L'egittologia
L'egittologia come scienza ha un'esatta data di nascita: il 1822 con la Lettre à Mr. Dacier, in cui J.-F. Champollion (1790- 1832) ha posto il fondamento alla lettura dei geroglifici. Solo da quel momento, infatti, la ricerca sull'Egitto antico si appoggia ad una impalcatura solida e si articola in un complesso capace di garantirsi nei suoi singoli elementi. Non sarebbe però corretto non tenere conto di quanto di ricerca e di speculazione c'è stato prima di tale data, tanto più che è possibile trovarne le radici fino nell'epoca in cui la civiltà egiziana ‒ ancora realtà viva e attuale ‒ già si poneva come oggetto di indagine e di riflessione a chi non ne partecipava direttamente. È così che dell'Egitto parlano i logografi ionici (ricordiamo Ecateo di Mileto) e che le Storie di Erodoto dedicano all'Egitto un intero libro (il II) e parte di un altro (il III). Si tratta di un vero e proprio ΑἰγύπτιοϚ λόγοϚ appoggiato all'esperienza diretta di un viaggio datato attorno al 445 a.C. Osservazioni personali e relazioni di notizie raccolte da varie fonti formano un ampio quadro di valore documentario assai ineguale, ma comunque testimonianza di un significativo atteggiamento che tende a ritrovare nell'Egitto elementi di una civiltà capace di fornire modelli a quella greca e che già nel passato le avrebbe trasmesso importanti elementi culturali. Un'altra diffusa fonte di notizie e di interpretazioni su un Egitto che è insieme contemporaneo e leggendario è la sezione egiziana della Biblioteca storica di Diodoro Siculo (I sec. a.C.), che si appoggia a una esperienza diretta oltre a quanto scritto da Ecateo di Abdera, uno storico dell'età ellenistica che in Egitto era vissuto alla corte dei Tolemei.
Tralasciando altre frammentarie o occasionali testimonianze, un carattere realmente "egittologico" va indicato per due scritti di grande importanza nel seguito della disciplina. Uno è un opuscolo di Plutarco (II sec. d.C.), che riferisce con molta fedeltà un'accurata ricerca sul mito di Osiris (Πεϱὶ ʹΙσιδοϚ ϰαὶ ᾿ΟσίϱιδοϚ). Il testo plutarcheo, l'unico che raccolga in un quadro organico le molte allusioni sparse e pregnanti nei testi egiziani indigeni, mostra insieme come una mitologia tipicamente egiziana possa essere interpretata e valutata nel quadro culturale completamente diverso di un eclettismo neoplatonizzante. L'altro testo è attribuito ad un ignoto autore, Horapollo Niloo, di cui si dice che l'abbia scritto in egiziano e che sia stato tradotto in greco da un non meglio identificato Filippo. Sotto il titolo di Hieroglyphica dà un elenco di segni figurativi, di ognuno dei quali viene dato un significato di cui si spiega la ragione. Le parentele culturali col Physiologus mostrano in che ambiente vada collocato l'autore (o gli autori) del trattatello. Esso è stato fondamentale nel successivo svilupparsi dello studio della scrittura dell'Egitto antico, presentata come ideografica: una copia di tale testo, infatti, fu portata a Firenze dalla Grecia nel 1442, in tempo per inserirsi nel quadro assai più ampio di interesse per la cultura greca del circolo mediceo attorno a Marsilio Ficino. In tale ambiente era nata, sulla base del neoplatonismo e dell'ermetismo, una rivalutazione dell'Egitto come Paese depositario di una "sapienza" che prefigura la rivelazione cristiana. Dall'impostazione di Horapollo nasce la voluminosa e dottissima opera in 58 libri del bellunese P. Valeriano (1477-1560), gli Hieroglyphica (1556), i quali attraverso immagini spesso assai complesse indicano specifici concetti, appoggiandosi a spiegazioni e ad allusioni estremamente erudite. I "geroglifici" del Valeriano sono pensati per essere scritti, non per essere letti: e difatti l'autore non si cura per nulla di cercare se essi siano realmente presenti su monumenti egiziani. La presa di contatto con questi ultimi avviene in un opuscolo dovuto al padovano L. Pignoria, che illustra nella Vetustissimae tabulae aeneae sacris Aegyptiorum simulacris coelatae accurata explicatio la tavola d'altare in bronzo ageminato con figure di divinità e iscrizioni egiziane, forse proveniente dall'Iseo Campense, che apparve sul mercato antiquario romano dopo il sacco del 1527. Il Pignoria, tralasciando ogni simbolismo, chiama a confronto delle singole immagini altri monumenti egiziani. Geroglifici autentici da monumenti romani furono la base di una operazione ‒ in certo modo inversa a quella del Valeriano ‒ attuata dal gesuita A. Kircher (1602-1680), uomo di enciclopedico sapere e di vivacissimo ingegno, che in una serie di impegnati volumi si propose di "leggere" gli obelischi presenti a Roma, interpretando i singoli geroglifici a seconda di quello che presumeva dovessero alludere in un ardimentoso sbrigliarsi della dottrina e della fantasia. Per quanto aberranti siano i risultati raggiunti da Kircher, positivo è il suo aver osservato con puntigliosa attenzione i geroglifici e l'aver immaginato una storicizzazione della lingua egiziana indicandone l'ultimo esito nel copto, di cui utilmente e ampiamente si occupò. Proprio in quei tempi la possibilità di viaggiare fuori dalle rotte tradizionali dei pellegrinaggi al Santo Sepolcro e il desiderio di raccogliere materiale per arricchire i gabinetti di curiosità e di antichità che andavano formandosi si unì ad una semplice curiosità per mondi e culture diversi. Di questi viaggi in Egitto si hanno relazioni che fanno conoscere il paese e le sue antichità ai dotti europei. Così un Anonimo Veneziano giunse a Tebe nel 1589, così l'astronomo oxoniense J. Greaves nel 1638 e nel 1639 per due volte misurò le piramidi, così vide il Paese il parigino J. de Thévenot (1652). E ci furono anche gli inviati ufficiali dei sovrani: J.B. Vansleb (1672) per conto di Luigi XIV o B. de Maillet, che del re fu console ad Alessandria per 16 anni. Quindi il padre C. Sicard, superiore della Missione dei Gesuiti fra il 1707 e il 1726, e poi il gioielliere P. Lucas (1716) o il capitano F.L. Norden (1737-38), inviato dal re di Danimarca Cristiano VI, e il botanico V. Donati (1759), inviato dal re Carlo Emanuele III. Dall'Inghilterra giunsero R. Pococke (1737) e J. Bruce (che nel 1770 raggiunse le sorgenti del Nilo Azzurro). Tutti questi viaggiatori hanno dato notizia delle loro imprese, descrivendo quanto avevano visto, dando immagini e misure e delineando così una prima archeologia e geografia storica dell'Egitto e riportando insieme materiali per le collezioni europee. Questi furono così numerosi che se ne dovette tener conto nelle due grandi raccolte di monumenti antichi illustrati, quella di B. de Montfaucon (Antiquités expliquées et racontées en figures, 1719-24) e quella di A.-C.-Ph. de Caylus (Recueil d'antiquités égyptiennes, étrusques, grecques, romaines et gauloises, 1752-64). L'esperienza concreta di antichità egizie ha suscitato nella cultura e fin nella moda del tempo numerose conseguenze, fra le quali si può segnalare, a fianco di molte altre, la fondazione a Londra di un Egyptian Club ad opera dei già ricordati F.L. Norden e R. Pococke. E proprio in quegli anni a Velletri nasceva, per merito del cardinale S. Borgia (1737-1804), una raccolta di antichità egiziane e di manoscritti copti (pervenutigli in quanto prefetto alla Propaganda Fide) che divenne un centro di studi nitidi e severi, soprattutto per merito di G. Zoega (1755-1809). Questi, un danese di origine italiana, pubblicò un catalogo dei testi copti e una ricerca a pieno campo sugli obelischi romani (De origine et usu obeliscorum, 1797), dove abbandonò gli infruttuosi tentativi di interpretazione dei geroglifici, ma provò che i nomi dei sovrani appaiono nei testi sempre racchiusi in particolari cartigli. Sullo sfondo di questo generale atteggiamento va vista l'importanza data alla ricognizione di tutti gli aspetti dell'Egitto nella spedizione napoleonica del 1799, in cui alle forze militari si affiancò un vero esercito di dotti. Le infinite osservazioni e le relative illustrazioni del breve periodo dell'occupazione napoleonica della valle del Nilo (1799-1800) furono raccolte in un'opera magnifica, la Description de l'Égypte, che, in 12 volumi in folio, completò la sua pubblicazione nel 1813 (una seconda edizione ne fu fatta fra il 1817 e il 1830) sotto la guida di D.V. de Denon e di E.-F. Jomard. Questa monumentale raccolta di dati ha cambiato l'approccio agli studi sull'Egitto antico, fornendo abbondanti copie di testi e di immagini nella cornice di una topografia ben definita. Ma alla spedizione napoleonica si deve anche la scoperta (15 luglio 1799) di una iscrizione bilingue apparsa al capitano del genio P.-F.-X. Bouchard durante i lavori di consolidamento a Rosetta del Fort Julien. Che si fosse in presenza di una possibile chiave alla lettura dei geroglifici apparve subito chiaro e della pietra vennero fatte copie che furono distribuite fra i dotti del tempo. Tanto ne fu evidente l'importanza che essa fu specificatamente richiesta come preda dai vincitori inglesi ed è oggi conservata nel British Museum. Il confronto tra i nomi regali scritti in greco e quelli che nel testo egiziano erano identificabili come tali, secondo la felice intuizione di G. Zoega, permetteva di riconoscere un certo numero di valori fonetici per alcuni geroglifici. Nell'opera di decifrazione si segnalavano l'inglese Th. Young (1773-1829) e lo svedese J.D. Åkerblad (1763-1819); ma l'idea che i geroglifici avessero valore simbolico, là dove non trascrivessero nomi stranieri, impedì un reale progresso nell'interpretazione e fu solo nel 1822 che J.-F. Champollion nella sua Lettre à Mr. Dacier riuscì a definire la via alla decifrazione, mostrando che i geroglifici vanno "letti" e non "interpretati" e inaugurando così la vera e propria egittologia come indagine razionale e documentaria del complesso della civiltà egiziana antica, capace di valutarne gli aspetti archeologici, linguistici, storici, religiosi, sociali, artistici in un quadro in cui ogni ricerca potesse dar luce alle altre. L'intuizione di Champollion poté subito essere messa alla prova in cospetto di una ricchissima e varia raccolta di monumenti egiziani autentici che proprio in quegli anni arrivava a Torino (1824). Tale raccolta era una di quelle che andavano costituendo i diplomatici europei accreditati presso il sovrano Mohamed Ali, dacché questi aveva aperto il Paese agli stranieri per rinnovarne e ammodernarne le strutture e l'economia. Le collezioni di B. Drovetti (console generale di Francia ma piemontese, che vendette la sua prima a Torino e una seconda al Louvre), di H. Salt (console generale d'Inghilterra), di G. Passalacqua, di G. Anastasi e di altri hanno costituito il nucleo dei primi e più importanti musei egizi d'Europa. Proprio per alimentare questo mercato, l'Egitto dell'inizio del XIX secolo fu percorso da personaggi di varia natura e di varia istruzione per condurvi scavi ‒ autorizzati dalle autorità centrali del Paese ‒ che fornissero il materiale archeologico e intraprendendovi viaggi spesso oltre le rotte più sperimentate. Fra questi personaggi particolare importanza hanno il francese F. Caillaud (1787-1869), legato a Drovetti, e l'italiano G.B. Belzoni (1778-1823), legato a Salt: a quest'ultimo si debbono particolari scoperte, quali l'apertura della piramide di Cheope a Giza, della tomba di Sethi I nella Valle dei Re, del tempio di Abu Simbel in Nubia. Le relazioni di questi viaggi sono ancora interessante e utile lettura. La possibilità di leggere i geroglifici, le notizie e gli apporti dei viaggiatori, il costituirsi di nuove collezioni egizie spinsero Champollion a ripetere per la parte archeologica l'impresa dei dotti napoleonici in Egitto; con lo scolaro pisano I. Rosellini (1800-1843) fu quindi organizzata la Spedizione franco-toscana che fra il 1828 e il 1829 percorse la valle del Nilo fino ad Abu Simbel, copiando testi e figurazioni, ormai valutabili nel loro significato non più ipotetico, ma documentato attraverso la lettura delle iscrizioni. Alla scomparsa del suo maestro, a Rosellini restò la funzione di rappresentante della nuova scienza, che fu da lui insegnata nell'Università di Pisa dal 1824 con accurata e dotta passione. Ma l'ulteriore progresso della disciplina fu opera di un tedesco discepolo di Rosellini, K.R. Lepsius (1810-1884), che in una Lettre à M. le Prof. Rosellini sur l'alphabet hiéroglyphique (1837) fondò in modo organico i principi della lettura dei geroglifici, dando sistematicità alle intuizioni mirabili di Champollion. Poco dopo Lepsius poteva guidare una nuova spedizione archeologica voluta dal re di Prussia Federico Guglielmo IV. Fu una lunga e metodica ricognizione che durò dal 1842 al 1845, raggiungendo a nord il Sinai e a sud l'isola di Meroe e fu l'ultima impresa di tale genere. Ancora oggi i suoi 12 volumi di tavole in folio e le Lettere che li commentano costituiscono una fonte preziosa di documentazione. Il viaggio di Lepsius è stato integrato da una serie di scavi che hanno riportato in luce monumenti e che hanno dato materiali al Museo di Berlino. Scavi di interesse strettamente scientifico sostituivano così i precedenti, volti solo al recupero di materiali da collezione. Nel 1850 arrivava in Egitto, inviatovi dal Louvre per acquistarvi manoscritti copti, F.-A.-F. Mariette (1821-1881): a fianco di questa attività, Mariette identificò e scavò per quattro anni il Serapeo (cioè il cimitero dei buoi Api) di Menfi, un complesso monumentale ricchissimo di materiali archeologici. Fu il primo grande scavo organico nell'Egitto antico, studiato nel suo insieme. Come ultimo risultato di questa impresa Mariette fu nominato dal khedivè direttore dei Monumenti Egiziani (1858) e in tale veste si impegnò da allora in attivissime ricerche su ben 35 cantieri di scavo dalla Nubia al Mediterraneo, fondò un Museo Nazionale a Bulaq (il futuro Museo Egizio del Cairo) e organizzò un primo sistema di protezione e di recupero delle antichità nazionali egiziane. Di molti dei suoi lavori è riuscito a dare notizia in pubblicazioni scientifiche ancora oggi citate. Frutto di questo suo straordinario impegno, dalla sua morte fino alla rivoluzione nasseriana, i direttori generali del Servizio delle Antichità egiziane furono francesi. Il suo successore immediato, G. Maspero (1846-1916) di origine italiana, ne proseguì l'attività sommando una notevole attività filologica a quella archeologica. Oltre la sua opera personale, la sua capacità organizzativa ha prodotto il Catalogue général du Musée du Caire, una grandiosa opera collettiva di più di 50 volumi, e la serie delle pubblicazioni che hanno illustrato i templi nubiani destinati a essere sommersi dalla prima diga di Assuan (1902). A lui si deve anche la fondazione in Egitto di un Institut Français d'Archéologie Orientale (1880), che è stato un punto di appoggio a un'ormai più che secolare attività di scavo, di ricerca, di esplorazione e di pubblicazione. In Inghilterra nasceva invece, per l'impulso della giornalista A. Edwards, un Egyptian Exploration Fund (1882), che divenne poi l'Egypt Exploration Society (1921). Nel 1907 all'Institut Français si affiancò il Deutsches Archaölogisches Institut e quindi numerosi altri istituti nazionali (svizzero, austriaco, olandese, polacco, cecoslovacco, ecc.), che hanno nel loro complesso inquadrato la maggior parte delle missioni straniere che collaboravano con il Service des Antiquités de l'Égypte, divenuto poi l'Egyptian Antiquities Organisation. L'attività in Egitto ha avuto caratteri fondamentalmente archeologici e non è possibile elencare le località esplorate e i nomi di chi vi si è impegnato, ma almeno di uno non si può tacere, W.M.F. Petrie (1853-1942), che ha percorso tutta la valle del Nilo in rapide campagne di scavo condotte con una sistematicità e un'ampiezza di interessi assai in anticipo sui suoi tempi nell'imparziale interesse rivolto a tutti i ritrovamenti. A lui si devono fra l'altro la scoperta e la fondamentale sistemazione delle civiltà del periodo Predinastico e Protodinastico. Più in generale, gli scavi in Egitto hanno privilegiato i grandi complessi templari e le necropoli. L'amministrazione egiziana, fino dalla sua costituzione per opera di Mariette, ha assunto la responsabilità del recupero dei templi, come quelli di Tebe, di Edfu, Dendera, File, Abido, che rappresentano impegni di carattere "nazionale". Specifiche missioni straniere hanno invece esplorato soprattutto le necropoli, da cui era da attendersi un arricchimento di materiali per specifici musei. Così gli scavi italiani, austriaci, americani a Giza all'inizio del XX secolo hanno arricchito i musei di Torino, Vienna, Londra, Boston (e anche, e soprattutto, del Cairo) e hanno fornito una documentazione precisa sul complesso monumentale per merito di H. Junker, G.A. Reisner, E. Schiaparelli (tramite S. Curto). Similmente, la lunga esplorazione della necropoli tebana da parte di H.E. Winlock (1884-1950) per conto del Metropolitan Museum of Art (1911-31) ha rinnovato la conoscenza del complesso dell'Asasif, sia nei suoi templi funerari, sia nelle sue tombe. La presenza francese di B. Bruyère (1879-1971) a Deir el-Medina (1921-52) ha dato ai resti di quel centro operaio un'importanza documentaria che ha completato i primi lavori di Schiaparelli del 1903-1909. La presenza in Egitto di stabili strutture di ricerca straniere di cui abbiamo fatto cenno ha spinto a imprese di ampio respiro e legate più all'identificazione e alla valutazione di problemi e di situazioni che allo specifico recupero di monumenti e di oggetti. Sono stati così recentemente ripresi in esame antichi cantieri per sperimentarvi nuove possibilità di ricerca: gli scavi tedeschi sui più vecchi scavi di Abido e gli scavi inglesi su quelli di Hierakonpolis hanno ampliato la conoscenza delle origini della civiltà egiziana; quelli americani a Karnak hanno visto più da vicino il sorgere dell'eresia atoniana nelle poche tracce dei suoi primi monumenti. I francesi si sono avventurati in una metodica esplorazione di un nuovo territorio di ricerca ai margini dell'Egitto, nella catena di oasi del deserto libico. Gli austriaci con M. Bietak hanno trovato nel Delta (anch'esso un terreno finora poco esplorato per le difficoltà dello scavo) tracce evidenti di civiltà altre da quella egiziana (siriane ed egee), inserite in un definito contesto locale nel II millennio a.C. Un particolare capitolo della storia archeologica dell'Egitto è quello che è stato scritto e vissuto tra il 1960 e il 1969 con il "salvataggio" delle antichità nubiane che sarebbero andate perse nelle acque del lago formatosi a monte della nuova diga di Assuan. L'UNESCO ha sperimentato là la sua capacità di organizzazione internazionale, mobilitando missioni di ricognizione e di scavo che hanno rinnovato la visione dell'archeologia della Nubia, dalla protostoria all'età cristiana, e hanno letteralmente trasferito complessi templari quali Abu Simbel, Kalabsha e, infine, l'intera isola di File. Da questi rapidi cenni si vede come l'archeologia egiziana imposti problemi che vanno, oltre che dal recupero, al restauro e alla valutazione del materiale di ogni genere. Di ovvia importanza l'opera di pubblicazione di scavi e di monumenti: esemplare, in quest'ultimo caso, l'edizione del complesso di Medinet Habu da parte dell'Epigraphic Survey dell'Università di Chicago. Per quel che è del campo del restauro, in questi ultimi anni si è avuto in Egitto (come nel resto del mondo) un aumento di attenzione per i problemi che esso pone: restauri architettonici (come quelli dei Polacchi a Deir el-Bahari) o di pitture (come quello degli Italiani alla tomba di Nefertari) ne sono una esplicita testimonianza. Ma già l'"operazione Nubia" era stata nel suo complesso una immensa opera di recupero e di consolidamento, per non ricordare le ricostruzioni di J.-Ph. Lauer a Saqqara. Un altro dovere, quello della valutazione, è stato presto sentito, e già Champollion nelle sue lettere non solo descrive i monumenti, ma cerca di scoprirne senso e qualità tipiche. Il punto di arrivo di questa volontà di identificazione della "egizianità" è stato un famoso scritto di H. Schäfer, Von ägyptischer Kunst (1919), che ha insistito nella ricerca di quel che si potrebbe dire una grammatica di quella lingua figurativa. Un'altra via è stata percorsa a partire, grosso modo, da G. Maspero (Égypte. Ars una species mille, 1912) in poi, che ha piuttosto cercato di identificarne la storicità. In tale luce vanno viste le molte mostre che negli ultimi anni hanno riunito a confronto e a reciproca illuminazione gruppi di monumenti: così la mostra sulla scultura d'età tarda curata da B.v. Bothmer a Brooklyn nel 1960, quella su Ramesse II a Parigi nel 1976, quella sull'età tolemaica a Brooklyn nel 1988, quella sull'età di Amenhotep III a Cleveland nel 1992 e molte altre. I frutti di storicizzazione che se ne possono trarre bilanciano forse l'inopportunità di questo rischioso vagabondare di opere d'arte (o comunque di testimonianze) in più di un caso preziose. L'archeologia, tuttavia, non rappresenta che una faccia della ricerca egittologica, la quale non può non fondarsi altrettanto sulla lettura dei testi. In Francia e in Inghilterra studiosi come Maspero e F.L. Griffith (1862-1934) rappresentano altissimi livelli di filologia; ma una tradizione più articolata e, se si vuole, più accademica è da cercarsi piuttosto in Germania, a partire da H. Brugsch (1828-1894), che dopo una avventurosa vita fu professore a Gottinga dal 1868. Gli si devono una grammatica, un dizionario, una larghissima silloge di testi geroglifici e la fondazione della prima rivista di egittologia, la Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde (1863), tuttora viva. La figura dominante dell'egittologia tedesca fu però quella di A. Erman (1854-1937), che cominciò la sua carriera di professore nel 1881 (fino al 1923), dirigendo anche le collezioni egiziane e mesopotamiche del Museo di Berlino dal 1884 al 1914. A lui si deve la sistemazione della grammatica egiziana e alla sua scuola si formarono quasi tutti i filologi tedeschi fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, nonché numerosi stranieri (inglesi, americani, russi, danesi): il più notevole fra i suoi discepoli ‒ che gli successe nella cattedra ‒ fu K. Sethe (1869-1934), editore e interprete di testi di ogni epoca e di ogni lingua egiziana. In questo ambito di ricerche linguistiche e testuali di amplissimo orizzonte nacque, per ispirazione di Erman e con la collaborazione editoriale di H. Grapow (1885-1997) e di oltre venti studiosi di varie nazioni, il Wörterbuch der ägyptischen Sprache in 5 volumi di testo, 2 di indici e 5 di Belegstelle, fondato sulla raccolta di oltre un milione e mezzo di schede, che offre ancora oggi la solida base all'attività della filologia egiziana. Si segnalano solo alcuni strumenti di ricerca che caratterizzano l'egittologia odierna: la preziosissima Topographical Bibliography of Ancient Egyptian Hieroglyphic Texts, Reliefs and Paintings, iniziata nel 1927 da B. Porter e R. Moss, che ha completato una prima edizione in 7 volumi nel 1951, con una nuova edizione aggiornata in corso dal 1966, e la Annual Egyptological Bibliography, che dal 1947, per merito prima di J. Janssen (1907-1963) e poi di L.M.J. Zonhoven, dà un rapido riassunto di tutte le pubblicazioni egittologiche dell'anno; infine il Lexikon der Ägyptologie, in 7 volumi (1975-92) e altri di indici, che raccoglie in un'opera internazionale sotto la guida di W. Helck e di W. Otto e quindi di W. Westerdorff la somma delle conoscenze egittologiche. Su questi strumenti si può bene valutare quanto vada producendo e come vada mutando di tono l'egittologia contemporanea, da una parte specializzandosi e dall'altra inserendosi in una problematica culturale più generale.
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