L'educazione a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A differenza dei Greci, i Romani non hanno avuto una poesia epica in grado di trasmettere i racconti tradizionali: ricostruire il sistema educativo romano in età arcaica è quindi un’impresa assai complessa. Alle famiglie sembra fosse affidata la trasmissione delle competenze di base, quali lettura, scrittura, calcolo: non si sente parlare di scuole pubbliche fino al III secolo a.C. Fondamentale per lo sviluppo dell’educazione romana è il contatto con i Greci, che porta alla creazione di un ceto colto bilingue, all’arrivo di libri e alla formazione di biblioteche, mentre grammatici e rhetores diventano un elemento consueto nel panorama di Roma. Da segnalare anche la progressiva cristallizzazione del sistema educativo intorno alle arti cosiddette liberali, che finisce per comprendere, accanto alla grammatica e alla retorica, la filosofia, l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia.
Ricostruire la storia antica è un compito particolarmente difficile per culture come quella greca e quella romana, che hanno cominciato relativamente tardi a registrare per iscritto gli avvenimenti principali e a tenere elenchi ordinati di magistrati che servano come base per la cronologia. Se nel mondo greco la trasmissione di un sapere anche storico è affidata principalmente alla poesia epica, ancora più complessa appare la situazione nel mondo romano. Quando Tucidide cerca di ricostruire le vicende umane a partire dalle più antiche comunità per confrontarle con la guerra del Peloponneso, che stava vivendo e raccontando, si confronta soprattutto con l’Iliade, da cui ricava dei dati per analizzare quella che era considerata la guerra più grande prima delle guerre persiane.
I Romani, invece, non hanno poesia epica che trasmetta, fin dai tempi più antichi (i primi poemi epici sulla storia di Roma sono quelli di Nevio e di Ennio), i racconti tradizionali e del tutto incerte sono le tradizioni sui carmina convivalia, la cui importanza è forse sopravvalutata dai Romani stessi e poi dalla critica ottocentesca, che cerca di recuperare un sostrato nazionale e popolare per la poesia latina. Per questi motivi la storia di Roma arcaica è stata, fin dalla Storia romana di Barthold Georg Niebuhr (1812), il banco di prova privilegiato per chi cercava un metodo per isolare nuclei di verità storica all’interno di tradizioni tarde e apparentemente fantasiose.
La storia dell’educazione romana risente degli stessi problemi della storia di Roma: già negli ultimi due secoli della repubblica si procede a inventare un passato fortemente idealizzato, al quale attribuire quel mos maiorum che è vagheggiato come meta irragiungibile e sbandierato come parola d’ordine nella propaganda politica. E, in mancanza d’altro, i moderni storici dell’educazione si sono in gran parte adagiati sulla rappresentazione di una civiltà contadina e sana che educa i suoi figli alle semplici virtù di uomini che dovrebbero coltivare i campi e difendere la città con le armi. Da una visione oleografica del genere deriva la formula della propaganda fascista "È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende". È evidente che in questo modo si cade nella trappola di credere a una rappresentazione prodotta dalla cultura romana posteriore ed entrata con forza nel nostro immaginario.
Se è anacronistico pensare che Romolo e Remo siano andati a scuola a Gabii, come tutti i bambini di buona famiglia (Plutarco, Vita di Romolo, 6), non sono meno improbabili le figure di austeri patres familias e di madri forti e sagge che popolano la storia di Roma arcaica come i personaggi solenni dei quadri neoclassici. Sotto il profilo del metodo si possono seguire soltanto due strade: da un lato la comparazione antropologica con società accostabili a quella romana arcaica, dall’altro lo studio delle, purtroppo poche, iscrizioni arcaiche, in grado di fornirci informazioni su chi è in grado di scrivere e di leggere e sulle funzioni della scrittura.
La comparazione antropologica porta a considerare che in molte società tradizionali l’educazione è organizzata per classi di età, secondo un modello di tipo iniziatico, per cui in genere i bambini sono affidati a membri adulti della comunità e sono sottoposti a una serie di prove nell’ambito di un ciclo organizzato e scandito da feste e rituali. Se la tradizione romana ha in gran parte cancellato le tracce di possibili iniziazioni rituali, privilegiando invece l’educazione impartita dai genitori, questo non vuol dire che, in una fase antica, non siano esistite. Indizi dell’esistenza di un ciclo iniziatico sono anzitutto le festività che presumibilmente segnano la conclusione di fasi del percorso dei giovani. La combinazione di fonti letterarie e archeologiche ha permesso di compiere progressi significativi, identificando un periodo dell’anno, corrispondente al mese di marzo, in cui si svolgono feste legate alle iniziazioni maschili e femminili: Matronalia, festa di Anna Perenna, Liberalia, Quinquatrus. Questo periodo si conclude nel Tubilustrium del 23 marzo con la partenza dell’esercito per la guerra (Mario Torelli). Se si combinano questi dati con le notizie sulle guerre con i popoli vicini che vengono riprese ogni anno e che, a mio avviso, si possono interpretare, almeno per i periodi più antichi, come guerre sacre, ovvero come conflitti tradizionali tra comunità confinanti volti a mettere alla prova i giovani giunti al termine del ciclo iniziatico, si ricava un quadro parzialmente sovrapponibile a quello dell’alto arcaismo greco, dove fenomeni simili sono attestati, ad esempio, nelle guerre tra Argo e Sparta per la Tireatide, e tra Calcide ed Eretria per il Lelanton pedíon (Angelo Brelich).
Non si vuole in questo modo proporre uno schema rigido e valido per tutti i popoli indoeuropei (come fa, ad esempio, Dumézil con gli usi matrimoniali), ma, piuttosto, mettere in risalto alcuni tratti comuni che potrebbero risalire indietro nel tempo e che hanno dato esiti diversi nelle varie aree. In particolare vanno notati due aspetti, talvolta in connessione tra loro nelle fonti: il matrimonio per ratto, che avviene spesso durante feste in santuari di confine o condivisi tra più comunità (il ratto delle Sabine potrebbe essere un buon esempio); le guerre sacre, che non portano a conquiste territoriali e che spesso vengono combattute con regole precise (limitazione delle armi, duelli ecc.) e con modalità particolari (travestimenti, agguati ecc.). La mancanza di omogeneità del quadro dipende sia dalle deformazioni a cui le tradizioni sono state sottoposte, perché il carattere sacro e tradizionale delle guerre non si comprende più, sia dall’evoluzione che in forme diverse le guerre sacre hanno subito nelle varie aree.
In questo quadro il ruolo della famiglia appare in parte ridimensionato e legato soprattutto all’educazione morale e all’apprendimento delle competenze di base: lettura, scrittura, calcolo. Queste possono essere insegnate da un precettore domesticus praeceptor, per usare le parole di Quintiliano (1, 2, 4) secondo un uso che si protrarrà, in ambiente aristocratico, anche in età imperiale.
Le più antiche iscrizioni latine risalgono al VII secolo a.C., circa un secolo dopo rispetto alle prime testimonianze del greco alfabetico. Già questa prima constatazione porta a sospettare dell’immagine tradizionale di una Roma illetterata e popolata di rudi guerrieri, contrapposta alle colte e corrotte città greche. Che vi siano delle differenze è persino ovvio, ma non si deve trascurare il contatto costante dei Romani con civiltà colte come quella etrusca e quella delle colonie greche dell’Italia meridionale.
Proprio dall’alfabeto usato in una colonia greca, Cuma, deriva l’alfabeto latino, che subisce anche l’influenza della scrittura etrusca. La documentazione epigrafica, specie per i primi secoli, è estremamente scarsa e da questo si è dedotto, a mio avviso impropriamente, che la scrittura sia riservata a pochi e, più in generale, che l’alfabetizzazione sia un fenomeno assai limitato (William V. Harris). Certamente per la Roma dei primi secoli non si può parlare di un’alfabetizzazione di massa, ma le differenti funzioni per cui la scrittura è impiegata fanno pensare che coinvolga diversi ceti sociali. Tra VII e V secolo a.C. l’uso della scrittura appare legato all’artigianato (nome dell’artefice o del proprietario di vasi ecc.), alla vita religiosa (carmina, liste di sacerdoti, oracoli), alla prassi giudiziaria (leggi, a partire dalle XII Tavole, metà del V secolo a.C.).
Non vi è alcuna attendibile testimonianza sull’esistenza di scuole prima del III secolo a.C.: la storia del decemviro Appio Claudio che avrebbe rapito Virginia mentre stava andando a scuola nel foro è chiaramente anacronistica e il dettaglio modernizzante potrebbe essere nato da esigenze narrative o dalla volontà di presentare la Roma del V secolo come una città non troppo diversa dalle città greche coeve. Plutarco ci trasmette il nome del primo che avrebbe insegnato dietro compenso e che avrebbe aperto una scuola. Si tratta di un certo Spurio Carvilio, “liberto di quel Carvilio che per primo ripudiò la moglie”. Siamo intorno alla metà del III secolo a.C., più precisamente in una data non lontana dal 234, anno del divorzio di Carvilio. Al di là di questo nome, può essere interessante il possibile collegamento tra un liberto colto e il primo caso di ripudio, che avrà certamente richiesto competenze giuridiche non usuali. D’altra parte, la pubblicazione dello ius civile ad opera dell’edile Gneo Flavio nel 304 a.C. presuppone non soltanto la volontà di sottrarre all’esclusivo controllo della casta sacerdotale la fonte del sapere giuridico, come dice Livio (9, 46, 5), ma anche l’esistenza di una quota di popolazione in grado di leggere il testo delle leggi e di alcuni esperti capaci di interpretarle.
Nella tarda età repubblicana convivono due tendenze nel valutare i rapporti tra Roma e il mondo greco: da una parte si cerca di sottolineare l’originalità romana e le differenze rispetto a quelle greche; dall’altra Roma viene presentata come una città greca o precocemente grecizzata. Se quest’ultima idea era proposta soprattutto da Greci, come il retore Dionigi d’Alicarnasso, giunto a Roma intorno al 30 a.C., la precoce influenza greca è presente anche in autori latini. Ecco come Cicerone, nel De re publica (2, 19) introduce la figura di Tarquinio Prisco, figlio del corinzio Demarato: “E qui, per la prima volta, per influsso di una civiltà straniera, la nostra città si affinò culturalmente. Affluì infatti dalla Grecia non un tenue ruscello, ma un copiosissimo fiume di arti e di scienze” (trad. Anna Resta Barrile).
Al di là delle incongruenze cronologiche, la tradizione su un re di origine greca viene a bilanciare l’influenza etrusca e diventa l’archetipo dell’introduzione della cultura greca nei secoli successivi. Non è escluso che vi sia, già tra VII e VI secolo a.C., un influsso greco sulle arti figurative; ovviamente è molto più difficile pensare a un fenomeno analogo esercitato dalla poesia greca. Già nel corso del IV secolo i Romani estendono la loro sfera di potere commerciale, come testimonia il trattato con Cartagine del 348 a.C. Ma è all’inizio del III secolo che i Romani iniziano a espandersi a scapito delle colonie greche dell’Italia meridionale. La resa di Taranto nel 272 a.C. porta a Roma, tra gli altri, quel Livio Andronico che traduce in latino l’Odissea inaugurando così la letteratura latina. L’inizio del De grammaticis di Svetonio descrive il quadro tradizionale di una città di soldati (rudi scilicet ac bellicosa etiam tum civitate), nella quale la grammatica viene introdotta da personaggi che erano poetae et semigraeci, Livio Andronico ed Ennio, che insegnano utraque lingua, cioè sia in greco sia in latino, spiegano le opere dei Greci e danno letture commentate delle proprie composizioni.
Insieme alla poesia epica, a Roma si afferma una letteratura teatrale di derivazione greca: Livio Andronico scrive tragedie derivate da modelli greci del V secolo. Diversi fra i titoli conservati rinviano al ciclo troiano (Achilles, Aegisthus, Aiax mastigophorus, Equos Troianos, Hermiona), ma non mancano tragedie che toccano altre vicende mitiche: Andromeda, Danae, Tereus. Per comprendere questi testi il pubblico deve conoscere almeno a grandi linee i miti greci così come per cogliere il senso delle palliate (commedie di ambientazione greca) deve aver familiarità con i costumi greci. La frequenza dei grecismi nelle commedie di Plauto fa pensare che il pubblico li comprenda senza difficoltà. Tra III e II secolo cresce la presenza di Greci a Roma e con essa anche quella di opere d’arte e di libri greci. Plauto nel Curculio (288 ss.) descrive così i maestri greci che circolavano per le strade di Roma: “Poi questi Greci che passeggiano col capo coperto, che s’avanzano carichi di libri e di canestrelli, si fermano, intrecciano discorsi tra loro, come schiavi fuggitivi, si parano davanti, sono di ostacolo, incedono sentenziando...”. Questi maestri portano con sé gli strumenti del proprio lavoro, i libri, e al tempo stesso si presentano ai loro potenziali clienti ed esibiscono la loro cultura.
Sempre secondo Svetonio il primo a introdurre lo studio della grammatica a Roma è Cratete di Mallo, il quale, giunto a Roma come ambasciatore da parte del regno di Pergamo probabilmente nel 168 a.C., cade nell’apertura di una cloaca e si rompe una gamba. Cratete trascorre la sua convalescenza tenendo conferenze (Svetonio usa la parola greca acroasis) e lezioni. Il suo esempio viene seguito da dotti romani che cominciano a leggere e a spiegare le opere dei primi poeti di Roma: Nevio, Ennio, Lucilio. La notizia svetoniana (2, 4) sulla divisione in sette libri del Bellum Punicum di Nevio a opera di Gaio Ottavio Lampadione induce a credere che a queste opere venissero prestate anche cure editoriali e filologiche e alla stessa conclusione porta il nesso diligentius retractarent (2, 3), che indica uno dei compiti fondamentali del grammatico: la correzione del testo. Non sappiamo se questi primi grammatici romani usassero gli stessi metodi dei loro contemporanei greci, ma l’entusiasmo suscitato da Cratete di Mallo lo fa almeno supporre. L’anno dell’arrivo di Cratete a Roma è anche l’anno della vittoria di Pidna. Secondo Plutarco, Emilio Paolo non depreda la reggia del re sconfitto, Perseo, ma si limita a far scegliere ai suoi figli alcuni libri della sua biblioteca. Da queste sparse notizie emerge un quadro in rapida evoluzione, caratterizzato da una penetrazione della cultura greca via via più consistente specie presso l’aristocrazia.
Con la sempre maggiore frequentazione di maestri greci i Romani cominciano a confrontarsi anche con le istituzioni educative greche e con le teorie pedagogiche dei filosofi. Una traccia di questo confronto si trova in un passo frammentario del De republica di Cicerone (4, 3) nel quale si riporta l’opinione di Polibio che denuncia la trascuratezza delle istituzioni romane in tema di educazione. Al contrario i Romani dei tempi antichi avrebbero preferito che non vi fosse un’educazione pubblica uguale per tutti e fissata da norme di legge. In realtà i Romani hanno presente, più che le concrete istituzioni educative greche, le teorie dei filosofi, in particolare di Platone e di Aristotele. Anche da questo passo ciceroniano emerge il tentativo di individuare una peculiarità romana in tema di educazione e di distinguere la situazione greca da quella della Roma arcaica.
Il contatto con i maestri greci fa rapidamente nascere un ceto colto bilingue, con personaggi in grado di scrivere in lingua greca: si pensi a storici come Fabio Pittore e Cincio Alimento. Ma provoca anche reazioni e provvedimenti normativi volti a impedire che penetrino a Roma filosofie potenzialmente pericolose. La maggior parte dei decreti di espulsione riguarda infatti filosofi, sia di fede epicurea sia aderenti ad altre scuole filosofiche, ma comunque detentori di capacità dialettiche che possano indurre al relativismo epistemologico ed etico. Nel 173 a.C. furono banditi due filosofi epicurei, Alcio e Filisco; nel 161 l’espulsione da Roma colpisce in generale filosofi e retori greci; nel 155 vengono allontanati, su richiesta di Catone, Carneade di Cirene, filosofo dell’Accademia, Critolao di Faselide, peripatetico, e Diogene di Babilonia, stoico. In particolare Carneade dà dimostrazione della sua abilità nel parlare in utramque partem, ovvero prima a favore di una tesi, poi di quella contraria, toccando argomenti a cui i Romani sono molto sensibili, come il rapporto tra il dominio sugli altri popoli e la giustizia (si veda Cicerone, Resp, 3, 12).
Sostenitore di una politica che oggi si potrebbe chiamare dei respingimenti è Catone il Censore, anche se l’immagine di accanito oppositore della cultura greca che le fonti ci hanno tramandato risente molto della sua strategia comunicativa e dello stereotipo che lui stesso aveva creato. Quando Catone, rivolgendosi al figlio Marco, afferma: “A suo tempo ti dirò a proposito di codesti Greci, Marco, figlio mio, quali esperienze ho fatto ad Atene e che è giusto esaminare con attenzione la loro letteratura, non approfondirla” (Plinio, Nat. hist., 29, 1, 14), non si possono non fare almeno due constatazioni. La prima è che la notizia antica secondo cui avrebbe imparato il greco in tarda età rientra probabilmente nella sua leggenda biografica. La seconda è relativa alla posizione di Catone nei confronti della cultura greca, che non è di totale chiusura, ma piuttosto di attenzione critica, al fine di evitare un’integrale sudditanza che Catone considera pericolosa ("non approfondirla"). Rispetto alla letteratura greca Catone pratica l’aemulatio, cercando di fondare una tradizione romana in generi letterari poco frequentati. Compone un’importante opera storiografica in lingua latina, le Origines, con un’impostazione ideologica che la allontana molto dai modelli greci. È buon oratore e l’inclusione delle sue orazioni all’interno delle Origines testimonia anche un impegno, in senso lato, di tipo didattico, e scrive opere didascaliche (i Praecepta ad filium) e tecniche (il De agri cultura). Il progetto letterario di Catone è evidentemente quello di creare opere in lingua latina che possano prendere il posto di quelle greche: per questo motivo attacca duramente un annalista in lingua greca, Aulo Postumio Albino, che nel proemio si scusava con i lettori per il suo greco non perfetto. L’opera di Catone si comprende meglio in una prospettiva educativa, che si coglie anche nei lavori non dichiaratamente pedagogici. La sua poligrafia si può confrontare con quella di un altro autore che pone al centro dei suoi interessi l’educazione: Senofonte, nel cui corpus convivono opere storiche, trattati tecnici, encomi di personaggi esemplari, dialoghi socratici.
Un capitolo importante della relazione tra cultura greca e romana è costituito dal modo di rapportarsi con i libri e le biblioteche del nemico. Il già citato episodio di Lucio Emilio Paolo che attinge alla biblioteca dello sconfitto Perseo è emblematico di quella translatio imperii, che conduce i Romani a sostituirsi agli eredi di Alessandro Magno; essa è anche una translatio librorum. Impadronirsi dei libri del nemico sconfitto è sì segno dell’interesse per la letteratura greca e riconoscimento della sua importanza, ma ha anche un forte valore simbolico, con Roma che si avvia a diventare la nuova capitale culturale del Mediterraneo. Per quasi tutto il I secolo a.C. Roma non ha biblioteche pubbliche, ma soltanto raccolte private: quella che conosciamo meglio, attraverso l’epistolario, è la biblioteca di Cicerone. Cesare affida a Varrone il compito di creare la prima biblioteca pubblica, ma il progetto non viene portato a termine. La prima biblioteca pubblica è realizzata da Asinio Pollione all’Atrium Libertatis. Sotto Augusto ne viene creata un’altra presso il tempio di Apollo sul Palatino, vicino alla residenza dello stesso Augusto. Questa biblioteca rientra in una precisa politica culturale, volta a controllare la produzione letteraria attraverso la selezione dei modelli. A Roma quelle che nei regni ellenistici erano biblioteche di corte, accessibili ai sovrani e a pochi dotti, diventano biblioteche pubbliche. La struttura tradizionale delle biblioteche romane prevede due distinte aree, una per i libri greci e una per i libri latini, e mostra in questo modo la compresenza nell’impero di due lingue e di due culture.
I Romani sono consapevoli del loro debito nei confronti della cultura greca, ma il loro atteggiamento muta nel corso del tempo: dapprima traduttori e interpreti delle opere della letteratura greca, poi continuatori ed emuli. L’imitazione è progressivamente sostituita dalla competizione aperta e, se Orazio afferma che la “Grecia conquistata aveva a sua volta conquistato il vincitore romano” (Graecia capta ferum victorem cepit, Epistole 2, 1, 156), Quintiliano, alla fine del I secolo d.C., può tracciare un bilancio delle due letterature e dimostrare che in molti generi letterari i Romani hanno autori in grado di rivaleggiare con i Greci. Confrontando Omero e Virgilio (10, 1, 85 s.), Quintiliano sottolinea le doti naturali del poeta greco, ma valorizza anche la superiore cura formale del latino: “E, per Ercole, se davanti al Greco dobbiamo farci indietro in considerazione della sua natura divina e immortale, è altrettanto vero che in Virgilio c’è più cura e diligenza, appunto perché egli dovette affaticarsi di più: ne consegue che, quanto perdiamo nel confronto della sublimità, tanto riguadagnamo sotto il profilo dell’eccellenza uniforme ”(trad. R. Faranda e P. Pecchiura).
Virgilio è un Omero rivisto alla luce della poetica ellenistica, che eccelle nella misura e nel labor limae e, se Omero tocca le vette del sublime (eminentibus), Virgilio gli è superiore per la mancanza di punti deboli e di cadute di stile, che deriva dal duro lavoro sul testo. Anche nel campo dell’elegia il confronto con i Greci è aperto (10, 1, 93), mentre generi ormai spenti, come il giambo e la lirica, vedono il prevalere dei Greci (10, 1, 96). Se nella tragedia Quintiliano individua singole opere di grande valore, con il Tieste di Vario degno di essere paragonato alle opere dei tragici greci (10, 1, 98), nella commedia la superiorità greca è manifesta (10, 1, 99 s.). I generi prosastici sono un terreno favorevole ai Romani: non la filosofia (10, 1, 123), ma la storiografia (10, 1, 101 “Nella storiografia, invece, non siamo inferiori ai Greci”, trad. R. Faranda e P. Pecchiura) e l’oratoria (10, 1, 105 “Gli oratori, invece, sono in grado, più degli altri, di eguagliare l’eloquenza latina alla greca: difatti potrei tranquillamente contrapporre Cicerone a qualsivoglia di loro”, trad. R. Faranda e P. Pecchiura). In particolare di Cicerone si mette in risalto la capacità di prendere dai modelli greci le caratteristiche migliori (10, 1, 108). La sua tecnica di imitazione dei modelli non si discosta da quella di Demostene, che, a giudizio di Dionigi d’Alicarnasso (De Demosthene 8), aveva fatto lo stesso, meritando di essere paragonato al mitico Proteo.
Quintiliano affianca il canone degli autori greci eccellenti nei vari generi, ricavato con modifiche da precedenti selezioni, a quello degli autori latini. Tra i due canoni, quello greco e quello latino, vi è una differenza fondamentale: la letteratura greca si ferma, con poche eccezioni (alcuni poeti del primo ellenismo, un paio di storici) all’età arcaica e classica. La letteratura latina prosegue invece fino alla contemporaneità e Quintiliano accenna ad autori coevi di valore, di cui non vengono indicati i nomi (10, 1, 94; 10, 1, 104; 10, 1, 122). Come modelli per gli aspiranti oratori Quintiliano propone quindi, accanto ai greci, autori latini, anche recenti, a testimoniare come la letteratura greca abbia trovato degna continuazione e prospettive di sviluppo in quella latina. Se i Greci potevano vantare i propri euretái ("scopritori") in pressoché tutti i generi letterari, i Romani potevano affermare di averne portati alcuni a perfezione e altri di averli rivitalizzati adattandoli alla nuova realtà dell’impero mondiale. Ed è particolarmente significativo che gli autori latini si siano affermati proprio nei generi più importanti per la formazione dell’oratore: l’epica, base dell’insegnamento del grammatico, la storiografia e l’oratoria.
Con l’arrivo di grammatici e retori greci anche a Roma, nel corso del II secolo a.C., comincia ad affermarsi un’organizzazione dell’insegnamento di tipo greco, che prevede, dopo l’apprendimento della lettura, della scrittura e del calcolo, una prima fase affidata al grammaticus e una seconda al rhetor. Questo termine greco si specializza per il maestro di retorica, mentre il termine latino orator rimane a indicare chi pratica l’eloquenza nella vita civile. Per i giovani romani il corso degli studi è più lungo e complesso che per i loro coetanei greci: devono infatti frequentare sia maestri romani sia maestri greci e si afferma il costume del viaggio in Grecia per poter seguire le lezioni dei più affermati retori e filosofi.
Come avveniva nel mondo greco, non esistono precisi confini tra le competenze dei maestri attivi nei vari gradi d’istruzione e non ci sono neanche termini univoci per indicare le varie categorie di insegnanti. Svetonio (De grammaticis, 4, 1-5) attesta che la denominazione greca di grammatici prevale su quella di litterati e riporta l’opinione di Cornelio Nepote secondo cui il termine litterati nell’accezione diffusa indica le persone in grado di parlare o di scrivere acute scienterque, mentre in senso proprio si riferiva ai poetarum interpretes, quelli che i Greci chiamavano grammatici. Osserva poi che un altro termine per indicare i grammatici era litteratores, che, secondo altri, indicava un maestro di livello inferiore rispetto al grammaticus: litterator corrisponderebbe quindi al grammatistés greco, una sorta di insegnante elementare. Occorre precisare che la retorica è una disciplina che già da tempo, almeno a partire dal IV secolo, ha definito i suoi contenuti e i suoi metodi didattici, mentre la grammatica soltanto tra il II e il I secolo a.C. ha affiancato alla lettura commentata dei poeti un’organica teoria delle parti del discorso (la ratio loquendi).
Tra grammatici e retori vi sono delle aree di intersezione e di sovrapposizione, sia a livello teorico sia a livello degli esercizi proposti agli allievi. Sul piano della teoria linguistica entrambi possono affrontare il tema della latinitas, l’uso corretto della lingua latina, e analizzare tropi e figure di parola; inoltre il giudizio critico sugli autori del passato ha un risvolto nell’individuazione dei modelli di stile. Altri campi contesi sono la lettura commentata dei prosatori, in particolare di oratori e storici, e gli esercizi preliminari di composizione, i progymnásmata. Questi esercizi si distinguono dalle declamazioni in quanto non producono orazioni fittizie complete in tutte le loro parti, ma brevi testi, che possono al massimo essere parti di un più ampio discorso. Come esercizi preliminari gli studenti possono essere chiamati a comporre narrationes (la parte dell’orazione giudiziaria nella quale si ricostruisce lo svolgimento dei fatti), encomi o biasimi di personaggi storici oppure comparazioni, ad esempio di due eroi omerici, etopee, cioè composizioni incentrate sulla rappresentazione del carattere di un personaggio, descrizioni (ekphráseis) di opere d’arte oppure di paesaggi, battaglie ecc., tesi, cioè discussioni su argomenti generali, come ad esempio se sia necessario sposarsi. Può essere loro richiesto di sostenere con argomenti o di confutare un’affermazione o anche una legge, ipotizzando che venga proposta a un’assemblea deliberante.
Da Svetonio sappiamo che i primi grammatici romani insegnano anche retorica (De grammaticis, 4, 6). Sempre Svetonio attesta che anche dopo la separazione tra le due categorie professionali, grammatici e retori, i primi continuano a proporre ai giovani alcuni esercizi preparatori, affinché i bambini non siano affidati al retore del tutto digiuni dell’arte di comporre (4, 7). Questa buona pratica ai suoi tempi è stata abbandonata (4, 8). Svetonio nasce verso il 70 e la sua attività si colloca sotto l’impero di Traiano e di Adriano, periodo in cui, verosimilmente, scrive il De grammaticis. La situazione descritta da Svetonio è in parte diversa da quella testimoniata da altre fonti precedenti: se ne può ricavare che vi sia stata un’evoluzione nei rapporti tra grammatici e retori, in particolare per quanto riguarda i progymnásmata. Da Quintiliano (Institutio oratoria 2, 1) sappiamo che i grammatici invadono il campo dei retori, i quali, peraltro, tendono a specializzarsi nelle declamazioni nei generi deliberativo e giudiziario. I grammatici, dal canto loro, arriverebbero a proporre persino esercizi di prosopopea (2, 1, 2), brevi composizioni su argomenti storico-mitologici o fittizi in cui l’allievo deve mantenersi fedele al carattere del personaggio al quale dà voce.
La prosopopea è considerata da Quintiliano come un particolare tipo di suasoria (3, 8, 49-54), un esercizio particolarmente importante per il genere deliberativo. Quintiliano, che parla con l’autorità del maestro incaricato dall’imperatore di insegnare la retorica nella capitale dell’impero, dichiara di voler distinguere i compiti del grammatico da quelli del retore (2, 1, 3) e chiede ai retori di impegnarsi anche negli esercizi preliminari, fondamentali per la formazione dell’oratore. Al termine della sua argomentazione Quintiliano precisa che il problema dell’abbandono dei progymnásmata riguarda i retori romani, non quelli greci (2, 1, 13).
Se ci domandiamo perché maestri romani e greci si comportino in modo diverso dobbiamo risalire all’età augustea, quando si afferma il sistema delle declamazioni come strumento didattico privilegiato. La composizione di orazioni fittizie era nata con l’insegnamento stesso della retorica, con i sofisti, come Gorgia, che proponevano all’imitazione degli allievi i loro discorsi, e, attraverso la scuola di Isocrate, era passata alla retorica ellenistica.
Le declamazioni prendono il nome di controversiae quando riguardano materia giudiziaria, ad esempio l’uccisione di Cicerone da parte di un tal Popillio che aveva avuto grandi benefici da lui, di suasoriae quando si riferiscono al genere deliberativo, ad esempio Alessandro Magno deve decidere se navigare sull’Oceano. Il grande successo delle declamazioni porta in un primo tempo a trascurare la preparazione di base, grammaticale e storica, come risulta dal Satyricon di Petronio (cap. IV), da Elio Teone (introduzione ai Progymnásmata) e dal Dialogus de oratoribus di Tacito, quindi all’appropriazione degli esercizi preliminari da parte dei grammatici e infine a trascurare del tutto questa fase dello studio retorico. La centralità delle declamazioni porta a un impoverimento dell’eloquenza, non più nutrita da una solida cultura generale e da ampie letture. I giovani e le loro famiglie vogliono forzare i tempi, arrivando al più presto alle declamazioni, un’attività che, oltre a preparare al foro e alla vita politica, può portare fama e ricchezza.
Se andiamo a esaminare gli argomenti delle declamazioni usando l’opera di Seneca Retore osserviamo subito che una buona parte trae materia da fatti e personaggi storici. In molti casi i declamatori alterano i fatti, adattandoli alle loro esigenze e aggiungendo particolari patetici. Ad esempio, in Controversiae 4. 2 (Metellus caecatus), relativa al salvataggio del Palladio nel tempio di Vesta in fiamme nel 241 a.C. da parte di L. Cecilio Metello, l’accecamento del protagonista sembra un’invenzione dei declamatori. Analogamente in 8. 2 (Phidias amissis manibus), sulla restituzione ad Atene dello scultore Fidia mutilato delle mani dopo aver realizzato la statua di Zeus Olimpio, i declamatori si basano sulle leggende che circolavano intorno alla realizzazione della celebre statua ed elaborano una versione romanzesca. Integralmente inventato appare l’episodio su cui si basa Controversiae 10. 5 (Parrhasius et Prometheus): il pittore ateniese Parrasio avrebbe acquistato uno schiavo per torturarlo e prenderlo come modello per un Prometeo; in seguito alle torture lo schiavo sarebbe morto. Ora nel 348 a.C., anno in cui la declamazione è ambientata, Parrasio era, con ogni probabilità, già morto. Nel caso già ricordato dell’uccisione di Cicerone da parte di Popillio, che in precedenza l’oratore avrebbe difeso in una causa per parricidio (7. 2. Popillius Ciceronis interfector), sembra inventato sia il processo de moribus nei confronti di Popillio sia, forse, che Popillio abbia partecipato all’uccisione di Cicerone. Qui colpisce che i declamatori alterino, e non di poco, un fatto della storia recente, e per giunta ben noto. Altre controversiae riguardano temi di pura fantasia, analoghi a quelli che costituiscono l’argomento dei romanzi. È il caso, ad esempio, della controversia, intitolata Archipiratae filia (1, 6).
Nelle suasoriae, che privilegiano la materia storica, il grado di conoscenza dei fatti passati resta piuttosto superficiale e gli exempla proposti sono episodi talmente noti da essere divenuti proverbiali. In molti casi si ha l’impressione che i declamatori non si siano documentati su opere storiche, quanto piuttosto che abbiano familiarità con precedenti declamazioni sugli stessi temi. Questa situazione traspare da un passo di Seneca Retore, nel quale esorta alla lettura degli storici (Suasoriae 6. 16): “Non voglio rattristarvi, ragazzi miei, per il fatto che passo dai declamatori agli storici: vi accontenterò. Ma forse farò in modo che, una volta lette queste frasi ben costruite e dotate di vera forza, vi allontaniate dallo stile scolastico; e, poiché non riuscirò a ottenere in modo diretto questo risultato, sarò costretto a ingannarvi, come se dessi ai bambini una medicina salvifica. Prendete le tazze.”
Dalle parole di Seneca emerge un quadro culturalmente omogeneo, dove i declamatori incontrano l’interesse non solo degli studenti di retorica, ma anche di un vasto pubblico di appassionati, mentre la storiografia è considerata disciplina specialistica e di limitato impatto sul pubblico. La conoscenza della storia non è per i Romani (ma anche per i Greci) l’asse intorno al quale si articola l’insegnamento, come avviene nella scuola moderna (oltre alla storia, storia della letteratura, storia dell’arte, storia della filosofia). È piuttosto un repertorio di episodi ben noti su cui elaborare discorsi e da usare come exempla.
In età repubblicana gli interventi delle autorità romane nei confronti dell’istruzione sono per lo più di segno negativo: le misure restrittive colpiscono nella maggioranza dei casi i maestri greci, filosofi e retori, e hanno lo scopo di allontanarli dai giovani romani. Ma un provvedimento viene preso anche nei confronti di maestri romani. Si tratta dell’editto censorio del 92 a.C., emanato da Lucio Licinio Crasso e da Gneo Domizio Enobarbo contro i rhetores latini e volto a interromperne l’attività. Questi maestri di retorica romani, il cui esponente più importante è Plozio Gallo, vengono colpiti sia per ragioni politiche, in quanto favorevoli alla fazione di Gaio Mario, sia perché introducono un’innovazione rispetto al metodo divenuto tradizionale nei decenni precedenti: apprendistato presso un oratore di fama e studio con i maestri di retorica greci.
È soltanto con l’impero che lo stato romano comincia a intervenire per promuovere l’istruzione. Cesare concede la cittadinanza ai medici e ai maestri nelle arti liberali (Svetonio, Vita di Cesare, 42), tutelandoli in questo modo rispetto ai provvedimenti di espulsione da cui in precedenza erano stati colpiti. Augusto, nell’ambito del recupero del mos maiorum, fa tornare in auge gli esercizi premilitari. Svetonio ci informa che in occasione di una carestia mette al bando tutti gli stranieri da Roma a eccezione di medici e insegnanti (Vita di Augusto, 42).
Vespasiano istituisce due cattedre di retorica, una greca e una latina, sovvenzionate dallo stato. La cattedra di retorica latina è attribuita a Quintiliano, il primo esempio di professore di un’istituzione pubblica di formazione superiore. La decisione di Vespasiano non ha lo scopo di creare un organico sistema di istruzione pubblica, ma quello di offrire un punto di riferimento che, dalla capitale dell’impero, possa guidare le scelte delle amministrazioni municipali e dei singoli insegnanti. Per promuovere l’istruzione su vasta scala, Vespasiano introduce per gli insegnanti esenzioni fiscali, che rimangono in vigore fino al codice di Giustiniano. Il modello dei sovrani ellenistici, promotori delle arti e delle scienze, si unisce con la tendenza, propria dell’amministrazione imperiale, a creare una rete di controlli che dal centro dell’impero si estendano fino alle più remote province. Fino al III secolo d.C. le scuole municipali, che vivono grazie a donazioni private, restano sotto il controllo delle autorità locali. Tra III e IV secolo l’imperatore (da intendersi come l’amministrazione centrale) si arroga la scelta degli insegnanti, arrivando in qualche caso a valutare personalmente i candidati. Normalmente però l’imperatore si limita a ratificare le proposte che arrivano dai municipi. Giuliano, al quale i cristiani attribuiscono l’epiteto di Apostata, emana norme per regolamentare il procedimento di selezione degli insegnanti.
Nel corso del basso impero dunque la scuola diviene un’istituzione se non pubblica, almeno regolamentata e controllata dallo stato. L’amministrazione dell’impero ha bisogno di funzionari con un buon grado di istruzione e questa esigenza si unisce con le ambizioni delle famiglie dei ceti abbienti. Ma l’intervento dello stato romano nel campo dell’istruzione non può essere in alcun modo paragonato a una moderna politica dell’istruzione: semmai si può dire che sono i maestri più autorevoli, a partire da Quintiliano, a condizionare le scelte didattiche degli altri insegnanti. I canoni non sono programmi scolastici, anche perché non sono sostenuti dalla forza della legge, ma hanno comunque un’influenza nella selezione dei testi da proporre agli allievi.
L’educazione greca e poi romana ruotano intorno ai testi: dopo i primi rudimenti, il grammatico spiega Omero, i tragici, eventualmente i prosatori, e il retore insegna a comporre discorsi. Non tutti i giovani frequentano le lezioni dei filosofi e anche lo studio delle discipline scientifiche, a parte l’apprendimento del calcolo, non entra in modo organico e sistematico nel curriculum degli studi. Alcune nozioni possono essere trasmesse dal grammatico commentando testi poetici, altre richiedono docenti specializzati. Nel V secolo a.C. i sofisti coprivano un ampio ventaglio di discipline che andavano dalle scienze naturali alla retorica alla storia. Nel secolo successivo le scienze divengono oggetto di indagine nelle scuole di Platone e di Aristotele e questa situazione si stabilizza in età ellenistica e poi nel periodo imperiale romano.
Prende corpo in questo modo l’idea che l’uomo ben educato debba avere una conoscenza di base di una serie di discipline: questa è la enkyklios paidéia, in latino artes liberales, nesso che compare per la prima volta nel De inventione di Cicerone (1, 35). Già nel Protagora di Platone (318e) sono elencate dialettica, astronomia, geometria e musica. In seguito il sistema si cristallizza, finendo per comprendere, accanto alla grammatica e alla retorica, la filosofia (o dialettica), l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia. Queste ultime quattro discipline, a partire da Boezio, costituiscono il quadrivio, mentre il nome di trivio per le prime tre appare soltanto nel IX secolo. Alle sette artes canoniche possono essere aggiunte la medicina e l’architettura, come fa Varrone nei Disciplinarum libri. Se i filosofi insistono sulla necessità di una formazione culturale completa, diversa è l’ottica dei retori: Quintiliano afferma che lo studio delle altre artes si deve affiancare nei ritagli di tempo a quello della grammatica e non deve in ogni caso condurre l’allievo a una competenza professionale nelle varie discipline (1, 12, 13 s.).
Un’educazione come quella greca e romana incentrata sui testi letterari e volta alla formazione del vir bonus dicendi peritus, formula nella quale si compendiano l’etica e la retorica, non prevede in nessuna sua fase una formazione di tipo tecnico o che prepari all’esercizio di specifiche professioni. Questa avviene piuttosto nella forma dell’apprendistato di bottega, per cui, ad esempio, l’agrimensore impara da un collega più anziano ed esperto e lo scultore inizia aiutando un maestro e imitando la sua arte. Casi particolari sono quelli dell’architettura e della medicina, che richiedono una formazione generale e filosofica e, al tempo stesso, l’acquisizione di competenze tecniche, che può essere ottenuta soltanto attraverso la frequentazione di un architetto o di un medico già esperto.
La parabola della cultura antica, che nasce orale e diventa fondata sul libro come veicolo di trasmissione del sapere, si chiude con le grandi enciclopedie tardoantiche, che sono fondamentali per le epoche successive: mi riferisco soprattutto alle Institutiones di Cassiodoro e agli Etymologiarum libri di Isidoro di Siviglia. Spiegando il concetto delle artes liberales, al cui fondamento pone la grammatica, Cassiodoro (Institutiones 2, Praef. 4) non le intende come le discipline appropriate a uomini liberi, ma fa derivare liberalis da liber, -bri, "corteccia, libro", “cioè liberato dalla corteccia dell’albero dove, prima della scoperta del papiro, gli antichi scrivevano i loro carmi”. Viena sancita per via etimologica la centralità del testo nella sua forma materiale di libro, una caratteristica che resterà nell’educazione occidentale fino ai giorni nostri, quando la rivoluzione informatica e telematica comincia a imporre nuovi e inediti metodi di formazione.