L'edilizia
Per edilizia s'intende anzitutto un complesso di strumenti materiali, tecnici ed economici indispensabili per la realizzazione di costruzioni destinate a rispondere a molteplici bisogni dell'uomo: dargli una casa, un riparo, un posto dove lavorare, dove pregare, dove partecipare ad attività culturali e sociali nonché soddisfare l'aspirazione alla bellezza e al prestigio.
Ma l'edilizia si annovera altresì - accanto all'agricoltura, all'allevamento e alla produzione del vestiario - fra le attività produttive dell'uomo, essendo un importante ramo dell'industria. L'approccio all'edilizia può fondarsi quindi su categorie economiche quali la domanda e l'offerta (1).
Tuttavia, l'edilizia si discosta chiaramente, almeno nel periodo preindustriale, da tutti gli altri settori dell'industria. Innanzitutto per la sua stretta dipendenza dal mercato locale, soprattutto da quello delle materie prime, della manodopera e dello smercio. Per ovvi motivi, in un'epoca precedente le ferrovie e la diffusione dei mezzi di trasporto di massa, l'edilizia doveva sfruttare risorse locali di materie prime, almeno per quanto riguarda i materiali da costruzione (2). Per quest'aspetto, Venezia si trovava in una situazione particolare, non potendo, per motivi di geografia naturale, avvalersi di materie prime utili all'edilizia (neanche l'acqua marina, assai salifera, poteva utilizzarsi nella preparazione della calcina); tutti i materiali necessari dovevano essere quindi fatti arrivare da fuori. Tale trasporto risultava facilitato dall'ubicazione geografica della città che, bagnata dal mare e poco distante da tre fiumi navigabili come l'Adige, il Brenta e il Piave, riusciva ad abbassare i costi del rifornimento di materiali edili. Tuttavia lo sviluppo dell'edilizia e l'intensificazione del movimento edile erano a Venezia strettamente legati alla possibilità di rifornirsi di materie prime.
La manodopera attiva nell'edilizia proveniva a volte dall'esterno o veniva utilizzata all'esterno. Abbiamo vari esempi (ce li fornisce la stessa storia di Venezia in epoca medioevale e nel Rinascimento) di interi gruppi di lavoratori, ovvero anche di singoli specialisti, fatti venire da luoghi anche assai distanti, e viceversa di lavoratori inviati per lavori edili fuori città. Mai tuttavia si cessò di utilizzare la manodopera locale, specializzata e non. Lo sviluppo dipendeva quindi dalla situazione che regnava nel mercato del lavoro locale, su cui peraltro le oscillazioni della congiuntura nell'edilizia si riflettevano in maniera assai forte.
I prodotti dell'edilizia potevano destinarsi unicamente al mercato locale, non prestandosi affatto all'esportazione. Lo sviluppo dell'edilizia dipendeva quindi dalla ricettività di quel mercato che non poteva travalicare. L'edilizia rispecchiava fedelmente la domanda e le risorse degli investitori.
Il ciclo produttivo durava tuttavia più a lungo, nell'edilizia, che non in altri settori produttivi. Si dilungava per mesi, anni, decine di anni, e nel caso di particolari costruzioni monumentali anche per alcuni secoli. La dipendenza della produzione edile dalla congiuntura economica e le condizioni in cui versava il mercato locale non si manifestavano in maniera così diretta e violenta come in altri settori della produzione industriale. Su tale stato di cose influivano altresì alcune peculiarità degli investimenti edili. La produzione non si limitava, infatti, a soddisfare in modo diretto alcuni bisogni dell'uomo, ma veniva individuata anche come scelta di tesaurizzazione (assomigliando, in quanto tale, ad alcuni settori di produzione di generi voluttuari), come strumento speculativo (potendo suscitare crescite congiunturali o almeno attutire sintomi di crisi, creando nuovi posti di lavoro e possibilità per l'investimento dei capitali). I prodotti dell'edilizia non soddisfacevano solo i bisogni materiali dell'uomo, ma anche le sue esigenze spirituali, assurgendo al rango di opere d'arte e integrando la cultura artistica di tutta la società. Servivano inoltre al prestigio di singoli, gruppi sociali, città e repubbliche (3). Tale complesso rapporto fra lo sviluppo dell'edilizia e lo stato dell'economia faceva sì che lunghi cicli di movimenti edili non combaciassero con cicli di congiuntura economica. La congiuntura nell'edilizia poteva coesistere con periodi di stasi economica (4).
In ultimo, la produzione edile era, per ampiezza, di gran lunga superiore a quella raggiunta da qualsiasi altro settore di produzione industriale, con l'unica eccezione, forse, dei cantieri navali. Qualsiasi costruzione, anche di dimensioni limitate, comportava l'assunzione di un numero di artigiani superiore a quello che raccoglievano anche le più grandi officine, e per di più doveva trattarsi di lavoratori di varie specialità. Tutto ciò influiva sull'organizzazione del lavoro e sulla struttura di un'officina edile.
Da un punto di vista più tecnico, l'edilizia era assai conservativa. Le tecniche di produzione della ceramica edile (mattoni, tegole) nonché dell'estrazione e della lavorazione della pietra si conservarono immutate, sin dall'antichità per tutto il periodo medioevale (5). Anche i metodi di costruzione delle mura rimanevano identici. Gli archi acuti, che avevano rivoluzionato l'edilizia europea nel periodo gotico, avevano ceduto il passo, nel periodo rinascimentale, a soluzioni tratte dalla tradizione antica. Si terrà conto, d'altronde, che nella Venezia del Quattrocento si andavano innalzando, accanto a precorritrici costruzioni in stile rinascimentale, eccellenti opere di architettura gotica (6). La tecnica edile non poteva quindi stimolare modifiche nell'organizzazione di lavoro delle officine edili, neppure per quanto riguardava i preventivi dei costi di produzione.
Nei ricchi archivi di Venezia non sono riuscito a trovare indizi sufficienti per calcolare con precisione l'intensità del movimento edile a Venezia nel periodo rinascimentale. Tuttavia, l'elenco cronologico degli edifici veneti, approntato da O. Mothes, dimostra che si trattò del periodo di più intensa attività edilizia in tutta la storia della Repubblica di S. Marco. In questo elenco si hanno 206 edifici costruiti entro la fine del Duecento, 109 del Trecento e addirittura 241 del Quattrocento e 423 del Cinquecento; nel Seicento si registrano soltanto 137 edifici, nel Settecento 99 (7). Questo elenco è incompleto, ma prendendo in considerazione che è, in linea di massima, ugualmente impreciso per tutti i secoli, possiamo ritenere che più della metà degli edifici che vi sono registrati furono costruiti nel periodo rinascimentale, che qui particolarmente ci interessa (8).
Alcune informazioni sul movimento edile a Venezia possono trarsi dalle stime d'immobili fatte per motivi fiscali. Si sono conservati i catasti del 1425 e del 1469 (9). Nel catasto del 1425 si riferiscono inoltre i dati relativi a una stima vecchia, probabilmente di 30-50 anni anteriore e pertanto relativa agli sgoccioli del Trecento o all'inizio del Quattrocento.
In questo modo disponiamo di tre stime immobiliari: la prima risale agli ultimi anni del Trecento o ai primi del Quattrocento (non è possibile datarla con precisione), la seconda è del 1425 e la terza del 1469. Il raffronto fra questi tre elenchi permette di farsi un'idea sulla crescita del valore degli immobili a Venezia durante il Quattrocento, e vale la pena di riflettere se indirettamente questi dati non gettino un po' di luce sullo sviluppo dell'edilizia in quel periodo.
Il catasto del 1425 e quello più vecchio, allegato al primo, sono particolarmente precisi, indicando il valore degli immobili di ogni parrocchia. Purtroppo non si sono conservati gli originali di queste stime che conosciamo soltanto per il tramite della Cronaca di Donato Contarini, peraltro pienamente attendibile. Parimenti, per il tramite di una cronaca conosciamo i risultati della stima del 1469; la Cronaca Alberegna però - perché di questa si tratta - è meno particolareggiata riguardo le stime riferendosi ad interi quartieri, non suddivisi in parrocchie. Ambedue le fonti meritano tuttavia fiducia, come anche il modo in cui il catasto venne fatto, e quindi anche i risultati delle stime. Sul metodo di compilazione del catasto nel 1469 troviamo notizie esaurienti in tre delibere del senato del 13 agosto 1457, del 31 maggio 1459 e del 20 giugno 1460 (10). La stima dovette essere calcolata da otto savi eletti: Augustinus Coppo, Franciscus Chaucho, Marcus Capello, Angelus Michael, Paulus Maripetro, Jeronimus Vallaresso, Daniel de Pridis, Dominicus Trivisano. A questi furono aggiunti due scribi e sei esperti scelti fra muratori e falegnami. A tutti furono offerti lauti compensi (ai savi 100 ducati, agli scribi 50, agli esperti 40). Fu loro vietato di sottoporre a stima immobili propri ovvero appartenenti a parenti e affini. In tal modo s'intese assicurare la perizia delle stime e bandire gli abusi. Conoscendo l'efficienza dell'amministrazione veneta del Quattrocento si può supporre che il catasto venne eseguito con competenza e riuscì a rispecchiare la realtà. Forse con meno precisione, ma con uguale diligenza, vennero eseguiti i catasti precedenti (11).
Non sappiamo, tuttavia, se tutt'e tre le stime furono eseguite secondo criteri identici, e quindi se sono paragonabili. Non sappiamo neppure se la crescita del valore degli immobili risultò da un reale aumento del valore degli edifici, o se fu generata da una modifica dei criteri di stima. La crescita del valore nominale poté essere causata da vari motivi: dall'aumento della rendita sulle terre municipali, dai cambiamenti del valore del denaro, dall'aumento dei prezzi dei materiali edili e del costo del lavoro ecc., non dovendo necessariamente derivare da lavori edili, dalla costruzione di case nuove o da migliorie apportate a quelle già esistenti. Questi ultimi dubbi vengono in parte dissipati da una delibera del senato in cui si precisano i motivi che inducevano a eseguire le stime. Nella delibera del 13 agosto 1457 si afferma infatti che occorre eseguire un nuovo catasto, poiché le vecchie stime risultano ormai parzialmente superate, in quanto "multe earum [domorum] maxime aucte sunt et multe de novo constructe" (12).
Nella delibera del 31 maggio 1459 si afferma, a spiegazione dell'ordine di procedere a una stima, quanto segue: "perché algune son invechiade e ruinade, algune per legati e vendede in altri trasferide, assaissime da nuovo reformade e fabricade, e de aque e paludi, orti et terreni vachui in amplissime habitacion et optime possession convertide" (13). Compilando l'elenco si prendeva quindi in considerazione l'allargamento della città, la costruzione di case nuove, la ristrutturazione di quelle vecchie, la trasformazione in edificabili di terreni fino ad allora privi di edifici. Non v'è dubbio quindi che i catasti rispecchiavano in qualche modo il movimento edile in corso.
Le differenze fra il valore degli immobili che traspaiono dai catasti derivano in parte dalla svalutazione del solido. Le differenze sono comunque superiori alla svalutazione: fra il 1425 e il 1469 il valore del solido rispetto al ducato d'oro diminuì del 14% circa, mentre il valore degli immobili crebbe in tutta Venezia del 25% (vedi Tab. 1) (14). Indubbiamente gli indici dell'intensificazione del movimento edile dovrebbero essere decurtati del tasso di svalutazione, purtroppo difficilmente precisabile, poiché l'impatto di quest'ultima sui diversi fattori che determinavano il prezzo degli immobili fu diseguale e non sempre risulta facilmente afferrabile (15).
Le fonti fiscali in questione prendono in considerazione soltanto gli immobili tassati, tralasciando quindi le chiese che nel quadro generale dell'edilizia veneta occupavano un posto importante. I catasti non differenziavano inoltre gli edifici, rendendo quindi arduo il compito di operare una distinzione fra i palazzi e i caseggiati ad affitto e gli edifici adibiti a fini economici (magazzini, officine). A Venezia, anzitutto per motivi legati all'ambiente naturale e alle limitate possibilità di estendere la città, non c'era una distinzione netta in quartieri poveri e ricchi, in quartieri commerciali, industriali e residenziali. I palazzi confinavano con semplici caseggiati. A differenza di altre città italiane, quali Firenze, Genova, Bologna, Lucca, S. Gimignano, i patrizi veneti non tendevano a formare isole residenziali separate dal resto della città, i loro palazzi erano sparsi un po' dappertutto. La città acquistava pertanto in omogeneità, ma per la stessa ragione nei catasti è assai difficile separare complessi di immobili della povera gente dalle proprietà dei ricchi (16).
Nonostante queste obiezioni, i catasti restano una fonte preziosa per la storia dell'edilizia. Lo sviluppo vi si rispecchia sicuramente, anche se non siamo in grado di appurare in quale misura. Quegli indizi che riusciamo a trarne vengono tuttavia confermati da altre fonti e ciò ci permette di asserire che i dati contenuti nei catasti offrono spunti validi per una panoramica sulle tendenze e la dinamica dello sviluppo dell'edilizia a Venezia.
Un raffronto fra i tre catasti (Tab. 1) dimostra che il movimento a Venezia dalla fine del Trecento al 1469 fu molto intenso. Il valore degli immobili tassati crebbe del 56%. Anche se soltanto una parte di tale crescita fosse stata motivata da ampliamenti, l'intensificazione edile continuerebbe ad apparirci imponente. Lo confermano le opinioni di storici dell'urbanistica che notano che proprio nel Quattrocento si pose termine all'ampliamento di Venezia, avendo già occupato con costruzioni tutti i terreni adatti e liquidato quel che restava di piazze e giardini liberi da edifici (17). La pianta di Venezia attribuita a Jacopo de' Barbari e risalente al 1500 circa non lascia dubbi sul fatto che alla fine del Quattrocento la concentrazione di edifici fosse a Venezia molto intensa.
Il movimento edile non era del tutto omogeneo, alcuni quartieri ampliandosi più celermente di altri. Il valore degli immobili crebbe sensibilmente, all'inizio del Quattrocento, nelle parrocchie di S. Pietro di Castello, S. Giovanni in Bragora, S. Martin, S. Severo, S. Lio (sestiere Castello), S. Maria Maddalena, S. Marcuola, S. Lucia (sestiere Cannaregio), S. Simeone Profeta, S. Simone Apostolo, S. Croce (sestiere S. Croce), S. Margherita (sestiere Dorsoduro) (18), cioè nei quartieri che fino a quel momento avevano dimostrato una struttura urbanistica certamente non intensa. Assai poco, invece, crebbe il valore degli immobili nei quartieri che vantavano un'urbanistica compatta di vecchia data, come ad esempio S. Marco, SS. Apostoli, S. Giovanni di Rialto. Anche questo concorderebbe con le osservazioni degli storici dell'urbanistica che sottolineano come nel Tre-Quattrocento si ampliassero i quartieri di Castello e Cannaregio e di parrocchie con una popolazione povera, come S. Margherita e S. Lio. Questa constatazione ci rafforzerebbe nel convincimento che effettivamente lo sviluppo dell'edilizia veniva rispecchiato con sufficiente chiarezza nei catasti fiscali.
I dati presentati nella Tab. 1 permettono di osservare una certa differenziazione cronologica nell'intensificazione del movimento edilizio. Alcuni quartieri si ampliavano con maggior intensità all'inizio del Quattrocento, altri invece fra il 1425 e il 1469. Ma nonostante questa differenziazione territoriale e cronologica il movimento edilizio in tutto il periodo di nostro interesse dimostra un'omogeneità assai forte e una linea di sviluppo ben marcata. È assai indicativo che sia fra la fine del XIV secolo e il 1425, sia fra il 1425 e il 1469 l'indice di crescita (125) è tale e quale per tutta Venezia, il che svela uno sviluppo senza distorsioni. Ovviamente il periodo in oggetto è troppo breve (abbracciando meno di un secolo) e le nostre osservazioni si fondano su dati non sufficientemente precisi perché conclusioni generali di soddisfacente veridicità risultino possibili. Lo sviluppo dell'edilizia non poteva infatti essere soggetto a oscillazioni violente. Gli investimenti edilizi comportavano trasferimenti di capitali assai lenti, i lavori edili erano soliti durare molto e, data la loro ampiezza, mobilitare mezzi di varia sorta: per tutte queste ragioni lo sviluppo dell'edilizia non
poteva essere soggetto a cambiamenti bruschi e non reagiva a crisi passeggere o a simili periodi di alta congiuntura.
Con ogni probabilità nella seconda metà del XV secolo questo sviluppo cominciò a infrangersi. Lo dimostrerebbe la caduta dei prezzi dei materiali edili e degli stipendi dei lavoratori del settore nel 1460 circa. Nel 1455 l'abate Paruta dell'abbazia di S. Gregorio stipulò un contratto con il muratore Antonio da Cremona per la ristrutturazione della chiesa di S. Gregorio. Nel 1461 ebbe inizio una lunga vertenza fra l'abate e il muratore sull'abbassamento del compenso che l'abate riteneva imporsi dato il calo dei costi dei materiali e della manodopera (19).
A uno sviluppo intenso dell'edilizia dovette corrispondere una fioritura delle professioni edili. Ciò era tanto più indispensabile perché gli artigiani edili veneti dovevano rispondere alle esigenze tanto della metropoli quanto dei suoi territori d'oltremare. Molti fra architetti e costruttori veneti risultavano altresì attivi in città vicine come Padova, Verona, Treviso, e anche a Bologna, Bergamo (20). Gli artigiani dovettero quindi essere numerosi e ben preparati, svolgendo un'attività di largo respiro. L'edilizia fu, nella Venezia del Rinascimento, una branca industriale di notevole importanza economica.
Fra le fondamenta dello sviluppo di questo settore produttivo v'era l'approvvigionamento in Venezia di materiali edili. Questo problema merita un'attenzione particolare.
L'acquisto di materiali edili e in particolare il loro trasporto, assorbiva una buona parte dei costi ed era foriero di problemi per i responsabili dei lavori. La capacità di acquistare materie prime influiva sulla situazione economica e sociale dei maestri nonché sulla loro attività e possibilità di estendere la produzione e di dar vita a imprese più grandi.
Venezia conosceva tutti i problemi dell'epoca legati all'approvvigionamento di materiali edili, vale a dire la mancanza di tali materiali, la loro qualità spesso scadente, i problemi di trasporto ecc. Il fenomeno aveva inoltre un altro aspetto, connesso all'insolita ubicazione geografica, che comportava per Venezia difficoltà ulteriori nell'approvvigionamento in materie prime, determinandone altresì la struttura. Dei quattro materiali edili fondamentali: pietra, ceramica (mattoni, tegole), legno, calcina (calce, sabbia), a Venezia dominava il legno, utilizzato in quantità enormi per lo scheletro edilizio e per il rafforzamento del suolo per le fondazioni (21). La contabilità della costruzione di Ca' Giustinian (S. Moisè) del 1477-1478 dà, per quanto riguarda i costi dei materiali edili, il quadro seguente (22): pietra 10%; mattoni e tegole 32%; legno 43%; calce, sabbia e acqua 15%.
All'approvvigionamento di materiali edili a Venezia erano legati i lavoratori associati in consorterie particolari, come quella dei fornaciai, addetti anche alla cottura della calce, dei calcineri o venditori di calce, dei sabioneri o sablonarii, dei mercanti di legname, dei padroni e conduttori di burchielle, dei numeratori e portatori di mattoni e pietre. Alcune di queste professioni si trasformarono in campi di produzione a parte, come quella delle mattonaie.
Tutti i materiali edili si dovevano trasportare a Venezia. Si utilizzava ovviamente l'economico trasporto marittimo e fluviale. Il legname veniva fatto arrivare dalle pendici meridionali delle Alpi e fluitato per l'Adige, il Brenta e il Piave. In quantità particolarmente rilevanti il legname veniva trasportato dal Cadore (23). Di solito il legname non scarseggiava e ci si poteva permettere di destinarlo in parte all'esportazione (24), anche se nel Quattrocento, a causa del potenziamento della flotta veneta e di un intenso movimento edile cominciò a farsi sentire una certa mancanza di questo materiale (25). La pietra da costruzione veniva trasportata per mare dall'Istria (26). Gli scalpellini di Venezia intrattenevano rapporti costanti con le cave di pietra istriane, di cui talvolta erano proprietari, e vi si recavano personalmente per acquistare pietre di buona qualità (27). La pietra istriana era bianca. Quella rosa veniva invece acquistata a Verona (28). Mattoni e calce si trasportavano dalla Terraferma, spesso da località alquanto distanti come Padova o Treviso (29). Le fornaci da calce e da mattoni si trovavano anche nella stessa Venezia (30), ma la produzione locale non era sufficiente. Una fornace da mattone poteva infatti produrre 50 mila mattoni all'anno circa (31). Le esigenze dell'edilizia veneta non venivano pertanto soddisfatte. I tentativi di ovviare a tale situazione per il tramite di divieti contro l'esportazione di mattoni, ovvero di una politica di protezione degli imprenditori disposti a fondare mattonaie nuove, non producevano risultati soddisfacenti (32). Anche il trasporto della sabbia veniva regolamentato da disposizioni di vario genere, anzitutto per motivi legati a una forte domanda di sabbia per i pozzi-cisterne di Venezia. All'estrazione della sabbia furono adibiti luoghi particolari (S. Erasmo), e del trasporto si occupavano sablonarii riuniti in un'apposita consorteria (33).
L'approvvigionamento di materiali edili era ben distinto dai lavori edili veri e propri, e pertanto dell'acquisto e del trasporto non dovevano occuparsi né gli scalpellini, né i muratori occupati in un cantiere. Ciò era anche proibito. Nello statuto dei falegnami si legge: "Item magister aliquis istius artis non audeat nec pressumat aliquod ordinamentum cum aliquo venditore lignaminis facere, nec societatem facere vel compagniam ad emendum illorum lignamina pro laborerio quod ad laborandum susceperit" (34). Probabilmente si cercava di evitare che gli artigiani edili potessero costruire per conto proprio e di mantenerli subordinati al commissionario investitore. Si cercava inoltre di non dar loro troppa libertà d'azione, di non rendere possibile l'ampliamento di officine e rendere improbabile che si dedicassero alla speculazione, vendendo materiali edili (il che, in condizioni di endemica mancanza, non poteva mai essere del tutto escluso). Ad ogni modo tale decisa separazione degli artigiani edili dal trasporto di materiali era un tratto peculiare delle Arti edificative di Venezia, distinguendole nettamente dalle altre Arti dove di solito gli addetti si potevano rifornire da sé dei materiali indispensabili. L'approvvigionamento di materiali edili rientrava invece nei compiti dell'investitore capocantiere (35).
Questo principio veniva rispettato con tale assiduità che la mancanza di materiali edili autorizzava i muratori a interrompere il lavoro e a trasferirsi in un altro cantiere, il che al di fuori di tale circostanza era severamente proibito (36). L'unica eccezione era costituita dall'approvvigionamento di pietre, acquistate direttamente dagli scalpellini, poiché l'acquisto di questa materia prima esigeva una valutazione esperta della sua qualità e utilità per un dato tipo di lavoro (37).
La separazione del rifornimento di materiali edili dai lavori edili veri e propri costituiva una forma di divisione del lavoro nel cantiere e poteva rendere più efficienti i lavori in corso. Ma d'altra parte la separazione degli artigiani dalle fonti di acquisto dei materiali restringeva la libertà di azione di muratori e falegnami, impedendo loro di svolgere lavori per conto proprio, e disturbava la nascita di più articolate officine edili. Le capacità produttive di un'officina, anche ampliata, non potevano infatti rafforzarsi senza la possibilità di rifornirsi autonomamente di materie prime.
Per i lavori edili era indispensabile raccogliere numerosi artigiani specializzati e operai semplici, e instaurare un rapporto di collaborazione fra diversi specialisti: muratori, scalpellini, falegnami, fabbri, vetrai ecc. Anche in occasione di una piccola costruzione si doveva assumere un gruppo numeroso di lavoratori, e vi sono anche esempi di cantieri che riunivano alle volte centinaia e anche migliaia di operai (38).
Nei cantieri edili della Venezia del Rinascimento lavoravano in contemporanea moltissimi lavoratori. Al cantiere della Ca' d'Oro furono legati, fra il 1425 e il 1439, 64 artigiani che conosciamo per nome: 7 muratori, 40 scalpellini, 10 falegnami, 2 pittori, 2 fabbri, 1 vetraio e 2 terrazzieri. Nel 1425 lavoravano alla Ca' d'Oro 20 scalpellini, 4 muratori, 2 falegnami e 1 fabbro per un totale di 27 artigiani. Nel 1426 continuavano a lavorarvi 20 scalpellini, diminuendo soltanto il numero di muratori e falegnami (39). Si tratta peraltro di stime al ribasso, poiché non tutti i lavoratori venivano, nella contabilità, identificati per nome e non tutti vi venivano in qualsiasi modo menzionati. La contabilità di Marino Contarini non era precisa e si limitava a riportare soltanto alcune spese, anzitutto i compensi per gli artigiani con i quali erano stati stipulati contratti. Alla costruzione di Ca' Giustinian (S. Moisè) lavorarono fra il 1477 e il 1478 1 muratore con 2 o 3 lavoranti, 4 scalpellini, 1 falegname (accompagnato probabilmente da lavoranti che nella contabilità non vengono però menzionati), 2 fabbri, 1 terrazziere: in totale almeno 11 persone (40).
Un numero così alto di lavoratori, di gran lunga superiore a quello dei dipendenti di una media officina artigianale dell'epoca, induce a pensare che l'organizzazione di un cantiere edile doveva differenziarsi da quella di altri settori produttivi. Si trattava di forme in qualche modo capitalistiche o precapitalistiche? Anzitutto occorre prendere in esame la struttura sociale delle Arti edificative, la struttura d'impiego dei lavoratori, il sistema remunerativo e anche i sistemi adottati dagli investitori per finanziare i lavori edili nonché la struttura delle spese.
Nel Rinascimento, tutti i settori di produzione industriale erano organizzati in Arti e Scuole. Le Arti venete non riuscirono mai ad assurgere a un'importanza politica di rilievo, a differenza di altre città italiane, mentre le autorità della Repubblica di S. Marco si prodigavano a controllare minuziosamente tutta la produzione artigianale. La loro struttura era quindi un elemento importante dell'organizzazione della edilizia veneta.
Membri delle Arti erano i maestri. I discepoli (pueri, discipuli, garzoni, fanti) vi venivano soltanto registrati. La posizione del maestro non era particolarmente privilegiata, né venivano posti ostacoli particolari per il conseguimento di questo grado. Dopo un periodo di apprendistato, di durata conforme a disposizioni statutarie (7 anni per i muratori (41), 5 per gli scalpellini (42), mentre non abbiamo ragguagli sull'analogo periodo per i falegnami), il garzone diventava maestro, a patto che si fosse iscritto all'Arte e alla Scuola e avesse provveduto a un versamento non eccessivo (43). Ogni garzone non soltanto poteva, ma persino doveva essere promosso, dopo il periodo prescritto, al grado di maestro. Nello statuto degli scalpellini troviamo questa disposizione: "Anchora volemo et ordenemo che cadaun garzon over fante scrito come haverano compido el suo tempo dai soi patroni over maestri e siano tenudi a prasentarsi al Gastaldo et compagni per far la sua ben intrada. Et similmente li soi patroni siano obligati dir al gastaldo como esso garzon ha compido et questo in pena di libre X de pizoli" (44). L'accesso alla "maestria" non era ostacolato né da disposizioni sul capolavoro da compiere né da versamenti eccessivi. I figli dei maestri non erano privilegiati e dovevano subordinarsi alle stesse disposizioni sulla maestria, anzitutto per quanto riguardava la durata dell'apprendistato (45). Tale libero accesso all'artigianato dimostra che l'edilizia veneta viveva in quel periodo un momento di prosperità.
Per completare il quadro delle disposizioni venete in materia di apprendistato e della politica delle autorità per quanto attiene ai garzoni, vale la pena ricordare una ordinanza della giustizia vecchia del 1396, ripetuta nel 1402, relativa alla stipulazione di contratti sull'insegnamento dell'arte (46). Ambedue le ordinanze proibivano di definire qualsiasi contratto sull'insegnamento dell'arte senza che la giustizia vecchia ne fosse a conoscenza, e ciò al fine di permettere a quell'ufficio di prevenire la stipulazione di contratti che danneggiassero gli apprendisti, innanzitutto a causa di compensi ingiustamente decurtati. Questa ordinanza, riferentesi a tutte le Arti sottoposte alla giustizia vecchia, concerneva ovviamente anche le Arti edificative. Un'ordinanza in tal senso fu emanata ancora nel 1444 (47).
Le ordinanze suddette perseguivano lo scopo di limitare lo sfruttamento dei garzoni da parte dei maestri e di prevenire di conseguenza tensioni sociali, ma anche di impedire ai maestri di arricchirsi oltre misura e acquisire una posizione troppo indipendente. Si trattava di uno fra i tanti sistemi di divieti e ordini che tendevano a limitare la libertà d'azione degli artigiani veneti e privarli della possibilità di conquistare patrimoni ingenti e una posizione autonoma. Diventati troppo ricchi, gli artigiani avrebbero potuto insidiare l'incontrastato potere del patriziato di Venezia. Ecco perché le autorità erano così attaccate al principio di eguaglianza all'interno delle Arti e si opponevano a che un qualsiasi maestro riuscisse a sovrastare i colleghi. Una buona parte degli statuti era sempre dedicata a disposizioni sull'elezione di gastaldi e officiali e sulle loro competenze (48). Queste disposizioni assicuravano un'assoluta libertà di scelta e anzitutto proibivano di rieleggere le stesse persone, per impedire, ovviamente, agli anziani di ritagliarsi nell'Arte una posizione di privilegio (49).
Ma anche ordinanze e statuti particolarmente precisi non erano in grado di instaurare e mantenere una situazione di eguaglianza fra gli artigiani, specie in presenza di fattori economici che spingevano visibilmente in senso contrario. Il 13 giugno 1407 la giustizia vecchia emanò un'ordinanza oltremodo interessante. Con essa s'introdusse nello statuto degli scalpellini, quale § 49, una disposizione relativa al numero di garzoni che un maestro poteva tenere. Vi leggiamo che: "L'è cosa condegna et laudabile che cadauno si debia viver cum el so mestier, ma el se vol cerchar de farlo cum men dano del compagno che sia possibile et più presto cerchar de farlo cum comodo et utilità del mestier e de la povertà che sia possibile, et perché se die cercar de obviar ali inconvenienti pono intravegnir essendo introducta una corruptela per li patroni et maestri de botega del nostro mesier che i toleno constar cum loro scripti ala Justisia Vecchia chi 4, chi 6, chi 10 fanti li quali fano li lavori non con quelle debite circustantie che se richiede et qualche volta fano lavori non sufficienti in modo tal che l'è necessario a refudarli in dano de quelli che fano far i diti lavori la qual cosa torna in dano de li nostri poveri lavoranti che viveno ala zornata et per esser in dano de la università e da proveder, pero l'anderà parte che mette ser Lorenzo de Vielino gastaldo et compagni ala banca che alcun patron over maestro de botega de cetero non puossi tuor né haver più de tre fanti scripti cum loro ala Justisia Vecchia oltra li fradelli e li fioli et questo soto pena de ducati 15" (50). Abbiamo qui a che fare con un ennesimo tentativo di contrastare la tendenza all'ingrandimento di officine di scalpellini e la concorrenza fra i membri della stessa Arte. In passato le disposizioni non si peritavano di stabilire quanti garzoni potesse avere un maestro, limitandosi a dichiarare l'obbligo di registrazione (51). Tuttavia andava da sé che un maestro non poteva assumere un numero eccessivo di garzoni senza infrangere il principio di eguaglianza fra i membri di un'Arte e di controllo della produzione. Fino a quando il movimento edilizio era scarso e la domanda di scalpellini limitata, non era possibile aumentare la produzione e nessun maestro scalpellino poteva permetterselo. Nel Trecento, con l'intensificazione dei lavori edili, e poi nel Rinascimento, tali possibilità cessarono di mancare e - come dimostra l'ordinanza di cui sopra - cominciarono ad apparire officine di scalpellini con più di 10 lavoratori (prendendo in considerazione non soltanto apprendisti e garzoni, ma anche figli e parenti dei maestri). Un'officina con più di 10 dipendenti cominciava ad essere un'impresa di tutto rispetto e il maestro che ne stava a capo aveva ormai i requisiti di un imprenditore che doveva disporre di un capitale che permettesse una produzione su larga scala.
Che tali officine, con più di 10 dipendenti, non dovessero considerarsi un fenomeno del tutto insolito, è confermato da una nuova disposizione, del 1509, che ribadiva l'obbligo di registrare i garzoni presso l'autorità dell'Arte e il divieto di mantenere più di 3 garzoni alla volta (52). Se ne deduce che l'ordinanza precedente, quella del 1407, non veniva rispettata e per tutto il Quattrocento erano esistite officine con più di 10 dipendenti. La maestranza, oltre che da garzoni, era composta anche da figli e parenti del maestro. Per di più non si trattava soltanto di gente di casa, ma anche di persone che raggiungevano l'officina da fuori: "in caxa over fuor de caxa ma che vegnisseno a lavorar cum loro". È questo un esempio del passaggio dall'officina artigianale di tipo tradizionale a un'impresa di più ampie dimensioni con un rilevante numero di lavoratori salariati.
Nell'ordinanza del 1407 merita attenzione l'espressione "patroni et maestri" (53). Non si trattava soltanto di due titoli attribuiti, secondo il gusto, al maestro artigiano: patrono e maestro sono due figure diverse. È noto: in altre Arti legate all'edilizia, per esempio nella produzione di mattoni, v'erano patroni che erano proprietari di mattonaie e nel contempo imprenditori che davano lavoro a numerosi dipendenti. Il patrono, di per sé, non doveva essere un artigiano, poteva anche essere un benestante, che senza partecipare alla produzione forniva il capitale d'avviamento per un lavoro cui partecipavano per conto loro anche operai (54). Rapporti simili potevano probabilmente riscontrarsi nella produzione della pietra. I patroni che vengono menzionati nell'ordinanza del 1407 potevano quindi essere imprenditori che avevano investito capitali nella produzione ed erano datori di lavoro di alcuni o anche più di 10 dipendenti, costituendo in tal modo un'impresa attiva nel settore della lavorazione della pietra.
Suscita attenzione che tale sistema di "patronato" s'instaurasse proprio nell'industria della lavorazione della pietra e dei mattoni, e cioè in due Arti legate all'edilizia che esigevano investimenti piuttosto ingenti per poter affrontare la necessità di adoperare strutture produttive come le fornaci da mattone, i capannoni per l'essiccazione dei mattoni ovvero per poter sostenere i costi d'acquisto di materie prime come la pietra.
Discorrendo del problema delle Arti abbiamo finora tralasciato di affrontare quello più specifico dei lavoranti. Effettivamente i lavoranti non hanno ricoperto un ruolo di particolare importanza. Li vediamo nelle contabilità edili, ma gli statuti delle Arti non ne fanno cenno. Il lavorante non appariva come figura d'obbligo fra l'apprendista e il maestro. Soltanto nello statuto degli scalpellini si dedica loro qualche attenzione in più, ma esclusivamente a quelli che lavorassero da artigiani autonomi, dirigendo cantieri edili e a volte anche con garzoni al loro seguito (55). Quei lavoranti, che in buona sostanza erano artigiani indipendenti, senza però godere del titolo di maestri e pertanto della possibilità di entrare a pieno titolo nell'Arte, davano vita a un fenomeno ben conosciuto in molti centri artigianali dell'epoca (56), ma alquanto insolito per l'artigianato veneto. Mi sembra che lo si possa spiegare di nuovo con la peculiarità della professione di scalpellino che esigeva un discreto capitale per poter avviare un'officina (l'acquisto della materia prima); ecco perché non ogni apprendista poteva permettersi, ultimato l'apprendistato, di diventare maestro e aprire un cantiere.
Finora abbiamo fondato la nostra analisi delle Arti edificative venete soltanto sulle fonti normative: gli statuti delle Arti e le ordinanze delle autorità. Sulla reale struttura dell'Arte e sul quotidiano del lavoro in un cantiere edile troviamo invece indizi importanti nei contratti stipulati con artigiani edili, nelle fatture, negli atti giudiziari riferentisi alle vertenze in questioni edili nonché nei testamenti dei muratori, scalpellini e falegnami.
Un investitore aveva due mezzi per assumere artigiani edili: la locazione a giornata e il contratto per l'esecuzione di un dato lavoro. Nella terminologia degli statuti: "ad diem", "ad precium de die", e "supra se". In ambedue i casi occorreva stipulare il contratto, nella locazione a giornata concordando soltanto l'ammontare del compenso per ogni giorno di lavoro, mentre nel contratto per l'esecuzione di un dato lavoro veniva anche precisato con dovizia di particolari quali lavori edili dovessero essere fatti. Disponiamo di molti contratti del genere, con prevalenza dei secondi. La forma è svariatissima: si parte da documenti compilati da notai, conformi alla legge e con abbondanza di clausole aggiuntive, a garanzia dell'adempimento del contratto (pene pattizie, a volte assai ingenti) (57), per arrivare a semplici appunti scritti in quaderni utilizzati per la contabilità corrente (58). L'obbligo di stipulare contratti gravava sugli artigiani (59). In caso di mancanza di un apposito contratto, che doveva stipularsi prima dell'inizio dei lavori, l'artigiano perdeva la facoltà di avanzare qualsiasi pretesa nei confronti del datore di lavoro e doveva accontentarsi di quel che questi si degnava di offrirgli. Se l'artigiano si sentiva danneggiato, poteva quindi esperire la via giudiziaria soltanto in presenza di un contratto formale (60).
Tale sistema di stipulazione dei contratti svela una certa subordinazione degli artigiani al datore di lavoro, cioè all'investitore che aveva grandi possibilità di sfruttare l'artigiano. Soltanto quest'ultimo era poi obbligato a stipulare il contratto, mentre sul datore di lavoro quest'obbligo non gravava. La stipulazione del contratto, legata a costi e formalità, poteva creare problemi a un artigiano che pertanto risultava meno restio ad accettare le condizioni impostegli dal datore di lavoro. L'obbligo statutario di stipulare contratti fu introdotto per contenere il numero di vertenze fra datori di lavoro e artigiani aventi per oggetto l'ammontare del compenso; emanando tali disposizioni, le autorità venete intendevano quindi prevenire le tensioni che da tali vertenze giudiziarie sempre potevano scaturire.
Un altro paragrafo degli stessi statuti proibiva di lavorare presso persone che non avessero pagato il dovuto compenso ad uno dei membri dell'Arte (61). Non dovevano quindi essere stati rari i casi in cui un datore di lavoro non solo decurtava le remunerazioni degli artigiani edili, ma perfino non voleva pagar loro alcunché. Oltre alla volontà di evitare fastidiose vertenze fra artigiani edili e investitori (anzitutto commercianti abbienti che stavano costruendosi una casa), in queste disposizioni s'intravede la tendenza a mantenere la solidarietà e l'eguaglianza fra i membri dell'Arte, e a limitare la concorrenza fra gli appartenenti alla stessa corporazione.
L'investitore stipulava il contratto con i singoli maestri. Il maestro non rappresentava soltanto se stesso, ma anche i suoi garzoni, lavoranti, aiutanti, in una parola tutta la sua officina (62). In verità negli statuti si trova anche un accenno, assai poco chiaro, alla possibilità che anche i lavoranti stipulino contratti (63), ma nella prassi tali contratti non sembrano esistere. Il maestro si impegnava ad eseguire entro un termine stabilito tutti i lavori menzionati nel contratto "suis propriis expensibus, sumptibus et laboribus" (64). Il maestro si comportava in qualche modo da imprenditore, ma con facoltà assai limitate (65). Anzitutto non poteva disporre di materie prime. Ad eccezione degli scalpellini, gli artigiani edili non potevano acquistare materie prime per conto proprio (vedi sopra), probabilmente non avevano neanche capitali sufficienti per acquisti del genere. Nei contratti si sottolinea di solito che i materiali edili saranno forniti dall'investitore (66). In secondo luogo i maestri comandavano uno sparuto gruppo di dipendenti. In contratti e fatture non si menzionano, nella stragrande maggioranza dei casi, più di 2-3 garzoni per ogni maestro, spesso accompagnato soltanto da un solo aiutante (67). Nella già ricordata ordinanza del 1407 dei giustizieri vecchi si proibisce ai maestri di assumere più di 4, 6 o 10 garzoni: ma casi del genere dovevano essere assai rari. L'ordinanza fu ripetuta nel 1509 probabilmente per contrastare una tendenza diffusa in una cerchia assai ristretta di maestri e non un fenomeno realmente diffuso.
Ogni maestro stipulava con l'investitore un contratto particolare per l'esecuzione di un dato lavoro e con i suoi garzoni, dipendenti e aiutanti dava vita quindi a un'unità produttiva particolare, a un'officina separata dalle altre. I contratti non permettevano di dividere il lavoro fra più officine o di unire più officine individuali in un'impresa edile di più ampia dimensione.
Tentativi di costituire imprese edili più grandi possono scorgersi laddove fra l'investitore e i singoli maestri v'erano i capicantiere, o maestri con compiti di controllo ecc. Soltanto questi ultimi potevano infatti prestarsi al ruolo di imprenditori. Li intravediamo però soltanto nei grandi cantieri, in occasione di costruzioni pubbliche su larga scala.
Il muratore Matio Amadio, attivo nel Quattrocento nella costruzione della Ca' d'Oro e reputato responsabile dei lavori (68), si limitava a controllare il corso di questi ultimi e non era certo un imprenditore. Tutti i contratti con scalpellini, muratori, falegnami e altri artigiani venivano stipulati personalmente dall'investitore Marino Contarini. Soltanto in alcuni casi si credeva opportuno sottolineare che gli artigiani avrebbero lavorato sotto la direzione di Matio Amadio (69).
In alcune costruzioni pubbliche più grandi - come quella del palazzo Ducale, o di chiese, cioè laddove il ruolo di investitore non spettava a un privato bensì allo stato, a una corporazione, a un istituto o gruppo di persone, ovvero laddove per qualche motivo questi non poteva o non voleva dirigere i lavori in corso - si facevano avanti i responsabili dei lavori. Sostituivano l'investitore, svolgendo compiti amministrativi, occupandosi dei rapporti con i lavoratori a locazione, versando compensi, acquistando materiali edili, curando la compatibilità e nel contempo avendo cura, e anche dirigendo, i lavori edili. La funzione di amministratore è assai difficilmente separabile da quella di direttore dei lavori edili (70).
Il provveditore del palazzo Ducale, eletto nel senato nel 1485, si limitava ad amministrare i lavori edili (71). Il ruolo del celebre architetto e scultore Antonio Rizzo era invece differente. Rizzo, che verso la fine del XV secolo diresse i lavori di ampliamento del palazzo Ducale, portava il titolo di proto di palazzo, attribuito anche a Bartolomeo Bon e poi a Pietro Lombardo. Tutt'e tre erano progettisti e direttori di lavori edili, ma avevano anche alcuni compiti amministrativi (72). A dispetto di assai larghe competenze, erano soltanto dei funzionari salariati che agivano a nome dell'investitore e pare pertanto difficile chiamarli col nome di imprenditori edili.
Nel 1433 la Scuola grande di S. Marco istituì un ufficio particolare, di provveditore sopra la Fabbrica, con il compito di ispezionare tutte le questioni legate ai lavori edili avviati dalla Scuola: si pensava all'acquisto di materie prime, al versamento di compensi, ma anche all'approvazione di progetti architettonici (73).
Il modo in cui venivano reclutati i lavoratori salariati e la consuetudine di stipulare con loro contratti si rispecchiava nel sistema remunerativo. Il salario per tutti gli appartenenti all'officina menzionati nel contratto veniva consegnato di solito al maestro. Nella maggioranza dei casi si disponeva in questo modo nel contratto e nelle fatture (74). Succedeva però, e non raramente, che il maestro fosse pagato separatamente dai suoi collaboratori (75). Ai due sistemi di lavoro a giornata e per l'esecuzione di una data opera corrispondevano i sistemi remunerativi ad essi relativi. Potrebbe sembrare che il secondo dei due desse qualche possibilità di costituire imprese edili. Un maestro, che stipulasse contratti per le esecuzioni di lavori in cambio di un compenso da trasmettere nelle sue mani, avrebbe potuto essere un imprenditore con un buon numero di dipendenti da retribuire per conto proprio. Nella maggioranza dei casi però i contratti precisano quali dipendenti siano abilitati a percepire un compenso. È inoltre facilmente verificabile che l'ammontare della remunerazione per l'esecuzione del lavoro corrispondeva alla somma dei compensi a giornata. Se infatti Zane Bon, conformemente a quanto pattuito nel 1422 nel contratto con Marino Contarini (76), doveva ricevere per un anno di lavoro, svolto assieme al figlio e 2 garzoni, una remunerazione di 140 ducati, il suo compenso per giornata ammontava a 45 solidi circa e non si discostava da quelli reperibili nella contabilità del cantiere della Ca' d'Oro. Il compenso veniva di solito elargito una volta alla settimana, nell'ultimo giorno di lavoro settimanale, ma a volte anche il venerdì o il lunedì della settimana successiva; nelle fonti si menzionano anche le domeniche, ma si tratta di date relative all'annotazione e non al versamento. Oltre ai compensi a giornata, una volta la settimana venivano altresì pagate le rate di remunerazioni che si adeguavano al modello "a pezzo" (77).
Le retribuzioni degli artigiani edili veneti erano assai differenziate, ma nel tempo non subivano cambiamenti di rilievo (78). Paghe di scalpellini e muratori per 32 solidi al giorno sono comprovate per il 1402 e il 1425, e anche per il 1431 e il 1435, e ancora per il 1455. Soltanto dopo quest'ultima data comincia a manifestarsi una tendenza al ribasso e negli anni seguenti ci si imbatte unicamente in salari inferiori, peraltro non del tutto assenti in anni precedenti (79). La già menzionata vertenza fra l'abate di S. Gregorio e il muratore Antonio da Cremona sembrerebbe dimostrare che effettivamente fra il 1455 e il 1461 a Venezia si fosse manifestata una certa riduzione dei guadagni dei lavoratori edili. Non possiamo purtroppo mettere a confronto i salari di muratori, scalpellini e falegnami con il costo della vita a Venezia, e quindi misurare il loro valore reale. Dobbiamo limitarci a osservare che per tutto il Quattrocento il solido subiva un'incessante svalutazione, che colpiva anche le remunerazioni, pur se queste rimanevano nominalmente immutate.
Come si è già detto, la paga del maestro comprendeva di solito anche quella dei garzoni, il che però veniva ogni volta sottolineato sia nel contratto che nelle fatture. La remunerazione non teneva invece conto, in genere, dei costi del materiale e degli strumenti di lavoro che venivano messi a disposizione dall'investitore. Il sistema remunerativo nell'edilizia si discostava pertanto sensibilmente da quello vigente in altre Arti medioevali. Gli artigiani edili di Venezia venivano retribuiti in moneta, la retribuzione in natura non veniva adottata. L'unica eccezione era costituita dal vino che l'investitore s'impegnava a fornire a proprie spese agli operai del cantiere (80). Si trattava peraltro più di un approvvigionamento in bibite che di remunerazione in natura e la quantità era piuttosto ridotta. Tanto il sistema di locazione degli operai che quello contrattuale, nonché i sistemi retributivi, escludono uno sviluppo di grandi imprese edili, in quel periodo, a Venezia. Nelle Arti edili la piccola officina di un singolo maestro continuava a fungere da forma produttiva più diffusa.
Nelle officine edili, di cui si è detto sopra, erano occupati di solito 3-4 lavoratori (maestro, 2 o 3 fra garzoni e dipendenti, figli e parenti inclusi). Se in un cantiere edile potevano incontrarsi più artigiani edili alla volta, ciò era dovuto all'attività di alcune piccole officine (di muratori, falegnami e scalpellini), legate con l'investitore da contratti distinti e dedite a un lavoro ben definito. Fra di esse non v'era né subordinazione né divisione del lavoro. Sebbene disponiamo di qualche accenno a officine edili più grandi, non abbiamo nessun indizio per sostenere che si trattasse di un fenomeno diffuso.
La mancanza di imprese del genere - a dispetto dell'assai favorevole congiuntura edile che regnava a Venezia nel Quattro e Cinquecento - è facilmente comprensibile. Il loro sviluppo era ostacolato sia da fattori economici che da fattori sociali e costituzionali. La creazione di un'impresa non sarebbe stata possibile senza un capitale di riguardo: sia per pagare gli operai sia, e anzitutto, per acquistare le materie prime che costavano molto. Ma gli artigiani non ne avevano abbastanza, poiché erano di solito relativamente poveri, com'è comprovato dai loro testamenti (81). L'afflusso del capitale controllato dai commercianti era invece ostacolato dal fatto che gli investimenti edili comportavano una circolazione di capitale molto lenta e non permettevano di ricavare un profitto a breve termine. Si preferiva quindi piazzare questi capitali in altre imprese, nel commercio, nello strozzinaggio, nei cantieri navali, nel settore vetrario, nella produzione tessile, che offrivano profitti immediati, mentre l'edilizia non attirava capitali, se non quando altre scelte si fossero rivelate deludenti.
Tale situazione risulterà più comprensibile dopo una disamina dei costi edili dell'epoca. Le fonti a disposizione sono purtroppo scarse. Le fatture per lavori edili risalenti al Quattro e Cinquecento sono frammentarie e incomplete, e non menzionano quasi mai tutti i tipi di costi. Soltanto le fatture relative alla ristrutturazione di Ca' Giustinian (S. Moisè), datate 1477-1479 (82), sono sufficientemente precise e chiare per permettere un'analisi dei costi di produzione (Tab. 2). Si tratta di un raro esempio di fatture edili dell'epoca attente a ogni tipo di costi, relativi pertanto alla manodopera, alle spese per ogni tipo di materiale edile, ma anche al trasporto: non è stato purtroppo possibile distinguere questi ultimi dai costi dei materiali edili, poiché il loro prezzo comprendeva quasi sempre il trasporto fino al luogo di
destinazione (83). Occorre soltanto premettere che fra il 1477 e il 1479 si procedette unicamente a lavori di ristrutturazione e ampliamento di Ca' Giustinian, e quindi le fatture che abbiamo non sono tipiche delle costruzioni di case nuove. Per permettere un raffronto, nella tabella si riportano anche le spese sostenute fra il giugno e l'agosto del 1443 per la costruzione di un nuovo albergo presso la Scuola grande di S. Maria della Carità (84). Le fatture relative a quest'ultima costruzione non sono precise e pertanto il raffronto è lacunoso. Chi intendesse desumere da una base quantitativamente così modesta e qualitativamente incompleta conclusioni di carattere generale, dovrebbe - va da sé - osservare la massima cautela.
Ad ogni modo può affermarsi con certezza che il costo dei materiali edili costituiva una parte rilevante della spesa generale, superando sempre quello della manodopera. Nel caso della ristrutturazione di Ca' Giustinian i materiali edili comportarono quasi il 63% dei costi mentre, per quanto riguarda la costruzione della Scuola grande di S. Maria della Carità, si trattò del 73%. Tale struttura dei costi edili complicava ai maestri l'eventuale tentativo di trasformarsi in liberi imprenditori. Risultava infatti più facile ovviare ai costi di produzione, specialmente se il maestro poteva contare su un certo numero di apprendisti e dipendenti legati alla sua officina, cui non doveva elargire in anticipo alcun compenso; reperire capitali per l'acquisto di materie prime, da pagare in contanti prima di iniziare i lavori, sarebbe stato di gran lunga più difficile.
Infine, la legislazione veneta ostacolava la costituzione di officine edili di grandi dimensioni ed eventuali tentativi dei maestri di liberarsi dai vincoli artigianali. Prendeva le difese dei consumatori, in questo caso di ricchi commercianti che più di altri si servivano di artigiani edili. L'investitore preferiva trattare con un singolo produttore, peraltro economicamente assai debole, piuttosto che con un libero imprenditore. Anche il carattere stagionale dei lavori edili rendeva ulteriormente difficile la costituzione di imprese stabili: non si potevano infatti retribuire per un anno intero operai che avrebbero potuto rivelarsi attivi soltanto per un paio di mesi. Ci si disponeva pertanto a completare, per ogni stagione edile, la maestranza.
1. Cf. Richard A. Goldthwaite, The Building of Renaissance Florence. An Economic and Social History, Baltimore - London 19852, pp. XIII, 115-124.
2. Cf. Norman Davey, A History of Building Materials, London 1961; Andrzej Wyrobisz, Resources and Construction Materials in Preindustrial Europe, in Natural Resources in European History, a cura di Antoni Maczak - William N. Parker, Washington D.C. 1987, pp. 65-84.
3. Cf. Hellmut Lorenz, Überlegungen zum venezianischen Palastbau der Renaissance, "Zeitschrift für Kunstgeschichte", 43, 1980, nr. 1, pp. 33-53; Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985, pp. 3-23.
4. Cf. Roberto S. Lopez, Economie et architecture médiévales. Cela aurait-il tué ceci?, "Annales E.S.C.", 7, 1952, nr. 4, pp. 433-438; Paul M. Hohenberg - Lynn H. Lees, The Making of Urban Europe, 1000-1950, Cambridge, Mass. - London 1985, pp.
113-120, 343-344.
5. Brickwork in Italy. A Brief Review from Ancient to Modern Times, a cura di Gerhart C. Mars, Chicago 1925, pp. 47-48, 178-180; N. Davey, A History of Building Materials, pp. 76-84.
6. H. Lorenz, Überlegungen, pp. 35 ss.
7. Oskar Mothes, Geschichte der Baukunst und Bildhauerei Venedigs, Leipzig 1859-1860, pp. 377-406.
8. Cf. Luigi Angelini, Le opere in Venezia di Mauro Codussi, Milano 1945; Manfredo Tafuri, Jacopo Sansovino e l'architettura del '500 a Venezia, Padova 1969; Loredana Olivato Puppi - Lionello Puppi, Mauro Codussi, Milano 1977; John McAndrew, Venetian Architecture of the Early Renaissance, Cambridge, Mass. - London 1980; Ralph Lieberman, L'architettura del Rinascimento a Venezia 1450-1540, Firenze 1982; Donatella Calabi - Paolo Morachiello, Rialto: le fabbriche e il ponte 1514-1591, Torino 1987.
9. Bilanci generali della Repubblica di Venezia, a cura di Fabio Besta, Venezia 1912, nrr. 85 e 123, pp. 100-103, 148-150.
10. A.S.V., Senato Terra, reg. 4, cc. 48, 107, 146; Bilanci generali, nrr. 110, 112, 113, pp. 131-132, 133-134, 134-135.
11. Per la compilazione del catasto nell'anno 1425 cf. Bilanci generali, nr. 85, p. 100.
12. A.S.V., Senato Terra, reg. 4, C. 48; Bilanci generali, nr. 110, pp. 131-132.
13. A.S.V., Senato Terra, reg. 4, c. 107; Bilanci generali, nr. 112, pp. 133-134.
14. Niccolò Papadopoli, Le monete di Venezia, I, Venezia 1893, tav. II.
15. Andrzej Wyrobisz, L'attività edilizia a Venezia nel XIV e XV secolo, "Studi Veneziani", 7, 1965, p. 310 (pp. 307-343).
16. Cf. Egle R. Trincanato, Venezia minore, Milano 1948, cap. "L'urbanistica veneziana"; Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore - London 1987, cap. "Vicinanza and Amicizia. Neighborhoods and Patronage in Early Renaissance Venice".
17. Saverio Muratori, Studi per una operante storia urbana di Venezia, Roma 1959; Paolo Maretto, L'edilizia gotica veneziana, Roma 1960.
18. Si enumerano le parrocchie nelle quali il valore della costruzione è cresciuto di oltre il 50%.
19. Giuseppe Marzemin, Le abbazie veneziane dei ss. Ilario e Benedetto e di s. Gregorio, Venezia 1912, pp. 93-95.
20. Pietro Paoletti, L'architettura e la scultura del Rinascimento a Venezia, I, Venezia 1893, p. 50; L. Angelini, Le opere in Venezia, pp. 123-129.
21. Nella situazione particolare di Venezia, vale a dire in presenza di un suolo instabile e con possibilità di sfaldamento delle fondazioni, il legno, per lo scheletro edilizio, era assai più adatto che, per esempio, la pietra. Le fondazioni a Venezia potevano essere fatte solo in pali, e perciò occorreva una quantità enorme di legname. Cf. il contratto per la posa delle fondazioni della chiesa di S. Chiara a Murano nell'anno 1474, P. Paoletti, L'architettura, I, p. 92; Agostino Sagredo, Sulle consorterie delle arti edificative in Venezia, Venezia 1856, pp. 179 ss.; E.R. Trincanato, Venezia minore, pp. 101-114.
22. A.S.V., Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 115, XVII.
23. Ivi, Senato Terra, reg. 1, cc. 30, 40, 43; Bilanci generali, nr. 10, pp. 26-27; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia, Regesti, a cura di Riccardo Predelli, I, Venezia 1876, nr. 614, p. 138, nr. 433, pp. 264-265; II, nr. 365, pp. 61-62. Cf. anche sul rifornimento veneziano di legno Frederic C. Lane, Venetian Ships and Shipbuilders of the Renaissance, Baltimore 1934, p. 218; cf. lo statuto dei segatori §§ 4, 6, 7, 8, 11, 12, 13, 14, 16, in I Capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I-II, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1896-1905: II, pp. 4-7.
24. I libri commemoriali, I, nr. 242, p. 222; Le deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato). Serie "Mixtorum", I, a cura di Roberto Cessi - Paolo Sambin, Venezia 1960, nr. 201, p. 315.
25. F.C. Lane, Venetian Ships, p. 218.
26. I Capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, III, a cura di Enrico Besta, Roma 1914, p. 254, § 10: vi sono elencate cave di pietra a Pola, Parenzo e Rovigo. Ibid., pp. 262 ss., § 34, Si parla della pietra di Pola. Cf. A. Sagredo, Sulle consorterie, p. 298, § 39. Numerose note sulla pietra di Rovigo si trovano nei contratti con scalpellini, per es. P. Paoletti, L'architettura, I, pp. 40 n. 2, 3-4, 37; Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, ovvero serie di atti publici dal 1253 al 1797, a cura di Giambattista Lorenzi, I, Venezia 1868, nr. 225, p. 104.
27. A.S.V., Scuola Grande di Santa Maria della Carità, b. 227, nr. 104, c. 6; Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale, I, nr. 239, pp. 113 ss.; "Maistro Bertuzi taiapeitra [...] per andar in Istria [...] per trar piere vive"; P. Paoletti, L'architettura, I, p. 50 n. 1.
28. P. Paoletti, L'architettura, I, p. 3; Debra Pincus, The Arco Foscari: The Building of a Triumphal Gateway in Fifteenth-Century Venice, New York 1976, pp. 97-102.
29. A.S.V., Scuola Grande di Santa Maria della Carità, b. 227, nr. 104, cc. 4, 9; ivi, Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 53, VII; I Capitolari delle arti veneziane, I, nrr. 15 e 16, p. 225; nr. 25, p. 231.
30. Pare che le delibere del maggior consiglio dell'anno 1294 e del 1308, concernenti l'eliminazione dalla cinta urbana dei forni industriali che emanavano esalazioni nocive, non fossero eseguite o non riguardassero le fornaci di laterizi o di calce. Cf. Nicolò Spada, Leggi veneziane sulle industrie chimiche a tutela della salute pubblica dal secolo XIII al XVIII, "Archivio Veneto", ser. V, 7, 1930, p. 134 (pp. 125-156). In ogni caso nel 1317, nelle risoluzioni dello stesso maggior consiglio, si parla di una fornace della parrocchia di S. Gregorio (Dorsoduro) (I Capitolari delle arti veneziane, I, p. 215, nr. 5) e nel 1327 della creazione di due fornaci di laterizi ad uso dell'Arsenale nella parrocchia di S. Blasio (Castello), per la verità su terreni fino allora non utilizzati per costruzioni, ma immediatamente contigui a quartieri abitati.
31. Andrzej Wyrobisz, Umowa o zalozenie cegielni w Wenecji w 1233 roku [Un contratto veneziano del 1233 per l'impianto di una fornace di mattoni], "Studia z Dziejów Rzemiosla i Przemyslu", 6, 1966, p. 280o (pp. 268-281); R.A. Goldthwaite, The Building of Renaissance Florence, p. 185.
32. I Capitolari delle arti veneziane, I, nr. 2, p. 213; nr. 5, p. 215; nr. 6, p. 216; nr. 8, p. 217; nr. 11, p. 218; nr. 13, pp. 223-224; nrr. 15-17, pp. 225-226. Cf. A. Sagredo, Sulle consorterie, p. 29.
33. I Capitolari delle arti veneziane, III, p. 51, §§ 27 e 28.
34. Ibid., II, p. 170, § 6.
35. Questo è spesso notato nei contratti, per es. P. Paoletti, L'architettura, I, p. 5 n. 5; Gerolamo Biscaro, Note storico artistiche sulla cattedrale di Treviso, "Nuovo Archivio Veneto", 17, 1899, Documenti F, pp. 185-189; Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale, I, nr. 185, pp. 66 ss., nr. 209, p. 98. Cf. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 123-124.
36. Cf. lo statuto dei falegnami §§ 11, 54 e 64, in I Capitolari delle arti veneziane, II, pp. 173, 189 ss., 194. Lo statuto dei muratori §§ 1 e 42, ibid., pp. 283, 298.
37. Lo statuto degli scalpellini § 42, ibid., III, p. 264; A. Sagredo, Sulle consorterie, p. 299.
38. Martin S. Briggs, A Short History of the Building Crafts, Oxford 1925, p. 267; Douglas Knoop-gwilyn P. Jones, The Medioeval Mason. An Economic History of English Stone Building in the Later Middle Ages and Early Modern Times, Manchester 1949, p. 3; Pierre Du Colombier, Les chantiers des cathédrales, Paris 1953, p. 8; Andrzej Wyrobisz, Inwestycje i sila robocza w średniowiecznym budownictwie [Investimenti e mano d'opera nell'edilizia medioevale], in Spoleczeństwo - gospodarka - kultura, a cura di Stanislaw Herbst et al., Warszawa 1974, pp. 414 ss.; R.A. Goldthwaite, The Building of Renaissance Florence, pp. 122-123.
39. A.S.V., Procuratori di S. Marco, Misti, Commissaria privata Contarini Soradamor uxor Marini, b. 123a. Cf. la lista degli artigiani che costruivano la Ca' d'Oro nel lavoro di Pietro Paoletti, La Ca' d'Oro, "Venezia. Studi di Arte e Storia", 1, 1920, pp. 98 ss. (pp. 89-139), e di Id., L'architettura, I, pp. 20 ss.
40. A.S.V., Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 115,
XVII, Commissaria Francesco Giustinian.
41. I Capitolari delle arti veneziane, II, p. 294, § 31.
42. A. Sagredo, Sulle consorterie, p. 298, § 41.
43. I Capitolari delle arti veneziane, II, p. 287, § 10; III, p. 255, § 14.
44. A. Sagredo, Sulle consorterie, p. 304, § 51; I Capitolari delle arti veneziane, II, p. 187, § 44.
45. Cf. per es. lo statuto dei muratori, in I Capitolari delle arti veneziane, II, p. 296, § 37. Tutto ciò che sul tema dell'apprendistato e dell'accesso al grado di maestro ha scritto A. Sagredo (Sulle consorterie, pp. 52 ss.) non trova appoggio nelle fonti.
46. V. il testo in Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1855, pp. 389 ss.
47. A.S.V., Senato Terra, reg. I, c. 126r-v.
48. Nello statuto degli scalpellini, su diciassette punti otto concernono le competenze della autorità dell'Arte, I Capitolari delle arti veneziane, III, pp. 249-255. Sulla funzione del gastaldo cf. Giovanni Monticolo, L'Ufficio della Giustizia Vecchia a Vene-zia dalle origini sino al 1330, Venezia 1892, ovvero l'introduzione dello stesso a I Capitolari delle arti veneziane, II, pp. LXIV ss.
49. Caratteristico è il § 59 dello statuto degli scalpellini (in A. Sagredo, Sulle consorterie, p. 308): "A ciò che tutti li nostri fradeli habia parte de li honori et de le graveze di la nostra scuola. Landerà parte che decetero per adesso et per lavenir che haverà hauto officio de la nostra scuola debia star cinque anni in contumacia et non aver più officio".
50. A. Sagredo, Sulle consorterie, pp. 302 s.
51. Ibid., p. 298, § 41.
52. Ibid., p. 306, § 55.
53. Ibid., pp. 302-303, § 49; cf. ibid., p. 304, § 51.
54. Cf. lo statuto dei fornesarii, I Capitolari delle arti veneziane, I, pp. 69 ss., soprattutto p. 82 n. 1.
55. Lo statuto degli scalpellini, ibid., III, pp. 253-254, § 23; A. Sagredo, Sulle consorterie, pp. 303-304, § 50; p. 304, § 52; p. 306, § 55.
56. Cf. Bronislaw Geremek, Salariati e artigiani nella Parigi medievale, Firenze 19902, p. 50.
57. Vedi per es. il celebre contratto di Marino Contarini con Zane Bon per la costruzione della Ca' d'Oro, A.S.V., Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 269, Commissaria Marino Contarini, documento a parte; edito - ma non scrupolosamente - da P. Paoletti, L'architettura, I, p. 20; regesto in Bartolomeo Cecchetti, Nomi di pittori e lapicidi antichi, "Archivio Veneto", 33, 1887, p. 63 (pp. 43-65). Cf. anche Erice Rigoni, Notizie di scultori toscani a Padova nella prima metà del Quattrocento, ibid., ser. V, 6, 1929, p. 131 (pp. 118-136).
58. Molti di questi contratti semplificati si trovano nei conti per la costruzione della Ca' d'Oro, A.S.V., Procuratori di S. Marco, Misti, b. 123.
59. Statuto dei muratori §§ 45 e 54, I Capitolari delle arti veneziane, II, pp. 299, 303. Statuto dei falegnami §§ 58 e 66, ibid., pp. 191, 195.
60. Cf. per es. lo statuto dei muratori § 45, ibid., II, p. 299: "quod aliquis de dicta arte non debeat laborare alicui persone ad diem nec supra se, nisi primo fecerit pactum cum patrono, quid debet habere in die vel quid debet habere de laborerio, quod acceperit supra se ad laborandum. Et si aliquis contrafecerit, debeat habere solum id, quod placuerit patrono dare ei pro suo labore". Lo stesso nello statuto dei falegnami §§ 58 e 66, ibid., p. 195.
61. Cf. lo statuto dei muratori, ibid., II, pp. 285, 295: "item si aliquis murarius laboraverit alicui persone et illa persona eum appacare noluerit de eo, quod sibi laboraverit, si ille murarius eidem gastaldioni querimoniam deposuerit, super hoc gastaldio cognita veritate de facto ipsius querimonia, potestatem habere debeat interdicendi et prohibendi omnibus aliis magistris murariis ne opus illius laborent nec conpleant vel intromittant, nisi ille fuerit acppaccatus de eo, quod sibi laboratum habuerit vel concordatus fuerit cum eodem". Similmente lo statuto degli scalpellini § 24, in A. Sagredo, Sulle consorterie, p. 291.
62. Cf. il contratto di Marino Contarini con lo scalpellino Zane Bon, A.S.V., Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 269, documento a parte: "Adi XVIII zenaio 1422. Sia manifesto a chi vedera la presente scripta per man di missier Nichollo Bonifacij chome Maestro Zane Bon taiapiera se acordado lui e so fio cum 2 so garzoni che sta al presente cum esso per chiarir conditi sa ben lavorar del so mestier cum missier Marin Cuntarini fio del nobelle homo missier Antonio Cuntarini el perchollator cum questi pati e cundizioni".
63. Statuto dei muratori § 54, I Capitolari delle arti veneziane, II, p. 303. Statuto dei falegnami § 66, ibid., p. 195.
64. P. Paoletti, L'architettura, I, pp. 3-4; ibid., p. 5: "dicti magistri eorum omnibus sumptibus et expensis teneantur et debeant laborare, edificare et construere totam croseriam ipsius ecclesie integram, completam et copertam ".
65. Louis F. Salzman, Building in England down to 1540, Oxford 1952, p. 48, scrive che nel Medioevo ogni maestro muratore era allo stesso tempo appaltatore. Ma egli non considera quanto limitate fossero le possibilità di questo appaltatore.
66. P. Paoletti, L'architettura, I, p. 5 n. 5; G. Biscaro, Note storico artistiche, pp. 185-189.
67. Cf. i conti della Ca' d'Oro, A.S.V., Procuratori di S. Marco, Misti, b. 123.
68. P. Paoletti, La Ca' d'Oro, p. 96; Id., L'architettura, I, pp. 20 ss.
69. Per es. nel contratto con Zane Bon nell'anno 1422, A.S.V., Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 269, documento a parte.
70. Cf. su questo tema le note di P. Du Colombier, Les chantiers des cathédrales, p. 28.
71. Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale, I, nr. 209, p. 98: "Vadit pars, quod in hoc Consilio per scrutinium banche et quatuor manum electionum eligatur unus Provisor et Sollicitator fabricae Palatij predicti, qui habeat de salario in anno et ratione anni ducatos 300 ex pecuniis officii salis [...] Eius autem munus imprimis sit providere, quod lapides, lignamina et caetera necessaria cum celeritate devehantur, suprastareque ac urgere opus huiusmodi quod perficiatur iuxta exigentiam et desiderium civitatis [...] Omnes autem scedulae expensarum, quae fient de ebdomada in ebdomadam revideantur et subscribantur per dictum Provisorem eligendum [...] ".
72. Ibid., nr. 207, p. 97; nr. 230, pp. 106-107; nr. 239, pp. 113 ss.; nr. 247, pp. 121-122.
73. Philip L. Sohm, The Scuola Grande di San Marco, 1437-1550. The Architecture of a Venetian Lay Confraternity, Baltimore 1978, p. 19.
74. A.S.V., Scuola Grande di Santa Maria della Carità, b. 227, nr. 104, c. 6: "Maistro Zuane de Stefano per zornade 6 con so fante". Cf. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 123-124; R.A. Goldthwaite, The Building of Renaissance Florence, p. 293.
75. Per es. nei conti della Ca' d'Oro, A.S.V., Procuratori di S. Marco, b. 123a, IV. L.F. Salzman (Building in England, p. 49) afferma che nell'edilizia inglese di regola il maestro riceveva la paga anche per l'apprendista, nondimeno si conoscono casi in cui gli apprendisti ricevevano la paga anche personalmente. Sui rapporti nell'edilizia francese vedi B. Geremek, Salariati e artigiani, p. 66.
76. A.S.V., Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 269, documento a parte.
77. Ibid., Misti, b. 123a. Cf. B. Geremek, Salariati e artigiani, pp. 110-111.
78. Cf. R.A. Goldthwaite, The Building of Renaissance Florence, pp. 317-331.
79. Note frammentarie concernenti le paghe si trovano nei seguenti materiali: A.S.V., Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 30, VII; b. 269; Misti, b. 123a, III, c. 5v, IV, cc. 43v, 50v; de Citra, b. 53, VIII, VII; b. 115; ivi, Collegio del Sal, 8a; ivi, Senato Terra, reg. 2, cc. 204v-205; p. Paoletti, L'architettura, I, pp. 20, 37, 92; E. Rigoni, Notizie di scultori toscani, p. 131; Gino Fogolari, La chiesa di S. Maria della Carità di Venezia, "Archivio Veneto Tridentino", 5, 1924, p. 110 (pp. 57-119).
80. A.S.V., Procuratori di S. Marco, Misti, b. 123a, II; de Citra, b. 30, VII; b. 269. Cf. G. Biscaro, Note storico artistiche, pp. 185 ss.
81. Cf. i testamenti di muratori e scalpellini citati da P. Paoletti, L'architettura, I, p. 37 n. 2; p. 39 n. 2; p. 50 n. 1; p. 55; p. 69 n. 4 e passim. Molti testamenti di artigiani edili e altri documenti che parlano della loro posizione patrimoniale si trovano in atti notarili, A.S.V., Notai della Cancelleria Inferiore, cf. per es. b. 5, Andruccio fu Bonagiunta, c. 12v e brogliaccio a parte; b. 5, Giovanni de Argoiosi, c. 2v; b. 6, Albertus Cecchino, c. 22r-v; b. 7, Nicolò Avancio e altri. Un interessante documento che parla dei debiti di un muratore e del pagamento parziale di questi ultimi per mezzo di lavori edili si trova ibid., b. 6, Albertus Cecchino, c. 22v.
82. Ivi, Procuratori di S. Marco, de Citra, b. 115, XVII, Commissaria Francesco Giustinian, Conto tenuto per cornada de la caxa refata de missier Francesco Justinian in s. Moixe, 1477.
83. Statuto dei fornaciai § 19, I capitolari delle arti veneziane, I, p. 91. Delibera del maggior consiglio dell'anno 1327 concernente la vendita di mattoni, ibid., pp. 221 ss., nr. 12.
84. A.S.V., Scuola Grande di Santa Maria della Carità, b. 227, nr. 104, Conto della fabricha de l'albergo nuovo fato su 1443.