuovo volto. Architetture ed edilizia nel Canavese dell’Ottocento, a cura di W. Canavesio, Ivrea 1996, pp. 385-448; Id., L’architettura sacra, cit., pp. 477-480.
37 R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, cit., pp. 103-106, 115-123.
38 Sacro e Liberty. 1908-2008. Un secolo di storia, arte e devozione, a cura di R. Giorgi, Milano 2008.
39 L. Pagnoni, L’arte sacra, cit., p. 421.
40 G. Muratore, Architetti romani del Novecento nella metamorfosi dello spazio sacro, in S. Mavilio, Guida all’architettura sacra. Roma 1945-2005, Milano 2006, p. 13.
41 Novara e Antonelli, a cura di C. Gavinelli, Novara 1975; R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, cit., pp. 126-135; W. Canavesio, L’architettura sacra, cit., pp. 482-483.
42 R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, cit., pp. 117-118, 122-123.
43 E. Godoli, Architettura e città, cit., pp. 1179-1183; E. Gottarelli, Urbanistica e architettura a Bologna agli esordi dell’unità d’Italia, Bologna 1978.
44 R. De Fusco, L’architettura dell’Ottocento, cit., pp. 107-113; T. Verdon, L’arte cristiana in Italia. III, Età moderna e contemporanea, Cinisello Balsamo 2008, pp. 198, 200-203.
45 T. Verdon, L’arte cristiana, cit., pp. 212-121.
46 G. Fusari, L’arte sacra, cit., p. 324.
47 R. Giorgi, La devozione al Sacro Cuore di Gesù e la diffusione di una iconografia divenuta assai popolare, in Sacro e Liberty, cit., pp. 51-89.
48 R. Bounous, M. Lecchi, I templi delle valli valdesi, Torino 1988; R. Paganotto, La vicenda del tempio valdese di Torino e i suoi protagonisti, «Boll. Soc. di studi valdesi», 166, 1990, pp. 35-48; M. Leva Pistoi, Le chiese, cit., p. 315.
49 F. Rosso, Alessandro Antonelli e la mole di Torino, Torino 1977.
50 A.M. Racheli, Architettura e architetti delle sinagoghe italiane del periodo eclettico, in Italia Judaica, Atti del I Convegno internazionale (Bari 1981), Roma 1983, pp. 483-497.
51 M. Petroncelli, La “deputatio ad cultum publicum”. Contributo alla dottrina canonica degli edifici pubblici di culto, Milano 1937; Id., Il patrimonio ecclesiastico, I, Milano 1940; Id., Diritto ecclesiastico, cit., pp. 144-185, 204-217; G. Leziroli, Gli edifici di culto tra storia, politica e diritto, I, Linee di sviluppo, Ferrara 1984; P.G. Caron, Corso di storia, cit., pp. 251-255; V. Tozzi, Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, Salerno 1990, pp. 66-109.
52 M. Petroncelli, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 175-177; V. Tozzi, Gli edifici, cit., pp. 133-166.
53 T. Verdon, L’arte cristiana, cit., pp. 254-259; V. Sanson, Architettura sacra nel Novecento. Esperienze, ricerche e dibattiti, Padova 2008, pp. 27-28.
54 Giovanni Muzio. Architetture francescane, a cura di G. Mezzanotte, Milano 1976; C. De Carli, Le chiese di Giovanni Muzio, «Arte cristiana», 696, 1983, pp. 166-186; F. Irace, Un linguaggio per la società ecclesiale: architetture religiose, in F. Irace, Giovanni Muzio 1893-1982, Milano 1994, pp. 203-230.
55 G. Della Longa, L’architettura di chiese in Italia nel XX secolo, in Architettura e liturgia nel Novecento. Esperienze europee a confronto, Atti del II Convegno internazionale (Venezia 2004), a cura di G. Della Longa, A. Marchesi, M. Valdinoci, Rovereto 2005, pp. 97-99.
56 Si. Benedetti, Significative realizzazioni di opere religiose a Roma negli anni tra le due guerre, in L’architettura nelle città italiane del XX secolo dagli anni Venti agli anni Ottanta, a cura di V. Franchetti Pardo, Milano 2003, pp. 183-184; S. Mavilio, Guida all’architettura, cit., pp. 70-71.
57 G. Montanari, Giuseppe Momo ingegnere architetto. La ricerca di una nuova tradizione tra Torino e Roma, Torino 2000.
58 Si. Benedetti, Significative realizzazioni, cit., pp. 187-188; G. Muratore, Architetti romani, cit., pp. 14-16.
59 G. Muratore, Architetti romani, cit., pp. 17-18; Mavilio, Guida all’architettura, cit., pp. 115, 135-136, 158-159, 178, 212-213, 233.
60 A. Belluzzi, C. Conforti, Lo spazio sacro nell’architettura di Giovanni Michelucci, Torino 1987; Sa. Benedetti, L’architettura delle chiese contemporanee. Il caso italiano, Milano 2000, pp. 15-40.
61 L’arte e l’ideale. La tradizione cristiana nell’opera di Cesare Cattaneo e Mario Radice, a cura di L. Caramel, Milano 1988.
62 Sa. Benedetti, L’architettura delle chiese, cit., pp. 19-55; V. Sanson, Architettura sacra, cit., pp. 29-50; T. Verdon, L’arte cristiana, cit., pp. 338-347; A. Crippa, Architettura sacra a Milano, in Chiesa e quartiere. Storia di una rivista e di un movimento per l’architettura a Bologna, a cura di Gl. Gresleri, M.B. Bettazzi, Gi. Gresleri, Bologna 2004, pp. 96-103; W. Zahner, Kirchenbau in 20. Jahrhundert in Deutschland, in Architettura e liturgia, cit., pp. 41-67.
63 Il duomo di Crema, a cura di L. Ceserani Ermentini, Cremona 1989, pp. 38-55.
64 F. Bracco, E. Irace, La memoria e l’immagine. Aspetti della cultura umbra tra Otto e Novecento, in St.It.,. Le regioni. L’Umbria, a cura di R. Covino, G. Gallo, Torino 1989, pp. 621-622, 650-658.
65 V. Sanson, Architettura sacra, cit., pp. 23-27; T. Verdon, L’arte cristiana, cit., pp. 233-254; C. De Carli, Arti figurative, in T. Verdon, L’arte cristiana, cit., pp. 266-272; sui dibattiti degli anni Trenta cfr. M. Apa, Don Giuseppe De Luca e l’arte sacra, in Don Giuseppe De Luca e la cultura italiana del Novecento, Roma 2001, pp. 279-325.
66 C. De Carli, Arti figurative, cit., pp. 272-288.
67 La costituzione sulla sacra liturgia, a cura di A. Favale, Torino 1968.
68 Sa. Benedetti, L’architettura delle chiese, pp. 61-62; F. Debuyst, Chiese. Arte, architettura, liturgia dal 1920 al 2000, Milano 2003, pp. 73-78; V. Sanson, Architettura sacra, pp. 65-81.
69 G. Fallani, Prefazione a Orientamenti dell’arte sacra dopo il Vaticano II, a cura di G. Fallani, Bergamo 1969, pp. 5-9; P.L. Nervi, Problemi dell’architettura sacra, in Orientamenti, ibidem, pp.138-145.
70 M. Pellegrino, Rinnovamento liturgico e disposizione delle chiese, in Orientamenti, cit., pp. 223-245.
71 G. Della Longa, L’adeguamento delle chiese e l’illuminazione artificiale, in L’edificio cristiano. Architettura e liturgia, a cura di V. Sanson, Padova 2004, pp. 117 segg.
72 A. Niero, Il card. Roncalli e l’arte sacra, in Cultura e spiritualità, cit., pp. 373-413.
73 E. Brivio, L’azione per le nuove chiese, in GB. Montini arcivescovo, a cura di A. Majo, Milano 1983, pp. 183-208; Le nuove chiese della diocesi di Milano 1945-1993, a cura di C. De Carli, Milano 1994; P.V. Begni Redona, Paolo VI, l’arte e gli artisti: la continuità di un pensiero, in Paolo VI una luce per l’arte, a cura di E. Brivio, Milano 1998, pp. 15-24; G. Colombo, A. Ferrari, G.B. Montini, I. Schuster, Discorsi sull’arte, a cura di L. Crivelli, Milano 2005, pp. 9-11, 85-131; C. De Carli, Arti figurative, cit., pp. 273-280; V. Sanson, Architettura sacra, cit., pp. 58-61.
74 Dieci anni di architettura sacra in Italia 1945-1955, a cura di L. Gherardi, P.L. Giordani, L. Lullini et al., Bologna 1956; Gi. Gresleri, Modernità, tradizione, arcaicità al I Congresso nazionale di architettura sacra 1955, in Gl. Gresleri, Chiesa e quartiere, cit., pp. 50-89.
75 Gi. Gresleri, Gl. Gresleri, Alvar Aalto. La chiesa di Riola, Bologna 2004; Gl. Gresleri, M.B. Bettazzi, Gi. Gresleri, Chiesa e quartiere, cit. (in partic. Gl. Gresleri, «Dove Dio cerca casa». Lercaro, la conquista dei terreni e la qualificazione della periferia, pp. 16-29; A. Pedrazzini, Architettura e città nell’Italia del dopoguerra. Il caso di Bologna, pp. 30-37; M.B. Bettazzi, Millenovecentocinquantacinque. L’esordio del movimento bolognese per l’architettura moderna, pp. 38-48; M. Apa, La questione dell’arte in «Chiesa e quartiere», pp. 134-156; Gl. Gresleri, Programma culturale e strumenti operativi, pp. 122-125; Id., Entro il movimento europeo. Il Centro di studi, pp. 160-171; Id., L’architettura del Centro studi e la radicalità del Moderno, pp. 174-197); V. Sanson, Architettura sacra, cit., pp. 51-58; C. Manenti, Luoghi del sacro e spazi del vivere, «Il Regno» 55/6, 2010, pp. 196-206; G. Santi, Architettura per la chiesa contemporanea, ivi, pp. 206-210, poi in La città di Lercaro, a cura di C. Manenti, Bologna 2010.
76 G. Lercaro, La chiesa nella città di domani, in G. Lercaro, La chiesa nella città. Discorsi e interventi sull’architettura sacra, Cinisello Balsamo 1996, pp. 139-151.
77 Ibidem, pp. 242-245.
78 V. Sanson, Architettura sacra, cit., p. 77.
79 G. Santi, Introduzione a Chiese...a regola d’arte. L’adeguamento dei luoghi di culto secondo la liturgia del Vaticano II, Padova 2008, pp. 11-13.
80 Chiese…a regola, cit. (in partic. G. Caputo, L’adeguamento liturgico delle chiese come problema di conservazione, pp. 5-7; G. Della Longa, A. Marchesi, Adeguamento delle chiese-cattedrali alla riforma liturgica: le ricerche, pp. 73-82).
81 Beni culturali e interessi religiosi, Atti del Convegno di studi (Napoli 1981), Napoli 1983, in partic. R. Bertolino, Nuova legislazione canonica e beni culturali ecclesiali, pp. 99-165; S. Lariccia, Interesse della Repubblica e interesse delle confessioni religiose in tema di tutela del patrimonio storico e artistico, pp. 317-323; Beni culturali di interesse religioso, a cura di G. Feliciani, Bologna 1995 (in partic. F. Merusi, Beni culturali, esigenze religiose e art. 9 della Costituzione, pp. 21-28; G. Pastori, L’art. 12 dell’accordo 18 febbraio 1984 nel quadro dell’ordinamento giuridico italiano, pp. 29-40; C. Cardia, Tutela e valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso tra stato e chiesa cattolica, pp. 55-75; G. Feliciani, Normativa della Conferenza episcopale italiana e beni culturali di interesse religioso, pp. 129-45); G. Feliciani, I beni culturali ecclesiastici. Dall’accordo di revisione del concordato lateranense alla recente Intesa, «Vita e pensiero», 80, 1997, pp. 493-507; C. Azzimonti, I beni culturali ecclesiali nell’ordinamento canonico e in quello concordatario italiano, Bologna 2001, pp. 111-365.
82 Cfr. P. Bellini, Un patrimonio a rischio. Note poco liete sulla collaborazione con la Chiesa in fatto di cose d’arte e antichità, «Il tetto», 192, 1995, pp. 437-454.
83 R. Codello, La tutela degli edifici di culto a Venezia, in Chiese...a regola d’arte, cit., pp. 45-48.
84 C. Mirabelli, I musei diocesani di arte sacra, in Beni culturali, cit., pp. 201-210; E. Giacomini Miari, P. Mariani, Musei religiosi in Italia, Milano 2005.
85 C. De Carli, Arti figurative, cit., pp. 288-313; CEI, Spirito creatore. Proposte e suggerimenti per promuovere la pastorale degli artisti e dell’arte,1998. Sull’arte sacra dopo il concilio cfr. anche C. Chenis, Fondamenti teorici dell’arte sacra. Magistero post-conciliare, Roma 1991.
86 A. Crippa, L’architettura postconciliare in Italia. Un caso nella diocesi di Milano, in L’architettura sacra oggi, Atti del Congresso internazionale di Pescara, Rimini 1990, pp. 200-205; Sa. Benedetti, L’architettura delle chiese, pp. 61-81; Gl. Gresleri, Architettura e liturgia: cent’anni per una sinergia, in Segni del 9cento. Architettura e arti per la liturgia in Italia, Roma 2001; G. Della Longa, L’architettura di chiese, cit., pp. 106-109; V. Sanson, Architettura sacra, cit., pp. 92-106.
87 R. Gabetti, Chiese del nostro tempo. Come costruirle, come rinnovarle, Torino 2000; Sa. Benedetti, L’architettura delle chiese, cit., pp. 82-85; S. Pace, L. Reinerio, Architettura per la liturgia. Opere di Gabetti e Isola, Milano 2005; V. Sanson, Architettura sacra, pp. 111-123; T. Scalesse, Architettura, in T. Verdon, L’arte cristiana, cit., pp. 352-357.
88 Architettura religiosa. Spazio e comunicazione, Atti del Convegno, a cura di P. Biscottini, E. Derossi, Monza 1983; Parole e linguaggio dell’architettura religiosa 1963-1983, a cura di Gi. Gresleri, Faenza 1983.
89 Lo spazio eloquente. Architettura sacra nel Triveneto 1963-1986, Pordenone 1987 (in partic. Sa. Benedetti, Complessità e significati dell’architettura sacra del dopo-concilio, pp. 41 segg., poi in Id, Architettura sacra oggi. Evento e progetto, Roma 1995, pp. 111-135); Progettare lo spazio sacro. Giornate dell’arte sacra 1988-1989, Verona 1990, (in partic. Gl. Gresleri, Il progetto del sacro, pp. 7 segg.; Id., Valenza e trascendenza del segno architettonico, pp. 73 segg.; V. Sanson, Architettura sacra, cit., pp. 148-201).
90 L’architettura sacra oggi, cit.; Quarta biennale d’arte sacra. La crocifissione, Pescara 1990; Architettura e spazio sacro nella modernità, a cura di P. Gennaro, Milano 1992; UCAI, Profezia di bellezza. Arte sacra tra memoria e progetto. Pittura scultura architettura 1945-1995, Villanova 1996; L’arte per il culto nel contesto post-conciliare, a cura di C. Chenis, 2 voll., San Gabriele 1998-1999; Architettura e arti per la liturgia, a cura di E. Carr, Roma 2001; Lo spazio sacro. Architettura e liturgia, a cura di V. Sanson, Padova 2002; L’edificio cristiano, a cura di V. Sanson, cit.; Gl. Gresleri, Architettura e liturgia, cit.; Chiese...a regola d’arte, cit.; V. Sanson, Architettura sacra, cit., pp. 209-228, 305-344.
91 Sa. Benedetti, L’architettura delle chiese, cit., pp. 93-100; G. Della Longa, L’architettura di chiese, cit., p. 109; G. Arosio, Chiese nuove verso il terzo millennio. Diocesi di Milano 1985-2000, Milano 2000; Mario Botta. Architetture del sacro, catalogo della mostra (Firenze), Bologna 2005.
92 G. Santi, C. Baglione, Nuove chiese italiane. Ventidue progetti per nuove chiese commissionati dalla CEI, Milano 1999; G. Santi, G. Crespi, Nuove chiese italiane due. Ventisei progetti per nuove chiese commissionati dalla Conferenza Episcopale Italiana, Milano 2000; G. Santi, C. Baglione, Nuove chiese italiane tre. Ventiquattro progetti per nuove chiese commissionati dalla Conferenza episcopale italiana, Milano 2001; G. Della Longa, L’architettura di chiese, cit., pp. 109-110; T. Scalesse, Architettura, cit., pp. 357-381.