L’Egitto soffia sul fuoco
Come già Mubarak al tempo delle vignette danesi su Maometto, anche i Fratelli Musulmani che appoggiano Morsi hanno cavalcato la protesta contro un video considerato blasfemo. Un clima di odio antiamericano sfruttato dai terroristi legati ad al-Qaida per colpire a Bengasi, uccidendo l'ambasciatore in Libia Christopher Stevens.
L’assalto al consolato USA di Bengasi dell’11 settembre 2012 ricorda quanto accadde nel 2005 in Danimarca, quando la pubblicazione di alcune vignette sul profeta Maometto scatenò l’anno seguente una vasta ondata di proteste e assalti alle rappresentanze danesi nel mondo intero. Oggi il presidente Morsi e il governo egiziano stanno giocando la stessa carta utilizzata a suo tempo da Hosni Mubarak: fomentare la protesta per consolidare il proprio potere.
Gli incidenti che a Bengasi sono costati la vita all’ambasciatore statunitense in Libia, Christopher Stevens, avevano avuto origine dalla richiesta di pubbliche scuse e di un processo penale contro i produttori di Innocence of muslims, avanzata il 9 settembre dal governo egiziano guidato dai Fratelli Musulmani. Nel corso delle proteste, 3000 dimostranti hanno assediato l’ambasciata americana al Cairo. Una folla armata ha poi attaccato il consolato statunitense a Bengasi, e ha ucciso, oltre a Stevens, altri tre rappresentanti del governo degli Stati Uniti.
È stato presto chiaro che l’attacco era premeditato e riconducibile ad Ansar al-Sharia (Sostenitori della Legge Islamica), un gruppo terroristico collegato ad al-Qaida.
Il film in questione è poco più che un montaggio amatoriale di scene sacrileghe relative al profeta Maometto prese da Internet.
Il trailer del film era stato caricato su YouTube qualche mese prima, a giugno, ma a quanto sembra aveva attirato l’attenzione delle autorità egiziane soltanto dopo che alcuni spezzoni erano stati trasmessi da al-Nas, una rete televisiva del Cairo sponsorizzata da gruppi religiosi ultraconservatori.
Questi eventi sembrano costituire una sorta di secondo atto di quanto avvenne nel 2006, quando le 12 vignette sul profeta Maometto, pubblicate nel 2005 dal giornale danese Jyllands-Posten, innescarono una rivolta generale. Anche quelle vignette non avevano destato particolare clamore al momento della loro pubblicazione. Ma alcuni misteriosi messaggi e qualche post in Rete attirarono l’attenzione dei musulmani sull’affronto subìto e allorché il governo egiziano iniziò a dare importanza al sacrilegio danese, la gente notò quanto accaduto.
E anche allora continuò a regnare la calma finché le autorità religiose egiziane non emisero una condanna esplicita. Fu così che folle inferocite distrussero ambasciate e consolati danesi. Due anni più tardi al-Qaida piazzò una bomba all’ambasciata danese di Islamabad, provocando otto morti.
Nel 2008 mi sono recata al Cairo per indagare i motivi per i quali il governo egiziano aveva deciso di promuovere una campagna internazionale contro quelle vignette. Alcuni degli intervistati puntavano il dito verso il cielo dicendo vagamente: «È stato deciso ai piani alti». Altri erano disposti a essere più precisi e spiegavano che doveva esservi coinvolto Hosni Mubarak, l’allora presidente egiziano.
Con mia grande meraviglia, i diplomatici egiziani si rifiutavano di parlare della Danimarca. Nello stesso tempo, premettevano a qualsiasi dichiarazione la frase: «Gli americani devono capire» e seguitavano spiegando perché le pressioni degli Stati Uniti a favore della partecipazione dei Fratelli Musulmani a libere elezioni avrebbero condotto al caos.
In effetti, quelli che sospettavano il coinvolgimento di Mubarak avevano ragione. Vi era un doppio obiettivo nella campagna del regime contro le vignette danesi. Per prima cosa, il caso delle vignette costituiva un comodo espediente per dimostrare l’alta presa che i media avevano sulla opinione pubblica senza un controllo. Dopo i tumulti, infatti, il regime di Mubarak fu in grado nel 2008 di far accettare alla Lega Araba un nuovo statuto dell’informazione: la televisione via satellite in generale e al-Jazeera in particolare subirono delle restrizioni. In secondo luogo, la protesta violenta e apparentemente basata su sentimenti religiosi che seguì la pubblicazione delle vignette voleva essere un segnale per gli americani del pericolo costituito dai Fratelli Musulmani.
Gli Stati Uniti sembrarono recepire la lezione impartita da Mubarak. Infatti quando questi revocò nel 2008 alcune riforme introdotte nel 2005 in risposta alla ‘Freedom Agenda’ – lo sfortunato tentativo del presidente americano George W. Bush di cambiare il Medio Oriente per mezzo di elezioni democratiche – le reazioni statunitensi alla mossa politica di Mubarak si limitarono a critiche sommesse.
Da parte sua, il gruppo dei Fratelli Musulmani desiderava soltanto assicurarsi che fosse percepita la sua estraneità alle proteste.
Essam el-Erian, allora membro dell’Ufficio direttivo dei Fratelli Musulmani, noto per la sua adesione all’ala moderata, era appena uscito di prigione quando lo incontrai nel suo ufficio al centro del Cairo. Era pallido e non sapeva granché della faccenda delle vignette, ma sottolineò che riteneva quelle proteste un diversivo rispetto al reale obiettivo della riforma. Sospettava che Mubarak utilizzasse quanto accaduto per sopprimere il gruppo dei Fratelli Musulmani. Oggi, el-Erian è consulente di Morsi e segretario in carica del nuovo partito dei Fratelli Musulmani, il Partito Libertà e Giustizia, che ha la maggioranza nel Parlamento egiziano. Alla fine, naturalmente, i Fratelli Musulmani ottennero ciò che avevano per lungo tempo chiesto: elezioni democratiche e la libertà di praticare la religione islamica come desideravano i gruppi conservatori. I Fratelli non avevano promosso la rivoluzione ma ne furono i beneficiari. A giugno i loro rappresentanti traslocarono negli uffici precedentemente occupati da Mubarak.
Ma all’occasione, curiosamente, hanno rispolverato il vecchio canovaccio di Mubarak. Poche ore dopo gli eventi al consolato statunitense di Bengasi, i Fratelli Musulmani hanno condannato l’attacco, ma hanno anche contribuito a favorire le proteste di massa presso le moschee di tutto l’Egitto, assicurando in pratica la diffusione dei disordini.
L’appoggio dei Fratelli Musulmani alle proteste contro la pellicola blasfema su Maometto potrebbe essere un malaugurato tentativo di diversione politica, quella cara a Mubarak che ne era maestro.
Un tentativo che potrebbe costare caro. Se gli ultrasalafiti egiziani dovessero imporre una linea più dura sull’argomento o riuscire a mettersi a capo delle proteste, Morsi potrebbe perdere terreno nei loro confronti. Nour, il partito salafita ultraconservatore, secondo raggruppamento nel nuovo Parlamento, ha accelerato il progetto di trasformare le autorità religiose egiziane in una sorta di Corte Suprema e ha sabotato i lavori di redazione della nuova Costituzione all’assemblea costituente.
Internet dà a tutti la possibilità di dire cose anche ben poco sensate, comprese quelle che offendono i musulmani, e ne concede anche lo sfruttamento a fini politici. Ma la via è a doppio senso. Non è passato molto tempo infatti da quando la comparsa su YouTube di video che mostravano gli sgherri di Mubarak colpire alle spalle i giovani dimostranti ha contribuito a deporre un regime che Morsi e i Fratelli Musulmani avevano combattuto per decenni. Morsi, se non altro per distinguersi dal vecchio regime, dovrebbe assumersi le responsabilità di aver fomentato senza fondamento una sollevazione popolare e aver trasformato un evento inesistente su Internet in una catastrofe nel mondo reale.
Bengasi, attacco al consolato USA
L’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens, figura molto popolare in Libia per il suo contributo al rovesciamento del regime di Gheddafi, è stata vista come l’esito più eclatante della ‘rabbia islamica’ seguita alla diffusione del film Innocence of muslims, e, da alcuni, come un frutto avvelenato delle ‘primavere arabe’ del 2011. In realtà, l’assalto al consolato di Bengasi è stato, contrariamente a quanto riportato in un primo momento, un attacco terroristico pianificato in anticipo, a quanto sembrerebbe eseguito da un gruppo islamista chiamato Ansar al-Sharia, forse con il sostegno di al-Qaida.
Gli assalitori, dotati di armi automatiche e di lanciagranate, sono riusciti a dare alle fiamme l’edificio principale del consolato (provocando la morte di Stevens, primo ambasciatore americano assassinato dal 1979) e hanno poi attaccato la dépendance in cui il personale si era barricato in attesa di essere evacuato. Sono stati uccisi così quattro cittadini statunitensi prima che le forze di sicurezza riprendessero il controllo della situazione a notte inoltrata.
Nei giorni successivi, si sono svolte manifestazioni di condanna dell’accaduto, sia in piazza a Bengasi sia virtualmente, ad esempio su Twitter; nel corso di una di queste il quartier generale di Ansar al-Sharia è stato assaltato costringendo il gruppo a lasciare Bengasi e probabilmente a entrare in clandestinità.